GIORNALE LIGUSTICO DI * archeologia/ storia e belle arti FONDATO E DIRETTO DA L. T. ‘BELGRANO ED Λ. ‘JSLERI ANNO au IN TO, GENOVA TIPOGRAFIA DEL R. ISTITUTO SORDO-MUTI M DCCC LXXVIII - - . DELLA VITA E DEI VIAGGI DEL BOLOGNESE LODOVICO DE VARTHEMA MEMORIA DI PIETRO AMAT DI SAN FILIPPO INDICE Avvertimento. I. Cenni intorno al casato, famiglia e patria di Lodovico de Varthema Oscurità della sua vita prima del viaggio in Oriente — (147°502). II. Partenza da Venezia per l’Egitto (1502) — Dopo aver soggiornato in Damasco si reca alla Mecca (1503) - Prende imbarco a Giddah per l’India — Vicende che incontra in Aden — Esplorazione nello Yemen meridionale. III. Viaggia in Persia e nella penisola indiana (1504-1505). IV. Visita il Pegù, Sumatra, Giava, le Molucche e Bornèo (1505-1506). V. Nell’ India si conduce ai servizi del Portogallo — Suo ritorno pel Capo di Buona Speranza in Europa (1507-1508). VI. Ricordi del suo soggiorno in Roma (1508 e seguenti) Pubblica l’itinerario (1510) — Ricerche intorno all’epoca di sua morte — Nuove indagini sulla famiglia dei Varthema o Vertema, posteriormente alla morte di. Lodovico. VII. Popolarità e pregi dell’ Itinerario — Della lingua e dello stile — Delle voci e delle frasi arabiche e malesi — Di alcune osservazioni scientifiche degne di nota Conclusione. i Elenco delle edizioni dell’ Itinerario con osservazioni bibliografiche. 2. Nota degli autori e delle opere citate nella presente memoria. 4 GIORNALE LIGUSTICO AVVERTIMENTO. L’Itinerario del bolognese Lodovico de 'Varthema .è senza dubbio una fra. le migliori relazioni che ci lasciarono i nostri antichi viaggiatori. Pieno d’ ammirazione per P autore e deplorando l’ingiusta dimenticanza in cui giacque da quasi tre secoli in Italia, mi prese vaghezza di raccogliere intorno al medesimo tutte quelle notizie che mi fosse possibile di procurarmi per compilare una biografìa meno scarsa di quella che ci hanno dato lo Zani, il Mazzucchelli, il Tiraboschi, il Fantuzzi e quelli altri pochi, che scrissero di lui. Rivolsi da prima le mie ricerche· a Bologna sua patria, ma nessuna notizia potei trarne ; in Roma, in Firenze, in Venezia ebbi eguale fortuna. I valentuomini da me interpellati, volendo usarmi cortesia, mi rimandavano alle povere e notissime fonti sovra accennate però qualche volta la mia tenacità, che dovette riuscire sovente ai miei amici importuna, mi procurò alcune notizie non prive di importanza. Così ad esempio avendo nel libro del Belgrano « Vita privata dei Genovesi » trovata notizia dell’ esistenza in Genova di una famiglia Vertema potei in seguito procurarmi dalla cortesia del predetto autore altre utili informazioni. Dal Capparozzo bibliotecario municipale in Vicenza m’ ebbi la descrizione bibliografica della prima edizione dell’ Itinerario (Roma, Guil-lireti, MDX), che è rarissima. Di essa possiede un esemplare la municipale vicentina per generosa donazione del defunto marchese Conzati, che lasciava la preziosa sua libreria a quel Municipio. Con la descrizione bibliografica,, il cortese signor GIORNAiE LIGUSTICO Capparozzo mi mandava copia del privilegio latino del cardinale di San Giorgio, che è premesso all’ Itinerario del Varthema e che mi fu utilissimo ad assodare alcune mie congetture intorno agli ultimi anni della vita del viaggiatore bolognese. Anche il valente indianista prof. Flecchia si compiacque di rispondere ad alcune mie domande sulla relazione che il cognome Varthema o Vartema potesse avere con il sanscritto o con i vernacoli indiani che ne sono derivati. Ad essi pertanto mi piace qui porgere le più sincere grazie pel cortese sussidio del loro sapere che hanno voluto prestarmi. Le ricerche da me condotte personalmente furono aneli’ esse scarse di frutti : muti gli archivi e le pubbliche biblioteche ; mute le private collezioni di antiche carte ; parrebbe proprio che intorno alla persona del Varthema siasi formata una congiura del silenzio. Non mi rimaneva pertanto che di concentrare tutta la mia attenzione nella lettura dell’ Itinerario , quasi unica fonte cui· attinsero i precedenti biografi del Varthema. E veramente rileggendo più volte il prezioso volume dovetti accorgermi come non pochi fatti della vita del viaggiatore potevano dedursi da ciò che egli ne scrive e non poche circostanze della sua vita erano sfuggite ai precedenti suoi biografi. I due privilegi latini del cardinal Riario che sono premessi alle edizioni romane dell’ Itinerario (MDX e MDXVII) mi offrirono qualche notizia per chiarire Γ ultimo periodo della vita di Lodovico. Con si scarsi materiali mi sono accinto a rimpolpare quello scheletro di biografia che si ebbe fin ad oggi Lodovico de Varthema. Senza pretendere di aver raggiunto l’ideale che io in era formato, sarei pago se il.mio lavoro fosse riuscito a sollevare un lembo almeno di quella misteriosa cortina che ci nasconde la sua vita prima della partenza per 1 Oriente e dopo il ritorno in Italia. 6 GIORNALE LIGUSTICO Il testo dell’ Itinerario da me seguito ed al quale mi riferisco è quello della seconda edizione romana del MDXVII. Alla memoria feci seguire un elenco di tutte le edizioni del-Γ Itinerario con note critiche e bibliografiche. Come potrà verificare chi getti un’ occhiata nel Manuel du Libraire del Brunet e nel Trésor des livres rares del Graësse, gli autori di bibliografie generali si mostrano- assai mancanti sul conto delle edizioni del Varthema; un buon catalogo.delle edizioni dell’ Itinerario ci dava il Winter Jones nella prefazione che egli pose alla versione inglese del libro del Varthema stampata in Londra nel 1863.' Ma Tesser venuto ultimo mi ha procurato il vantaggio d’introdurre nel catalogo predetto non poche aggiunte e correzioni. Queste sono le sommarie ragioni del mio lavoro, che raccomando all’ indulgenza del lettore cui auguro ogni desiderabile bene. Roma il primo del 1878. I. Fonti abbondanti per dettare una particolareggiata biografia del viaggiatore Lodovico de Varthema non conosco comunque 10 siami studiato a tutt’uomo di rintracciarle. Il poco che di lui scrissero il Ramusio, lo Zani, il Mazzuchelli, il Fantuzzi, 11 Tiraboschi ed alcuni altri (1) ricavarono da ciò che esso stesso lasciò scritto nel suo Itinerario; anzi la loro diligenza non fu tale da togliere ai presenti la fortuna di potere, nel campo da essi sfruttato, ragranellare non poche nuove notizie come potrà vedersi in questa qualunque mia scrittura. (1) Ramusio, Navigazioni et Viaggi, I, 147. — Zani, (Valerio degli Anzi), Genio Vagante, I. 32. — Mazzuchelli, Gli Scritt. Ita!., I. — Fan-tuzzi, Scritt. Bolognesi, I. 362-63.— Tiraboschi, St. Lelt., Ita!. VII. 211. GIORNALE LIGUSTICO 7 E qui sento il debito di dichiarare clic fin dal 1863 seppe trarre assai partito -dalla attenta lettura dell’ Itinerario il dotto inglese Percy Badger, che con larghi ed eruditi commenti ha illustrato la relazione del Varthema fatta inglese dal Winter Jones e pubblicata a spese dell’Hakluyt Society in Londra (1). In ogni modo anche con questi aiuti e con quelli dei valentuomini da me accennati nell’avvertimento assai scarsa riuscirà la messe. E quasi fosse poco il buio che circonda l’esistenza del nostro viaggiatore, il suo nome istesso ebbe a sopportare da scrittori e da editori tante metamorfosi e storpiature che finirono per accrescere le fitte tenebre opponendo nuovi ostacoli alle indagini ed agli studi di chi volle tentare di far la luce. E dal nome appunto prendendo le mosse debbo osservare che trovasi scritto nelle più diverse guise Varthema, (2) Vartema, (3) Verthema, (4) Vertema, (5) Barthema, (6) Bartema (7) in italiano: in latino poi Vartomaus, (8) Var-tomannus, (9) Vertomannus (10) e Barthomaus (11). Alcuni (1) Vedi in fine la Bibliografia. (2) Itinerario, ecc., ediz. romane di Guillireti, MDX e MDX\ II. (3) Doni, Libreria, 57 verso. — Bumaldi, 158. — Orlandi, 195. (4) Itinerario, edizione milanese di Iohanne Angelo^ Scinzenzeler , MDXIX e MDXXIII. (5) Orlandi, 355. (6; Bacci, Alicorno, $7. (7) Fantuzzi, I. 362-363. — Del Migliore, 310. Collina, 382. Mazzucchelli, 1. (8) Privilegio del Card, di San Giorgio premesso all’ Itinerario della prima ediz. romana del Guillireti, MDX. — Die Ritterlicb ecc. Augspurg, Millers, 1515- — Die Ritterlicb ecc. Strassburg, Knoblock, 1516. Vedi in fine Bibliografia. (9) Simler , Epitome, 557. (10) History of thè Navigation ecc., London, 1576. Vedi in fine Bibliografia. (11) Privilegio del Card, di S. Giorgio premesso all’ Itinerario della 2.0 ediz. romana del Guillireti , MDXV1I. 8 GIORNALE LIGUSTICO scrittori o per ignoranza ο per negligenza lasciarono d’indicarci il suo casato, così il Sitnler (i) già citato lo chiama Lodovicus de Bononia ,. il Doni (2) Lodovico bolognese benché ηεΙΓ indice della Libreria lo indichi col nome di Var-tema. In alcune edizioni latine dell’ Itinerario è detto Lodovico Patrizio (3) e nella spagnuola di Siviglia Luis Patricio (4) appellativo che nacque dalla confusione che si fece della qualità di patrizio romano ond’ egli era stato insignito durante il suo soggiorno in Roma. Ricordo anche la comica storpiatura del nome Varonmicer appiccicato al Varthema dal Mait-taire (5). In tanta discordanza io* credo dovermi attenere al nome quale leggesi stampato nella prima edizione dell’ Itinerario fattasi in Roma nel MDX, edizione che egli senza dubbio sopravegliò e nella quale appunto si intitola Lodovico de Varthema. Che il luogo di sua nascita sia Bologna è fuori di qualunque controversia, senonchè forse potrebbe essere stata accidentale poiché negli scrittori delle cose bolognesi e nemmeno (per quanto mi venne affermato da persone fede-degne e versate nella storia patria) non trovasi traccia di una famiglia Varthema nè fra le carte dei pubblici archivi né, a quanto pare, entro le cronache e memorie a stampa o inss. di quella illustre città. A dir vero non parrebbe neppur casato italiano per la th che gli dà un apparenza più presto straniera, se forse il Var-tema o Vertema cognome di famiglia già esistente in Genova, (1) Simler, Epitome, 554. (2) Doni, 30 e 57. (3) Ludovici Patritii romani novutn Itinerarium ecc. (Mediolani) A. Scinzenzeler (1511). Vedi in fine Bibliografia. (4) Itinerario del Venerable Varon ecc. Sevilla, Cromierger, MDXX. Vedi in fine Bibliografia. (5) Maittaire, Ann. Typographici, vol. V, par. I. 114. GIORNALE LIGUSTICO 9 come mi riservo di dimostrare più innanzi, volle mutarsi in Varthema per un capiccio da umanista e per quella idolatria dell’ antichità greca e romana che nei secoli XV e XVI trasse i dotti a modificare il proprio nome camuffandolo giusta F indole della lingua di Omero o di Marco Tullio. Altri opinarono avere voluto Lodovico nascondere il casato vero di famiglia sotto il velo di un vocabolo orientale, probabilmente arabo il cui idioma fu molto famigliare al viaggiatore bolognese. Interrogato intorno a ciò il valente poliglotta Emilio Teza cosi rispondeva nel 1876 : « Uso aramaico (caldeo e siriaco) è il preporre a nomi il Bar cioè figlio : ma qui certo non cade. ......... Ma quel tb serbato anche da chi lo stroppia in altri modi desta sospetti. Se dovessimo cercare le origini di quella parola con le fantasticherie, e non è metodo che a me piaccia, si potrebbe notare che Ward in arabo vale rosa e ma acqua; che Ward-el-ma sarebbe la rosa dell’acqua. Ma codeste sono scempiaggini. Ella ravvisa nella voce Varthema o Barthema un pseudonimo. Comunque sia è indubitato che per siffatta trasformazione di cognome manca il mezzo precipuo di rintracciare notizie se vi fossero, e di sua famiglia e di lui oltre quelle che ci ha trasmesso col suo Itinerario » (1). Non pago di cercare fra le lingue semitiche mi volsi ad un valente indianista per vedere se nel sanscritto e nei vernacoli indiani si potesse in qualche modo connettere il nome Varthema, Vartema o Bartema e trovarvi un qualsiasi significato. Il valentuomo mi accennava nel sanscritto i vocaboli vartmani per rotaia, pedata cammino, via ed il participio var-tamana, qui vertitur 0 versatur. Chi volesse accettare da questa fonte una fabbricazione di nome per parte del Varthema, po- (r) Corrispondenza Mss. della Società Geografica. Anno 1876. IO GIORNALE LIGUSTICO trebbe dire che egli si scelse nel sanscritto un nome indicante la sua inclinazione a camminare, a passeggiare: ma questo pare a me un voler stiracchiare troppo le cose e spiegarle con sistema preconcetto, per cui sembrami debba abbandonarsi l’opinione di una fabbricazione del proprio nome con vocaboli orientali o con quelli mascherandolo. Mentre siffatti tentativi non conducono a concludente scioglimento, almanaccando anch’io intorno a quella sfinge parmi di ravvisare nel casato Varthema, o Vartema, una tedesca impronta ; e veramente qualche analogia potrebbe trovarsi fra il Vartema o il Vartemannus latino e i due vocaboli tedeschi Varie che suona torre, torrione e man che significa uomo: ed una torre appunto campeggia nello scudo dei Vertema genovesi come più innanzi sarà dimostrato. È pure fuori dubbio che il nome Wartheman contratto talvolta in Wartman è di famiglia tedesca non saprei se tuttora esistente ma certo vissuta nel secolo XVII (i). Senza però voler dare soverchia importanza a queste divagazioni sono d’avviso che il nome Varthema non è pseudonimo, nè tratto da vocaboli orientali e riservandomi di ritornarvi sopra più innanzi scenderò a stabilire la patria del nostro viaggiatore. Qui la bisogna è assai più facile; infatti e pel concorde sentimento di tutti i scrittori e per la dichiarazione che egli stesso ne fa nella dedica dell’ Itinerario ad • Agnesina Colonna, (2) rimane accertato esser Lodovico nato in Bologna. È vero che interrogato più volte dai maomettani (1) Un Wartman è autore dell’ opera seguente : Polonia suspirans darci) jd. klagende K'ònigin Polonia Auff. d. Parnasso Apollini vorgertragen ecc. Franckjurth a. M..1656, 4.0 (Kirchoff und Wigand Catalog. Leipsick, octòber, 1873, P· 34)· Se potessi adottare il cognome del nostro viaggiatore foggiato in Barthema, troverei il corrispondente esattissimo nel tedesco Barthmann. (2) Itinerario, c. 9. GIORNALE LIGUSTICO chi fosse rispondeva esser romano (i), ma penso che rispondendo in tal guisa egli volesse rendere più intelligibile agli orientali la sua nazionalità facendo loro conoscere di appartenere alla razza latina di cui Roma è la più eminente personificazione. Nelle poche notizie che ci offrono gli scrittori nessun cenno trovo dei suoi genitori, da un passo però dell’Itinerario rilevasi che suo padre esercitava la medicina in Bologna (2). Nemmeno ci pervenne alcuna indicazione sull’epoca della sua nascita : se però si volesse aver ricorso ad una probabile congettura, ritenendosi, cioè, che egli per iniziare le sue peregrinazioni non abbia voluto attendere l’età matura, si può stabilire che egli siasi condotto in Oriente non più tardi del trentesimo anno; ora la sua partenza da Venezia avendo avuto luogo nel 1502, dovrebbe assegnarsi la sua nascita fra gli anni 1470 e 1472. Un argomento a favore della sua giovinezza all’ epoca del viaggio in Oriente può desumersi dal fatto che egli veniva accolto nello squadrone dei mameluchi prescelti a scortare la caravana che da Damasco si conduceva alla Mecca (3); ora un simile ufficio non avrebbe egli potuto sostenere senza essere aitante della persona, buon cavaliere e ardimentoso soldato. Della sua educazione e dei suoi studi tacquero gli scrittori, ma il suo libro ci rivela che all’ ingegno penetrante Lodovico accoppiava una non mediocre cultura come più innanzi mi riservo di dimostrare. (1) Itinerario, c. 29, 34 verso. Il nome' Rum che davano gli arabi in genere ai cristiani d’ Occidente era evidentemente in relazione alla città di Roma. (2) « Allora el mio compagno se voltò ad mi : et dimandomi O Iunus saperesti tu qualche remedio per questo amico mio. Io resposi che mio patre era medico alla patria mia et che quello che sapea lo sapea per pratica che lui mi aveva insegnato ». Itinerario, c. in. (3) Itinerario, c. 16. 12 GIORNALE LIGUSTICO Di ciò che oprasse il Varthema negli anni anteriori alla sua partenza per Γ Oriente, non trovo ricordo alcuno nemmeno nel suo Itinerario: non è però improbabile che egli avesse abbracciata la carriera delle armi cui si mostra inclinata la natura sua fiera e sprezzatrice dei pericoli: me ne porge conferma un passo dell’ Itinerario dove parlando delle guerre dei portoghesi nelle Indie, a fianco dei quali lo vedremo combattere valorosamente, così si esprime : « Et veramente io me sonno ritrovato in alcuna guerra alli miei .giorni : ma non viddi mai li più animosi de questi portoghesi » (i). E se non fu iattanza (che non era nel-Γ indole sua) pare fosse perito anche nell’ arte di fondere le artiglierie, poiché ad un moro che nella Mecca interroga-valo che sapesse fare, rispose eh’ egli « era el miglior maestro de far bombarde grosse che già fusse al mondo » (2). Il posteriore servizio nei mameluchi e le armi portate nell’india confermano sempre più il tirocinio militare sostenuto da lui m Italia prima d’intraprendere le peregrinazioni in Oriente. Dove però ed in quali guerre militasse e sotto quali capi non può determinarsi mancando ogni elemento per appoggiare qualsivoglia congettura. Dall’Itinerario si rileva soltanto che oltre Bologna, Roma e Venezia egli conosceva la Lombardia ed il regno di Napoli : delle altre regioni italiche il suo libro tace. L’ unica notizia che Lodovico ci fornisce di se per l’epoca anteriore alla sua partenza da Venezia (1502) si è quella di aver già perduto il padre· e la madre, come egli stesso trovandosi in Aden nel 1503 ebbe a dichiarare al Sultano, aggiungendo non avere egli nè fratelli, nè sorelle,, nè moglie, nè figli. È vero però che in altro luogo dell’ Itinerario egli (1) Itinerario, c. 122. (2) Itinerario, c. 29 verso. GIORNALE LIGUSTICO !3 dichiara « che veramente se io non avesse avuto mogliera nò figliuoli sarei andato con loro (con i mercanti nesto-riani) » (i). Se sia vera la prima o l’altra delle due asserzioni non posso decidere, benché questa potesse essere stata una mendicata ragione per esimersi dall’ accompagnare i cinesi che gli facevano assai ressa per condurlo seco loro. In tal modo Lodovico de Varthema riuniva un complesso di qualità e di attitudini che doveano farne il viaggiatore per eccellenza. Inclinazione alla vita avventurosa e tendenza alla investigazione, sufficiente cultura, temperamento riflessivo, core animoso, corpo rotto alle fatiche ed abituato alle armi, completa indipendenza dai legami di famiglia. A queste favorevoli condizioni seppe egli poscia associare la cognizione dell’ arabo idioma e delle costumanze orientali, che assai gli agevolarono il compimento del suo disegno e Γ esito fortunato delle intraprese peregrinazioni. IL Partitosi adunque nella seconda metà del 1502 da Venezia Lodovico fece vela per Alessandria d’Egitto donde, dopo breve sosta, si condusse al Cairo che per ampiezza paragona a Roma benché le soprastasse in popolazione. Dopo breve dimora fatto ritorno ad Alessandria imbarcavasi per Beirut; visitò Tripoli di .Siria, Aleppo e Damasco; in quest ultima città soggiornava alcuni mesi « per imparare la lingua mo-» resca » (2) e per prepararsi collo studio degli uomini e delle usanze orientali, ai lontani viaggi che avea disegnato d’intraprendere. ΉάΥ Itinerario il Varthema descrive a distesa le bellezze ed (1) Itinerario, c. 40 e 108. (2) Itinerario, c. 12 verso. *4 GIORNALE LIGUSTICO il florido commercio della celebre capitale della Siria. Notò la speciale -struttura della case musulmane, nude all’ interno e senz’ arte, ma dentro ornate di lavori in marmo con bellissime fontane. Egli vanta i frutti saporiti dei giardini e le rose bianche e rosse onde si stilla la rinomata acqua il cui profumo è tanto gradito agli orientali. Fra le molte particolarità che ci racconta di Damasco rammenta il castello erettovi a proprie spese da un mameluco nativo di Firenze che fu governatore della città; vedeasi in fatti scolpito in varie parti delle muraglie il giglio, stemma della città dei fiori. Ecco in qual modo raccòntavasi l’innalzamento del rinnegato italiano. Il Soldano trovandosi gravemente infermo, diceasi di veleno propinatogli, disperato dai medici fece chiamare il fiorentino che ebbe la fortuna con un suo farmaco di risanarlo. In guiderdone gli venne concesso il governo di Damasco con le pingui entrate che vi erano annesse. Il fiorentino moriva assai vecchio e compianto -dal popolo, che serbò sempre la sua memoria in gran venerazione. Sebbene la cittadella di Damasco, oggi distrutta, fosse di costruzione saracena, non è improbabile che venisse da un fiorentino restaurata; chi fosse però costui ne tace il Varthema, ma chiunque egli sia non fu certamente nè il primo nè l’ultimo degli italiani che, cinto il turbante, giunse fra i Turchi ad occupare i più alti seggi del potere. La biografia dei numerosi italiani che in Turchia, in Egitto, in Tripoli ed in Tunisi furono Pascià, Generali, Ammiragli, e fin anco Sovrani, non sarà la meno importante e curiosa pagina di quella Storia degli italiani fuori d’Italia, che attende ancora il suo Tito Livio. Risolvevasi alfine il Varthema di mettersi in viaggio e il giorno 8 aprile del 1503 abbandonava Damasco colla carovana che muoveva per la Mecca. Stretta amicizia col capo dei mameluchi, che era un cristiano rinnegato, ottenne per danaro di farsi vestire alla foggia di quelli e fornito di buon GIORNALE LIGUSTICO !5 cavallo venne collocato nella, schiera dei 60. mameluchi cui era affidata la scorta della carovana. In questa circostanza gli convenne anche adottare un nome di guerra col quale fu conosciuto dai nuovi compagni e che portò poi sempre in tutti i paesi dell’ Oriente ovunque rivolse le sue esplorazioni; questo nome è scritto nell’ Itinerario lunus che senza dubbio deriva dall’ arabo Yunas o Ionah. Lungo il tragitto ebbero parecchie scaramu'ccie con i beduini. La pittura delle orde nomadi di costoro, dei costumi, delle abitudini di. predare e di assalire le carovane formano una pagina stupenda ed esatta oggi come trecento anni addietro trovandosi punto 0 poco mutate le condizioni sociali, economiche e fisiche del deserto fra Damasco e Medina ed in genere di tutta la penisola arabica. Le scaramuccie con i beduini presero talvolta l’aspetto di combattimenti importanti, ma il nostro Lodovico volle dare un pò la berta ai suoi lettori raccontando che dopo un accanita zuffa la carovana non ebbe a perdere che due dei suoi, mentre uccideva agli arabi 1600 uomini! (1). Dopo 40 giorni dalla partenza di Damasco si giunse a Medinet-el-Nabi (Medina); erano 40,000 pellegrini con 35,000 cammelli (2). Nei tre giorni di fermata visitò la sepoltura di Maometto e la famosa moschea che la custodisce. Egli ce ne porge la seguente descrizione : « La Mesciuta è fatta in questo modo quadra la quale è circa 50 passi per longo e 80 per lo largo et ha due porte intorno da tre bande et coperta fatta in volta et sono più che 400 colunne de perda cocta tutte imbiancate et con circa 3000 lampade accese da una banda de le volte andando. A man drita in capo della mesciuta sta una torre (1) Itinerario, c. 17. (2) Itinerario, c. 19. GIORNALE LIGUSTICO circa V passi de ogni lato quadro : la quale torre tene uno panno de sete intorno : Apresso a dui passi a la dieta torre è una bellissima grada de metallo dove stanno le persone a vedere la dieta torre et da una banda a man mancha sta una porticella la quale te mena a la dieta torre et a la dieta torre sta un altra porticella et da una banda della porta stanno circa XX libri et dall’ altra banda XXV libri, li quali sono quelli de Mahumeth et delli compagni soi: li quali libri dicono la vita de li comandamenti de la secta soa: Dentro dalla dieta porta sta una sepoltura zoe fossa sotto terra dove fu messo Mahometh: et Aly: et Bubacher: et Ottaman: et Homar: et Fatoma ...... Per dechiara- tione de la secta de Mahometh è da sapere che sopra alla dieta torre sta una cupola: nella quale se puoi andare intorno De sopra zoe de fora ».....(i). Da Medina la carovana si diresse alla Mecca traversando il mare di rena come Lodovico chiama il deserto, che descrive « una campagna grandissima piana la quale è piena d’ arena bianca minuta come farina dove se per mala ventura venisse il vento da mezzogiorno come venne da tramontana tutti sariano morti· et con tutto che noi havevamo el vento a nostro modo F uno con F altro non se vedevamo di longi X passi » (2). Nel giungere alla Mecca incontrarono la carovana proveniente dal Cairo scortata da 100 mameluchi e composta di 64,000 cammelli. Il celebre santuario dell’Islamismo sorge in mezzo ad una campagna arida, brulla e povera di ogni cosa in guisa che le vettovaglie doveano andarsi a cercare al Cairo 0 vi erano condotte dalle coste dell’ Abissinia e dal sud del-1’ Arabia. (1) Itinerario, c. 20-21. (2) Itinerario, c. 23. GIORNALE LIGUSTICO l7 Per venti giorni il Varthema si trattenne nella Mecca aggirandosi in mezzo ad una immensa folla di pellegrini e di mercanti; ce n’ erano persiani, siri, abissini, indiani e d’altre nazioni· Non trascurò il viaggiatore bolognese di descriverci le cerimonie e le devozioni che oggi ancora si praticano dai pellegrini musulmani; fece altresì non poche osservazioni sul traffico attivo e multiforme che avea luogo in quella solenne ricorrenza e che chiamava tante genti dai più remoti paesi dell’ Asia e dell’ Africa, di razze e di lingue disformi, ma legate pel vincolo delle religiose credenze. Principali merci' e derrate erano la bambagia, le droghe, la seta, le essenze odorifere e le pietre preziose. Su di che favellando un turco con il bolognese ebbe a confessargli essere il traffico delle spezie andato assottigliandosi dal giorno che il Portogallo padrone dell’ Oceano indiano e del Golfo persico teneva colle sue squadre chiuse le antiche vie commerciali e per la nuova strada del Capo di Buona Speranza avea inaugurato a suo esclusivo vantaggio il traffico fra l’India e Lisbona. E questo è una prova del come furono rapidi e meravigliosi gli effetti dell’impresa di Vasco di Gama, poiché dal 1497 in cui-il portoghese toccò l’india al 1503 erano appena scorsi sei anni. Mentre la carovana di Damasco faceva i preparativi per il ritorno Lodovico che avea stabilito di spingersi più avanti nell’ Asia abbandonava di soppiatto gli antichi compagni e si mescolava colla carovana che faceva ritorno nell’ India e così giunse a Zida (Giddah) che è il porto della Mecca. Prima di seguire il viaggiatore bolognese nel suo avventuroso pellegrinàggio credó opportuno di osservare in ordine al viaggio fin qui descritto essere il Suo itinerario da Damasco nell’ Hegiaz una delle parti più belle e più importanti del suo libro, ed è osservabile esser egli P unico fra tutti i viaggiatori antichi e moderni che ha compiuto per cammino ter- Giorn. Ligustico, Anno V. 2 ΐδ GIORNALE LIGUSTICO restre questa esplorazione mentre tutti i viaggiatori che lo .seguirono penetrarono nell’Hegiaz e se ne dipartirono perla via del Mar Rosso. Così fecero nel 1680 P'inglese Pitts, Aly Bey nel 1807, ^ ferrarese Finati più conosciuto sotto il nome di Hadgi Mohammed nel 1811. Lo stesso cammino marittimo fu adottato nel 1814 dal Burckhardt e nel 1852 dal Burton (1). Lodovico de Varthema messosi pertanto sopra una nave araba stipata di pellegrini cominciò la lunga e pericolosa navigazione del Mar Rosso e giunto allo stretto di Bab-'el-Mandeb volgendo la prora a sinistra la nave gettava 1’ ancora nel porto di Aden. Una grave sventura però quivi incolse Lodovico che fu a un pelo di costargli la vita. Uno fra i suoi compagni di navigazione, musulmano arrabbiato lo accusava di esser cristiano e spia dei portoghesi per cui venne senz’ altro caricato di catene e chiuso in un tetro carcere. Dopo aver passato fra la vita e la morte sessanta-cinque giorni nei quali il popolo levato a rumore corse più volte per forzare la prigione e trucidarlo venne condotto alla presenza del sultano (2) che lo invitava a pronunciare la nota formola di fede di ogni buon musulmano « Dio è grande e Maometto è il suo Profeta » Avendo ricisamente rifiutato venne di nuovo gettato in prigione e tenutovi per ben tre mesi. Intanto il sultano era sulle mosse per partire essendo in quei giorni divampata la guerra fra lui ed il sultano Muham-med ibn-eHmam en-Nàsir. Su di che conviene sapere che (1) Pitts Ioseph , A Faithful Account of thè Religion and Manners of thè Mahometans ecc. London, 1685. — BaRkes, Narrative of thè life of Giovanni Finati, London, 183-0, 8. — Burckhardt, Travels in Syria ecc. — Burton, Personal narrative ecc. (2) II- Varthema lo chiama Sechamir cioè Sceik Amir ; il vero nome di quel sovrano regnante allora in Aden ed in porzione dello Yemen meridionale era, a detta del Percy Badger, Amir ibn Abd-el-Wakhàb GIORNALE LIGUSTICO I? all’ epoca del Varthema lo Yemen meridionale era signoreggiato da due sultani : quello di Aden che avea sotto di se il Tehama, Zebid, Lahej, Abian e Radàa; Sanàa e le sue dipendenze erano sotto il dominio del predetto Muhammed (1). Alle preghiere delle sue tré mogli il sultano di Aden concesse che il povero Varthema ogni giorno passeggiasse un poco ed egli fingendosi mentecatto seppe siffattamente cattivarsi la compassione di quelli che lo avvicinavano da accordargli anche maggior libertà e miglior trattamento. Anzi una delle sultane, per quella penetrazione che natura concede sovente, alla donna, si avvidde che la pazzia di Lodovico era finta e ne divenne perdutamente innamorata. La triste sorte del Varthema si cambiò d’un tratto; gli furono tolti i ferri, venne alloggiato nel palazzo della sydtana ed essa stessa recavagli ogni giorno a mangiare le più delicate vivande studiandosi con ogni maniera di seduzioni di trarlo alle sue voglie. Afferma il bolognese di essersi mantenuto casto ed io non pongo in dubbio la sua virtù « honny soit qui mal y pense » come la leggenda della Giarrettiera. Fra le curiosità di questo periodo romantico della vita del Varthema, citerò una specie di lamento poetico riportato nell’ Itinerario, che cantava sovente la bruna sultana con accento disperato: « O Dio tu hai creato costui biancho come el sole: el mio marito tu lo hai creato negro: el mio figliolo anchora negro: et io negra. Dio volesse che questo homo fosse el mio marito : Dio volesse che io facesse un figliolo come è questo (2) ». Anche però non corrispondendo all’ amore della sultana è certo che il suo favore e la sua intercessione presso il marito (1) Percy Badger, Introduction, XLIII. (2) Itinerario, c. 39-40. 20 GIORNALE LIGUSTICO gli valse di racquistare piena libertà ed egli se ne valse per fare una corsa nello Yemen meridionale. In questa esplorazione egli visitò Lagì [Lahej] 30 miglia circa al Nord-Ovest da Aden; Aiaz [Az-az] oggi meschino villaggio, Dante [Denn] (1) fortissima sopra un monte. Sedeva pure sopra un monte Al-Macharana [El-Makrànah] nemmeno ricordata dal Niebuhr. Quivi il sultano di Aden teneva custodito il suo tesoro nel quale, afferma il Varthema, averci veduto tant’oro « che non portavaiio Cento Cambelli (2) ». Visitava poi Reame [Yerim] (3) città trafficante, Sana [Sanàa] capitale dello Yemen e residenza delPJmam città fortissima che nell’ anno 1501, cioè due anni innanzi l’arrivo del Varthema, avea sostenuto vittoriosamente Γ-assedio del Sultano di Aden (4). Taese [Ta’-ez] era rinomata per la sua acqua di rose: dicevanla città antichissima ed il viaggiatore italiano vi ammirava un « Tempio facto come Sancta Maria rotonda di » Roma et molti altri palazzi antiquissimi (5) ». Visitò Zebit [ Zebid ] a mezza giornata lungi dal Mar Rosso oggi assai decaduta (6), Damar [Dhamar] fertile di suolò e commerciante (7). Lodovico de Varthema fu il prirfto europeo che penetrò in questa parte dell’Arabia; ed eccettuato il danese Niebuhr che percorse quelle regioni nel 1763, nessuno si addentrò (1) « Une petite ville avee une bonne cittadelle et une place de foire». Niebuhr, Voy-age en Arabie', Γ. 214. (2) Itinerario, c. 42 verso. (3) Niebuhr la descrive come « une petite ville mal bâtie, munie d’une forteresse sur un rocher escarpé et située dans une plaine assez vaste et à 4 lieues d’Allemagne de Damar. Voyage en ^Arabie, I. (4) Percy Badger, 72. (5) Itinerario , c. 44. (6) Niebuhr, I. 261-274. (7) Niebhur, I. 324-325. GIORNALE LIGUSTICO 21 nemmeno ai nostri giorni in queste regioni visitate e descritte con insuperabile esattezza dal viaggiatore bolognese. Ed è questo perciò uno dei tanti meriti del bolognese, meriti che non perdono nemmeno al confronto con la relazione di quasi tré secoli posteriore che ci lasciò di questi stessi paesi il sovra ricordato danese Carsten Niebuhr. E qui mi si consenta un breve sfogo. Un moderno viaggiatore dell’ Arabia il Gifford Paigrave dedicando il suo libro alla memoria del Niebuhr 10 esalta come il primo che fece conoscere 1’ Arabia all’ Europa, (i) e commette una ingiusta dimenticanza verso il viaggiatore italiano che fin dal 1503 visitava buona parte del-1’ Hegiaz e dello Yemen meridionale lasciandone una esatta descrizione in un libro che fu tra i più popolari del secolo XVI. Ed è tanto più pregevole anche oggi questa parte dei viaggi del Varthema che , toltone il Niebuhr che unico percorse nel passato secolo i paesi visitati.dal Varthema, i più recenti esploratori dell’ Arabia rivolsero altrove i loro passi come il Paigrave, il Gqarmani, PArconati Visconti e Adolfo di Wrede. Due soltanto, Emilio Botta nel 1836 e l’Arnaud nel 1840, visitarono alcune parti dello Yemen più prossime al Mar Rosso senza però addentratisi gran fatto (2). Da un accurato calcolo del commentatore inglese delP Itinerario, si rileva che il viaggio del Varthema nello Yemen durava sei settimane; nel qual tempo egli percorse 595 miglia (1) « Wich first opened Arabia to Europe ». — Palgrave, Persomi narrative. (2) Guarmani, Il ■ Neged Settentrionale ecc. — Arconati-Visconti, Un viaggio in Arabia Petrea ecc. — -Wrede. Reise in Hadramaut etc. — Botta, Voyage dans le Yemen etc., e Notice sur un voyage dans l’Arabie Heureuse etc.— Arnaud. — In questi giorni un nòstro italiano, il signor Manzoni, ha esplorato la parte dello Yemen visitata dal Varthema. La sua relazione va pubblicandosi nel giornale L’Esploratore ; non ebbi finora 11 piacere di leggerla. 22 GIORNALE LIGUSTICO inglesi. — Onde si deduce aver egli percorso in media un 14 miglia inglesi al giorno ed è prova della attività e della robusta tempra del nostro viaggiatore (1). Di ritorno in Aden Lodovico si vidde di nuovo assediato dalla amorosa persecuzione della sultana, ma il suo genio avventuroso non poteva appagarsi di diventare il favorito di una donna negra e di condurre una vita che troncava tutti i disegni vagheggiati di lontane esplorazioni. Pensò adunque di spezzare la catena ed accordatosi con un arabo comandante di bastimento che era per salpare, insalutato ospite, lasciava in asso la tenera sultapa di Aden. Mentre la nave drizzava la prora vèrso le costiere persiane un fortunale la spinse sulle spiaggie dell’ Africa dove riuscirono ad afferrare Zeila. Trattenevasi quivi alcuni giorni e notava il traffico della polvere d’ oro, dei denti d’ elefante e degli schiavi, prodotti costanti delle interne regioni africane. Ammirava pure i famosi montoni dalle mostruose code pesanti 25 e più libbre, col capo nerissimo ed il rimanente del (1) Riporto qui sotto la tavola itineraria compilata dal Percy Badger (.Introduction, XL VII) che comprende 1’ esplorazione dello Yemen per opera del Varthema. DIREZIONE MIGLIA GENERALE Aden a Damt per Lahej ed Az’az . N. 0. . 120 Damt a Yerìm per El-Makranah E. 40 Yerim a 'Sanàa..... ■ N. 70 Sanàa a Ta’ez ..... S. 110 Ta’ez a Zebid . ‘..... N. E. 70 Zebid a Dhamar ..... E. N. E. 65 Dhamar ad Aden..... S. 120 Totale 595 GIORNALE LIGUSTICO 23 capo candido qual neve; è la celebre razza di pecore del Berbera. Rabonacciato il mare, sferrava la nave da Zeila ed in 12 giorni approdava a Diu-bander-er Rumi, che è 1’ odierno porto di Diu, fiorente in allora per traffichi e sotto la sovranità del sultano di Cambaia. Di quivi toccando Goa (Gogha nella penisola di Kattyuar) , Giulfar e Meschet (Mascate) si condusse ad Onnuz (lat. 23.0 r8' N. long. 59.0 18' E.) celebre in quel tempo per la prosperità del suo commercio e per la pesca delle perle della quale ci porge un esattissima descrizione e quale oggi si pratica tuttavia (1). III. Da Ormuz il Varthema entrò nella Persia dove visitava alcune delle più importanti città osservandone specialmente le condizioni industriali e commerciali. Si condusse in Eri (Herat) grande emporio di rabarbaro e . di seterie ; in alcuni giorni scrive il Varthema vedevansi sul mercato da 3 a 4000 cavalli carichi della preziosa merce. Da Herat. in 22 giorni si condusse a Sciraz ricca di turchine e di balasci cosi chiamati perchè provenienti dal Balasan (Badakscian) (2), era inoltre Sciraz grande mercato di azzurro oltremarino e di muschio. Quest’ ultimo che insieme al rabarbaro vi era probabilmente condotto dal Tibet e dalla Tartaria vendevasi dai persiani ai mercanti europei per lo più falsificato. In Sciraz Lodovico scontravasi coh un mercante persiano che due anni avanti avea conosciuto nella Mecca. Chiamavasi Cozazionor (3) e fece al Varthema le più cordiali accoglienze (1) Itinerario, c. 48. (2) Itinerario, c. 49. (3) Così scrive sempre il Varthema. Il Co^a, se è corruzione di Kbogia, suona in turco Signore. GIORNALE LIGUSTICO e- giurandosi reciproca amicizia, vago anche il persiano di veder mondo, fermarono di andare a Sambragante (Samar-kanda), ma dopo brève cammino venuti a sapere che il Soli avea rotto guerra e veniva con grosso esercito mettendo a fuoco e a sangue quelle regioni rinunciarono a visitare P antica capitale di Tiniur. E fu gran danno poiché comunque decaduta era sempre per ampiezza, per popolazione e per commerci fra le prime capitali dei musulmani. Una descrizione di Samai kanda qual era nel principio del secolo XVI .sarebbe stata molto importante per gli studi storici ed archeologici dell’ oriente, invece il Varthema non può cavarci la curiosità con due o tre scucite notizie che ebbe dai mercanti. L’ ungherese Vambery che nel 1863 visitava Samarkanda dopo aver ragguagliata la sua circonferenza a quella di leberan, afferma che in fatto d’antichità a non c’ è nulla nell’ Asia « centrale che le sia comparabile (1) ». I due viaggiatori veduto adunque pericoloso qualunque tentativo per spingersi avanti si condussero di nuovo ad Herat, patria del persiano. Condottolo in sua casa presentò a Lodovico una sua bellissima nipote proponendogli di condurla in isposa: costei chiamavasi Satnis che in persiano significa sole ed era veramente, a sentimento del Varthema, un sole di bellezza; ma a quanto pare Lodovico non inclinava al matrimonio e perciò finse «' de esserne molto contento : anchora che l’animo mio fusse ad altre cose intento » (2). Rimandati perciò i disegni matrimoniali a dopo il ritorno dal viaggio che i due vollero intraprendere, presero commiato e corsero ad imbarcarsi in Ormuz per Cambaia situata sulla foce dell’ Indo. Questa citta faceva a quei di grosse faccende di commercio ed ogni anno ne partivano 40 o 50 grossi navigli carichi di panni, di sete e (1) Vambery, Viaggio d’ un falso Dervisci), 135. (2) Itinerario, c. 51 verso. GIORNALE LIGUSTICO 25 di droghe. A poca distanza giacciono, scrive il Vartema, ricche miniere di corniole, di calcedonie e d’agate, che trovansi appunto a 60 miglia Sud-Est di Cambaia nei monti Rajpipla, miniçre di diamanti sono più lontane in Golkonda (1). Proseguendo la sua navigazione lungo la costa ricorda Ce-bul (Ciaul), Dabul, Goga (Goa), la quale rendeva al re di Deccan 10,000 annui dùcati d’oro 0 Pardai. Deccan ai tempi del Varthema chiamavasi la città di Bigiapur, oggi in rovina , situata nel distretto di Sattara alla frontiera orientale vicino a Hiderabad. — Essa che avea dato il nome all’ attuale regione, così chiamata, era città bellissima. Nomina poscia Ba-thacala (Baticatla), secondo il Percy Badger, 1’ attuale Sedase-vaghur, Centacola (Uncola, Ankla, Ancola dei moderni), Onor (Honahuar, Onor) e Mangalor; questi luoghi abbondano di fiori, di riso, di zucchero e di frutta deliziose. In Canonor, città importante dove i portoghesi aveano fortezza, era grande importazione di cavalli provenienti dalla Persia: pagavano entrando 25 ducati alla dogana, la quale fruttava assai per i 200 grossi bastimenti che ogni anno vi approdavano. In compagnia del fido persiano fece il Varthema una esplorazione nel reame di Narsinga (2) e dopo aver camminato nella costa orientale del Siam) città forte e commerciante ricca di legnami e di frutta squitite. Da qui navigarono altre (1) Percy Badger, 107. (2) « A proposito di questo nome osservo ancora un equivoco nel quale caddero i viaggiatori. Fra il Malabar ed il Colamandala fu nel medio evo una famiglia regia potentissima alla quale molte provmcie furono suddite 0 tributarie nelle due coste dell’Indostan. La parola Narasin-ha vale Leone degli uomini e si adopera in sanscritto a significare la dignità regia; oraj è] assai probabile die i vari principotti, viceré, governatori chiamassero Narasinha il loro capo supremo, come diremmo Lo Imperatore. I viaggiatori scambiarono per un nome di paese la dignità e dissero re di Narsinga quando bastava il Narsinga ossia il Leone degli uomini ». — De Gubernatis, Memoria, 49. 26 GIORNALE LIGUSTICO per ben 15 giorni in direzione di Levante, pervennero a Bi-sinagar (Big’ayanagara) che trovò somigliante a Milano. Il Re aveva 12,000 pardai di entrata al giorno (1) e mostravasi amico dei portoghesi. Da Bisinagar si condussero a Calicut residenza del Sovrano principale di tutta 1 India, che chiamavasi Samory, nome che il Vai tema enoneamente pretende significhi « in lingua gen* » tile Dio in Terra » mentre altri lo derivano da Tamuri la più nobile fra. le famiglie della casta dei Nairi che si credea supeiiore agli stessi Bramini. Altri vollero provenisse da Zamudin il mare, il qual nome si vorrebbe applicato al so-vrano di Calicut perche signore del mare (2). Confesso che nessuna di queste spiegazioni mi appaga per cui lascio agl’indianisti la cura di cercare una più. naturale etimologia, se pure la parola non sia d importazione straniera, nel qual caso si potrebbe cercarne 1 origine ed il significato nelle lingue dei popoli confinanti coll India, come il persiano, il tibetano ecc. Era a quei di Calicut ritrovo di mercanti d’ogni paese; ne venivano fin dal Pegù, da Malacca, da Sumatra ed oltre. Tutto il commercio era in mano dei musulmani, i quali ammontavano a 15 mila. Proseguendo il suo cammino marittimo visitava Caicolon (Cayan, Colam), Colon (Colongulur) Ciaromandel (Cola-mandola) , donde fece vela in compagnia di Còzazionor per 1 isola di Ceylan il cui territorio era spartito fra quattro so-varni tributari del Narsinga, i quali erano in guerra fra loro. Di ritorno sul continente furono a Paleachet (Palicat) e corsero il mare per cento miglia fino a Tarnassari (Tenasserim 700 miglia e visitarono Banghella (Bengala); città interamente maomettana ed abitata da doviziosi mercanti : questa (1) Itinerario, c. 62 verso. (2) Itinerario, c. 64 verso. De Gubernatis, Memoria. Percy Badger, 134. GIORNALE LIGUSTICO 27 Banghella del Varthema era la capitale della provincia di Bengala; il suo nome indigeno era Gour ed era per errore che gli stranieri applicavano il nome della provincia alla città capitale (1). In Banghella Lodovico fece conoscenza di alcuni mercanti di Sarnau (2), città soggetta al Gran Khan del Cataio i cui abitanti erano di carnagione bianchi e, al dire dei mercanti, appartenevano alla religione cristiana; anzi affermavano di aver ricévuto il battesimo, di credere nella Trinità, nella passione e morte di Gesù Cristo, nei 12 Apostoli e nei 4 Evangelisti; ammettevano insomma i principali dogmi cristiani. La loro scrittura era da destra a sinistra. Riservandomi di stabilire in qual parte dell’ Asia orientale debba collocarsi la Sarnau del Varthema è fuori dubbio che 'i mercadanti dovevano appartenere alla setta dei Nestoriani che trovasi diffusa per tutta 1’ Asia e che fin dai secoli XIII e XIV, i nostri missionari incontravano numerosi e potenti nell’ impero cinese.' Scrivendo dei paesi dell’ India il viaggiatore bolognese sì mostra al solito acuto osservatore. Con dottrina non comune ai suoi tempi tocca delle teorie religiose degli indiani, descrive le cerimonie ed i riti braminici e buddistici e ci dipinge gl’ idoli deformi e spaventosi. La divisione delle caste intorno alla cui origine e numero è tuttora gran confusione fra i moderni scrittori di cose indiane riduce a sei, cioè i Bramirli o casta sacerdotale, i Nairi gentiluomini e guerrieri, vengono poscia i Iiva,artigiani, i, Mechor pescatori, i Poliar che raccolgono il pesce, il vino e le noci, gl ’ Hitava che seminano e raccolgono il riso. Queste due ultime caste non possono accostare Bramini 0 Nairi a meno di 50 passi, (1) Percy Badger, 210-21 i. (2) Vedi innanzi quanto si dice per determinare 1’ ubicazione di questa città. 2δ GIORNALE LIGUSTICO e per non imbattersi con individui delle due indicate caste camminano sempre per vie pòco frequentate gridando ad alta voce. Queste notizie forniteci dal Varthema non erano nuove però nemmeno per gl’ italiani dal suo tempo. La divisione delle caste era stata osservata nelle Indie dai più antichi nostri viaggiatori, essa è una delle più vecchie istituzioni fondamentali della società bramanica, benché non possa ritenersi una istituzione esclusivamente indiana. Se ne hanno esempi anche nelle antiche società come l’egiziana, la greca e la romana, anzi ne troviamo traccia anche nell’Europa medievale in cui clero, nobili, borghesi o mercanti e servi della gleba formavano quattro distinte caste; in nessun’epoca però ed in nessun paese la divisione delle caste prese tale svolgimento e si concretò nella esistenza religiosa, civile e politica di un popolo come nell’ India. Non deve poi far meraviglia se i nostri antichi viaggiatori non sono concordi nel determinare il numero delle caste, quando gli stessi moderni sono lungi di accordarsi fra loro; basti 1’ esempio che ne porge un documento ufficiale inglese del 1865 concernente il Nord-Ovest dell’india nel quale si enumerano ben 560 suddivisioni di caste. Ad ogni modo può ritenersi che le quattro principali sono nell’ìndia le seguenti: Bramini 0 sacerdoti, Xatrias, Nairi, Ragiaput guerrieri 0 nobili Vaissias, mercanti, operai ecc. (casta oramai spenta), Sudras la casta impura 0 servile che forma i della popolazione (1). Non dimenticò il Varthema di accennarci 1’ uso della poliandria, la successione dei figli delle sorelle a preferenza dei propri, l’ustione delle vedove, i combattimenti dei galli, 1’ a- (1) L’ origine delle caste vuole spiegarsi con la conquista dell’ India compiuta dalle stirpi Ariane più intelligenti e civili in paragone degli Indiani aborigeni, rozzi e senza organamento politico. Il Bramanismo poi consacrava con i suoi precetti la linea di separazione fra conquistatori e soggiogati. GIORNALE LIGUSTICO 29 bitudine di masticar betel e cento altre usanze peculiari di quella antichissima nazione, usanze che oggi ancora sono vive specialmente in quelle regioni, che trovandosi più segregate dal contatto europeo, hanno potuto fin qui serbare quella impronta caratteristica di un antico stato sociale, che ogn. giorno tende maggiormente a- scomparire. IV. Unitosi in comitiva con i predetti mercanti cristiani Lodo-vico lasciava Banghella facendo vela per il Pegù. che con grande esagerazione pone distante mille miglia mentre in realtà non oltrepassa le cinquecento (1). Appena vi giunsero fermarono col persiano di presentarsi al sovrano; questi tro-•vavasi a quei di impegnato in guerra col re di Ava per cui i due viaggiatori furono costretti di andarlo a raggiungere quindici giornate lontano. Riusci loro una sera di ottenere udienza ed il bolognese rimase stupito al magico spettacolo che offrivano al lume notturno le numerose gioie e P oro ond’ era tutto coperto il Monarca asiatico. La sua meraviglia traspare chiaramente dal seguente passo; « Et porta più rubini adosso che non vale una città grandissima : et li porta in tutti li deti de piedi. Et nelle gambe porta alcune maniglie d’ oro grosse tutte piene de bellissimi rubini: similmente li bracci: et li deti delle .mani tutti pieni: le orecchie pendono per il gran contro peso di tante gioie che vi porta per modo tal die vedendo la persona del re al lume de nocte luce che pare un sole (2) ». I due mercanti riceverono dal sovrano le più belle accoglienze; egli acquistava tutti i 'coralli che aveano portato ricambiandoli con due manciate di rubini; erano circa duecento e vennero valutati, a detta del Varthema, in ccnto mila du (1) Itinerario, c. 94 verso. (2) Itinerario, c. 96. 30 GIORNALE LIGUSTICO cati! Il re del Pegù passava per doviziosissimo; le sue entrate ammontavano ad un millione di ducati d’ oro. Il paese parve al Varthema in floride condizioni e notò, fra le altre, 1’ abbondanza della seta, del cotone e di preziosi legnami come il sandalo ed il verzino. . Dal Pegu fece vela per Malacca tributaria dell’ imperatore della Cina « el qual fece edificare questa terra circa 80 anni fa pei esser lì bon porto el qual è il principale che sia nel mar Oceano, (1) ». Anche il Corsali, che viaggiava in Asia fra il 1515 e 1517, conferma l’origine cinese di Malacca e 1 importante commercio che vi faceanó le giunche. Il Varthema distinse nei suoi abitanti il tipo della razza malese, colore scuro olivigno, viso largo, occhio rotondo e naso ammaccato. Fece anche una visita alla vicina isola di Sumatra che con errore comune ai viaggiatori del suo tempo, confonde con la Taprobana (Ceylan) degli antichi. Pare che il Varthema sia il primo viaggiatore che riporti il nome dell’isola (2) come oggi da tutti si scrive e che vorebbesi derivare dal sanscritto Sainudra che suona mare oceano. Fra gli antichi viaggiatori italiani Marco Polo designava Sumatra, a sensi dei suoi commentatori, col nome di piccola lava (3); Oderico da Pordenone, seguendo gli arabi, la chiamava Lamori da uno stato importante con questo nome; il Conti accostandosi al vocabolo sanscritto, Sciamutbera. La sovranità» dell’ isola parve al Varthema divisa fra quattro (1) Itinerario, c. 98. (2) Lo afferma il Crawfurd, nel Descriptive Dictionary of In. of Sumatra. Il nonie Sumatra che da prima pare fosse dato ad uno dei regni in cui essa era divisa ed anche alla città che nè era capitale, venne inseguito a prevalere applicandosi a tutta l'isola. (3) Anche l’arabo Ibn Batutah (1330) chiama lava l’isola di Sumatra applicando questo ultimo nome o meglio Sciamatra alla città capitale dell’ isola.· Giava poi è da lui indicata col nome di Mul-Iava. GIORNALE LIGUSTICO 3* re (i), ma credo prenda abbaglio, poiché gli storici ammettono in quell’epoca un maggior numero di stati sovrani nell’ isola principali erano Atscin, Siak e Bantam. La moneta d’oro che \'i correva portava da un lato « un diavolo e dall’ altra » banda un carro tirato da Leophanti (2) ». È superfluo il notaré che il diavolo era una -di quelle divinità indiane che hanno veramente gli aspetti i più deformi e spaventosi. Mentre trovavasi in Sumatra ricercò da quei mercanti notizie per sapere dove nascevano le noci moscate ed il macis e da quelli potè apprendere che trecento miglia lontano era un isola donde si estraevano quelle spezie. Queste informazioni spronarono la curiosità di Lodovico a condurvisi per cui intesosi con i suoi compagni fermarono di provvedersi di due piccoli bastimenti chiamati Cbiampane, che comperarono per 400 pàrdai. Queste navi erano state loro indicate come le più acconcie per navigare in quel mare insidioso, seminato di scogli e di bassi fondi. Avendo messo alla vela ed inoltrandosi per quei mari incontrarono una ventina d’isole, alcune abitate, altre deserte e dopo quindici giorni di navigazione approdarono all’ isola di Bantam: il bolognese le assegna 500 miglia di circonferenza; la trovò molto bassa, di aspetto triste ed abitata da popolazione rozza e bestiale. Quivi nasce la noce moscata il cui albero come sarà discorso più innanzi ci viene esattamente descritto dal Varthema (3). Dopo altri sei giorni di navigazione giunse all’isola Monoch dove nascono i garofani; £ più piccola di Bantam e la gente Vi è anche più bestiale. (ij Itinerario, c. 99. — Sulla divisione degli stati dell’isola di Sumatra ai tempi del Varthema poco accordo è fra gli scrittori. Il Barros parla di 9 regni in cui divideasi Sumatra all’epoca della venuta dei portoghesi. Marco Polo ne conta otto. (2) Itinerario, c. 99. (3) Itinerario, c. 103. 32 GIORNALE LIGUSTICO Dugento miglia da Bantam, a dire del Varthema, sorge Γ i-sola di Borneo alla cui volta misero le prore. Ma qui però erra il nostro viaggiatore, se non fu sbaglio dell’ editore, assegnando soltanto 200 miglia di distanza fra Bantam e Borneo, mentre dal gruppo delle Molucche alla vastissima isola predetta non corrono meno di 430 miglia. La popolazione di Borneo gli parve più civile e di carnagione più bianca. Nel tragitto fra Borneo e Giava impiegarono cinque giorni. Quivi pure osservò le produzioni ed i commerci ; notò le diverse ' credenze che aveano corso fra quelli isolani; c’erano gli adoratori del sole (Guebri) quei della luna e del bove ( Bramanismo ). In guerra gl’ indigeni usavano la cerbottana colla quale lanciavano frecce avvelenate, notando in pari tempo la mancanza di artiglierie e di persone capaci di fonderle; osservazione che ci rivela il soldato memore dell’arte da lui praticata in Italia, com’egli stesso dichiarava. V. Dopo essere ritornato salvo in Malacca, Lodovico vi prese stanza per qualche tempo: ed a lui dobbiamo una descrizione di questa importante città e del suo territorio che non era stata per lo innanzi descritta da alcun europeo : la visita del Varthema a Malacca avvenne cinque anni prima che venisse conquistata dai Portoghesi (1511). E non è improbabile che da lui questi attingessero- molte notizie sulla posizione ed importanza commerciale di codesta città e dalla favorevole pittura che egli ne fece fossero spinti a conquistarla. Le buone relazioni che passarono fra lui ed il viceré portoghese, gli uffici onde fu investito e le onorificenze che si ebbe danno alle congetture qualche non spregevole fondamento. Il Varthema notò essere Malacca abitata in gran parte da Giavanesi, fatto che vien confermato anche da moderni scrit- GIORNALE LIGUSTICO 33 tori; notò pure che gli abitanti erano divisi in due distinte classi, la prima di commercianti e di agricoltori sottoposti ad un governo regolarmente costituito ; la seconda classe apparteneva a gente vagabonda e insofferente di leggi, che chiama-vanli « homini de mare » traduzione del malese Orcmg-laut (i), come oggi pure son detti, e trovansi sparsi nelle isole da Sumatra alla Molucche dove esercitano, come ai tempi del Varthema, la pesca e, quando ne cada il destro, la pirateria (2). Da Malacca Lodovico fece nuovamente vela per l’india toccando Colamandala e Colam fino a Calicut. Quivi fece l’incontro di due milanesi Joan Maria e Pierantonio, che dal Portogallo eransi condotti in India per far incetta di gioie. Appena si riconobbero per italiani, furono grandi feste ed abbracciamenti; e Lodovico nel provarsi a favellare 1 idioma nativo gli pareva « di aver la lingua grossa ed impedita perchè era stato quattro anni che non avea parlato con cristiani (3) ». Per ordine del sovrano di Calecut, i due milanesi aveano fusi quattro o cinquecento pezzi d’ artiglieria fra grandi e piccoli, ed addestrarono in pari tempo « 15 criati (4) del Re » a fondere ed a servirsi dei cannoni. Intanto però Lodovico stanco della vita raminga ed avventurosa che da parecchi anni menava, comincio a sentire il desiderio della patria: ma non era facile il partirsi, poiché ogni giorno andavano facendosi più palesi le ambiziose mire del Portogallo, per cui il principe indiano stava in sull’avviso. Alfine però con sottili accorgimenti riusciva all italiano di (1) Nella versione italiana del Barros sono indicati col nome di Celiati (?). Nella seconda parte della parola è facile il riconoscere la forma malese laut, ma il Cel credo possa essere errore. — Barros, Deca II. 123-124. (2) Percy Badger, 227. (3) Itinerario, c. 109. (4) Itinerario, c. 109-110. Criato, o meglio criado, è voce spagnuola e suona servitore, domestico, famigliare. Giorn. Ligustico, Anno V. 34 GIORNALE LIGUSTICO sottrarsi alla vigilanza degli indigeni, e fuggendo dalla città perveniva a ricoverarsi nella vicina fortezza che vi aveano eretto i portoghesi: ed a costoro fece egli manifesti gli apprestamenti guerreschi del Zamorino. Ma non furono così fortunati i due poveri milanesi, che mentre si preparavano a seguire Γ esempio di Lodovico, accusati di essere spie dei portoghesi, il popolo corse infuriato e circondava il casamento ove dimoravano ed esercitavano l’industria loro. I due italiani non vennero perciò meno di animo, e vedendosi preclusa ogni via di scampo, provvisti coni’ erano di armi fecero una disperata ditesa, finché dopo aver messo fuori di combattimento una cinquantina di nemici, caddero oppressi dal numero, colle armi in pugno (i). Nel secondo soggiorno che fece il Varthema in Calicut, ebbe campo di osservare molte particolarità da lui non avvertite nella prima sua visita. Egli afferma che a quel tempo (1506-7^ correvano 17 anni dacché era comparso il morbo gallico in Calicut e che vi era d’ indole assai peggiore che in Italia. Da ciò è manifesto che nelle regioni indiane il morbo era penetrato fin dal 1489, cioè quattro anni prima della scoperta dell America (1493), e si ha cosi un nuovo argomento contro 1 opinione di coloro che volevano la lue venerea di provenienza americana (2). Al governo dei possedimenti portoghesi nelle Indie soprastava il viceré Don Francesco d’Almeyda, il quale apprezzando 1 ingegno, la pratica nei negozi e Γ integrità di carattere del nostro italiano, lo investiva dell’ufficio che chiamavano « Factoria delle parti » (3), impiego geloso e delicato cui incombeva d’invigilare contro le frodi commerciali. Nell esercizio dell’orrevole incarico, che tenne per un anno (1) Itinerario, c. 118. (2) Itinerario, c. 118 verso. (}) Itinerario, c. 119. GIORNALE LIGUSTICO 35 e mezzo, ebbe il Varthema sovente opportunità di seguire i portoghesi nelle spedizioni militari che doyeano a poco a poco assicurar loro il dominio della penisola indiana e delle altre importanti colonie dell’ Asia orientale. Il viaggiatore italiano senti risvegliarsi gl* istinti bellicosi e 1’ amore per le armi. Fra le altre imprese, si condusse sotto gli ordini di Lorenzo de Britho all’assedio di Pannani (i). I portoghesi erano 600 e nella fortezza stavano rinchiusi 8000 difensori, i quali dopo un sanguinoso assalto dovettero cedere la città ai vincitori confermando la grande superiorità europea a fronte dei Nairi che pure non difettavano di valore personale, ma ai quali mancavano la disciplina e le armi più perfezionate degli eserciti cristiani. Questi fatti delle Indie avvenivano nella stessa epoca che Cortez e Pizzarro con poche centinaia di avventurieri conquistavano il Messico ed il Perù. Nel fatto di Panane il nostro Varthema ebbe la fortuna di sbarcare col battello che recava lo stesso Viceré, il quale perciò fu testimonio del valore spiegato dall’ italiano nell assalto vittorioso per cui lo volle nominare, sul campo di battaglia, cavaliere. Con solenne rito gliene venne, com era usanza, conferita Γ investitura, servendogli da padrino 1 ristan da Cuhna uno dei più valenti comandanti delle flotte poito-ghesi (2). Ma né i lucrosi uffici, nè le onorificenze valsero ad assopire il male della patria lontana, per cui ottenuta licenza dall’ Ahneyda e preso commiato il 6 dicembre del 1507 (3), saliva il Varthema a bordo di una nave del fiorentino Bai- (1) Il Barros la chiama Panane; è a quaranta leghe da Calecut di fronte a Cochin. L’ arrivo della flotta portoghese avanti a Panane avvenne il 2} ottobre IS07· — Barros, Deca II, p. 18. (2) Itinerario, c. 126 verso. (3) Itinerario. — Barros mette la partenza della squadra portoghese ai 10 dicembre del 1507. Deca II, p. 19. 36 GIORNALE LIGUSTICO tolomeo Marchionni che avea caricato per Lisbona 7000 can-tara di spezie. La ditta Marchionni contava fra le più cospicue e fiorenti di quel grand’ emporio delle merci asiatiche che era a quei dì la capitale del Portogallo. La nave del Marchionni, che veleggiava di conserva con una numerosa squadra di bastimenti da guerra e mercantili sotto gli ordini di Tristan da Cuhna, si diresse alle coste orientali dell Africa dove il Portogallo avea possessi e traffichi. Visitò da prima Melinda, Mombaza e Quiloa; nell’isola di Mozambico, dove la squadra giunse'il 9 gennaio 1508 (1), fecero sosta per 15 giorni; ed il Varthema con i suoi compagni intraprese alcune escursioni nella costa continentale. Ivi osservò la razza negra i cui principali caratteri etnografici descrive brevemente (2). Fra le notizie che ebbe dalla guida negra , che 1 accompagnava nelle sue escursioni, seppe che poco lontano esistevano giacimenti di miniere aurifere che i ne«ri sfrut- O tavano (3). Salpate le ancore da Mozambico e traversato il canale che costeggia 1 isola di San Lorenzo, come dai portoghesi chia-mayasi in allora Madagascar, con prospero vento doppiarono il Capo di Buona Speranza. Nella rimanente navigazione toccarono le isole di Sant’ Elena e dell’ Ascensione tuttora deserte. La nave si trattenne tre giorni nelle Azore, e poco dopo con fortunato viaggio gettava l’ancora nel porto di Lisbona. Il Varthema venne presentato al re Emanuele il grande, che egli andò a trovare in Almada; ne ebbe graziose accoglienze e la conferma del cavalierato, pel quale gli fu conferito il regio diploma. (1) Barros, Deca II, p. 19. (2) Itinerario, c. 128. (3) Itinerario, c. 128, verso. GIORNALE LIGUSTICO 37 VI. Dal Portogallo Lodovico si condusse in Italia e prese stanza in Roma dove, a quanto pare, la fama delle sue avventure e delle straordinarie peregrinazioni aprirongli le sontuose dimore del patriziato , nel cui numero venne ascritto forse dopo la pubblicazione della prima edizione del suo Itinerario (Roma, Guillireti MDX). Infatti il titolo di patrizio romano trovasi associato al suo nome per la prima volta nella versione latina dell’ Itinerario, compiuta nel 1512 dal cirsterciense Madrignano e stampata in Milano da Angelo Scinzenzeler. Non era raro in quei tempi veder solennemente premiati con la nobiltà gli uomini d’ingegno che recavano lustro alla patria. L’ epoca nella quale venne a dimorare in Roma Lodovico de Varthema fu la più splendida del secolo del rinascimento. Egli trovossi nell’ eterna città sotto i due pontificati di Giulio II e di Leone X, in quel periodo cioè del massimo fiorimento delle lettere e delle arti in Italia. Era appunto il tempo in che il Bramante, il Sangallo ed il Buonarroti innalzavano quelle superbe moli che ancor oggi ci rapiscono di ammirazione, il divino Raffaello, Giulio Romano ed una numerosa schiera di valenti dipintori fresca vano le pareti e le volte dei sontuosi palazzi e delle basiliche romane, e nelle immortali tele ci tramandavano i ritratti di papi, di principi, di capitani, delle più illustri e delle più belle donne di quell’età; Raimondi e Celimi insuperati cesellevano, Giulio Clovio miniava, Michelangelo ed altri insigni scultori emulavano i capolavori dell’ arte greca. Una turba infinita di poeti, di commediografi, di storici e di scrittori d’ ogni maniera in greco, in latino, in volgare celebravano e tal fiata colla satira sberteggiavano e ila gellavano quella vita di spassi, di lusso , di splendidezze e pur troppo anche di corruzione. Ma questa corruzione, con buona 5§ GIORNALE LIGUSTICO pace dei moderni Catoni d’oltralpe, non era esclusiva all’ Italia; immoralità e corruzione era dovunque in Europa. Le cronache , le memorie contemporanee e le carte degli archivi che oggi cominciano a riveder la luce, meglio di certe moderne storie ad usum delphini, ci edificano abbastanza sui costumi della Francia di Francesco I e dell’ Inghilterra di Arrigo Vili. Non parlo della virtuosa Germania ; son noti i baccanali degli Anabattisti, le mostruose libidini delle masnade tedesche condotte in Roma da quel ribaldo del Fürstembergh. Eppoi chi è convinto, leggendone gli scritti, della rigida morale di fra Martino Lutero e di Ulrico di Hutten fradicio per celtica lue? Oh! veramente nobili restauratori del co-stume e della Religione ! Eh ! via Γ Italia non ha punto a perdere nel confronto: se v’ha differenza è questa, che la corruzione italiana si accompagnava col raffinato vivere, con lo splendore delle arti e delle lettere, frutti di una coltura che gli stranieri ci invidiano tuttora. Non potendo chiamarci rozzi ci dissero corrotti, essi erano 1’ uno e 1’ altro. Anche Lodovico adunque, vissuto in età così splendida nella città eterna, deve collocarsi fra la schiera di coloro che con le opere e con l’ingegno illustrarono il glorioso periodo del rinascimento ; e come era costume , anche egli trovò un mecenate pel suo libro, un mecenate in gonna, una delle più illustri donne del patriziato romano: era costei Agnesina di Montefeltro Colonna, duchessa di Tagliacozzo. — Era Agnesina figlia di Federico duca d’ Urbino, uno dei più celebri capitani del suo tempo. La duchessa fu donna d’alti spiriti, cultrice e fautrice delle arti e delle lettere. Essa, scrive l’inglese Dennistoun, ereditò l’ingegno ed il gusto per le lettere della madre Battista Sforza, doti che poi lasciò in retaggio alla figlia Vittoria Colonna [1490-1547] (1). Il (1) Dennistoun, I. 277. — Ugolini, II. 27. GIORNALE LIGUSTICO 39 marito dell’Agnesina fu quel Fabrizio Colonna riputato capitano, che tiene un posto splendido sulla storia militare di que’ giorni. Pare adunque che il Varthema fosse stretto in dimestichezza con i Colonna, se forse non avea militato anche sotto le bandiere di Federico d’ Urbino. Egli pertanto pensava di dedicare il suo Itinerario alla Agnesina « quasi unica observatrice de cose notabili » persuaso che la duchessa non « farà come molte altre che porgono le orecchie ad canzonette et vane parole le ore sprezzando, contrarie alla Angelica mente de V. Illust. Signoria: che puncto de tempo senza qualche bon fructo passar non lassa » (i). La pubblicazione dell’ Itinerario di Lodovico de Varthema avvenne in Roma, pochi mesi dopo il matrimonio della Vittoria Colonna con Don Ferrante Davalos marchese di Pescara celebrato il 27 Dicembre 1509. Non è perciò improbabile che il bolognese, intitolandolo alla madre della sposa, volesse in qualche modo festeggiare il fausto famigliare avvenimento di casa Colonna, che venne salutato da poeti e da letterati d’ ogni maniera. Fra le persone cospicue colle quali il Varthema ebbe famigliarità in Roma deve ricordarsi il cardinale di San Giorgio, Camerlengo di S. R. Chiesa, intorno al quale giova riportare alcune brevi notizie che raccolsi a schiarimento della biografìa del Varthema. San Giorgio fu titolo di antica Diaconia, della quale fin dal 1477 era investito il cardinale Raffaele Sansoni Riario pronipote di Sisto IV. All’epoca della prima edizione del Varthema (MDX) egli era sottodecano del Sacro Collegio ed occupava il Vescovato suburbicario di Porto e Santa Ru-fina (2) ; quando poi venne in luce la seconda edizione (1) Itinerario, c. 9 verso, 10. (2) Erra il Winter Jones traducendo il latino Episcopus Portuensis per . Bisliop of Portimi, che è paese immaginario da non confondersi con Porto che è titolo di Vescovato suburbicario del quale, per consueto, è investito 40 GIORNALE LIGUSTICO romana dell’ Itinerario (MDXVH) egli trovavasi Decano del Sacro Collegio e Vescovo d’Ostia. Il Cardinale Riario, pronipote, come dissi, di un Papa, di cospicua famiglia, imparentato con i duchi di Urbino, era richissimo ed a sue spese avea fatto erigere dal Bramante e poi condurre a termine dal Buonarroti il superbo palazzo che poi divenne sede della Cancelleria Apostolica (i). Al largo censo congiunse l’ufficio lucroso del Camerlengato, che amministrò fino al 24 luglio del 15x7, in cui pur serbandogli il titolo della dignità, venne 1’ amministrazione affidata al cardinal Francesco Armellini. L· noto che il Camerlengo concentrava in sue mani tutte le attribuzioni sulle cose economiche del pontificio dominio, ed aveva un potere sconfinato tanto che i papi si videro più volte costretti a moderarne l’autorità ed a restringerne l’arbitrio. Era perciò la corte del Riario una delle più splendide, dopo quella del pontefice, e quando per Roma egli usciva a diporto una scorta di 400 cavalli lo accompagnava (2). Ma la grandezza e prosperità del cardinal Riario negl’ ultimi suoi anni ebbe un terribile crollo, poiché essendosi il cardinale sottodecano del Sacro Collegio. Porto fu città romana assai importante sulla sponda destra del Tevere dove mette foce nel Mediterraneo. — La sua fondazione pare debba riportarsi ai tempi di Claudio, per cui ebbe pure 1’ appellativo di Porto Claudio. — Nerone la ricinse di mura e vi scavò una darsena ; Costantino ne accrebbe le difese e ne fece un antemurale di Roma contro gli assalti dal mare. — Negli ultimi tempi dell’impero e nel medio evo fatta bersaglio di continue insidie da Normanni, da Saraceni e da altri popoli marittimi, andò sempre declinando finché oggi non è oramai che un povero e malsano villaggio. — La scarsa popolazione trovasi concentrata nel luogo detto Fiumicino; in Porto è 1 episcopio e la chiesa cattedrale ; non pochi residui di antichità testimoniano della sua passata grandezza. — Moroni, LIV. 202 e seguenti. (1) Moroni, VII. 79-80, 192. (2) Gregorovius, VII. 259. GIORNALE LIGUSTICO 41 nel 1517 scoperta la congiura del cardinal Petrucci contro Leone X fra i complici fu pure compreso il Riario, che avea vecchie ruggini con i Medici e non potè mai trangugiare la guerra mossa dal papa al duca d’Urbino suo parente. Il 29 Maggio pertanto del predetto anno venne egli imprigionato, ed il 4 Giugno fu chiuso in Castel Sant'Angelo, donde esciva soltanto dopo il supplizio del cardinal Petrucci avvenuto il 4 Luglio seguente (1). Il Riario ottenne poscia di essere reintegrato nelle cariche, dignità e benefizi ond’era stato spogliato, sborsando però una multa di cinquantamila o secondo altri di centomila ducati (2). Gli venne altresì confiscato a benefizio della Camera Apostolica il magnifico palazzo di sua proprietà, lasciandone unicamente al Riario il godimento vitalizio. Ma vecchio ormai e dalle ultime peripezie abattuto, il Cardinale veniva a morte in Napoli il 9 luglio 1521 (3). Non fuor di proposito ho qui toccato dei casi del cardinal Riario, poiché da alcune date che ad essi si riferiscono può trarne qualche giovamento anche la biografia del Varthema. Intanto si è veduto come il viaggiatore bolognese ebbe relazioni con la casa Colonna e dedicava alla duchessa di Ta-gliacozzo della stirpe dei Montefeltro il suo Itinerario: ebbe pure relazioni di dimestichezza con il cardinal Riario legato in parentela con i duchi d’ Urbino. Questa dimestichezza del cardinale la deduco dal tenore dei due privilegi premessi alle edizioni romane dell’ Itinerario stampato negli anni MDX e MDXVII (4). Con questi privilegi il cardinale Camerlengo concede a Stepbano Guillireti de Loreno licenza di stampare (1) Gregorovius, Vili. 261. (2) Gregorovius, Vili. 262. — Moroni, VII. 79. (3) Gregorovius, 263. - Il Moroni antecipa la data della morte a’ 6 luglio 1520. (4) Vedi in fine Bibliografia. 42 ' GIORNALE LIGUSTICO F Itinerario del Varthema. Infatti nel privilegio dell’edizione del MDX il Riario qualifica Lodovico familiaris noster dilectissimus, e nella seconda edizione del MDXVII ripete i vocaboli familiaris noster ζι). Dal secondo poi dei citati privilegi colla data del X Giugno 1518, si ricava che il Varthema era già passato all* altra vita, nè avea lasciato eredi che potessero patir danno da una nuova ristampa dell’ Itinerario (2). Dalle cose discorse è perciò manifesto che il Varthema vivente in Roma all’ epoca della prima edizione dell’ Itinerario era morto prima del X Giugno 1518, data del privilegio del , cardinal Camerlengo. Comunque però non si abbia l’epoca esatta della morte di Lodovico, tenendo conto delle congetture da me affacciate intorno all’epoca della sua nascita, può ritenersi che il Varthema non raggiunse gli anni 48 e che la sua morte cadde fra l’anno 1511 e 1517. Un altro fatto può desumersi altresì dal privilegio, ed è che il viaggiatore bolognese moriva senza poter incarnare il disegno vagheggiato di viaggiare nelle regioni settentrionali; questa idea tanto da lui carezzata è chiaramente espressa nella dedica dell’ Itinerario ad Agnesina Colonna : « Animandome, egli scrive, più forte ad quest’altro viaggio quale in breve spero di fare che avendo cerchato parte delle Terre et Insule Orientale; Meridionale et Occidentale: son disposito piacendo al signor Dio cerchare ancora le Septentrionali. Et così poiché ad altro studio non me vedo essere idoneo: spendere in questo laudabile esercitio el remanente de mei fugitivi giorni » (3). Dalle parole del privilegio sopra riportate intorno alla (1) Itinerario di Roma MDX, c. 2. Id. id. MDXVII, c. 2. ...... Ludovicoque defuncto neminem ex heredibus superesse: qui ex nova impressione vel iactura vel iniuria afficiatur..... Itinerario, c. 2. (3) Itinerario, c. 10 verso GIORNALE LIGUSTICO 43 morte di Lodovico, parrebbe che in lui terminasse la sua stirpe, ma il nminern superesse non mi pare escludere veramente che altri Varthema suoi collaterali abbiano potuto sopravvivergli, bensì che egli trapassasse senza lasciare discendenza diretta. Chi poteva infatti patir danno da una ristampa fatta senza consentimento dell’autore dopo di lui erano i figli o i discendenti di questi. Ammesso adunque che il Varthema si spegnesse, come pare, senza figliuolanza, non ne viene che in lui finisse la stirpe. Le indagini da me intraprese per ritrovare qualche traccia della sua famiglia in Bologna, come già ho dichiarato, non approdarono a niente, per cui mi confermo nell’opinione che il padre di Lodovico non fosse di Bologna, ma che quivi dimorasse per l’esercizio dell’arte salutare. Questa mia opinione, se mal non veggo, trova appoggio anche in quelle parole da me sopra riportate colle quali Lodovico rispondendo al persiano Coziazonsor, che lo pregava di curare un suo amico infermo, rispondeva: « mio patre era medico alla patria mia » (i), con le quali parole parrebbe significare che altra fosse la patria del padre suo. In Genova soltanto appare aver avuto esistenza una famiglia Vertema nobile e con blasone, come si ricava da documenti sincroni del secolo XVI e XVII. Nei Monumenta Genuensia del Piaggio, che manoscritti si conservano nella Biblioteca Civico-Beriana in Genova, se ne ha una prima testimonianza. Vi si nota come nella seconda metà del secolo XVI, nell’oggi distrutta chiesa di Santa Caterina dell’Acquasola leggevasi il seguente epitaffio sepolcrale : SEPULCRUM J0ANN1S BAPTISTE VERTEMA MATHEI FILIJ ET HEREDUM SUORUM MDLXIII. (i) Itinerario, c. III. 44 GIORNALE LIGUSTICO Nel mezzo della lapide era scolpito lo stemma (i). Anche in altr opera ms. di Giovanni Andrea Musso che trovasi custodita nell Archivio di Stato genovese, nel numero dei blasoni delle principali famiglie della nobiltà genovese si vede quello anche dei Vertema che con lievi differenze concorda con quello del Piaggio (2). Recente conferma dell’esistenza della famiglia Vertema nel secolo XVII uovo in un pregevole libro del Belgrano. Riporta infatti 1 egregio autore una denunzia estratta dai fogliazzi Secretorum che si custodiscono nel mentovato Archivio, dalla quale appaie che nel 1655 nel luogo detto la Chiappella esistevano le case di un Nicolò Vertema (3). Son queste le poche notizie che ho potuto raggranellare intorno alla famiglia .Vertema posteriormente alla morte di Lodovico. VII. L Itinerario del viaggiatore italiano venne al suo apparire accolto con grande favore in Italia e fuori di essa; dopo le lettere del Vespucci nessun libro di viaggi ottenne maggior popolarità al suo tempo, del che porgono chiara prova le ripetute edizioni che se ne fecero lungo il secolo XVI e 1 essere stato tradotto nelle principali lingue letterarie del— 1 Europa e nel latino allora più che oggi idioma universale. Nello spazio infatti che corre fra il 1510 ed il 1589, Y Itinerario ebbe 36 edizioni italiane, tedesche, latine, spagnuole, olandesi e francesi (4). Altri indizi della popolarità àelYIti- (1) Piaggio, Mon. Gen., IV. 223. (2) Musso, Le diversità delle insegne ecc., num. 1488. (3) Della vita privata dei Genovesi, 468. (4) Elenco delle edizioni dell’ Itinerario di Lodovico de Varthema fin oggi conosciute, comprese le dubbie che distinguo col segno? Italiane 18 [1510-1517-1517-15x8-1519-1520-1522?-i 522-1525-1525-1526-1529-1535-(s. a.)-i 568-1588-1606-1613 ]. GIORNALE LIGUSTICO 45 nerario potrebbero dedursi dallo scorgere il nome dell’autore ricordato sovente dagli scrittori contemporanei e rappresentato come il tipo del viaggiatore. — Valga un esempio. — Nell’ o-pera più volte ristampata del Luttich, Novus Orbis, edita da Simone Grineo (Vedi in fine Bibliografia) havvi il Typus Cosmo graphicus Universalis o Planisfero, nel quale fra gli svariati disegni che incorniciano la carta può vedersi la figura di un uomo affaticato, che si appoggia camminando ad un bastone, mentre ad altro bastone posto di traverso sulla spalla sinistra tiene raccomandato un fardello. Sotto alla figura leggesi : Vartomanus ; ed è l’unico nome di viaggiatore che trovisi nominato, mentre all’intorno vedonsi effigiati selvaggi, cannibali, indiani, animali ed alberi di differenti regioni del globo. La lingua adoperata dal Varthema nel suo Itinerario mi porge materia a poche riflessioni. Non può certo affermarsi che Lodovico scrivesse toscanamente; egli adopera la lingua usata dal comune degli scrittori suoi contemporanei nati fuori di Toscana ed alieni dalla imitazione dei fiorentini. Perciò mentre il linguaggio adoperato nell’ Itinerario è alquanto ruvido, vi si possono rilevare qua e là alcune forme dialettali che ricordano la patria dell’autore ed il soggiorno da lui fatto in Roma. Se però la lingua non .-è oro di coppella, lo stile in compenso vi è rapido, conciso, pittoresco, pieno di Tedesche io [1515-1516-1518-1530-1534-1547?-1548-1610-1611-1615]. Latine 8 [ 1511-1532-1532-1534-1537-1555-1610-1611]. Spagnuole 4 [1520-1523-1570?-1576]. Olandesi 4 [ 1563-1615?-1654-165 5?]. Inglesi 3 [1576-1625-1863]. Francesi 1 [1556]. Totale 48, così divise per secolo: Secolo XVI.................36 » XVII.................11 » XIX................. 1 Vedi in fine Bibliografia. 46 GIORNALE LIGUSTICO movimento e di vita. La definizione che lo stile è l’uomo calza a mio avviso nella sua applicazione al Varthema: infatti egli uomo d .armi e viaggiatore, si vide ognora mancare il tempo e la tranquillità indispensabili per coltivare i pacifici studi delle lettere e per lisciare colla pomice i propri scritti. Come bene avverte il Winter Jones , l’Itinerario del nostro bolognese ha tutto 1 aspetto di un libro di appunti dettati concisamente, registrando alla giornata e senza pretensione quanto gli pareva degno di ricordo (i). Pieno di buon senso, acuto osservatore, Lodovico senza circonlocuzioni ci racconta le sue impressioni e riesce a dettare un libro che deve considerarsi fra i migliori che uscirono dalla penna di viaggiatori. Il Varthema seppe raccogliere in una succosa relazione quanto si riferisce alle costumanze, alla religione, alle arti, alla storia, alle condizioni economiche, ed alle cose geogiafiche e naturali di buona parte dell’Asia continentale e insulaie; e ciò fa con tale esattezza e verità, che oggi in tanto ? Do lume di scienze parve meraviglioso a parecchi dotti stranieri. Oltre il Winter Jones ed il Percy Badger, nominati sovente nella presente memoria, che mostransi grandi ammiratori di Lodovico, un distinto, viaggiatore dei nostri tempi, il Burton, colloca il Varthema in cima di tutti gli antichi esploratori dell Oriente per finezza di osservazione e per diligenza (2). Un altro viaggiatore, il Burckardt, nel suo libro sulla Siria mostra spesso tal conformità di vedute con quanto scrisse sulle cose orientali il Varthema, da suggerire al Percy Badger la congettura che prima 0 dopo le sue esplorazioni nell’Hegiaz (1) Percy Badger, Preface, I. (2) « But all things considered Ludovico of Barthema for correctness of observation and readiness of wit stands in thè foremost rank of thè dol orientai travellers ». GIORNALE LIGUSTICO 47 abbia il tedesco letto Γ Itinerario, facendo talora largamente suo prò di fatti e giudizi esposti dal bolognese (i). Insomma Lodovico de Varthema vuoi per l’ardimento dei suoi viaggi, vuoi per il racconto che seppe lasciarcene nel suo Itinerario, ha emulato i due più grandi viaggiatori di tutti i tempi, Marco Polo e Colombo; e comunque il suo libro non possa misurarsi col Milione del veneziano nè con le lettere dell’immortale ligure, può rivaleggiare con le celebri relazioni del Vespucci alla cui popolarità va debitore il fiorentino se il nuovo mondo venne battezzato col suo nome. L’indole dei presente lavoro non comporta una minuta analisi del libro del Varthema; è questo un ufficio che spetterà a quegli che vorrà sobbarcarsi alla non facile impresa di regalare all’Italia una nuova edizione dell’Itinerario, imitando Γ amoroso studio e la paziente opera che vi spesero intorno i due valentuomini inglesi il Percy Badger ed il Winter Jones. Prima di entrare però nell’ esame di alcuni tratti del libro che si riferiscono a materie scientifiche, debbo rilevare che fra alcune originalità che spiccano nella relazione del viaggiatore bolognese havvene una che consiste nel trascrivere in idioma arabo, però valendosi del nostro alfabeto, i dialoghi avuti talvolta con arabi ed indiani, volgendoli poscia in volgare ben supponendo che pochi avrebbero potuto altrimenti comprenderne un iota. — Senza voler indagare quale motivo traesse il Varthema a ciò fare, deve notarsi, come da persone competenti fu osservato, che l’ortografia delle voci arabe è assai malmenata e sovente sbagliata. Se questo avvenga per colpa degli editori o se debba accagionarsene l’autore non saprei decidere. È certo che questa pessima riproduzione di vocaboli arabici si ripete in tutte le edizioni del suo Itinerario, non esclusa la prima che pure, pubblicata sotto gli (i) Percy Badger, Introduction, XXXVI. — Burckhardt, Travets in Syria. 48 GIORNALE LIGUSTICO ocelli dell autore, avrebbe dovuto riuscire più corretta. Questo latto mi conduce ad opinare che il Varthema conoscesse 1 arabo più per pratica acquistata trattando con i mercanti in Damasco; che per istudio grammaticale e filologico che vi abbia posto; al che gli sarebbe mancato anche il tempo sufficiente, poiché il suo soggiorno in Damasco non ebbe che la durata di pochi mesi. Nell Itinerario s’incontrano pure non pochi vocaboli malesi; anzi è osservabile che non poche voci attinenti al commercio ed alla navigazione sono dal Varthema riportate dalla lingua malese: ciò conferma, a mio avviso, che quelle razze si tro-λ avano in quel tempo in uno stadio di cultura (attinta in pai te dall India ed in parte dagli arabi) superiore alla attuale. In ogni modo è anche da altre fonti provato che i malesi prendevano non poca parte alla navigazione ed ai traffichi con 1 India, il Pegu, Siam, Borneo e le Molucche; ne è im-piobabile che le loro navi si spingessero fino in Australia, ignorata a quei giorni dagli europei. Notero qui soltanto alcune fra le molte cose osservate dal Varthema, e delle quali non ho creduto di tener conto nel succinto racconto del viaggio poiché ne avrebbe con soverchie digressiofii interrotto il filo, ingenerando confusione nella mente del lettore. Queste osservazioni porgono un concetto sufficiente della coltura e del fine spirito del viaggiatore, e costituiscono, per così esprimermi, la parte scientifica dell’/-tinerario in quanto versano intorno a cose geografiche e naturali. Si intende che il Varthema non fu uno -scienziato nel senso che oggi si attribuisce alla parola, riè poteva esserlo quando non pochi rami dell’albero enciclopedico o non esistevano punto od appena cominciavano a germogliare. Ciò non toglie però che l’acume, l’ingegno comprensivo ed una straordinaria intuizione onde furono dotati Marco Polo, Colombo, il Ve-spucci e lo stesso Varthema, abbia in qualche modo supplito GIORNALE LIGUSTICO 49 alla scienza, e ne abbia procurato un tesoro di preziose osservazioni e di notizie importanti sulla geografìa fisica ed astronomica, sulla nautica, sulla meteorologia delle regioni da essi visitate, non che intorno alla Fauna, alla Flora ed agli altri rami delle scienze naturali e matematiche che formano la suppellettile scientifica dei moderni viaggiatori. Due punti oscuri per la geografia sono ne\Y Itinerario, intorno ai quali è utile di entrare in qualche particolare che potrà condurre, se non a risolvere completamente, almeno a schiarire il testo del viaggiatore italiano. Il primo di detti punti si riferisce all’ incontro dei mercanti cristiani in Banghella (Bengala), con i quali il Varthema intraprese poscia la navigazione a Malacca, alle isole della Sonda ed oltre (i). Essi dicevansi nativi di una città chiamata Sarnau e sudditi del Gran Kan del Cathai. Aveano bianca la carnagione, vestivano di ciambellotto con maniche imbottite di bambace, con larghi calzoni di seta « facti ad usanza de marinari »; scarpe non usavano ed in testa portavano una berretta di panno rosso lunga un palmo e mezzo. Vedemmo già che per le credenze debbono costoro appartenere alla setta cristiana dei Nestoriani, numerosa in Cina ed in tutta l’Asia orientale fin dai tempi dell’ imperatore Kublai. Più difficile riesce il determinare l’ubicazione di Sarnau che, a detta dei predetti mercanti, distava da Sumatra 3000 miglia. È città di clima rigido e vi nasce l’odoroso Kalambak ossia l’Aloe di qualità superiore. Il Percy Badger crede ravvisare nel Sarnau del Varthema Ja Sanay del Beato Oderico da Pordenone, che Marco Polo ricorda col nome di Ciandu (Sciang-tu) e Sanday, città al nord di Pechino (2); ma credo prenda abbaglio, e col Yule opino essere il Sarnau del Varthema (che (1) Itinerario, c. 93. (2) Percy' Badger, Introduction, LXXXII-LXXXIII. — Bartoli, I viaggi di Marco Polo, v. 8. Giorn. Ligustico , Anno V. 50 GIORNALE LIGUSTICO col nome di Sarnau e di Xarnau è rammentata pure da altri viaggiatori di quel secolo, come il nostro da Empoli e lo spagnuolo Mendez Pinto) il nome persiano adoperato a quei tempi per accennare l’odierna città di Siam, Shar-i-nao che suona Città Nuova (i). E veramente pare strano 'che i Nestoriani del settentrione della Cina andassero a piedi nudi, che è costume permesso soltanto nelle calde regioni del Siam. Un’ altra prova a favore dell’ opinione dello Yule è il fatto del nascervi l’aloe, che nel Siam è abbondante e di ottima qualità, per cui se ne fa un grandissimo commercio di asportazione. È vero che la distanza di 3000 miglia, indicata dai mercanti fra Sumatra e Sarnau, non corrisponde a quella effettiva fra la citata isola ed il regno di Siam, anzi è assai inferiore. Ma in materia di cifre, anche non. ammettendo che i mercanti siamesi abbiano voluto esagerare la distanza che li separava dal loro paese, per quella certa smania che ha sedotto talvolta i viaggiatori a ingrandire le cose per dare a credere ad un maggiore ardimento nelle loro intraprese, non è difficile che possano essere caduti in errore gli editori come avviene tuttora e come succedeva assai più dì freqqente nel secolo XVI. Altro punto oscuro nell’ Itinerario è il seguente. Navigando il Ararthema con i Nestoriani e con il fidò persiano, venne loro curiosità di sapere se esistevano altre terre dalla banda onde splendevano le costellazioni antartiche, per cui interrogatone il capitano : « Ancora ce disse che dall’ altra banda de dieta insula ( Giava ) de verso el Mezogiorno ce sonno alcune altre generationi: le quali navigano con le diete 4 0 5 stelle contrario alla nostra: et più ce fecero sapere che de la dalla dieta insula el giorno non dura più che 4 hore: et che ivi era più freddo che in loco del mondo (2) ». (1) Yule, The Book of ser Marco Polo, II. 256-261. (2) Itinerario, c. 105 verso. GIORNALE LIGUSTICO 51 La terra che viene indicata a Mezzogiorno di Giava non può essere che il vasto continente australiano; le 4 0 5 stelle che sono di guida ai naviganti è la croce del Sud (Crusero) che attirò tanto l’attenzione dei cosmografi e navigatori di quell’epoca e degli iniziatori degli studi nel cielo australe, Cadamosto, Vespucci, Corsali e Pigafetta. Il luogo freddissimo cui accenna Lodovico nel quale il giorno dura 4 ore soltanto, ci conduce ad una terra posta ad una latitudine australe di 150 Sud che dovrebbe essere la Terra di Van Diemen. Comunque possa sembrare difficile che i malesi si avventurassero nelle fragili loro barche fino alla estremità meridionale dell’ isola Van Diemen, o che gli australiani navigassero fino a Giava, il che mi pare anche meno probabile; è un fatto che la notizia dell’esistenza di un continente abitato al mezzogiorno di Giava, nelle cui estreme parti era il giorno cortissimo e freddo l’aere, ci porgono testimonianza di comunicazioni esistenti fra la Malesia e l’Australia molto tempo innanzi che il grande continente venisse scoperto dal portoghese Godinho nel 1601. Di questi adunque e della sua scoperta può il Varthema ritenersi come l’araldo, poiché la notizia, comunque un poco oscura, che egli ne dava, costituisce il più antico cenno dell’esistenza di quella sesta parte del globo che fu completamente ignorata da Marco Polo, da Oderico da Pordenone, dal Conti e dagli altri viaggiatori italiani che visitarono Γ Asia nei secoli XIII, XIV e XV. Non poche preziose osservazioni leggonsi nell’ Itinerario intorno al mare ed ai fenomeni meteorologici, il flusso eri-flusso , le burrasche ed i venti. Avvertì le gravi difficoltà che incontrano le navi nel percorrere il Mar Rosso, a causa dei suoi banchi corallini e degli scogli a fior d’acqua ond’ è seminato (1). Nella descrizione di Cambaia e del suo golfo (1) Itinerarie, c. 31 verso. 52 GIORNALE LIGUSTICO notava i potenti effetti del flusso e riflusso, che confuse però con le bore od onde rollanti, speciale agitazione del mare indiano, della baia di Fundi, dell’ Amazzone e di altre località, la cui intensa violenza vuoisi attribuire all’azione della Luna verso la terra in alcuna sua speciale posizione (i). L’ avanzarsi dei cavalloni marini verso la spiaggia è di una rapidità spaventosa, e viene da taluni stimata di dodici e fin di venticinque miglia Γ ora. Anche Filippo Sassetti, ottan-t’anni dopo il Varthema, favella di questo fenomeno nel rio Cambaia e « nell’ insenata di Diu dove in certa parte 1 acqua vi ricresce così in un subito che viene con tanto impeto e rovina che chi vi si trova .e non è lesto va sos-sopra col navile : e così com’ ella cresce in un momento rimane in secco e quasi terra asciutta dove prima fondeg- giavanQ navi.....(2) ». Allo stesso fenomeno accenna Gasparo Balbi nella sua navigazione al Pegù (1579-82): « e 1 acqua del canale gli soprastà quanto è grande et alto °§ni grand’ albero et in tal caso gli si tien la prora contro e si aspetta la furia dell’ acqua, la quale vien con tal impeto, che rassembra il rumore di grandissimo terremoto (3) ». Anche la Fauna delle regioni dal Varthema visitate venne da lui studiata e spesso le descrizioni degli animali e delle loro abitudini sono accurate e diligenti. Dei cammelli, che potè esaminare appena ebbe messo piede in oriente, vanta la sobrietà, la resistenza alla tatica e quelle altre qualità ben cognite che ne fanno il miglior ausiliare dell’ uomo special-mente nel deserto. In Bisnagar (Malabar) attirarono la sua attenzione i dromedari rapidissimi al corso (4). Molto si diffonde intorno all’ elefante indiano, notandone (1) Itinerario, c. 35 verso. — Percy Badger, 106. — Maury, 440-441. (2) S assetti, Lettere, 326. (3) Balbi, Viaggio, f. 91 verso. (4) Itinerario. GIORNALE LIGUSTICO 53 1 intelligenza e 1 utile che sanno trarne d’indigeni adoperandolo nelle arti della pace e della guerra, a portar pesanti carichi, a tirar navi su per i fiumi e in quelli altri usi cui da tempi antichissimi venné adoperato l’accennato pachiderme. Nella sua esplorazione dello Yemen ci discorre della iena; ed in I ernassa conta non poche specie d’animali domestici e selvatichi, come il leone, il gatto da zibetto (Moschus) ed altri. Qualche utile osservazione venne pure tratto tratto facendo intorno all’ Avifauna dei paesi percorsi. Nelle Indie assisteva ai sanguinosi combattimenti dei galli, favorito spasso degli indiani come oggi lo è degli inglesi (Cock-fighting). In Calicut ammirava i pavoni, i papagalli verdi e rossi, e si beava nel canto di bellissimi uccelli e fra questi del saru (da sar persiano), che potrebbe essere la gracula religiosa (i). Falconi e· papagalli bianchi (kakatu) e di variopinti colori osservava in Ternassari; e descrive un grosso uccello di rapina maggiore dell’ aquila che il Percy Badger crede il hucerus galeatus (2). Accenna pure ad alcune specie di serpenti assai velenosi che trovansi in gran numero nelle regioni indiane, il che già era stato osservato nel secolo XV dal veneziano Conti (3). Avverti il superstizioso rispetto che per essi nutrono gl’ indigeni, guardandosi dal recar loro la più piccola offesa perchè li credono « Spiriti di Dio ». Più grandi, ma meno micidiali, ne incontrò in Sumatra dove non poca meraviglia destavangli le temerarie prodezze che faceano con cotesti serpenti gl’ incantatori. Parla dei bachi da seta che ricorda aver veduto in Sumatra ed in Giava e che venivano allevati come da noi, oppure (1) Itinerario, c. 81. — Percy Badger, 172. (2) Itinerario, c. 88 verso. — Percy Badger, 200. (3) Itinerario, c. 81. — Conti (in Ramusio), I. 54 GIORNALE LIGUSTICO •liberi nei boschi ; il che fruttava una grande produzione di seta. Anche il Santo Stefano, nel 1496, trovò molto abbondante la seta in Sumatra (1); ma per Giava il finto della esistenza dei bachi viene dai moderni contradetto, affermandosi esservi stata la coltivazione introdotta in epoca assai recente dagli olandesi (2). · - Brevemente pure toccherò di un fatto affermato dal Varthema, che farà sorridere i moderni naturalisti, ed è la notizia che egli ne porge di aver veduto due unicorni vivi nella Mecca : egli descrive i due animali come cavalli con un corno in mezzo alla fi onte lungo tre braccia, il capo somigliante al cervo, pochi crini, gambe sottili e Γ ugna spartita come le capre. Nell antichità fu costantemente creduto alla esistenza di cotesto animale; la Bibbia, Aristotile, Filete, Plinio, Eliano Solino ed altri scrittori greci e latini ne fanno menzione; ve-desi pure, a detta del Niebuhr, scolpito nelle rovine di Perse-poli (3). Anche nel medio-evo persiste la fede nell’esistenza di detto animale. Anzi sull’ unicorno correva una curiosa leggenda ripetuta da Brunetto Latini e smentita da Marco Polo, che cioè per prenderlo vivo gli si mandava incontro una pulzella alla cui vista 1’ animale mansuefatto si lasciava prendere e s addormentava sul suo seno, per cui veniva dai cacciatori nel sonno fatto prigioniero. L’unicorno però di cui favellano Marco Polo e Brunetto Latini, come si desume dalla descrizione che essi ne porgono, è il Rinoceronte (4). Ma (1) Lettera in Ramusio, I. (2) Itinerario, c. 108. — Percy Badger, i 52. — Il Raffles scrive : « Silk ^orms were once introduced by thè Dutch near Batavia but attention to them did not extend among thè natives. -The chrvsalis of thè large Atlas afford a coarse silk wich is however not collected for use ». — Raffles, I. 61. (3) Voyage en Arabie, II. 100. (4) Bartoli, I Viaggi di Marco Polo, 246. — Yule, The Book of Sei-Marco Polo, II. * GIORNALE LIGUSTICO 55 anche dopo il Varthema e fino ai tempi nostri non mancano scrittori e viaggiatori che sostengono esistere detto animale, comunque poco siano d’ accordo nella sua descrizione e comunque confessino di non averlo mai veduto. Il celebre medico Bacci nella seconda metà del XVI secolo scrisse il libro Dell’Alicorno, sostenendo con gran corredo d’argomenti e d’autorità che esso esiste benché sia poco numeroso e difficilissimo a prendere. Nell’alicorno credeva anche il Cardano, anzi alcuni scrittori e viaggiatori del secolo XVII pretendono di averlo veduto in Abissinia; mi basti citare il Ludolph e il padre Lobo (i), che ce ne offre una descrizione assai particolareggiata. Ma venendo al nostro secolo, il maggiore inglese Latter verso il 1830 affermava esistere l’unicorno nel centro del Tibet, i cui abitanti lo chiamavano con nome di uguale significazione Tso’po. Lo stesso ufficiale pretendeva possedere un corno di Tso’po regalatogli dal Sachia Lama. A ogni modo la diversa ubicazione che vuoisi assegnare all’unicorno da alcuni in Abissinia, da altri nell’ India o nel Tibet, il non essersi dopo le numerose esplorazioni, che dal principio del secolo furono dirette in quelle regioni, da alcuno favellato .del misterioso animale, danno molto peso all’ opinione dei moderni naturalisti che collocano l’unicorno fra gli animali mitici, come la Sfinge, l’Ippogrifo e le fantastiche creazioni del greco Ctesia. A questo pronunziato della scienza forse non è riservata quella smentita che ebbe testé la negata esistenza dei cammelli selvatici, di cui non pochi incontrava nella sua esplorazione del Turkestan orientale il colonnello Prjevalsky nella catena di Altyn (2). Inquanto al nostro Lodovico possiamo dire che egli, come tanti altri viaggiatori, ha bevuto grosso e che i due unicorni mostratigli potevano (1) Bacci, Dell’Alicorno. —Cardano, De rerum varietate, CXCVII.— Ludolph, Hisl. Aethiop., I. 10. — Lobo, Fovage, 69, 230-231. (2) The Geograpbical Magatine (Septembr 1877) 240-241. 56 GIORNALE LIGUSTICO essere due Antilopi (Oryx) cui uno scherzo della natura fece nascere un solo corno, o per opera dell’ uomo ne venne loro reciso uno. Molte osservazioni importanti contiene l’Itinerario intorno alle droghe, agli alberi che le producono, ed al modo che usavano gl’ indigeni per' raccoglierle. Distingue le varie specie di pepi, e vicino a Pedir (nell’estrema punta nord di Sumatra) noto una specie particolare di pepe bianco chiamato molaga dagl indigeni, descrivendone i caratteri distintivi e 1 albero onde nasce (1). Se ne faceva grande esportazione pel Catai ossia Cina settentrionale. In Ceylan osservò 1’ albero della cannella ed il modo di raccoglierla collo scorticamento. « Lo arboro della Cannella si è proprio corno el lauro maxime la foglia. Et fa alcuni grani corno el lauro ma sonno più piccoli et più bianchi. La dieta cannella o vero Cinamo si è scorza del dicto arboro in questo modo ogni tre anni tagliano li rami del dicto arboro et poi levano la scorza de quelli ma lo pede non tagliano per niente (2) ». Parlando dell’ aloe distinse le tre qualità : il Calampat (Kalumbak) di soavissima fragranza, il Loban (Luban) ed il Bochor (Bakh-khur), descrivendo i caratteri speciali di ciascuna (3). Potè osservare Γ albero onde s’ estrae la lacca adoperata per fare il color rosso; nelle Molucche vide due preziosi alberi, il garofano e la noce moscata (Myristica) che il De Albertis trovò testé assai abbondante nella Nuova Guinea sulle sponde del fiume Fly (4). Del garofano scrive il Varthema, « che si è proprio come (1) Itinerario, c. 101. (2) Itinerario, c. 69. (3) Itinerario , c. 99. (4)'De Albertis, Giornale ecc., in Rivista Marittima (Roma 1877), 227. GIORNALE LIGUSTICO 57 Γ arboro del buxolo zoe folto et la sua foglia e quasi come quella della cannella: ma e un poco più tonda et e de quel colore come già ve dissi in Zeilani (Ceylan): la quale e quasi come la foglia del lauro. Quando sono maturi questi garofoli: li dicti homini li abatteno con le canne: et met-teno sotto alcune store per raccoglierli (i) ». Della noce moscata fa la seguente descrizione: « El pede de la noce moscata si e facto àd modo de uno arboro de persico et fa la foglia in quel modo ma sonno più strette le rame. Et avanti che la noce habia la. sua perfetione li macis stanno intorno come una rosa aperta. Et quando- la noce e matura: lo macis la abbrazza: et cossi la .coglieno del mese de Septembrio perchè in questa insula va la stagione come a nui (2) ». Fra le cose naturali degne di nota che il Varthema ha voluto inserire nell’ Itinerario, havvi uno speciale capitolo intorno ai frutti dell’ India e a quelli specialmente che dai nostri maggiormente differiscono (3). Ricorda la Ciccara, il cui albero ha qualche somiglianza col pero, ed è il Yack (Artocarpus integri/olia) del quale ci porge notizia anche il Sassetti col nome di Giava. È tanto delizioso il frutto, che Lodovico non ricordava di averne mai mangiato di più saporito. Entro il frutto sono alcuni semi, che messi sopra la brace e poscia mangiati rendono il sapore delle castagne. Altro frutto è 1’ Amba che si coglie dall’ albero del Manga. Il Corcopal (una specie di Diospyrcs) trovò pure di aspetto somigliante al pero; veniva adoperito per usi medicinali; il Comolanga (1) Itinerario, c. 104. (2) Itinerarw, c. IO;. (j) Sassetti, Lettere, 525. — Filippo Sassctti nelle celebri sue lettere scritte dall’india fra gli anni 1583 e 1588, ricorda e descrive le deliziose frutta che vi mangila; fra le quali enumera i Giambi, le Marghe, gli Ananas, la Giava, i Lagui, i Tamarindi e le Ambole. 58 GIORNALE LIGUSTICO paragona ad un melone d’ acqua; ed il Malapolanda (i), che è il banano, produce frutti somiglianti ai nostri fichi, e sono gradito pasto del popolo minuto. Quello però fra tutti gli alberi fruttiferi, che maggiormente attirava Γ attenzione del viaggiatore bolognese, fu l’albero del Cocco (Coccos nucifera) che egli con vocabolo malese chiama Tenga (Tânghâ) (2). Egli afferma che « da questo arboro ne cavano X utilità » e non dice troppo, poiché dai moderni viaggiatori e naturalisti si annoverano anche maggiori utilità che si traggono da questa famosa palma e dal suo frutto saporito. Quest’ultimo contiene un acqua lattea deliziosa a bere, e se ne fa vino di palma (arrak), olio, zucchero; del legno carbone, cordami; delle foglie vele, stuoie, coperture per le case «· di modo, scrive il veneziano Balbi, che non si butta via che le radici (3) ». La ricca Flora delle isole di Ceylan non· passò inosservata all’ occhio indagatore del Varthema ; e dopo aver ricordato i fiori discorre dei frutti, fra i quali « certi carzofoli megliori che li nostri: melangoli dolci li migliori che sieno nel mondo et altri fructi assai ad usanza di Calicut ma molto più perfecti ». E ben a ragione egli vantava il suolo fertile e fecondo di quell’ isola, della quale basterà accennare come le piante fenogamiche descritte a tutto il 1856 ammontavano a 26,700, cioè al doppio quasi della Flora indigena dell’Inghilterra (4). Anche il Gemelli nel suo Giro del mondo (vol. III. 12-86) ha dedicato un intiero capitolo alle frutta ed ai fiori dell’ Indostan. Uguali descrizioni si hanno nelle relazioni di parecchi nostri ir.issionari, fra i quali assai si distende con minuti particolari Vincenzo Maria da Santa Caterina nel suo Viaggio alle Indie Orientali (350-356) che compivasi fra il 1656 ed il 1659. (1) Il Percy Badger crede che codesta denominazione possa essere corruzione di V alci pullum, nome tamulico del Banano. Percy Badger, 163. (2) Itinerario, c. 77. — Percy Badger, 163-164 (3) Balbi, Viaggio, 73-74. (4) Percy Badger, 193. GIORNALE LIGUSTICO 59 Troppo dovrei dilungarmi se tutte volessi rilevare le cose importanti che contiene Γ Itinerario ; mi basta d’averne dato a gustare al lettóre alcune primizie, che lo invoglieranno, ne son certo, alla lettura del libro dell’ ardimentoso esploratore bolognese; ed in questa fiducia lo scrittore crede finito il suo còmpito e, piegate le vele, spinge la barca a riva. Da quanto venni divisando nella presente memoria, parmi lecito conchiudere non essere stato Lodovico de Varthema un comune viaggiatore, ma doversi anzi collocare nella schiera dei maggiori ed accanto a Marco Polo, a Cristoforo Colombo, al Vçspucci, ai Cabotto, che non sono soltanto i più grandi fra gl’ italiani, ma sono eguali ed alcuni maggiori ai migliori esploratori delle altre nazioni. Nessuno più del Varthema mostrò attitudine alla impresa cui volle dedicare la miglior parte di sua vita: ebbe ingegno , operosità, coraggio a tutta prova, e quella serenità d’animo che è la miglior dote di chi vuol riuscire. E per raggiungere appunto l’alto suo scopo egli seppe piegarsi a tutte le esigenze della vita avventurosa del viaggiatore, adottando le usanze e la lingua dei paesi ove trovavasi. A Damasco si fa mamaluco e combattendo a cavallo compie il pellegrinaggio della Mecca; in Aden si finge pazzo e scimieggia i santoni musulmani; nell’ India se ne va a diporto sul dorso degli elefanti e si atteggia a dervisch; in Persia e nel Pegù diventa mercante di coralli, e sfidando un mare sconosciuto, i pirati malesi ed i selvaggi Papuas si spinge sovra fragile barca fino alle Molucche dove approda 15 anni prima che il Magellano vi giungesse da levante. Il libro del Varthema ce lo mostra non scarso di studi, socievole, leale; della sua integrità rendono testimonianza gli stessi governanti portoghesi nelle Indie, quando investirono lui straniero, a preferenza di molti loro compatriotti, di un ufficio geloso e delicato. Ma come avvenne ad altri valentuomini, mentre le enciclopedie ed i dizionari biografici ci af- 6o GIORNALE LIGUSTICO fliggóno con pomposi panegirici di uomini mediocrissimi che seppero scroccare fama di grandi, il nome di Lodovico de Varthema giacque dopo il XVII secolo quasi del tutto dimenticato, ed il suo Itinerario non ebbe nello scorso secolo nemmeno Γ onore di una ristampa ! Lo stesso sarebbe anche a\r-venuto nel presente se 1 ’Hakluyt Society, tanto benemerita degli studi geografici, non avesse affidato a due valenti suoi soci Γ incarico di volgere’ nell’ inglese idioma e d’illustrare con opportuni commenti Γ Itinerario del bolognese, che poscia comparve nel 1863 in Londra con splendida veste tipografica. Ora poiché ci lasciammo guadagnare la mano dagli stranieri, adoperiamoci almeno ad imitarne l'esempio. Una ristampa dell’ Itinerario non dovrebbe ritardarsi in Italia. In tal guisa oltrecchè si renderà un rilevante servizio agli studi di geografia storica, verrà a compiersi un atto di onoranza verso Lodovico de Varthema, che dopo un memorando viaggio seppe dettare un libro degno dell’ antica coltura e della operosità italiana. ELENCO DEI PRINCIPALI AUTORI E DELLE OPERE CITATE NELLA PRESENTE MEMORIA Albertis (de) Luigi M. — Giornale della campagna d’ esplorazione del fiume Ily (Nuova Guinea), in Rivista Marittima. Roma, maggio 1877, pag. 261-293. Bacci. — Discorso dell’ Alicorno dell’ Eccellente Medico et filosofo M. Andrea Bacci .... In Fiorenza MDLXXXII, apresso Giorgio Mare-scotti, 12.0 Balbi. — Viaggio dell’ Indie Orientali di Gasparo Balbi, Gioielliero Veneziano. In Venetia MDXC, appresso Camillo Borgominieri, 12.0 Barros. — L’ Asia del signor Giovanni di Barros, Consigliero del Chri-stianissimo Re di Portogallo: de’ fatti de’ Portoghesi nello scopri- GIORNALE LIGUSTICO 61 mento et conquista de’ Mari et Terre di Oriente .... nuovamente di lingua portoghese tradotta dal S. Alfonso Ulloa. In Venetia, appresso Vincenzo Valgrisio, MDLX, 8.° Belgrano L. T. — Della vita privata dei genovesi, seconda edizione accresciuta di moltissime notizie. Genova, Tip. del R. Istit. Sordo-muti, MDCCCLXXV, 8.° Boucher de la Richarderie. — Bibliothèque universelle des voyages. Notice complète et raisonnée de tous les voyages anciens et modernes dans les différentes parties du monde, classés par ordre de pays dans leur serie chronologique etc. Paris 1808, P. V., 8.® Botta. — Notice sur un voyage dans 1’ Arabie e Hereuse entrepris en 1836 par Emile Botta. 4.0 gr. (S. d.). Voyage dans le Yemen. Paris, 1841, 8.° Brunet. — Manuel du Libraire. Paris, Didot, 1860-65, 6 vol., 8.° Bumaldi Antonii. — Minervalia Bononiensia seu Bibliotheca Bononiensis cui accessit antiquorum Pictorum .... brevis Cathalogus. Bononiae, Tipys Benatii, 164.1, 16.0 Burton. — Personal narrative of a Pilgrimage to El-Medinah and Meccah. London, 1872. Burckhardt. — Travey in Syria. Nicolò dei Conti. — Viaggio alle Indie, in Ramusio vol. I. (Vedi Ramusio). DONx. — La Libreria del Doni fiorentino nella quale sono scritti tutti gli autori vulgari con cento discorsi sopra quelli ecc. In Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari et fratello, MDL, 12.0 Dennistoun. — Memoirs of thè Dukes of Urbino ecc. London, Lon-ginen, 1851. Fantuzzi. — Notizie degli scrittori bolognesi del conte Giovanni Fan-tuzzi. Bologna, Stamp. di S. Tommaso d’Aquino, 1781-90; 9 vol., 4.0 Gemelli. — Giro del Mondo del dott.- Giovanni Francesco Gemelli Ca-reri ecc. Venezia, presso Sebastiano Colletti, MDCCXXVIII; 9 vol., 12.0 Geographical Magazine (The) directed by Marckam. London, 1877, 4.® Gregorovius. — Storia della città di Roma. Venezia, Antonelli, 1876; voi. 8, in 8.° Harrisse H. — Bibliotheca Americana Vetustissima. A description of works relating to America published betwen thè years 1492 and 1551 by Henry Harrisse. New-York, C. P. Philes, 1866; 9. vol., 8.° LOBO- — Voyage en Abissinie du R. P. Jerôme Lobo etc. A Paris et à la Haye, chez P. Grosse et J. Néaulme, MDCCXXVIII, 8.° Maury. — Geografia fisica del mare e sua meteorologia di M. F. Maury. 6 2 GIORNALE LIGUSTICO Prima versione italiana del Luogotenente Luigi Gatta. Roma, Loes-cher, 1872, 8.° Mazzucchelli. Gli scrittori d’Italia, cioè notizie storiche e critiche intorno alle vite ed agli scritti dei letterati italiani del conte Gian Maria Mazzucchelli, Brescia, 1753-63 ; 6 vol., f.° Maittaire. Annales Typographici ab artis inventae origine ad annum MDL'VII, opera Michaelis Maittaire. Hageae Comitum, 1719-25 ; 5 vol., 4.0 Moroni. Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro fino ai nostri giorni, compilato dal cav. Gaetano Moroni romano...... In λ enezia, dalla lipogr. Antonelli MDCCCXL e seguenti, 8.° Musso. — Le diversità delle insegne ligustiche delineate da Giovanni Andrea Musso, MDCC. MS. esistente nell’Archivio di Stato in Genova. Niebuhr. _ Voyage en Arabie et en d’autres pays circonvoisins par Carsten Niebuhr. Amsterdam, 1774-80; 4 vol., 4.0 Orlandi. — Notizie degli scrittori bolognesi del P. Pellegrino Antonio Orlandi. Bologna, per Costantino Pisarri, MDCCXIV, 8.° Palgrave. — Narrative of a year’s journey trough centrai and eastern Arabia by. William Gifford Paigrave. London, Macmillian, 1866; 2 volumi, 8.° Percy Badger. — The travels of Lodovico di Varthema translated with a Preface by Iohn Winter Jones......and edited with notes and au Introduction by George Percy Badger etc. London, Printed by thè Hakluyt Society, MDCCCLXIII, 8.° Piaggio. — Monumenta Genuensia, voi. 7, f.° MS. esistente in Genova nella Biblioteca Civico-Beriana. Ramusio. — Navigationi et viaggi raccolti già da M. Gio. Battista Ramusio et con molti et vaghi discorsi da lui in molti luoghi dichiarati et illustrati. In Venetia, nella Stamperia dei Giunti, 1563-83-1606; voi. 3, f.° Raffles. — The History of Java by thè late Sir Thomas Raffles etc. London, John Murray, MDCCCXXX ; 2 vol., 8.° Santo Stefano Girolamo (da). — Lettera scritta da Tripoli (di Siria) 1’ anno 1499. In Ramusio, vol. I. * Sassetti. — Lettere edite ed inedite di Filippo Sassetti raccolte ed annotate per cura di Ettore Marcucci. Firenze, Le Monnier, 1855, i6.° Saulcy (de). ·— Catalogue de livres anciens et modernes sur la Terre Sainte et les Indes Orientales formant la riche collection de M. Fr. de Saulcy. Paris, Librairie Tross, 1872, 8.° GIORNALE LIGUSTICO 63 Siena (da). — Il viaggio alle Indie Orientali del P. Fr. Vincenzo Maria di Santa Caterina da Siena diviso in V libri. In Roma, nella Stamperia di Filippo Maria Mancini, 1672, 4.0 Simler. — Bibliotheca instituta et correcta primum a Conrado Gesnero deinde in Epitomen redacta per Josiam Simlerum etc. Tiguri , excudebat Christophorus Froschevenis, anno MDLXXX, 4.° Tiraboschi. — Storia della letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi. Milano, Tipogr. dei Classici Italiani, 8 t., vol. 16, 8.° Vambery A. — Viaggio di un falso Dervisch nell’ Asia Centrale da Teheran a Chiva, Bokkara e Samarkanda per il Gran Deserto truco-mano. Milano, Treves, 1853, 8.° Visconti. — Le rime di Vittoria Colonna con la vita della medesima scritta dal cav. Pietro Ercole Visconti. Roma, dalla Tipogr. Salviucci, 1840, 4.0 Winter Jones. — Vedi Percy Badger. Yule. — The Book of Ser Marco Polo, thè Venetian, concerning thè Kingdoms and marvels of thè East . . . ., by Colonel Henry Yule etc. London, Jhon Murray, 1875; 2 vol., 8.° gr. Zani. — Il Genio vagante, Biblioteca curiosa di cento e più relazioni di viaggi stranieri dei nostri tempi raccolti dal conte Valerio degli Anzi (anagramma di Zani). Parma, 1691-93; 4 vol., 12.0 64 GIORNALE LIGUSTICO Elenco delle èdi^ioni italiane dell’ Itinerario di Lodovico de Varthema, con le versioni nelle lingue latina, spaglinola, francese, olandese, tedesca ed inglese, con note bibliografico-critiche. Itinerario de Ludovico de Varthema Bolognese nello Egypto nella Surria nela Arabia deserta et felice nella Persia nella India et nella Ethiopia. -La fede : el vivere et costumi de tutte le prefate Provincie con Gratia et Privilegio infra notato. {In fine) Stampato in Roma per maestro Stephano Guillireti de Loreno et maestro Hercüle dè Nani Bolognese ad instantia de maestro Lodovico de Henricis de Corneto Vicentino. Nel Anno M.D.X. a di. VI. de Decembrio. 4.0. Segnatura A-BB per 4. meno A che è per 6. 100 carte numerate di 28 linee per pagina e 4 pagine senza numero, di cui una pel privilegio e tre per l’indice. Un esemplare di questa rarissima edizione, già posseduto dal defunto marchese Lodovico Conzati di Vicenza, trovasi oggi in quella Biblioteca Municipale, erede della pregiata libreria del generoso patrizio. — Altro esemplare trovasi nel British Museum (Winter Jones,· Preface). . Il Brunet cita il catalogo Hanrott, p. 4.”, num. 1166, che registra un esemplare di questa edizione al prezzo di Lire 187 italiane. Oggi la sua rarità e la sua importanza gli assicurano un prezzo assai superiore. Itinerario de Ludovico de Varthema Bolognese nello Egypto nella Suria: nella Arabia deserta et felice nella Persia nella India et nella Ethiopia La fede: el vivere et costumi de tutte le prefate provincie Cum privilegio. (In fine) Impresso in Roma per Mastro Stephano Guillireti De Lorenno Nel anno MD . xvij adi xvi. de Junio. Cum gratia et Privilegio del S. Signore N. S. Leone pp. X in suo anno quinto. Segn. Aij-Qvj. 132 carte non numerate a 24 linee per pagina; car. got. Non è esatto, come scrisse il Winter-Jones (Travels of Varthema, Preface IV), che sia conosciuto il solo esemplare esistente nel British Museum. Un esemplare di questa rarissima edizione faceva parte della libreria del de Saulcy a Parigi ; altro esemplare serbasi in Roma nella Biblioteca Vittorio Emanuele nel Collegio Romano che fu già dei Gesuiti. Brunet. — • Nel catalogo Roxburghe è segnata L. it. 293. 75. Nella vendita White GIORNALE LIGUSTICO é5 Knights salì a lire italiane 458. 75. In quella de Saulcy (Catalogue 1872) fu venduta per 80 franchi. Credo utile notare che la presente seconda edizione romana dell’ Itinerario porta in fine la data « Adì xvi de Junio mdxvii » mentre il Privilegio del cardinale Riario premesso al libro del Varthema appartiene all’ anno appresso « Die x Junii mdxviii ». Ora non mi sembra ammissibile che il Privilegio sia di un anno posteriore alla stampa del libro; perciò o 1’ una o 1’ altra delle due date è errata. Ma dai fatti che ho accennati intorno alla congiura del Petrucci si è veduto che il Riario il 4 giugno mdxvii venne chiuso in Castel Santangelo, donde non usciva fin dopo il 4 luglio seguente. Non poteva quindi il x giugno dello stesso anno metter fuori il Privilegio tanto più che, in pena della pretesa sua fellonia, era stato spogliato di tutte le dignità, uffici, giurisdizioni on-d’ era per lo innanzi investito. Poteva bensì datarsi il Privilegio « die X Junii mdviii » epoca in cui il Riario trovavasi rimesso in libertà e ricollocato in tutte le dignità ed uffici. Parmi quindi che la data erronea debba ritenersi quella posta in fine dell’ Itinerario; per cui dovrebbe correggersi « Adì xvi de Junio mdxviii. In tal modo il Privilegio premesso all’ Itinerario porterebbe la data dello stesso anno e di sei giorni soltanto anteriore a quello della stampa del libro, il che è ben naturale ed in armonia con le consuetudini. — E veramente pare ovvio che le date di licenze e di privilegi per stampar libri debbano precedere quelle indicanti la compiuta stampa deìle'opere, mentre da essi ricevevano la facoltà di comparire. Itinerario de Ludovico de Verthema Bolognese ne lo Egypto ecc. (In fine) Stampata in Venetia per Zorzi de’ Rusconi Milanese : Regnando linclito Principe Miser Leonardo Loredano : Della incarnatione del nostro Signore Jesu Xpo mdxvii . adi. vi. del Mese de Marzo p. in-4.0 Segn. Aii-M. 92 carte non numerate a due colonne, 3 carte per l’indice che occupa 4 pagine ; una figura in legno nel frontespizio. Un esemplare, mancante però del frontespizio, serbasi nella Biblioteca universitaria di Bologna: altra completa è nel British Museum (Winter Jones, Preface). Un esemplare è posseduto in Milano dal marchese G. D’Adda. Brunet. __ Nella vendita Walkenàér salì a 54 franchi. Itinerario de Ludovico de Varthema Bolognese ecc. (.In fine) Stampato in Venetia per Zorzi di Rusconi mdxviii adì xx del Mese de decembrio. 8.° a due colonne. Giorn. Ligustico, Anno V. 66 GIORNALE LIGUSTICO Segn. A-M per 8. meno M che ha 4 carte. Un esemplare ne possiede in Bologna il letterato Michelangelo Gualandi. Brunet. — Vendita Riva fr. 50. Itinerario de Ludovico de Verthema Bolognese ne lo Egypto ne la Suria ne la Arabia deserta ecc. ([In fine) Stampata in Milano per Joanne Angelo Scinzenzeler nel Anno del Signor mcccccxix. Adi ultimo de mazo. 4.0 Segn. aii-giii. car. tondi, 58 c. senza numero. È nel British Museum (Winter Jones, Preface). Itinerario de Ludovico de Uarthema bolognese ecc. (Infine) In Venezia per Zorzi di Rusconi Milanese nell’anno mdxx, adì in de Marzo, p. 4.0. È citata dal Molini (Operette ecc. 162, num. 192) e dal Boucher de la Richarderie (Bib. univ. des voyages). Degli eredi di Giorgio de’ Rusconi si citano le tre seguenti edizioni. Venetia, mdxxii a dì xvii. Setembrio. — Harrisse B. A. V. Venetia, mdxxvi. — Brunet. Venetia, mdlxxxix? È citata dal Boucher de la Richarderie (B. u. des voyages). Dubito della esistenza di quest’ ultima edizione. Itinerario de Ludovico de Verthema ne lo Egypto ecc. (In fine) Stampato in Milano per Joanne Angelo Scinzenzeler nel Anno del Signor mcccccxxiii adi xxx,de aprile. 4.0 caratteri tondi. Segn. Aii-Fii, carte numerate da 11 a xlii e due carte senza numerazione per gl’ indici. Un esemplare si conserva nel British Museum (Winter.Jones, Preface). Altro è in Roma nella Biblioteca Vittorio Emanuele. Nel frontispizio vedesi un ritratto dell’ autore (credo imaginario) in silografia. È in atto di scrivere sopra un globo terrestre vicino ad una nave. Brunet. — Vendita Gancia fr. 64 » Riva id; 72 » Libri id. 98 75. L’ esemplare Riva trovasi oggi in Milano nelle mani del marchese Girolamo D’Adda. Il Brunet afferma altresì di aver veduto un esemplare colla data del 1522? Il Ternaux Compans (Bib. Asiatique et Africaine) cita un’edizione dello Scinzenzeler del 1525, 4.0? GIORNALE LIGUSTICO 67 Itinerario de Ludovico de Varthema Bolognese nello Egitto nella Soria nella Arabia deserta et felice, nella Persia nella India et nella Ethiopia et al presente agiontovi alcune Isole novamente ritrovate. (In fine) Stampato in Vinezia per Francesco di Alessandro Bindone et Mapheo Pasini compani a Santo Moyse al segno de Langelo Raphael nel mdxxxv. del mese d’ Aprile. 8.° car. got. Sono 99 carte numerate, 4 senza numeri per il frontispizio e per l’indice. In una carta separata è la divisa in silografia rappresentante l’angelo Raffaello che conduce per mano il piccolo Tobia, un fanciulletto con un grosso pesce in mano. L’ angelo mena con la sinistra il cane di Tobia. In questa edizione dell’ Itinerario trovasi per la prima volta collocato in un’ appendice di 24 pagine « .... lo Itinerario de lisola Juchatan novamente retrovata per il Signor Joan de Grisalve Capitan Generale de Larmata del Re de Spagna et per il suo capellano composta ». Erra il Brunet affermando che la predetta appendice trovasi nelle edizioni 1520 e 1526 di Zorzi de’ Rusconi ed Eredi. Brunet. — Nel 1829 fu venduta per 20 fr. Quaritch. — (Catal. november 1876, p. 1137) Lire 210. Itinerario de Ludovico de Varthema Bolognese nello Egitto, nella Suria nella Arabia deserta et felice et nella Persia nella India et nella Ethiopia. La fede el vivere et costumi delle prefate Provincie. Et al presente agiontovi alcune Isole novamente trovate. (In fine) In Venetia per Matthio Pagan in Frezzada (Frezzaria) al segno del (?) Fede (s. d.). Nel frontispizio è un’incisione in legno, p. 8.° Segn. 100 carte numerate e 3 senza numeri contenenti l’indice. Il Gran ville pretendeva che l’edizione appartenesse all’anno 1518. A confutare questa indicazione basti 1’ osservare che la scoperta del Yucatan per opera di Juan Grijalva (al cui cappellano Juan Diaz appartiene la relazione posta dopo l'Itinerario del Varïhema) avvenne appunto nell’anno 1518 e quindi era materialmente impossibile, tenuto conto dei tempi, che potesse la storia di questa spedizione comparire per le stampe in Venezia nello stesso anno. Secondo Emanuele Cicogna (Saggio di Ubi. veneziana) il Pagano stampava in Venezia fra il 1554 e 1569; per cui la presente edizione dell’ Itinerario deve ritenersi posteriore a quella del Bindone e Pasini del 1535, che riproduce pagina per pagina. Un esemplare serbasi nel British Museum (Winter Jones, Preface VII-VIII) ; Altra in una libreria privata di Nuova Yorck (Harrisse, B. A. Vet.); una 68 GIORNALE LIGUSTICO terza era posseduta in Parigi dal de Saulcy e venne venduta nel 1872 per 800 fr. (De Saulcy, Catalogne, n. 56). Itinerario di M. Lodovico Barthema bolognese, (in) Ramusio Giambattista, Navigationi et Viaggi, I. 147. Le edizioni di detto I volume sono le seguenti: Venetia, Giunti 1550 f.° id. id. 1)54 f.° id. id. 1563 f.° id. id. 1606 f.° id. id. 1613 f.° Non conosco le due prime edizioni, ma nelle tre ultime trovasi Γ Itinerario del λ arthema con un discorso preliminare del Ramusio. Questi a quanto pare non conobbe 1’ edizione originale romana dell’ Itinerario (Roma, Guillireti 1510), poiché dichiara essersi servito della versione latina del Madrignano (Milano s. d., 1511?) per correggere la traduzione che egli fece dallo spagnuolo (Sevilla, Cromberger, 1520) che è appunto, come si vedrà innanzi, versione dal latino di Madrignano. Il Bekmann (Vorrath kleiner Bemerkungen etc., parte II, pag. 195) cita un edizione dell Itinerario in data di Venezia 1563 f.°, che prima di lui citava il Fantuzzi (Scr. Bol., I. 363). Ma credo prendano abbaglio o si riferiscano alla Raccolta del Ramusio, poiché in altre veneziane con questa data non mi avvenni mai, nò trovo citate da alcun bibliografo. Ludovici Patritii romani novum Itinerarium Ethiopiae: Egypti: utriusqne Arabiae: Persidis: Siriae: ac Indiae intra et extra Gangem latine redditum ab Archangelo Madrignano Monacho Clarevallensi. (In fine) Operi suprema manus imposita est auspitiis cultissimi celebra-tissimique Bernardini Carvajal hispani Episcopi Sabinensis S. R. E. Cardinalis cognomento Sanctae Crucis amplissimi: quo tempore quibus nunquam: antea bellis: Italia crudelem in modo vexabatur, (s. d.) p. f.° caratteri tondi. Segn. AA. A-Iv. 8 carte preliminari e lxii carte numerate a 36 linee per pagina. La lettera dedicatoria di Arcangelo Madrignano ò datata « Mediolani octavo calendis Juniis mdxi ». (25 maggio), perciò si può ritenere che il libro venisse stampato in Milano lo stesso anno. Brunet — 1821 Barond 151 fr. Heber 97, 50 lire it. Butsch 70 fiorini 18 kreutzer 1859 Libri lire italiane 157, 50. GIORNALE LIGUSTICO 6 9 De Saulcy 1872 (Cat. 56) 80 fr. Di questa edizione latina sono esemplari nel British Museum (Winter Jones, Preface IX-X); nelle biblioteche universitarie di Torino e di Bologna. Ternaux Compans cita un’edizione latina del 1508. Questa data mi si afferma esser ripetuta nella predetta edizione della Biblioteca universitaria bolognese. Non vi ha dubbio che sia un errore tipografico, poiché il Varthema non ritornò in Italia dai suoi viaggi che nel 1508 inoltrato , nè poteva quindi, anche volendolo, far stampare il suo Itinerario prima del 1509. Il Brunet ebbe fra mani un esemplare identico al descritto sopra, ma invece delle 8 carte preliminari 4 soltanto e mancante della lettera dedicatoria del Madrignano. Il titolo che era sormontato dalla divisa di « J. Jacono e frat. di Legnano » diceva in lettere capitali: Ludovici Patritii romani novum Itinerarium aethiopiae: aegipti: utriusque arabiae: persidis: Siriae: ac indiae: intra et extra gangetn. Ludovici romani Patritii navigationes Ethiopiae, Egypti, utriusque Arabiae, Persidis, Siriae ac Indiae intra et extra Gangem.....Archan- gelo Madrignano interprete, (in) Novus Orbis regionum ac insularum veteribus incognitarum Basileae apud Joannem Hervagium, 15 32- ^-° E una raccolta di viaggi compilata dal tedesco J. Luttich, edita da Simone Grineo pure tedesco. L’ Itinerario dei Varthema trovasi riprodotto anche nelle seguenti ristampe del Novus Orbis. — Novus Orbis.....(in fine). Impressum Parisiis apud Antonium Augerellum (Augerau) impensis Joannis Parvi (Petit) et Galeoti a Prato (Duprat). Anno mdxxxii. vm calend. Novembris. f.° — Novus Orbis......Argentinae 1534. — Novus Orbis......Basileae apud J. Hervagium 1537. f.° — Novus Orbis ....... Basileae 1555. Edizione citata dal Brunet. Altre due edizioni dell’ Itinerario sono citate dal Fantuzzi (Scrit. Boi., I. 363) e poscia dal Winter Jones (Preface): Augusta, Sigismondo Grima 1518, Nuremberg 1610, e Francfort 1611 4.0 Il Simler (Epitomen, p. S54) accenna, senza indicarne la data, una edizione che credo la latina dal Fantuzzi sovra citata con queste parole: « Sigismundus Grym impressit Augustae Vindelicorum (1518) ». Itinerario del venerable Varon Micer Luis patricio romano : en el qual cuenta mucha parte de la ethiopia Egypto: y entrambâs Arabias: Siria y la India. Buelto de latin en romance por Christoval de arcos clerigo. Nunca hasta aqui Impresso en lengua castellana. 70 GIORNALE LIGUSTICO (In fine) Fue impressa la presente obra en la muy noble y leal ciudad de Sevilla por Jacobo Cromberger aleman. Enel ano de la encarnacion del senor de Mill y quindentos y veynte. f.° car. got. Segn. aiii-gv. 54 carte numerate (ii-lv) a due colonne. Il Maittaire (Ann. Typogr., vol. II. 629 ) prendendo le parole spagnuole Varon Micer (che suonano in italiano barone, messere) per il cognome di Lodovico, fabbricò un fantastico viaggiatore Varonmicer ; questo equivoco del Maittaire trasse senza dubbio in errore anche il diligentissimo Harrisse (B. A. Vetustissima). Un esemplare di questa rara e pregiata edizione trovasi in Milano nella Biblioteca del marchese G. D’Adda. La predetta versione spagnuola venne ristampata in Sevilla, Cromberger, 1523 f.® car. got. Sevilla....... , 1576 f.° Il Ternaux Compans (Bibl. Asiat. et Afric.) cita un’ edizione di Sevilla 1570? L’Itinerario del Varthema voltato in francese trovasi inserito nel volume primo della « Description d’Afrique.....Escrite de notre tems par Jean Léon Africain.....à présent mis en français par Jean Temporal ». Lyon, Temporal, 1556, 2 v. f.° con silografie. La raccolta di Viaggi fatta da Giovanni Temporal non comprende soltanto, come il titolo farebbe supporre, viaggi in Africa, ma contiene altresi viaggi e navigazioni in Asia ed in America. Die Ritterlich and lobwirdig rayss des gestrengen und über all ander wegt erfarnen ritters und Lantfarers herren Ludowico Vartomans von Bolonia Sagent von dem landen Egypto Syria von bayden Arabia Persia India und Ethiopia von den gestalte sytem und den Menschen leben und gelauben. Auch von manigerlay thyeren wôglen und vii andern in den selben landen seltzamen wunderparlichen sachens. Das allés er selbs er-faren und in aygner person geschen hat. (In fine) Auss velfcher zungen in teytsch transferyert und schligklichen volend worden in der Kayserlichen stat Augspurg in Kostung und ver-legung des Ersamen Hausen Millers des jar zal Christi 1515. An dem sechzechen den Tag des Monatz Junij. 4.0 con molte silografie. Segn. aii-tiii — 76 carte senza numerazione. Una copia è nel British Museum (Winter Jones, Preface etc.). Brunet. — Vendita Heber (Parigi) 29 fr. 50. GIORNALE LIGUSTICO 71 Die Ritterlich und lobwürdig reisz des gestrengen und über all ander weyt erfarnen Ritters und landtfarers herren Ludowico Vartomans von Bolonia Sagend von den landen Egypto Syria von beiden Arabia Persia India und Ethiopia ecc. (In fine) Auss welscher zungen in Teutsch transfferiert. Und selighli-chen volendet unnd getruckt in des Keyserlichen Freistat Strassburg. Durck den Ersamen Johannera Knoblock, Als man zalt von der geburt Christi unsers herren mcccccxvi Jar. p. 4.0 Segn. Aii-Xv. 113 carte non numerate, caratteri gotici con molte silografie. Un esemplare serbasi nel British Museum, (Winter Jones, Preface etc.). Brunet. — Nella vendita Libri (1859) 25 1. it. Cat. Saulcy (1872), n. 444, venduta 35 fr. Die Ritterlich und Lobwürdig raiss des gestrengen and üben etc. Franckfurd......1517, p. 4.0 con molte silografie. È citata dal Brunet soltanto. Die Ritterliche und lobwirdig raiss des gestrengen and über all under weyt erfarnen ritters und landfarers herren Ludowico Vartomans von Bolonia ecc. (In fine) Gettrucht in der kaiserlichen stat Augspurg in der jar zal Christi mdxviii. p. 4.0 car. got. con 45 silografie. Esse sono copiate dalla precedente edizione di Strasburg 1516. La ristampa di Augsburg 1530, è riproduzione di quella del 1518. Panzer (Annalen der àlteren Deutschen literatur, p. 421) attribuisce la presente versione a Michele Herr ; ma prende abbaglio. A Michele Herr si deve la versione tedesca del 1534 del Novus Orhis, che comprende pure l’Itinerario del Varthema. Vedi innanzi. Brunet — Busch 9 fiorini. Cat. Saulcy (1872), n. 445, 30 fr. L’Itinerario di Varthema è inserito nella versione seguente del Novus Orhis fatta tedesco da Michele Herr. Die New Welt. Strasburg......1534 f.° Dalla lettera dedicatoria a Regnart Conte di Hanau si ricava che l’Herr condusse la versione dell’ Itinerario sul testo latino del Madrignano (Milano 1511). 72 GIORNALE LIGUSTICO Die ritterliche und lobwürdige Reisz des ... . Herrn Ludovico Var-tomans ecc. Franckfurd am Mayn, H. Gulferichen , 1548, p. 4.0 46, silografie. L· menzionata dal Ternaus Compans (Bibl. asiatique et africaine). Brunet cita una edizione di Francoforte 1547. Temo prenda abbaglio. Esemplare del Cat. Saulcy (1872), n. 446, 21 fr. Die ritterliche und Lobwirdige Reiss des gestrengen Ritter Herrn Lodovico Vartomiano (sic) von Bolonia welche von den Landen Egypten, Syria, Arabia, Persia ecc. Frankfurt: H. Gulferich i549. 4.0 con molte silografie. La trovo notata al prezzo di 60 lire nel « Lager Catalog » del Beer di Frankfurt « Geographie und Reisen » 1877, n- I944- Hodeporicon Indiae Orientalis ; das est Warhafftige Beschreibung der anselich Lobwürdigen Reyss, Welche der Edel gestreng und weiterfahrn Ritter H. Ludwig di Barthema von Bononien aus Italia bürtig inn die Orientalische und Morgenlànder Syrien ; beide Arabien, Persien und Indien ecc. Ailes von jhme H. Barthema selber in Italianischer Sprach schrifìtlich verfast und im aus dem Original mit sondern fleiss verdeut-scht : Mit Kupferstücken artlich geziert, und auffs new in Truck vor-fertiget : Durch Hieronimum Megiserum. Leipzig mdcx. 8.° con rami di H. Gross. Girolamo Megiser fu storiografo dell’ Elettore di Sassonia. Il Winter Jones (Preface XIII) accenna ad una seconda edizione di Lipsia del 1615. Una copia del 1610 è nel British Museum (Winter Jones, Preface XIII). L Itinerario trovasi pure inserito nella versione olandese del Novus Orbis fatta da Cornelis Ablijn. Antwerp, 1565. f.° L opera è dedicata dal traduttore a Guglielmo Principe di Orange. È versione assai libera. De uytnemende en seer wonderlijcke zee-en-LandÌ-Reyse vande Heer Ludowyck di Barthema, van Bononien, Ridder ecc. gedaen Inde Mor-genlanden, Syrien, Vrughtbaer en woest Arabien, Perssen, Indien, Egypten, Ethiopien en andere. Uyt het Italiens in Hoog-duyts vertaelt door Hieronymum Megiserium, Cheur Saxsen History Schrijver. En vyt den selven nee eerstmael in’t neder dreuyts gebracht door. F. S. Tot. Utrecht, 1654. 4.0 GIORNALE LIGUSTICO 73 Un esemplare è nel British Museum, (Winter J., Pr.). Mensel Jones (Bïbl. hist., v. II, p. I. 340) afferma che la precitata versione tedesca del Me-giser era stata voltata in olandese fin dal 1615. Ternaux Compans (Bill, asiatique et africaine) cita un’altra edizione olandese posteriore di un anno, Utrecht, W. Snellaert, 1655. 4.0 The navigation and vyages of Lewes Vertomannus Gentleman of thè Citie of Rome, to thè régions of Arabia, Egypte, Persia, Syria, Ethiopia and East India, both within and without thè river of Ganges ecc. In thè yeere of our Lorde 1503 ; conteynning many notable and strannge thinges both historicall and naturali. Translated out of Latine into Englishe by Richarde Eden. In thè yeare of our Lord 1577. 4.° Fa parte della Raccolta di viaggi pubblicata dall’Eden con questo titolo: « The History of Travayle in thè west and East Indies ». London, 1577· 4·° Un estratto assai compendioso dell’ Itinerario del Varthema venne da Samuele Purchas inserito nella celebre sua collezione di viaggi che porta il titolo : « His Pilgrimes » ecc. — London, Printed by William Stansby for Fethestone, 1625-46, 5 v. f.° The travels of Ludovico di Varthema in Egypt, Syria, Arabia deserta and Arabia felix, in Persia, India and Ethiopia. A. D. 1503 to 1508. translated from thè original italian édition of 1510, with a Preface by John Winter Jones Esq. F. S. A. and edited with notes and an Introduction by George Percy Badger, Late Governement Chaplain in thè Presidency of Bombay Author of « thè Nestorians and their rituals » ecc. with a Map. London, Printed for thè Hakluyt Society, mdccclxiii. 8.° cxxi-320. Buona versione dell’ Itinerario fatta dal Winter Jones sul testo originale del MDX (Roma, Guillireti). Il Percy Badger l’illustrò con eruditi ed opportuni commenti. 74 GIORNALE LIGUSTICO SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA (Continuazione da pag. 472 del volume IV) XXI. Sezione di Archeologia. Tornata del 22 Giugno 1877. Presidenza del Preside can. prof. Angelo Sanguineti. Il socio Desimoni legge una Memoria intorno ai viaggi dei fratelli Zeno al settentrione d’Europa, tra la fine del secolo XIV e il principio del seguente. Dopo aver notato le molte e gravi dispute insorte tra i dotti sulla veracità del racconto di questi viaggi, fatto da un discendente di essi Zeno, soggiunge che tuttavia era già stata dimostrata in gran parte Γ identità dei nomi di luoghi ivi ricordati con quelli delle carte odierne; ma che questa identità, ed in generale tutta la veracità della narrazione, fu recentemente posta fuor d’ogni dubbio dall’illustre inglese Riccardo Major conservatore della parte geografica nel Museo Britannico. Il Disserente porge un’ idea delle quistioni come sovra dibattute, e del modo felice come furono sciolte dal lodato inglese. Segue Nicolò Zeno di Venezia, che dopo aver presa parte alla celebre guerra di Chioggia contro i genovesi, s imbarca per le Fiandre e l’Inghilterra verso il 1390, ma da fiera tempesta è trabalzato alle isole Faroe. Ivi trova il Conte di quelle regioni, Enrico Sinclair, che lo accoglie cortesemente, e sperimentandone la maestrìa marittima, lo pone a capo delle sue spedizioni dirette a liberarsi da consanguinei rivali e a fare scoperte lontane. Nicolo Zeno chiama dalla patria il fratello Antonio, ed entrambi perlustrano le isole Scetland e la capitale delle Orcadi; indi girati que’ gruppi insulari s’innalzano alla Groenlandia. Al ritorno, Nicolò muore alle Faroe dopo quattro anni di soggiorno in quelle regioni. GIORNALE LIGUSTICO 75 Antonio rimane ancora dieci anni colà, dopo i quali il conte Sinclair gli permette di tornare in patria verso il 1405-6. Durante quel decennio Antonio avea non solo continuata la navigazione per quel mare, ma, sulle indicazioni di un vecchio pescatore, tentata la via alla scoperta di terre lontane verso ponente, che sarebbero probabilmente l’isola di Terranuova e la costa vicina dell’America settentrionale. Una tempesta sopraggiunta impedì la continuazione di tale viaggio di scoperta ed obbligò lo Zeno al ritorno, passando presso un’isola Icarìa (che il Major suppone sia Kerry d’Irlanda) , di là volgendo a tramontana e rivedendo la Groenlandia. XXII. Assemblea Generale. Tornata del i.°. Luglio 1877. Presidenza del Presidente comm. Antonio Crocco. Si procede alla nomina di vari soci effettivi; e si comunicano le proposte per altri di pari grado, sulle quali, a norma dello Statuto, avrà luogo la votazione nella tornata ventura. Si presenta 1’ elenco di oltre ottanta opere e pubblicazioni periodiche, pervenute in dono o in cambio nel primo semestre dell’ anno corrente alla Società od alla Direzione del Giornale. Ligustico, e da quest’ ultima donate a sua volta alla Società medesima. L’ Assemblea demanda inoltre al Presidente la nomina della Commissione, che dovrà riferire sulle proposte di nuovi soci onorari e corrispondenti. GIORNALE LIGUSTICO VARIETÀ Transunti di alcuni memoriali presentati da Liguri al Papa ed al Governatore di Roma nel secolo XVII. — Dall' Archivio di Stato in Roma. I. (Senza data). Isabella Saull vedova, con nove figliuoli maschi, espone al Papa che Gio. Tomaso e Gio. Paolo Invrea, accompagnati da circa 80 uomini armati, fecero prigione in chiesa suo marito Gerolamo Sauli, ed avendogli imposto un grosso riscatto, che non si potè sborsare, Γ ammazzarono. Ruppero finestre e porte della chiesa, uccisero un servitore, ferirono due altri pure in chiesa, la quale saccheggiarono. Non avendo la supplicante potuto ottenere giustizia in Genova, ed i suddetti Invrea macchinando di più contro la vita di lei e de’ suoi figli, fu ella costretta di abbandonare la patria e venire a prostrarsi ai piedi di S. S. Il Papa avendo già ordinato all’Arcivescovo di Genova di far carcerare gli Invrea, come fu fatto, la vedova supplica che vengano tratti a Roma e qui processati. Il Papa passò il memoriale al Governatore senza alcuna osservazione. II. (S. d.). Il prete Guglielmo Raineri della diocesi d’ Albenga, avendo procurato 1 assoluzione di alcuni rei inquisiti della corte episcopale d’Albenga, fu bandito dalla diocesi. Ricorse al Papa che commise la causa al Governatore di Roma, il quale ridusse il bando dalla sola città di Albenga. Nel 1604 otteneva la cessazione dello stesso, purché avesse il perdono dal vescovo di Albenga ; ma questo persistendo a negarlo, benché il bando fosse già per 10 anni, Don Raineri ricorre al Papa per ottenere la detta detta cessazione anche senza il perdono vescovile. Il Papa passò la supplica al Governatore senza pronunziarsi. III. (1610). Il capitano Gio. Battista Riccio genovese, i! quale ha servito con « condutta de’ Corsi tutto il pontificato di Papa Clemente e nelli rumori di \renezia e si offerse a S. Beatitudine con 1000 soldati senza alcuna imprestanza », espone che per una rissa avuta alcuni anni passati con il capitano Domenico di Ornano corso, ebbe l’esilio da Roma per tre anni e poi finche avesse avuto la pace. Essendo scorsi quasi cinque anni GIORNALE LIGUSTICO 77 e non mai avendo potuto ottener detta pace, benché cardinali e gentiluomini abbiano procurato di ottenergliela, ed essendo per suoi demeriti detto capitano a sua volta bandito, supplica per aver rimessione dell’esilio e poter ritornare a Roma ove intende finire i suoi dì. Il memoriale fu passato semplicemente al Governatore. IV. CSenza data). Il capitano Claudio Liceti genovese, che ha servito S. S. nell’ armata navale sotto il comando dell’ Ecc.m° signor Principe Ludovisi qual ingegnere, e nel campo di Toscanella qual capitano di artiglieria, espone al Governatore di Roma che fu minacciato di due sçhiaffi da certo Erasmo Ballada e domanda perciò una prudente correzione allo stesso. Il Governatore ingiunse al suo notaro di riparlargliene. V. (1669). Gio. Battista Orerò, Salvatore Giacinto Savignone e Antonio Maria Grimaldi, turchi fatti cristiani, espongono a S. S. Clemente IX che essendo schiavi di padroni omonimi genovesi, ai quali servirono per molti anni, per liberarsi dalla dura servitù erano fuggiti riparando a Roma ad acclamare la libertà nel Campidoglio. Per mancanza di ricapiti, prima di poter riuscire nel loro scopo furono catturati dal Governatore di Roma, ad istanza dei loro padroni. Avendo udito che S. S. aveva approvato che venissero restituiti, supplicano il Papa di loro permettere di restituire ai padroni il prezzo della loro compera ed aver così la libertà. Fanno presenti i pericoli sfuggiti nel lungo viaggio, e il timore di essere puniti con la galera o dì esser condannati alla galera o alla morte se restituiti, onde il loro castigo serva di esempio in Genova ad altri schiavi che intendessero fuggire. Il Papa, trasmettendo il memoriale al Governatore , gl’ ingiungeva di parlargliene in ordine alla sicurezza dei supplicanti. Il nobile Grimaldi, 1’ Orerò ed il Savignone genovesi, tutti tre con speciale memoriale al Papa, domandano 1’ estradizione e restituzione dei loro schiavi; e l’ottengono. VI. (1669). Giuseppe Grimaldi nobile genovese espone a S. S., che i tre schiavi stati restituiti con obbligo ai padroni di non maltrattarli nè venderli in galera sotto pena di 200 scudi, salvo nuova cagione, presero tanto 78 GIORNALE LIGUSTICO ardire da non voler più faticare, e per di più diventarono insolenti contro i loro padroni. Fu perciò costretto «di porre il suo schiavo in custodia nel nuovo Albergo di Carbonara, luogo pio dove si mantengono moltissimi poveri. Quello dell’Orerò, che è fratello dello schiavo su accennato, andò ad istigarlo a fuggire di là, così che il Savignone dovette farlo porre alla catena. Quando incatenati ricorsero a Roma per avere i 200 scudi, credendo la multa spettare a loro, ciò fecero a consiglio della madre pure schiava dell’ Orerò. Infatti venne ordine dal Papa al Savignone di pagare la multa, che sborsò. Un nipote del Savignone credendo che l’Orero non fosse estraneo a tale condanna, per vendicare il zio uccise esso Orerò. Intanto lo schiavo fu liberato secondo il desiderio del Papa. Il Grimaldi, venendo al suo schiavo, nota che diportandbsi come gli altri due, acciocché non fosse di malo esempio a sette altri schiavi che teneva, risolse di mandarlo a Cadice per venderlo a mezzo di Stefano Pallavicino. Giunto colà, lo schiavo per non esser comprato diceva a tutti che egli non era buono a nulla ; così che dovette essere ricondotto a Genova. Qui insolentendo più che mai, (u costretto il Grimaldi a metterlo nelle pubbliche prigioni; e perciò ricorre al Papa per avere il permesso di venderlo in galera. Crede che il timore di esser venduto in tal modo possa farlo ritornare docile e servizievole. Negando questa grazia, si pregiudicherebbe « 1’ avvenire ad un gran numero d' anime infedeli, perchè essendosi in Genova fatto assai famigliare l’uso degli schiavi, delli quali se ne servono non solo li nobili ma anco li cittadini ordinari, al presente ve ne sono in buon numero, ed ognuno per la solita pietà della natione procura di ridurli alla fede cattolica »; Gli schiavi fuggirebbero ritornando alla religione maomettana, e non si farebbero più compere. Il Papa, a di g ottobre 1669, risolse di far scrivere all’Arcivescovo di Genova pro informatione et voto. (2 novembre 1669). L’Arcivescovo di Genova risponde al Governatore di Roma esser vero quanto scrisse il Grimaldi nel memoriale comunicatogli; ma non si pronuncia, nè dà alcun voto. Pare pertanto che da Roma siasi accordato il permesso di vendere lo schiavo ribelle, non trovandosi ulteriore cenno di questo affare. A. Bertolotti. GIORNALE LIGUSTICO 79 ANNUNZI BIBLIOGRAFICI La Prise d’Alexandrie, on Chronique du Roi Pierre I." de Lusignan, par Guillaume Machaut, publiée pour la première fois pour la Société de l’Orient Latin par M. L. De Mas Latrie. Geneve, Impr. Jules-Guillaume Fick 1877. Un vol. in 8.vo Con questo volume la benemerita Società dell’ Oriente Latino ha iniziata la serie storica delle sue pubblicazioni; e noi vorremmo darne minuta contezza, se i brevi confini del Giornale Ligustico non fossero di ostacolo alla effettuazione di questo e d’ altri nostri desiderii. La Prise d'Alexandrie è un poema che consta di 8887 versi. Il eh. editore esponendo nella Prefazione la storia di sì fatto componimento, ricerca le fonti donde il Machaut attinse le notizie, e per conseguenza esamina quale sia il grado di probabilità che meritano le diverse parti del-Γ opera; infine tesse una rassegna dei diversi esemplari manoscritti che dell’opera medesima si conoscono. La quale, considerata sotto l’aspetto storico, è una cronaca rimata in cui si descrive il più memorabile avvenimento del regno di Pietro I di Lusignano ; mentre riguardo al suo autore è da ritenere come il più considerevole de’ lavori cui egli pose mano, essendo un monumento della più alta importanza non solo per la storia dell’isola di Cipro, ma per quella dell’Oriente Latino. Il valore letterario del poema deve dirsi appena mediocre; ma non è da tacere che il Machaut lo scrisse varcati già gli ottanta anni (poco dopo il 1369): ce qui ferà excuser, au bèsoin, les lenteurs du récit. L’autore infatti dovette esser nato fra il 1282 e il 1284. Molti scrissero della vita e delle opere di lui, chè fu anche musicista di molta fama, ed uomo di corte e di governo; però al Mas Latrie non pure che alcuno abbia approfondito Γ argomento con diligenza bastevole, rimanendo tuttavia da consultare i numerosi documenti, che lo concernono, nell’Archivio Nazionale in Parigi. L’ epoca della morte del Machaut si assegna generalmente al 1377- II eh. Mas Latrie ha inoltre illustrato il poema con parecchie note diligenti, e compilata eziandio una Tavola cronologica degli avvenimenti celebrati nel medesimo : il che torna di un grande sussidio alle ricerche. Viene ultimo un copioso indice alfabetico delle materie. Per dare un saggio del lavoro del Machaut e radunare insieme i ricordi storici genovesi che vi s’incontrano, riferiamo qui i brani seguenti. So GIORNALE LIGUSTICO Nel 1365 avendo i veneziani promesso di noleggiare al re Pietro alcuni loro legni, il poeta cosi scrive (pag. 49): Li roys les merda moult fort De leur aide et de leur offre, Qui vaut d’or fin tout plain un coffre, Voire pai' Dieu X. millions ; Car il n’est mie ne1 li homs Qui miens li peüst recouvrer. Je ne di pas que Genevois ΛΓaient la buée et la vois , Et très grant puissance seur mer, Ho là! je n’en veuil nuls hlasmer! Car comparisons bayneuses. Sont, ce dit on, et perilleuses. Altrove racconta gli odiosi progetti formati dall’ emiro Yelboga e da un rinnegato genovese chiamato Nassardin, per far abortire le trattative iniziate dagli ambasciatori del re Pietro col Sultano d’Egitto (pag. 180 e segg.): Au Caire avoit un amirai, Vuit de tout bien, plein de tout mal, Irbouga estoit appeleζ, C’est Yeux de buef en droit franfois. Et si avoit un genevois Qui deùst or estre noie\, Car faus estoit et renoie\; Devenus estoit Sarrasins, Et s’avoit a nom Nassardins. Amir aus et gratis druguement Estoit dou soudan. Et briefment Ces ij. avoient entrepris A destruire le roy de pris Qui de Cbipre a la signourie. Ma alfine Yelboga pagò con la vita il fio delle proprie scelleratezze: Et se Nassardin à la feste Heust esté, il fust sans teste, Car eschape{ ne fust à piece Qu’il ne fust taille1 piece à piece. Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO 8l NOTIZIE SOPRA VARIE OPERE DI FRA BARTOLOMMEO DA S. MARCO I. Disegni di Fra Bartolommeo. Gli studi in disegno dei grandi dipintori sono agli intelligenti d’ arte cari quanto le loro opere colorite. Da essi siamo posti più intimamente in contatto con que’ valentuomini, che non dai quadri interamente condotti ; veniamo quasi a sorprenderli nel segreto delle loro officine, ad assistere allo svolgersi dei loro concepimenti, ai vari modi tenuti per preparare 1’ esecuzione delle loro opere. Molti poi di essi hanno avuto nel segnare le proprie invenzioni tanto garbo e valentia , che talvolta verrebbe fatto di preferire que’ primi concepimenti od embrioni dell’ opere, ali’ opere stesse. Fra costoro, uno per fermo con cui pochi rivaleggiano , è Frate Bartolommeo da S. Marco. De’ suoi disegni altri condusse a matita rossa , altri a matita nera, alcuni a brace , e moltissimi, ed i più belli, a penna con inchiostro ; dei quali, oltre agli sciolti, ne rimasero alia sua morte dodici libretti. Usò eseguirli di piccolissime dimensioni, ed all’ espressione, vivacissima, e alla correzione del disegno, congiungono un’eleganza di mano veramente incantevole. Si vede in essi con quanto graziosa imagine se gli presentassero sin dal bel principio alla fantasia le figure che egli voleva porre ne’ suoi quadri, e come compiute del tutto, non solo pei movimenti, ma in tutti i particolari loro, nelle fogge dei panni e nei più minuziosi svolgimenti di questi; talché si è certi che per molte delle sue opere egli non dovè far che retare e tradurre in grande quei piccoli disegni, condotti col solo aiuto di Giosn. Ligustico, Anno V. 6 82 GIORNALE LIGUSTICO un’ imaginazione vivace, di una forte ritentiva del vero , e di un gusto squisito. Nè sempre però la gentile imagine concepita nella mente, si estrinsecava perfetta alla prima nella grafica rappresentazione ; ed allora egli tornava accanto al primo disegno a tracciarne un altro con lievi modificazioni, e talvolta altro ancora, cercando ne1 successivi correggere il primo in quelle parti ove la mano non aveva potuto riprodurre compiuta-mente il concetto. Si attribuisce al Porta Γ invenzione dell’ uomo di legno (che ha ormai in arte il nome di manichino) per disporvi i panni e ritrarli con più comodità che non si possa sul modello vivente ; e può essere, sebbene mi sia sempre parso che anche Leonardo dovesse giovarsi d’ alcun che di simile per condurre d’acquerello certi studi di pieghe, così finiti, e lumeggiati con tal diligenza, che non sarebbe possibile ne avesse avuto il tempo sul vivo. Quello però che nel considerare i disegni di Fra Bartolommeo sembra apparire con evidenza, si è, che egli non già studiasse sul manichino i partiti dei panni, ma dovesse giovarsene solo -per lo studio di certe accidentalità di essi, e ad averne innanzi agli occhi le degradazioni dei toni mentre dipingeva (la qual cosa chi ben rifletta , suonano pure le parole del Vasari) ; e che i partiti dei panni ed il modo del piegare egli togliesse quasi sempre dalla fantasia, nutrita dall’ acuta osservazione del vero. Aggiunge a tal persuasione il modo dello svolgersi di quelli, bellissimo sempre e verosimile, ma troppo difficile ad aversi eguale dal vero ; e il considerare che dei panni che egli avvolge intorno a’ Suoi personaggi con tanto garbo, quasi mai si potrebbe determinare con esattezza la forma. Nell’ inventario poi dei disegni e masserizie lasciate dal Frate (che poniamo in luce unitamente ad altre memorie comunicateci da gentile amico) , due modelli di legno si trova GIORNALE LIGUSTICO 83 che avesse ; uno piccolo dell’ altezza di un braccio , e 1’ altro grande al naturale ; il quale era voce fosse appartenuto a Mariotto Albertinelli ; ma è però vero che questi poteva averlo avuto dall’ amico , quando entrando in monastero gli abbandonò le robe sue. Passarono poi a Fra Paolino da Pistoia, come si rileva da altro inventario degli oggetti di cui fu questi accomodato; laonde il Vasari che- asseverava ritener presso di sè il modello di Fra Bartolommeo, sebbene intarlato·, per memoria del Frate, non potè averlo che dopo la morte di Fra Paolino, non essendo supponibile che questi cedesse ad altri un utensile che aveva recato molto utile al maestro, e poteva molto recarne a lui nell’ esercizio del-l’arte. Rilevasi dall’ inventario citato, come delle teste di uomini e donne conducesse Fra Bartolommeo separati studi, e questi sicuramente dal vivo; e centinaia di varie fogge ne lasciò. Se allo zelo poi del Savonarola sacrificò negli· anni primi (al dir del Vasari) tutto lo studio dei disegni che egli aveva fatto degli ignudi, non dismise per altro di adoperarsi intorno a quello, tornato che fu all’ arte ; nè avrebbe certo potuto altrimenti riescire a sì alto fine ; e di tali studi d’i-gnudi passarono a Fra Paolino ben 109 carte. Aiutavasi poi anche dei gessi per ottener rilievo ed evidenza; e di questi n’ aveva di gettati sul vivo e sull’ antico ; essendosi trovati 73 pezzi fra teste, piedi e torsi, dèi quali si giovava naturalmente anche per Γ istruzione degli alunni. Pei putti volanti poi, nei quali sì ammirabile si rese per la leggiadria delle torme e dei movimenti, e per la perizia mirabile degli scorti, adoperava modelletti di cera, ritraendoli in varie attitudini, per averne con verità il disegno ed il chiaroscuro; e 22 ne lasciava, oltre a tre putti di gesso formati sulle migliori opere degli scultori contemporanei. Come fosse studiosissimo di ogni cosa naturale, lo mostrano i non pochi paesaggi eseguiti in colori da lui lasciati, 84 GIORNALE LIGUSTICO e più che 106 carte di questi segnati di penna, nonché 19 tavole di studi d’ animali. Si duole il ch. P. Marchese che a Fra Bartolommeo giovinetto, toccasse avere a maestro il Rosselli anziché il Ghirlandaio più valente nel disegno e nel colorito, e alla cui scuola avrebbe avuto compagno Michelangelo, che tanto grido doveva levar di se (1). Ma il fatto dimostra che non essendovi in allora divergenze sul modo di insegnar Γ arte, e tutti i maestri avendo in mira egualmente di condurre il giovine con semplicità di metodi a ritrar dal vero , anche Γ insegnamento del Rosselli fu valevole a dargli buon avviamento ; e i principii ricevuti potè svolgere e perfezionare ben presto di per se prendendo a guida i migliori esempi che gli si paravano innanzi e che si affacevano al suo sentire, e specialmente le cose del Vinci ; dello studio delle quali fece in poco tempo tal frutto, al dir del Vasari, che s’ acquistò riputazione e credito d’ uno dei migliori giovani dell’ arte, sì nel colorito come nel disegno. Che poi Fra Bartolommeo seguisse la propria natura, tendente al gentile ed all’ affettuoso, anziché sforzarla come poteva avvenire per la troppa dimestichezza col Buonarroti, reputo non debba dolerne ; nè sia da lodare di aver ciò fatto in alcune opere dell’ ultimo periodo di sua vita , appunto per introdurre nella sua maniera alquanto del gigantesco e del fiero di quegli ; il che fa, che tali opere ritengano meno che 1’ altre di quelle egregie qualità che sono proprie di lui. Ed in ciò daltronde conviene pienamente il P. Marchese. La massima di Leonardo, che mai debba Γ artista imitare la maniera di un altro è massima di infinita sapienza, e a tacer dei minori ingegni, meno piacevoli e grandi mi sembrano apparire Fra Bartolommeo e lo stesso Urbinate, lad- (1) Marchese, Memorie dei più insigni Pittori, Scultori e Architetti Domenicani. Firenze, Le Monnier; II, 12. GIORNALE LIGUSTICO 85 dove danno manifestamente a diveder nelle opere, d’ essersi allontanati dal proprio modo di sentire, per avvicinarsi a quello del terribile fiorentino. L’ animo mite e gentile che li porta alla grazia, non cape gl’ impeti del Michelangelesco furore , che tutto atterra quanto ha visto sino allora arte e natura; e realizzando coi colori e coi marmi un fiero concetto della fantasia, del continuo giganteggia ■ con imagini artificiose, che i contemporanei ed i posteri attoniti di tanto possente ardimento chiamaron sublimi. Ad essi, sacerdoti di una casta e naturale bellezza, non è dato accostarsi senza pericolo di smarrire se stessi, a quel-Γ indomito che non conosce ripari, e la natura a se, non se" alla natura sommette. I gentili fiori che sbocciavano sotto la loro mano perderanno il delizioso profumo, ed essi non saranno più sè interamente, e non lui. Nè lui per animo e per studio idoleggiante il tragrande ed il forte, avrebbe forse potuto seguirli con egual gloria nel cammino della grazia, nè lo tentò; che ad un solo artista, 1’ Alighieri, fu data finora tal tempra d’ingegno , da giungere con pari fortuna a scolpir fieramente le gigantesche e paurose ombre d’ averno, e dipingere di soavità le irradiate imagini del paradiso. Ma tornando ai disegni, morto Fra Bartolommeo passarono , come s’ è detto, con tutti gli arnesi d’ arte nelle mani di Fra Paolino, che buon profitto ne trasse pei suoi quadri, talché spesso può dirsi non abbia fatto che colorare le invenzioni del maestro. Fra Paolino ne fe’ dono innanzi di terminar la vita alla pittrice Domenicana, e forse sua allieva, Suor Plautilla Nelli; dalla quale furono usufruiti come meglio poteva, e lasciati poi ad uso delle monache sue scolare, Suor Prudenza Cambi, Suor Agata Traballesi, Suor Maria Ruggeri e Suor Veronica. Sembra però che le alunne di Suor Plautilla, che furono molto deboli artiste, poco conto facessero dei tesori che pos- 86 GIORNALE LIGUSTICO sedevano; talché dicesi ne adoperassero parecchi per accendere il fuoco (i), finché taluno più intelligente, che à gran fortuna li vide, salvò dalle costoro mani quelli che rimanevano. Ne furono venduti parte al Granduca di Toscana, e di questo numero sono i cartoni bellissimi che possiede la Galleria dell’ Accademia Fiorentina e le 72 carte che appartengono alla collezione dei disegni nella Galleria degli Uffizi. Altri molti passarono in Inghilterra e ne possiede due volumi la raccolta di Sir Thomas Lawence; parecchi se ne vedono nella Pinacoteca di Modena, taluno in altre private collezioni. • Nel 1854, la signora Contessa Caterina Ottolini-Balbani di Lucca facendo dare assetto ad un antico banco , vi rinvenne una cartelletta con entro 31 piccole .carte di disegni, la massima parte in penna; che veduti da intelligenti d’ arte furono tosto giudicati del Della Porta. E di questi mi accingo a dare un’ esatta descrizione, non essendo fin qui stato fatto , perchè possano giovarsene gli studiosi delle cose artistiche. Donde provenissero alla famiglia Ottolini tali disegni, non è certo, non conservandosene da essa memoria alcuna ; che vari di essi abbiano appartenuto ad alcuno dei 12 libretti notati nell’ inventario, sembra provarlo e la egual grandezza delle carte, e il portare un piccolo numero all’ angolo superiore di carattere e inchiostro del tempo, come se veramente fossero tolte da un libro. Che sieno passati per mani di persone ignoranti del loro pregio prima d’esser riposti nella cartelletta ove furon trovati, lo dimostra 1’ essere alcune di quelle carte intagliate con forbici secondo la sagoma del disegno che contengono, ed i tentativi fatti di condurne a penna le figure che erano solo accennate di matita. La più probabile ipotesi mi sembra quella che provengano (1) Vasari, voi. VII, pag. 168. Firenze, Le Monnier. GIORNALE LIGUSTICO 87 dal Monastero delle Domenicane di Lucca. Dalle suore pure di questo Monastero esercitava'si la pittura, e non è però fuor di ragione che dalle eredi di Suor Plautilla fosse fatto parte alle consorelle di Lucca dei disegni rimasti loro. Nel Convento poi di S. Domenico , poche erano le nobili famiglie lucchesi che non avessero vestito monache una o più loro parenti, e nulla di più facile del passaggio, per donativo o per compra , di quei disegni in una delle tre case dei Santini, dei Balbani o degli Ottolini, la eredità delle quali venne a riunirsi nella presente famiglia dei Conti Ottolini. Quella , dei Santini specialmente fu splendida casa, e di cose d’ arte industriosa raccoglitrice ; ed oltre a molti quadri ed anticaglie , Paolino ultimo di essa aveva raccolto circa 30,000 stampe, che andarono vendute all’ estero noi viventi. Comunque sia, vediamo ora ciò che si contiene in quelle carte preziose. Carta N. i. — Studio per una Annunziata. — L’Angelo che vedesi quasi di profilo è genuflesso dinanzi a Maria, e tiene il destro braccio alzato ed alzata la mano sollevando 1’ indice. Nella manca che preme sul petto regge un giglio, appena indicato con fino tratto di penna. Gli fascia i lunghi capelli una leggiera benda; è rivestito di tunica succinta a ricchissime pieghe ; porta larghe maniche svolazzanti sotto cui una lieve sottomanica che fascia il braccio. L’ esecuzione è di grande finezza. La Vergine rimpetto ad esso è pur genuflessa, ma questa figura è solo accennata con leggiero segno di matita nera ; lascia nondimeno vedere che era ideata coperta di amplissimo panno. Una mano affatto imperita ha tentato dintornarne in penna il profilo^ della testa. Nella medesima faccia della carta, ma dall’ altro lato, vedesi studiato di nuovo lo stesso soggetto. Qui però 1’ angelo è in piedi, tenendo la testa ed il corpo per. riverenza inclinati ed ambedue le mani conserte sul petto. Ha lunga capellatura anellata, e ricco e abbondante il vestimento composto di tunica e sopravvesta succinta, che dà luogo a belle e svariatissime pieghe. Gentili manichette gli serrano le braccia e sovra esse ' ampia manica svolazzante. Con leggieri segni sono indicate le grandi ali ed il giglio che tiene con la destra. In questo studio parimente, la figura della Vergine è solo accennata con matita, e la medesima .mano imperita ha osato delinearne il volto con la penna. 88 GIORNALE LIGUSTICO Tergo. \ eduia di un castello ricco di caseggiati e di chiese, con torri munite delle loro campane. È accennata con segno leggerissimo. Carta N. 2. Studio per una Deposizione di croce — Il Cristo adagiato sul suolo è sostenuto alquanto elevato col dorso dal diletto discepolo Giovanni, genuflesso, e genuflessa pure è l’una delle pietose donne che gli sta a lato, levando la testa al cielo. Gli sta contro l’addolorata madre in lui fissa, e ne tiene una delle mani stretta in ambo le sue portandosela alle labbra per coprirla di baci. Ha avvolta la persona in ampio manto che le scende dal capo , e che spande i suoi lembi sul terreno. Prostrata e col volto abbandonato sui piedi del Redentore vedesi Maria Maddalena, la cui persona resta metà nascosta da quella della Vergine. Il movimento ne è il medesimo che adottò pel soggetto stesso nella tavola che è a’ Pitti. Un uomo coperto .di ricco manto e con cappello in testa a larga falda, sta dritto in attitudine di dolore presso il dolente gruppo, e forse è Giuseppe d’ Arimatea. Dietro ’ vedonsi indicate due figure in atto di preparare gli aromi per la sepoltura. Il fondo presenta la grotta in cui'è scavato il selpolcro, circondata da grandi alberi e lontano vedesi Gerusalemme. Sull’ estremità destra della carta è altro studio della Vergine nella attitudine stessa, ma col panno disposto in modo alquanto variato. Ter&o. Sacra Famiglia. La Vergine Madre piegata sulle ginocchia sostiene con affetto il suo pargolo, che si sporge e si abbassa con vezzosissimo atto per abbracciare il fanciulletto Giovanni, il quale gli vieqe presentato da un angelo genuflesso. Dietro ad essi sta in piedi Giuseppe contemplando con compiacenza l’affettuosa scena. Dietro la ^ ergine è un altro angelo in piedi, rivestito di ricca tunica e con grandi ’ sorregge fra le braccia un bambino; ed è forse una variante per tentare in altro modo lo stesso soggetto. Più indietro ancora, un altro angelo appena delineato. Carta N. ■>. Sacra Famiglia. — La Vergine è in piedi e sorregge il figliuolo passandogli la mano al di sotto della coscia. Egli si inchina verso il fanciullo Giovanni che sta ai piedi della Vergine e si attiene al panno di lei. È disegno finitissimo e specialmente il panneggiamento della Madonna. Dal lato destro della composizione veggonsi leggermente schizzati due putti interamente nudi,,che discorrono fra loro, e sono forse un tentativo per arricchire la composizione di due angioletti. Tergo. — Ripete il medesimo soggetto, ma il movimento della Vergine e qui molto più affettuoso, ed il putto si stringe al seno di lei ponendole con vezzo infantile una gambina sul braccio. Il S. Giovanni, che GIORNALE LIGUSTICO 89 è appena accennato, si drizza sulle estremità dei piedi per avere esso pure la sua parte delle affettuose carezze. Qui ancora è condotto ton la massima cura il panno della Vergine; una mano imperita ha schizzato un putto dal lato sinistro della scena. Carta N. 4. — Angelo genuflesso con un putto. — È altro studio per la composizione descritta alla Carta 2, tergo. L’ angelo che vedesi di profilo tiene a terra il sinistro ginocchio e sul destro sorregge il bambinello S. Giovanni che stringendo nell’ una mano una crocellina fa atto di slanciarsi verso alcuno. Ricchissimo il piegare dell’ abito che fascia 1’ angelo , arrovesciato e ripreso sul fianco, e che in larga copia si stende con l’estremità sul terreno in bel modo. Dietro a questa figura , altra simile ve ne ha leggermente delineata, per indurre un leggero cambiamento nella rovescia della veste e nel modo con che questa fascia le gambe. A destra della carta sono ■altri due studi di una parte soltanto del vestimento, per trovare più acconciamente il moto delle pieghe nel succinger la veste. Carta N. 5. — Altra Santa Famiglia. — Giuseppe dritto ed avvolto in ampio panno, sorregge il divin Pargolo, che si slancia vezzosamente verso la madre, essa pure in piedi. In questo disegno è condotto finissimamente il putto; meno finiti sono la Vergine e Giuseppe. Tergo. — Un piccolissimo tondo in cui è delineato l’incontro di S. Domenico e S. Francesco e sopra di essi un angelo ad ali spiegate che li avvicina. Sopra il doppio cerchio che intornia la composizione a guisa di cornice, è schizzato in bellissimo modo il Crocifisso, posto in mezzo da due palme disposte a guisa di ornamento ; forse è un pensiero per un reliquario o capoletto. Carta N. 6. — Dal lato sinistro della carta è una figura virile reggente un libro con la sinistra in cui leggeva, mentre indica con la destra il passo del volume che Jo ha indotto a grave meditazione. Ha amplissimo panno , che annodato sul destro omero lascia libero il braccio rivestito di grandiosa manica, e si arrovescia sul braccio manco. A’ suoi piedi è un mucchio di legna accese. Rimpetto a questa figura e dal lato destro della carta, vedesi un gruppo di tre frati domenicani, dei quali quello che tiene il mezzo sporgendosi alquanto dagli altri, regge con la sinistra il mantello aderente alla persona, e leva la destra in atto di benedire. Quello dinanzi è volto di tergo e sta parlando col terzo, del quale, rimanendo dietro agli altri, vedesi soltanto la testa. { Tergo. — Studio per il Cristo alla colonna. — Della figura di Cristo, 90 GIORNALE LIGUSTICO delineata sottilmente, vedesi soltanto la metà, essendo stata da quel lato tagliata la carta. Un manigoldo gli poggia la manca sopra la spalla e con la destra agita un mazzo di funi. Altri due uomini assistono alla scena in atto di spettatori. Sono piccole figure del tutto ignude e accennate con pochi tratti, ma con molto garbo ed in giustissime proporzioni. Carta' N. 7. — La Vergine col Bambino in braccio. — Maria riguarda amorosa nel volto del divin pargolo. Affettuosissimo è il movimento di questi che tiene incrociate le gambine sul sinistro braccio della madre. Deliziosa ne è la testa che volge con bel moto verso gli spettatori. È disegno accuratissimo, specialmente nella metà superiore. Qualche idiota ha intagliata la carta nella stessa sagoma del gruppo, lasciando al disegno pochissime linee di margine. Carta N. 8. — Altri studi per l’Annunziata. — Vedesi?a sinistra della carta 1’ angelo che incurvato il corpo per riverenza ed umiltà, saluta Maria incrociando sul petto le braccia ; è fornito di grandissime ali lievemente indicate e tiene il giglio con la mano manca. A destra sono due studi alquanto svariati della Vergine , la cui persona è in ambedue in piedi, fiancheggiando, sul lato destro con moto molto pronunciato. Nel-1’ uno ha veste prolissa e ricchissimo panno che s’ apre sul dinanzi della persona e viene ripiegato aderente al fianco dalla destra mano, mentre la sinistra ne solleva 1’ altro lembo. Il volto tiene inchinato verso 1’ angelo in atto di modesta attenzione. Nell’ altro studio è senza manto ma rivestita di tunica con gonna prolissa, che tiene ripiegata sul .braccio sinistro rialzandola da quel lato mentre la destra mano serra sul petto. Ambedue gli studi son finamente condotti. Tergo. — In metà della carta è schizzato con poche linee ma vagamente S· Giovanni nel deserto, seduto sopra uno scoglio circondato da grossi alberi, che mostra la croce. Carta N. 9. — S. Girolamo nel deserto. — È genuflesso tenendo in mano un Crocifisso nel quale rimira divotamente. Ha nudo il torso e il resto della persona avvolto in ampio mantello. Carta N. io. — Sacra Famiglia. — Questa graziosissima è scena imaginata in aperta campagna ed in luogo montuoso. La Vergine sta seduta e riceve fra le braccia, portole da un angelo, il divin pargolo che si'protende verso'di lei. La movenza delle tre figure è della maggior leggiadria, e bellissimi i panneggiamenti. — Dall’ altro lato della Adergine, altro angelo con veste succinta, i cui lembi svolazzano nell’ aria, suona il liuto riguardando con compiacenza. Sul dinanzi a sinistra un putto ignudo, per certo S. Giovanni, muove verso il sacro gruppo. GIORNALE LIGUSTICO 91 Carta N. 11. — Incontro di Gesù e S. Giovanni fanciulli. — In un bosco di grandi piante S. Giovanni genuflesso riceve divotamente fra le braccia il Redentore pargoletto, che amorosamente si stringe a lui. Squisita è la grazia di questo gruppo , piene di soavità sono le mosse dei due bambini. Sul dinanzi vedesi altro studio di S. Giovanni fanciullo che sta meditando nella solitudine, appoggiato il dentro gomito sulla coscia e facendo della mano sostegno alla testolina inclinata. Tergo. — Schizzo rapidamente eseguito a matita rossa pel Noli me tangere, dipinto a fresco in una cappelletta dell’ ospizio della Maddalena in pian di Mugnone. L’ attitudine della Maddalena è quale fu poi dipinta, in ginocchio e sporgendo anziosa la persona e le braccia verso del Cristo. Questi è ripetuto in due attitudini alquanto differenti, ambedue però pronte e vivacissime. Nell’ una tiene la zappa poggiata sulla spalla sinistra e sporge in avanti il destro braccio. Nell’ altra è pure in azione di moto ed alza il braccio destro per impedire a Maddalena di toccarlo. Carta N. 12. — Studio di paese.— Sulle sponde di piccol lago circondato da molti alberi, vedesi un molino ed appresso un pagliaio. Nell’aria, in mezzo a complicato partito di nubi mostrarsi a metà scoperto il disco del sole. Nel margine della carta sono scritte varie cifre numeriche. Tergo. — Schizzo incompiuto dell’ esteriore di una chiesa con sua cupola. Carta N. 13. — Altro studio di paese. — È luogo alpestre con altissimi massi, dall’uno all’altro gruppo dei quali si travalica mediante un ponticello. Sorgono qua e là alberetti spogliati di foglie, dei quali è • benissimo scritta la membratura. Tergo. — Nel basso del foglio è la veduta di un castello ricchissimo di fabbricati; più in alto, altro studio di consimil soggetto appena accennato. Più in alto ancora, altri due piccoli schizzi dello stesso genere. Carta N. 14. — Altro studio di luogo deserto con altissimi massi. — Un solo alberetto spogliato di fronde spunta da un lato della scena. Tergo. — Studio, di massi ma in luogo meno chiuso dei precedenti ; la scena è anche abbellita da vari alberi graziosamente schizzati. Carta N. 12.'_ Altro studio di luogo alpestre—Vedesi da un lato fra i grandi massi che formano la £cena, aprirsi una tana e da quella apparire metà della persona di un solitario. Altro monaco sta seduto sul dinanzi in atto di meditare su di un volume. Carta N. 16. — Studi di ignudi. — Sono quattro figurette, due delle quali adagiate sul terreno, le altre due in piedi e volte di schiena. Po- 92 GIORNALE LIGUSTICO trebberò essere studi per i bagnanti che vedonsi nel quadro della Cattedrale di Besanzone. Carta N. 17. — Studi anatomici. — Sono vari studi d’ osteologia delineati con grande esattezza e cioè: anca, femore e tibia; anca e femore. Tergo. —· Anca e femore in altra posizione. Carta N. 18. — Altri studi osteologia. — Il teschio, ripetuto in dieci differenti posizioni. Carta N. 19. -— Studio della colonna vertebrale. — Frammento di pagina. Carta N. 20. — Altro studio di femore e tibia. — Frammento. Carta N. 21. — Un angelo librato sulle ali coperto solo di un panno annodato sulla spalla e i cui lembi svolazzano per Γ aria agitati dal vento. Tiene alzato il destro braccio accennando il cielo ad un uomo che cammina con grande anzietà rivolgendo in alto lo sguardo. Tergo. — Altro studio dello stesso soggetto, ripetendo 1’ angelo in due attitudini alquanto svariate e coperto di arnesi guerreschi. L’ uomo è qui genuflesso; forse sono studi pel fresco del Giudizio finale. Carta N. 22. — La cacciata dal paradiso terrestre. — Adamo cammina curvo della persona, la testa china e cacciandosi nei capelli le mani; è figura di grande espressione. Dietro lui Èva muove con abbandono la persona, e rivolge al cielo la faccia in attitudine di lamento. Una variante leggermente accennata presenta Èva con la faccia china. Al disopra si libra un angelo con la spada -levata. Nell’ alto del foglio vedonsi due studi di angeli che danno fiato alla tromba. Tergo. — Due studi di Crocifisso dei quali lievissime son le varianti, ma si conosce aver nel secondo cercato più eleganti proporzioni. Carta N. 23. — Stu4i per la visitazione di S. Elisabetta. — Da un lato vedesi la Vergine Maria che incontra santa Elisabetta, la quale le stringe affettuosamente la destra e sporge la persona per abbracciarla. Le due figure sono riccamente panneggiate, ma il disegno non è molto finito. Dall’ altro lato del foglio è lo studio di un angelo con veste succinta, i cui lembi e le maniche svolazzano nell’ aria. Tergo. — Tre studi della S. Elisabetta pel soggetto della visitazione, con attitudine leggermente variata, conservando però sempre il concetto primitivo. La varietà è piuttosto nel modo di acconciarle il panno, cercando che la ricchezza di questo non renda la figura troppo grave, e il panno si avvolga naturalmente. Sono tutti e tre disegnati con molta finezza. Carta N. 24. — Altri studi pel medesimo soggetto. — È ripetuto in questa carta il gruppo stesso della Vergine con S. Elisabetta due volte, GIORNALE LIGUSTICO 93 conservando la medesima attitudine delle figure e portando lo studio sui panneggiamenti, affinchè la ricchezza delle pieghe non nasconda il moto della persona e non la ingoffisca. Ed. è bello vedere come con lievi modificazioni di una parte e dell’ altra, si affaticasse di ridurre a convenevole forma il concetto primo. L’ esecuzione di questi studi è finissima, e di essi si è largamente giovato Mariotto Albertinelli pel quadro di consimil soggetto che sta nella Galleria degli Uffizi, e che vien ritenuto la migliore opera di lui. Tergo. — Altro studio pèr 1’ annunciazione. — La Vergine è ,qui seduta e tiene in graziosissimo modo inclinato il volto, mentre preme il seno con la destra. L’ angelo è in piedi e nel salutare Maria piega per riverenza il capo ed incrocia sul petto le mani ; qui pure il suo vestimento è ricchissimo e i lembi della sua tunica agitati in bel modo dal vento. Dall’ altro lato del foglio sono due nuovi studi della Vergine, uno per l’annunciazione, 1’ altro per la visitazione. Carta 24. — Altro studio leggermente accennato, della S. Elisabetta che muove incontro alla Vergine. Frammento. Carta. N. 25. — Studio della Vergine addolorata. — È in piedi quasi di profilo; tiene il volto dolorosamente inclinato e gli fa sostegno con la sinistra mano. È figura bellissima di espressione e di moto. Altro studio di consimil soggetto si vede appena accennato a lato di questo. Carta N. 26. — Altro studio pel soggetto stesso. — È solo delineato con leggero segno. — Frammento. Carta N. 27. — Altro studio simile nella medesima attitudine e con poche varianti nel panno, assai finamente condotto. Tergo. — Disegho di architettura per fondo di un quadro. Da un lato una devota donna genuflessa in atto di pregare ; gentilissima figura piena di verità. Carta N. 28. — Studio di un santo. — Ha le mani giunte e il volto levato verso il cielo. È giovine, bellamente ricoperto di ricco panno e di elegante movimento. — Frammento. Carta N. 29. — Studio di donna· che sta leggendo un volume. Carta N. 30. — Altro studio di santo. — Il volto fornito di folta barba tien basso in atto, di meditazione, e la destra poggia sul petto, mentre con la manca rialza un lembo dell’amplissimo mantello che l’avvolge. Forse è studio per uno degli evangelisti del quadro di Cristo vincitore. — Frammento. Carta N. 31. — Coro d’ angeli, due de’ quali volanti e quattro genu- 94 GIORNALE LIGUSTICO flessi. Nel basso della carta dodici studi di figure virili in variate attitudini e avvolte in ricchi panneggiamenti (i). II. ' Dipinti di fra Bartolommeo in Lucca. Se all aftettuosa amicizia che legò Fra Bartolommeo al celebre orientalista Sante Pagnini da Lucca, priore del convento di S. Marco nel 1504, devesi in gran parte, secondo opina l’egregio P. Marchese, che FrÌ Bartolommeo riprendesse gli abbandonati pennelli, è certo che a quell’ amicizia dovette Lucca di possedere tre delle più belle opere che il Frate facesse mai. Sono queste le tre tavole da altare, 1’ una nella Cattedrale, conosciuta col titolo la Vergine del Santuario, che porta la data del 1509; le altre due, già nella chiesa di S. Romano ed ora nella pubblica Pinacoteca, delle quali l’una, V estasi delle sante Maria Maddalena e Caterina dà Siena, eseguita pure circa il 1509, l’altra la Vergine 'della Misericordia con la data del 1515. Di questi sublimi dipinti non parleremo, perchè notissimi agli amatori per le molte illustrazioni che ne sono state fitte, e perchè nessuna notizia d’importanza avremmo da aggiungere; accenneremo piuttosto ad altre due opere di Fra Bartolommeo che non vennero, notate fin ora sulle istorie, e sono il Cristo, nella quadreria del march. Giov. Battista Mansi, ed una Santa famiglia nella villa dei conti Bernardini a Saltoccbio. La prima di queste tavole, alta centimetri 80 e larga 68, si direbbe che è un frammento d’una lunetta, poiché nella parte superiore ha veramente forma di porzione di centina, (1) Questo disegno non fa più parte della collezione, essendo stato donato dalla famiglia Ot-lini a persona amica. La carta su cui sono eseguiti tutti i disegni descritti, ha per marca un disco, con entro una stella a sei raggi. GIORNALE LIGUSTICO 95 ed è stata ridotta rettangolare col mezzo di due piccole aggiunte. È. in essa effigiato Cristo in atto di benedire ai riguardanti , mentre tiene la sinistra poggiata su di un libro aperto nel quale si legge : ego sum lux mundi, via, veritas et vita. La figura del Cristo non è già intera, ma vedesi sol per metà, della .grandezza di due terzi del naturale. L vestita di / , O tunica e panno dei consueti colori e campeggia su di uno splendore (messo a oro) sul quale si disegna una grande aureola in forma di çiandorla, formata di testoline d’ angeli. Nobili e severe son le linee del volto, belle e aggraziate le pieghe della tunica, bèlla la mano che benedice, e che rassomiglia per moto e per fattura a quella dell’ Eterno nel quadro dell’ estasi delle due sante. Alla parte superioie e un leggero panno ripreso a festoni, il quale ha qualche apparenza di essere stato dipinto posteriormente, a meglio nascondere le due aggiunte della tavola. Nessuno dei quadri annotati nel Sommario delle opere di Fra Bartolommeo, compilato dal Sindaco del convento di S. Marco (i) è accennato per modo, che si possa credere avere avuto al di sopra una lunetta. Apparteneva questa dunque ad una tavola che ivi non fu notata e che è poi andata smai 1 ita? Non abbiamo nessun dato per po.terlo ritenere , nessuna memoria che accenni essere stata in Lucca un’ altra tavola da altare dipinta dal Porta oltre le tre già indicate. Bensì nella prima parte del Sommario del Sindaco si legge la terza ultima nota nei termini seguenti: « Item, un quadro‘d’ un braccio e ■/, a Stefano Spila » (fors’anco Sula per esser poco intelligibile) lucchese, dettene » duc. XVI d’oro in oro lar......16 ». Un quadro dunque della grandezza circa di quello del march. (1) Marchese, Memorie citate, II, pag. 143 e seg. 96 GIORNALE LIGUSTICO Mansi fu da Fra Bartolommeo venduto ad un tale Stefano lucchese (il cognome è per fermo errato in ambedue le lezioni del P. Marchese) ; ma il non dirsi ciò che quel dipinto rappresentasse ci toglie di poter precisare se fosse questo medesimo, cominciato in torma di lunetta e ridotto poi a quella rettangolare dal medesimo Fra Bartolommeo (i). Non sussistono incertezze circa l’altra tavola appartente ai conti Bernardini, che trovasi annotata nell’indicato sommario del Sindaco con queste parole : » ItÈm, un tondo di dua br. nel quale era una Natività, » venduto a Giovanni Bernardini lucchese, duc. XX d’ oro » in oro lar. al detto lib..... 20 ». Quel tondo del diametro di metri 1, 18 che diremmo piuttosto una Santa Famiglia che una Natività, può dirsi di ottima conservazione, se si consideri che giacque ignorato (e chi sa per quanto tempo) in una soffitta; donde lo trasse, sconnesso nelle assi, il padre degli attuali possessori, facendolo riattare da diligentissimo artefice. Armoniosa è la composizione del dipinto, il cui fondo presenta un vago paese sparso di caseggiati , e sul dinanzi gli avanzi di una capanna, il cui tetto è sorretto da pilastri di pietra. Giace il bambinello Gesù tutto ignudo su di un terreno vestito di erbetta e di fiorellin i ed alza la piccola mano in atto di benedire, mentre tiene intento lo sguardo in un cardellino che saltella vicino a lui. Dal lato destro sta genuflessa la Vergine con le mani giunte, guardando nel divino infante con devoto compiacici) Gli egregi annotatori del Vasari (edizione Le Monnier) credettero invece di ravvisare nella medesima quadreria del marchese Mansi altra importante opera di Fra Bartolommeo, e cioè il bozzo della gran tela, la Vergine della Misericordia; ma fu quello un equivoco, provenuto per fermo dall’ aver veduto quel bozzo a poca luce ed a certa altezza ; giacché esso è opera assai informe di grossolano artefice, e di molto posteriore al bellissimo dipinto del frate. GIORNALE LIGUSTICO 97 mento; dall’altro è seduto .il vecchio Giuseppe con la testa leggermente china verso il fanciulletto Giovanni Battista, il quale gli sta dinanzi; e Γ una mano gli appoggia sulla spalla, con 1.’ altra gl’ indica il Salvatore. E Giovanni piega a terra un ginocchio e stringe la manca al petto in segno di omaggio e venerazione, con la destra sorregge una crocellina di canna. In un sasso che sta nella parte centrale del terreno, è di color giallo segnato un piccolo cerchio con entro una _■ croce, e sotto di esso si legge in caratteri del medesimo colore : orate pro pictore. Le figure tutte sono di aggraziate movenze e disegnate con larghezza; la Vergine è molto simile nelle linee del volto all’ altra della tavola del Santuario, e bella e veneranda è la testa di Giuseppe con lunga e grigia barba. La maniera del dipinto antecede all’ ultima tenuta dall’ esimio artefice, e la sua data si può porre pertanto fra il 1511 e 1514; si accorda a indicarlo di cotal tempo anche 1’ ordine con cui venne notato nel catalogo del Sindaco di S. Marco. III. Tavola di Fra Bartolommeo nella Cattedrale- di Besanzone. Fra le opere dell’ insigne artefice fiorentino che passarono in Francia, ne sono due la cui storia ha acquistata nuova luce in questi ultimi anni per opera di vari egregi francesi che ne intrapresero lo studio. L’ una è una gran tavola da altare che adorna la Cattedrale di Besanzone, l’altra il S. Sebastiano, che venne inviato a Francesco I da Giovanni della Palla, e che teneasi da lungo tempo smarrito. Alle assidue cure che un correligionario di Fra Bartolommeo, il Prof. Fra Ceslao Bayonne, ha 'impiegato per rintracciare quest’ ultimo dipinto, devesi anche il sottile studio che è stato fatto del quadro di Besanzone, ed a lui ne spetta il merito principale. Giorn. Ligustico , Anno V. 7 98 GIORNALE LIGUSTICO Intorno a tal quadro tacque affatto il Vasari e gli altri storici nostri, nè si ebbe in Italia contezza della sua esistenza fino a pochi anni addietro. Il P. Marchese così benemerito e industrioso ricercatore d’ ogni notizia che attenesse agli artefici domenicani, nulla ne sapeva ancora dando in luce le due prime edizioni della sua bell’ opera ; e fu solo mentre stava pubblicando la terza in Genova nel 1869 che glie ne giunsero le prime relazioni; potè pertanto darne cenno, ma non fornire intorno ad esso tutte quelle più esatte notizie che si produssero dipoi. Il quadro della Cattedrale di Bensanzone è in legno di quercie, dell’ altezza di metri 2, 60 e largo metri 2, 30. Non porta scritto l’anno in che fu eseguito, ma vi si legge: Fr. Bartholomeus ; iscrizione però che viene ritenuta aggiunta da altra mano , non essendo i caratteri della identica forma di quelli usati dal Frate nelle altre sue opere. Un atrio a pilastri d’ ordine dorico in marmo bianco, forma la scena su cui si distaccano tre gruppi distinti. Il medio che occupa la parte superiore, è formato dalla Vergine sedente sulle nubi, circondata da uno stuolo d’ angeli che Γ accompagnano e le forman sostegno. Essa tiene con grazia ed affetto sulle ginocchia il divin pargolo che benedice ai sottoposti gruppi, formati da \>ari santi che gli presentano i loro omaggi. La Vergine riguarda pure ai suoi divoti inchinando dolcemente il capo dal lato sinistro, e con 1’ una mano sorregge il figlioletto sotto l’ascella, con l’altra n’accarezza il piccolo piede. Due angeli librati in· aria in vezzosa attitudine suonando il liuto, compiono il gruppo principale. Nel gruppo sinistro vedesi sul dinanzi S. Sebastiano, più indietro S. Stefano e in mezzo ad essi genuflesso S. Giovanni Battista. Nel destro, S. Bernando, S. Antonio abbate, e sul dinanzi un personaggio in ginocchio rivestito di ampia cappa.' San Sebastiano è volto pressoché di faccia' allo spettatore, GIORNALE LIGUSTICO 99 del tutto ignudo, meno un leggero velo che gli fascia i fianchi ; pianta sulla sinistra gamba, fiancheggiando con gratissimo moto, e ritrae alquanto indietro la gamba destra poggiandone il piede su di un gradino. Le braccia ha legate al tergo e il volto gira e solleva dolcemente affissandosi nel divino fanciullo. San Giovanni , coperto a metà di una pelle , leva il volto estenuato e pallido verso la Vergine; nella sinistra resse una sottil canna e con la destra sembra indicare OD alla divina protezione una città munita di spaldi, che scorgesi in lontano, e cui presso scorre un fiume sulla riva del quale stanno vari bagnanti. Santo Stefano con rossa veste e verde dalmatica, porta sul capo il sasso, simbolo del sofferto martirio e regge con la destra un libro, con la sinistra la palma. San Bernardo indossa la bianca cocolla dell’ ordine; le braccia aperte e le mani, secondano 1’ espressione del volto, che dipinto di dolce estasi rivolge verso la Vergine. Il vecchio abbate Antonio sporge dietro lui il venerando capo, poggiando la mano al bastone munito di campanello. Il personaggio genuflesso, che si manifesta al primo aspetto pel committente del quadro, indossa una rossa veste a larghe maniche ornata di un gallone nero; tiene con la mano sinistra una papalina, e volgendosi alquanto verso i riguardanti accenna loio con la destra la Vergine e il divin pargolo, quasi invitandoli a porgere ad essi fervide preci. Presso di lui è gettata su di un o'enufiessorio una veste canonicale e un rocchetto, e sul D pavimento un libro di preghiere chiuso da doppio fermaglio. Questo dipinto che pel grande dello stile, pel modo della composizione, per la nobiltà sua, si appalesa della terza maniera di Fra Bartolommeo, è detto dai moderni illustratori francesi ·« un capo d’ opera di prim ordine ... gioiello insigne che » figurerebbe con onore nelle- più importanti gallerie, e che » la città di Besanzone deve stimarsi felice di possedere ». Un esame delle importanti sciittuie .che sono state di le- 100 GIORNALE LIGUSTICO cente prodotte sull’istoria di questo dipinto, credo non debba riescir discaro agli studiosi italiani; a pochi dei quali saranno venuti a mano i periodici e gli opuscoli in che si leggono. Una bella Memoria ispirata dal Prof. Bayonne e con molto garbo distesa dall’ amico suo 1’ abbate di Beausejour, comparve il 1869 nel giornale Annales Franc-Comtoises e dipoi riveduta, nel 1872 sul bullettaio mensuale L’Année Dominicaine (N. 140, 141). In essa dopo aver minutamente descritto il dipinto e fatta un’ analisi de’ suoi caratteri e de’ suoi pregi, si esaminavano le tradizioni locali, e si rettificavano i diversi errori degli scrittori francesi antichi e moderni, che nella mancanza di precise notizie avevano, parlando di quel dipinto, dato libero corso alla fantasia. Così taluno per vedervi S. Sebastiano del tutto ignudo , 1’ aveva confuso col quadro del S. Sebastiano che fu inviato a Francesco I, e applicatogli 1’ aneddoto che intorno a quel dipinto del Frate narrava il Vasari; tal’ altro aveva voluto riconoscere in quello il quadro commesso al Frate da Giacomo Panciatichi pievano di Quarrata presso Pistoia, non facendosi alcuno scrupolo delle differenze che passavano fra le due tavole; variatissime poi erano le opinioni circa il vero nome del personaggio in rossa cappa che vi si vede effigiato. Con diligente e accurato esame delle memorie e documenti pubblicati dal P. Marchese, e mediante il raffronto di quelli con l’istoria e con le tradizioni locali, venivasi ora dai due ecclesiastici francesi a determinare il personaggio committente del quadro, ed il .preciso tempo da'assegnarsi all’opera del fiorentino artefice. Accenneremo brevemente ai principali argomenti svolti su tal proposito nella Memoria. Il catalogo redatto nel 1516 dal Sindaco del convento di S. Marco, nel quale si enumerano le dipinture eseguite da Fra Bartolomeo sino a quell’ anno, dividendole in due cate- GIORNALE LIGUSTICO ΙΟΙ gorie , quelle cioè di cui si era tratto denari e le altre di cui non si era cavato denari, non fa menzione alcuna della tavola di Besanzone ; ma nella prima categoria vi è una partita espressa nei seguenti termini : « Item, d’ una compagnia fatta con Mariotto di Biagio di-» pintore .... fu la Tavola che andò in Fiandra che fece » fare un M. Ferrino, et una che andò nel duomo di Luccha » et una nel convento nostro di Pisa ecc. ... ». Il P. Marchese poi parlando dei dipinti eseguiti in tempo di questa seconda società fatta dal Frate con PAlbertinelli, e appoggiandosi alle Miscellanee del convento di S. Marco scriveva : « Trovasi poscia ricordata mia tavola che fu recata nelle Fiandre; non si dice che rapprésentasse, ma doveva essere si nella dimensione come nel lavoro di grande rilevanza ; se ne hanno due ricordi sotto l’anno 1511, ove il Sindaco dichiarava aver ricevuto da rnesser Ferrino Inghilese ducati 20 d’ oro in oro contanti, nelle mani di Fra Bartolommeo dipintore per la metà di ducati 40 dati fra lui e Mariotto dipintori compagni per arra del lavoro ha loro allogato a fare, come tra loro sono accordati ». « La seconda memoria rinviensi nel citato luogo sotto il giorno 29 novembre dell’ anno 1512 , ove si legge che il Sindaco aveva ricevuti da Fra Bartolommeo dipint. a di 2j detto, avuti da M. Ferrino per la nostra parte della, seconda paga della, tavola di Fiandra, ducati 140 (1) ». Queste note additategli dal P. Marchese fecero viva impressione al Prof. Bayonne. Sebbene non fosse noto per documento in qual modo la cattedrale di Besanzone possedesse il quadro di Fra Bartolommeo, la tradizione nella Franca-Contea portava che esso fosse un-donativo della famiglia Carondelet; e vàri (1) Memorie citate, li, pag. 68, 69. 102 GIORNALE LIGUSTICO membri di cotesta illustre famiglia erano stati a mano a mano additati dagli scrittori come ritratti nel personaggio genuflesso sul dinanzi del quadro; per alcuno era Giovanni Carondelet di Dole, Cancelliere di Borgogna e di Fiandra sotto ΓArciduca Massimiliano e sua moglie Maria ; per altri uno dei suoi figliuoli, Claudio Podestà d’Amont, o Giovanni Decano del Capitolo di Besanzone, insignito esso pure di onorevoli uffici dal Governo dei Paesi Bassi. Nessuno però aveva posto mente ad un quarto personaggio di quella famiglia , ed uno dei più osservabili .di essa, cioè a Messire Ferry Carondelet, terzo figliuolo di Giovanni, il quale mentre godeva il titolo di Arcidiacono del Capitolo di Besanzone, aveva ricoperto le importanti cariche di Consigliere al gran Consiglio di Mali-nes, di Referendario dell’Imperatore Massimiliano e dell’Arciduca Carlo, e di loro procuratore e sollecitatore di affari presso la Corte di Roma. E.non sarebbe pertanto cotesto il personaggio, del quale italianizzando il nome in Messer Ferrino parlano le cronache del convento di S. Marco ed il catalogo del Sindaco ? L’invio in Fiandra del quadro da messer Ferrino allogato, non indica forse il paese ove Ferry risiedeva come Consigliere, Referendario dell’ Imperatore e dell’Arciduca, e da dove era venuto procuratore e sollecitatore dei loro affari presso alla Corte di Roma ? E potrebbe sorprendere forse il passaggio avvenuto dipoi di quel quadro nella Cattedrale di Besanzone, della quale Ferry, sebbene risiedesse a Malines, era da lungo tempo Arcidiacono? E il devoto personaggio effigiato nel quadro , potrebbe mai esser altri che quegli che lo avesse commesso ? L’ esame scrupoloso del dipinto provava all’ evidenza essere falso ciò che venne asserito dal Dunod, che quel personaggio fosse aggiunto in appresso al quadro da mano diversa da quella di Fra Bartolommeo, e faceva certi che GIORNALE LIGUSTICO IO3 esso aveva fin dal principio fatto parte integrale della composizione del dipinto. Ora quel divoto personaggio non poteva essere nessuno dei tre' membri della famiglia Carondelet che gli illustratori avevano a vicenda creduto di ravvisarvi. Non Giovanni padre, Gran Cancelliere, che non ebbe mai cariche ecclesiastiche, a cui non possono attribuirsi per conseguenza la veste canonicale e il rocchetto non Claudio Podestà d’Amont suo maggior figliuolo, per la ragione medesima; non Giovanni il secondogenito, Decano dei Capitolo di Besanzone , perchè se a lui potrebb'e addirsi tanto la veste che indossa il personaggio quanto gli abiti ecclesiastici che gli stanno vicini, il costui ritratto che vedesi nel Museo d; quella città non ha rassomiglianza col divoto del dipinto. È dunque soltanto Ferry, il più giovine dei Carondelet, che può esser rappresentato nel dipinto di Fra Bartolommeo. Ed alle prove negative si aggiunge la positiva e perentoria che il personaggio del quadro rassomiglia perfettamente al ritratto che di Ferry Carondelet venne dipinto da Raffaello, tenendo in niano una lettera su cui è scritto il suo nome e le sue qualità (1). Gli abiti che indossa son quelli di Consigliere del Gran Consiglio di Malines, carica eh’ei ritenne fino al 15 23 » mentre alla dignità sua di Arcidiacono, accennano la veste canonicale, il rocchetto, il breviario. Le memorie del convento di S. Marco attestano che la tavola che andò in Fiandra fu espressamente ordinata da un signore straniero ai due compagni dipintori; ed espressamente ordinata da Ferry Carondelet rilevasi la tavola di Besanzone, appunto dal vedervisi il ritratto di esso Ferry. Che se il Sindaco del convento di S. Marco qualificava inghilese il messer (1) Questo ritratto passò in Inghilterra, offerto in dono dagli Stati Uniti d’Olanda a Lord Arlington (sotto Carlo I), e conservasi nella fa-miglia dei Duchi di Grafton a Londra. 104 GIORNALE LIGUSTICO Ferrino committente del dipinto, ciò può essere un equivoco da lui commesso nel notare i danari ricevuti, o potrebbe anche essere un errore del. copista di quella memoria. Di più la data assegnata al dipinto di Fra Bartolommeo che andò in Fiandra, è posta dalle memorie del convento fra il 15 il e il 1512; ed il quadro di Besanzone si •■appalesa appunto pel suo stile della terza maniera. tenuta dall’illustre dipintore. Quella data concorda poi con i dati storici relativi al personaggio rappresentato'nella tavola di Besanzone; poiché Ferry Carondelet era appunto in cotal tempo Arcidiacono della cattedrale di quella città e Consigliere al Gran Consiglio di Malines. Pochi anni prima egli non avrebbe potuto indussare il costume di Consigliere; pochi anni dipoi avrebbe avuto al suo lato non più le insegne canonicali, ma quelle di Abbate di Mont-Benoît, dignità di cui venne insignito. Pertanto, accordandosi mirabilmente l’istoria della famiglia Carondelet, i caratteri del dipinto, i documenti del convento di S. Marco, concludevano i due egregi ecclesiastici francesi essere il quadro posseduto dalla Cattedrale di Besanzone quello stesso che risulta ordinato a Fra Bartolommeo da Messer Ferrino nel tempo della sua seconda società con l’Al-bertinelli. Essere però stato incominciato il 1511 e già compiuto il 29 novembre del 1512, essendoché in tal giorno i dipintori venivano saldati del prezzo totale convenuto, di 320 ducati d’oro. Dicevano poi che quel dipinto, fin qui conosciuto volgarmente sotto il titolo di S. Sebastiano, molto più giustamente dovrebbe quindi innanzi essere appellato La Vergine di Carondelet. Le conclusioni annunciate venivano combattute dal sig. Augusto Castan, socio corrispondente dell’istituto di Francia, in una erudita Memoria letta alla Società di emulazione di Doubs nel 1873, e presentata quindi al Congresso della Sor- GIORNALE LIGUSTICO !°5 bona (sezione di archeologia) nell’aprile del 1874; Memoria che ha per titolo La Vergine· di Carondelet. Anche il sig. Castan passa in rassegna e confata le inesattezze circa la tavola di Besanzone dei precedenti scrittori, il Dunod, il Clément de Ris, il Clerc; ma con esse, rigetta le conclusioni dei signori Bayonne e Beausejour, dichiarandone gli argomenti una serie di ipotesi che mancano di base verisimigliante, il che si sforza di dimostrare. Il sig. Castan mercè diligenti indagini nell’ Archivio capitolare di Besanzone, giunse a rintracciare il documento che constata il preciso tempo in cui il dipinto di Fra Bartolommeo fu collocato nella Chiesa di S. Stefano, e il donatore di esso, cioè Ferry Carondelet. È l’atto .di donazione dell’opera insigne e di accettazione per parte t del Capitolo, in data dei 29 maggio 1518. Questo documento, ed il non ' essere nel catalogo delle dipinture di Fra Bartolommeo redatto il 1516, fatta nessuna menzione di un quadro per la chiesa di Besanzone, fecero ritenere al sig. Castan che il dipinto medesimo dovesse essere fra quelli, che cominciati da Fra Bartolommeo negli ultimi anni di sua vita rimasero per la sua morte incompiuti, e ricevettero il loro compimento dal-Γ allievo suo Fra Paolino. E forte di tale persuasione si propose di tracciare egli la vera istoria del dipinto. Pel sig. Castan nessun legame può sussistere fra la tavola di Besanzonè e quella di cui parlano le memorie del Convento di S. Marco. Da esse il Messer Ferrino che la commetteva è qualificato inghilese, e il sig. Castan non ammette che il Sindaco del convento abbia potuto equivocare, confondendo con un gentiluomo inglese Ferry Carondelet, inviato dell’imperatore presso la corte di Roma. Quelle memorie asseverano che la tavola venne spedita in Fiandra, il 1512, ed egli trova naturalissimo che per quella via fosse inviata in Inghilterra al suo committente, mentre sarebbe ιο6 GIORNALE LIGUSTICO stato strano Γ inviare in Fiandra una tavola destinata alla Cattedrale di Besanzone. Egli ritiene che Ferry Carondelet spedito a Roma il 15 io come procuratore e sollecitatore degli affari de’ suoi Principi, compiuta nella primavera del 1512 la sua missione con soddisfacimento di essi e del Pontefice Giulio II, non ritornasse più a Malines nè nella Franca-Contea che nell’ estate del 1520, per istabilirsi all’abbazia di Mont-Benoìt. Ma allettato dal bel sole e dalle meraviglie artistiche d’ Italia, qua si trattenesse, stabilendosi per allora a Viterbo. Quivi dunque essendo nell’estate del 1514, nel vicino convento dei domenicani la Madonna della Onercie, ebbe agio, egli pensa, di conoscere Fra Bartolommeo, che recandosi a Roma si trattenne in quel convento e si sa che vi dipinse il Gesù giardiniere e vi sbozzo una tavola con una Madonna, terminata poi dal suo allievo Fra Paolino. Già amico di Raffaello , da cui si era fatto ritrarre in Roma, Ferry Carondelet (dice il sig. Castan) strinse per fermo amicizia anche con Fra Bartolommeo amico dell’ Urbinate; nè poteva mancar di conoscere in tale occasione anche Mariotto Albertinelli, compagno inseparabile del Frate. Volendo pertanto far gustare ai suoi compatriotti della Franca-Contea le bellezze dell’arte italiana, Ferry commise a Fra Bartolommeo una tavola che richiamasse alla memoria quella di recente dipinta dal Sanzio per Sigismondo dei conti di Foligno; ed a Mariotto commise altra tavola rappresentante /’ incoronazione della Vergine, destinando ambedue quei dipinti alla chiesa di S. Stefano di Besanzone. Ora non essendo la tavola di Fra Bartolommeo pervenuta a questa che alla fine del maggio 1518, come lo prova 1’ atto di accettazione del Capitolo , chiaro è pel sig. Castan, che la tavola non potè esser compiuta prima della morte dell’artista, avvenuta il 30 ottobre del 1517; e dovette esser terminata da Fra Paolino da Pistoia suo allievo GIORNALE LIGUSTICO ed erede dei suoi studi, e poscia inviata al committente. Ed allora si spiega, egli dice, il perchè il quadro di Besanzone non figurò nel catalogo che il Sindaco del convento redasse mentre tuttavia era in vita Γ artefice. Circa poi il personaggio rappresentato nel dinanzi del quadro, riteneva il sig. Castan che egli fosse Giovanni Carondelet, Decano del capitolo di Besanzone e fratello maggiore di Ferry, vedendosi nel quadro il santo patrono di quello, che appunto a lui sembra indicare ; nè trovava ostacolo nella poca rassomiglianza che offre quel personaggio col ritratto che di Giovanni Carondelet conserva il Museo di Besanzone, dappoiché egli diceva, noi potè Fra Bartolommeo ritrarre dal vero, sibbene il dipinse dietro le indicazioni avutene da Ferry, il quale volle con ciò dare al fratello (che da lui sappiamo amatissimo) un segno imperituro d’affetto. Il sig. Castan rispondeva poi in un’ appendice a nuovi argomenti del sig. Clément de Ris, che avendo in una sua opera intitolata Studi sui musei di provincia, creduto di riconoscere nel quadro di Besanzone quello ordinato a Fra Bartolommeo dal Pievano di Quarratà, e di cui non si sa cosa avvenisse, voleva ora mantenere 1’ enunciata opinione, e combatteva il Castan con una scrittura letta nel Comité des sociétés Savantes. Mostrava il Castan come i santi rappresentati nel quadro di Besanzone sieno diversi da quelli che il contratto pubblicato dal P. Marchese attesta dovessero esser dipinti nel quadro per Quartata; come diverse risultino le dimensioni, come infine il personaggio in cappa rossa nulla abbia che fare con un pievano, e però nessunissima anologia sussistere fra i due dipinti, dei quali è anche probabile che quello per Quarrata rimanesse non eseguito per la morte dell’ artefice. Se il sig. Castan merita lode per aver rintracciato 1’ atto capitolare riguardante il quadro di Besanzone, pel quale ri- ioS GIORNALE LIGUSTICO mane ormai posto fuor d’ ogni discussione il donatore del medesimo e l’anno in che tavola fu collocata nella Cattedrale di S. Stefano, se la sua Memoria va ricca di diligenti notizie circa la famiglia dei Carondelet, se con piena ragione abbatte gli argomenti del Clément de Ris, nel che però era stato preceduto dall’ abb. di Beausejour, non si può per altro negare che mentre ripromettevasi di posseder gli elementi per tracciare la vera istoria del dipinto, non produceva poi intorno ad esso che una serie di congetture ingegnose, ma cui troppo mancava di solidità. Nè ciò poteva sfuggire all’acutezza del Prof. Bayonne, il quale come fu venuto in cognizione di quella scrittura vi replicava con altra, in cui-giovandosi di nuove indagini onde si era afforzato, dei documenti già noti e di una logica stringente, vittoriosamente sosteneva le conclusioni già esposte, e ad una ad una abbatteva le ipotesi del Castan. Ed anche di questo suo ultimo lavoro il quale per essere escito in due numeri consecutivi del periodico l’Annèt Do-minicainé (i) fu accompagnato dà un nuovo scritto del sig. Castan, che nulla però aggiunge all’ altro suo, toccheremo rapidamente gli argomenti che ci sembrano principali a con-futaré il sistema dell’ opponente. Egli diceva che mentre era desiderato il documento che comprovasse la donazione del quadro alla cattedrale di Besanzone, il ·sig. Castan si era illuso sul valore di tale atto da lui rintracciato, cui aveva attribuito un valore troppo grande; non potendosi con tal documento risolvere nessuna delle questioni agitate, cioè del tempo in cui fu eseguito il dipinto, nè del personaggio in esso rappresentato. Il documento prova soltanto quando quel capò d’ opera venne recato a Besanzone, e che fu Ferry Carondelet che lo donava alla chiesa. Esso prova ancora che (i) Année Dominicaine; Parigi 1876, n. ,194 e 195. GIORNALE LIGUSTICO IO9 non hanno fondamento le molte congetture che erano state fatte su quegli ignudi che vedonsi in riva al fiume nel fondo del dipinto, e che Ferry commise semplicemente a Fra Bartolommeo un quadro dei Santi patroni ; e di fatti esser mirabilmente aggruppati ai piedi della Vergine, patrona universale, S. Bernardo e S. Sebastiano sì popolari allora nella cristianità; S. Stefano titolare della cattedrale in che Ferry era Arcidiacono, S. Antonio e S. Giovanni ambedue patroni di sua famiglia. Ma al di là di ciò il documento rintracciato dal Castan non aver potenza di nulla dimostrare, e meno ancora di sostener Γ istoria del dipinto ideata da lui. Difatti mancar la prova che la missione di Ferry a Roma si compiesse nella primavera del 1512, e.che egli si stabilisse poi in qualche città' d’Italia fino al 1520; ed in mancanza di prove esser presumibile che Ferry tosto adempiuto a’ suoi incarichi, si riconducesse a Malines ove si preparavano avvenimenti d’importanza, ove lo richiamavano i suoi interessi e i suoi uffici. Infatti mentre un atto autentico dell’archivio di Bruxelles lo dimostra' indubitamente colà il 1515, è da credere che già vi si trovasse il 1514, poiché in quell’anno un parente di lui per nome Antonio, moriva ivi in· sua casa. Egli non era dunque a Viterbo nè al convento della Quercie quando Fra Bartolommeo passava di colà recandosi a Roma; e questi poi aver fatto così breve soggiorno alla Quercie ed in Roma stessa, che avviatosi per colà nella primavera del 1514, già innanzi al 10 luglio si ritrovava in Toscana, all’ospizio della Maddalena in pian di Mugnone. Il sig. Castan dice col P. Marchese che Fra Bartolommeo dipinse alla Quercie Gesù quando in forma di giardiniere apparisce alla Maddalena, e che vi abbozzò una tavola d’una Vergine, compiuta poi dal suo allievo Fra Paolino; ma il P. Marchese aggiunge ancora, che quella Vergine era intorniata da santi dell 01 dine domenicano, e che Fra Paolino non la compiè che nel 1543? e 1 IO GIORNALE LIGUSTICO nulla pertanto cotesto dipinto ha di comune con quello di Besanzone. Nè alcun fondamento ha l’ipotesi che Mariotto Alberti-nelli accompagnasse Fra Bartolommeo al Convento della Quercie, e quivi fosse pur esso conosciuto da Ferry, ricevendone una commissione; giacché disciolta la loro società al 5 gennaio del 1513, Mariotto non si trova mai più a fianco di Fra Bartolommeo. Nè 1 asserzione del Castan che il quadro di Mariotto (oggi disperso) fosse collocato nella Cattedrale di Besanzone il 18 maggio del 1519 prova già la data di quel dipinto, giacche pel documento rintracciato dal eh. Milanesi consta che Mariotto mori il 5 novembre del 1516, e pertanto il quadro dovette esser compiuto al più tardi in quell’ anno. · Ora se questo dipinto pure non fu collocato che almeno quattro anni dopo il suo compimento nella Cattedrale di Besanzone, qual valore rimane all’ argomento del Castan , che il quadro di Fra Bartolommeo per essere stato ivi posto solo nel 1518 dovette esser compiuto dopo la morte di Fra Bartolommeo essendoché questi era mancato nel 1517? Sembrava inverosimile al Castan che se la tavola del Frate fosse stata eseguita il 1512, si differisse poi lo allogarla nella Cattedrale di Besanzone fino al 1517, non essendo una gran tavola da altare per trovar luogo in un appartamento; ma ove dunque rimase quella di Mariotto Albertinelli, morto a Firenze il 1515, e mentre che Ferry era in Fiandra? Nemmeno parleremo dell’impossibilità che il devoto personaggio rappresentato nel dipinto sia altri che il committente di questo, giacché il sig. Castan medesimo lo concedeva nel suo ultimo scritto, riconoscendo in esso Ferry Carondelet. Ma ciò che compiutamente abbatte le ipotesi del sig. Castan, e mostra quanto sia pericoloso affidarsi alle ipotesi e GIORNALE LIGUSTICO I I I con esse fabbricare, è il ritrovamento di quattro autentici documenti fatto di recente dal Prof. Bayonne, il quale aveva la bontà di comunicameli, che provano come Ferry si fosse già restituito in Fiandra nei primi del 1513, richiamatovi dai suoi principi per impiegarlo in altri affari d’importanza; ed in luogo suo fosse stato inviato a Roma Giacomo Kanick. Rimangono da ciò afforzate in modo evidente le conclusioni del Prof. Bayonne, che cioè il dipinto di Besanzone sia stato commesso a Fra Bartolommeo da Ferry Carondelet il 1511, e dato compiuto nel novembre del 1512, avanti cioè che Ferry partisse d’Italia, il che avvenne nei primi dell’anno appresso; che il dipinto sia stato per primo recato in Fiandra ove Ferry risiedeva, ed ove portavasi direttamente partendosi d’Italia ; ed in conseguenza rimane identificato Ferry Carondelet col messer Ferrino, di cui parlano le carte del convento di S. Marco. IV. Il S. Sebastiano di Fra Bartolommeo. Il ritrovamento, di un insigne oggetto d’arte che si riteneva da lungo tempo smarrito, e fors’ anco perduto irreparabilmente, è una gran festa per tutti i veri amatori delle arti belle; ed ha dritto alla loro riconoscenza colui che del ritrovamento fu autore, mediante assidue sollecitudini. Di tale riconoscenza è per fermo degnissimo il Prof. Fra Ceslao Bayonne, che per lo spazio di diciotto anni prosegui indefesse ricerche per giungere a rintracciare il S. Sebastiano di Fra Barlolommeo. Delle sue indagini e del lieto lor fine, dava egli notizia in un’ interessante lettera inserita sul Bullettino mensuale già tante volte ricordato L’Année Dominicaine (dicembre 1875 e 112 GIORNALE LIGUSTICO gennaio 1876); e come di tal prezioso ritrovamento, non è stato, per quanto io sappia, fatto cenno in Italia, mi è grato di poter qui attestare al Prof. Bayonne la gratitudine dei cultori ed amatori d’ arte italiani. Di questo S. Sebastiano che Fra Bartolommeo dipinse nel 1514, conosce ognuno il racconto che ne fa il Vasari; come cioè venne eseguito da lui per rispondere vittoriosa-· mente alle critiche onde era stato morso più volte dai fiorentini, di non sapere esso fare gli ignudi; e come lo dipingesse « molto alla carne simile, di dolce aria e di corri-» spondente bellezza alla persona parimente finito, dove in-» finite lodi acquistò presso gli artefici »; come poi stando nella chiesa per mostra questa figura, avevano trovato i frati nella confessione delle donne, che nel guardarlo avevano peccato per la leggiadra e lasciva imitazione del vivo datagli dalla virtù di Fra Bartolommeo; per il che levatolo di chiesa lo misero nel capitolo, dove non dimorò gran tempo che da Gio. Battista della Palla comprato, fu mandato al Re di Francia. Questo racconto, accolto per vero dall’egregio P. Marchese , gli fè soggiungere, « Io credo che il Frate sebbene » non eccedesse i termini della decenza, provasse poi rimor-» dimento di quel dipinto. Certo egli è che mai più non si » fece lecite simili nudità (1) ». Ma con molta saviezza osserva il Prof. Bayonne, che il racconto del Vasari.ha tutta 1 aria di un aneddoto piccante, di cui abbia voluto saporire 1 istoria del quadro, ma senza nessun fondamento di storica verita. E di fatto Fra Bartolommeo non aveva più duopo a a quell ora di provare ai fiorentini il suo valore, e non era la prima volta che dipingeva S. Sebastiano pressoché interamente ignudo, come lo dipingevano gli altri artefici e coftie (1) Marchese, Memorie cit. II, p. 100. GIORNALE LIGUSTICO II3 si è seguitato di poi. Già abbiamo veduto che egli lo aveva dipinto in eguale attitudine il 1512 nella tavola per Ferry Carondelet; anzi può dirsi che il S. Sebastiano colorito nel 1514, non fu che una riproduzione di quello, con poche varianti. « Nè egli ebbe nulla a rimproverarsi, non avendo » violato alcuna legge della decenza, rappresentando quel » santo così popolare nel medio evo, in una casta nudità, » seguendo i caratteri tradizionali, come l’attestano e quadri « e statue senza numero, anteriori, contemporanei e poste-» riori, che si vedono così nelle umili chiese come nelle » splendide cattedrali. Che se Γ arte cristiana non deve rap-» presentare il nudo che raramente e con riserva, non però » le è interdetto di riprodurre quella beltà del corpo umano, » di cui Cristo non ha sdegnato velare la sua'divinità. Nè » sorpassa i suoi dritti nè manca ai suoi doveri, quando » riesce ad unire armoniosamente come fece Fra Barto-» lommeo, i due elemeati che lo costituiscono, la forma e » il concetto, il reale e 1’ ideale, il naturale e il soprana-» turale (1) ». Infatti i religiosi di S. Marco esposero senza timori il quadro nella lor chiesa, e vi era sempre dopo due anni, cioè il 1516, come lo prova il catalogo delle opere del Frate compilato dal Sindaco di S. Marco. Ne è verosimile che dovessero ritrarnelo per la ragione addotta dal Vasari, giacché in Italia e sopratutto di quei tempi, i fedeli essendo abituati a contemplar di sovente il corpo umano quasi senza veli nelle statue e nei quadri delle chiese, è difficile ammettere che dovesse riescir pericoloso il solo S. Sebastiano di Fra Bartolommeo. Ma v’ha di più; se l’asserto del Vasari fosse vero, ed il buon frate avesse come dice il P. Marchese dovuto provar vergogna e rimordimento di quel dipinto, nè egli nè i religiosi suoi fratelli, discepoli austeri (1) Bayonne, Lettera citata. Giorn. Ligustico, Anno V. 114 GIORNALE LIGUSTICO del Savonarola, avrebbero già permesso la vendita della tavola che poteva riescir pericolosa ad altri fedeli, ma sarebbe stata condannata alle fiamme o nascosta. Invece noi troviamo nel catalogo indicato, che alla tavola medesima, e mentre tuttavia era in chiesa, era già stato assegnato il valore di ducati 20; il che prova che nei religiosi era intenzione di trarne profitto quando l’occasione si presentasse, come delle altre opere che il Frate del continuo andava facendo a benefizio del convento. E il Della Palla (degno progenitore di quell esercito di rigattieri che fanno tuttavia ogni opera per dispogliare la patria di tutto ciò che le rimanga di più prezioso, e non trovano disgraziatamente più chi loro risponda come a lui la generosa moglie del Borgherini: « ed osi tu di-» sgraziato ferravecchio entrare qui e spogliare dei loro or-» namenti i palazzi dei gentiluomini per abbellire le case » degli stranieri, mosso unicamente da vaghezza di sordido » guadagno? »); il Della Palla, dico, acquistandola per inviarla a Francesco I, mostrò di giudicarla una delle opere più degne del Frate, e tale da ricavarne per se buona mercede. Con ciò ci sembra scagionato Fra Bartolommeo del ridicolo addebito, e restituita al suo giusto valore la novelletta del Vasari, il quale si piacque non di rado di introdurne a ravvivare le sue vite. Ma tornando al racconto che imprendemmo, il quadro del S. Sebastiano, che nessuno degli storici d’arte dice ove fosse collocato da Francesco I, era smarrito al principiare di questo secolo. Nessuno degli illustratori francesi di cose d’arte ne faceva parola, ed alcuni avevano confuso, con esso il quadro di Besanzone, trovandovi rappresentato S. Sebastiano ignudo, ed applicando, come già dicemmo, a questo 1’ aneddoto del Vasari, si erano spinti a dire che il quadro era stato collocato in quella Cattedrale a poca luce, perchè non si rinnovassero i pericoli di cui fu già cagione a Firenze. GIORNALE LIGUSTICO Il Mariette credè per un momento che il quadro del S. Sebastiano , citato dal Vasari, fosse quello passato dal sig. Crozat al Barone di Thiers, e attribuito a Leonardo da Vinci; ma infine fu concluso che era veramente perduto. Il 15 giugno del 1844, il Giornale di Tolosa pubblicò nella sua appendice uno studio sopra Fra Bartolommeo, nel quale Alessandro Dumas che ne era autore, ornava P istoria con gli abbellimenti del brillante romanziere, e non mancava di riferire 1’ aneddoto del S. Sebastiano. Due giorni appresso, sull’appendice del giornale medesimo, compariva una lettera del sig. Beniamino Alaffre al Redattore, in che diceva tener per fermo di possedere lo smarrito quadro di Fra Bartolommeo, ed offriva di mostrarlo nella sua casa in Tolosa a tutti gli amatori che lo desiderassero. Seguiva il sig. Alaffre, dicendo non aver documenti autentici per provare che il suo quadro fosse veramente quello inviato al Re Francesco, ma aver però delle potenti ragioni per crederlo. Narrava che durante i torbidi rivoluzionari, uno sconosciuto aveva venduto a suo padre per la meschina moneta di 48 franchi, tre dipinti che si diceva avessero ornata una Cappella Reale dei dintorni di Parigi, uno dei quali era appunto il S. Sebastiano, che egli reputava essere quello di Fra Bartolommeo. I principali argomenti di cui confortava il sig. Alaffre il suo asserto, erano i seguenti. II dipinto inviato a Francesco I non trovarsi in nessun museo, collezione o chiesa di Parigi e de’ suoi dintorni. Di un quadro sì famoso aver taciuto il Filhol e il Re-veil ne’ loro vasti repertori, nei quali hanno pur noverato le bellezze artistiche di tutta Europa; ed essendo stati pubblicati quei repertori nel tempo dell’impero, doversene inferire che il S. Sebastiano del Frate era a quel tempo già di-sparso dal luogo di sua collocazione, e da ogni collezione GIORNALE LIGUSTICO importante. Verificarsi nel suo S. Sebastiano esattamente quanto narra il Vasari, che esso era composto in una nicchia avente attorno un ornamento architettonico, che il Vasari medesimo chiama una doppia cornice. Le circostanze politiche nelle quali ne tu fatto acquisto; l’apparizione di un tal quadro nel mezzodì della Francia, mentre non trovavasi in nessuna delle collezioni in cui avrebbe dovuto figurare quello inviato a Francesco I ; la tenuità del prezzo domandatone dal venditore, che sembra indicare ne dovesse egli il possésso a motivi poco onorevoli ; infine la bellezza dell’ opera, e il giudizio di valenti artisti. Dilungavasi poi il Sig. Alaffre nella descrizione del dipinto e in rilevarne i pregi rarissimi del disegno e del chiaroscuro. Noi diremo solo, che il S. Sebastiano è rappresentato in piedi, veduto di faccia, poggiando il corpo sulla gamba destra, mentre tiene Γ altra alquanto indietro. Il sinistro braccio ha legato tuttavia dietro il dorso , ed eleva il destro (da cui pende la corda che lo avvinceva) per ricevere il premio di sua fede, fisando lo sguardo in un angelo che ferma il volo sopra il suo capo e gli presenta la palma. Tre frecce sono confitte nel bellissimo corpo, interamente ignudo a riserva di un velo che gli fascia i fianchi ; e nudo è pure 1’ angelo che reca la palma. Confronta pertanto il soggetto di quel quadro non solo con ciò che ne dice il Vasari, ma anche con la breve descrizione fattane dal Sindaco di S. Marco nel suo catalogo, che cioè S. Sebastiano era accompagnato da un angelo, del che il Vasari aveva taciuto. Poco appresso, lo scritto del Sig. Alaffre ed un disegno del quadro, vennero inviati a Firenze all’ Accademia di Belle Arti e alla Direzione delle Gallerie, che confermarono il giudizio. Ed il P. Marchese avuta di ciò relazione dal signor Giovanni Masselli, ne dava notizia nella sua opera sugli artisti domenicani. Di un nuovo opuscolo in proposito pubblicato GIORNALE LIGUSTICO II? dall’ Alaffre nel 1851, non ebbe notizia, e però nella seconda edizione fattane dal Le Monnier il 1854 ripeteva semplice-mente ciò che ne disse nella prima. Il Prof. Bayonne essendo in Roma nel 1857 vide ivi per la prima volta 1’ opera del P. Marchese e fu preso dal vivo desiderio di visitare il ritrovato dipinto di Fra Bartolommeo , tostochè ritornando in Francia potesse recarsi a lolosa sua città natale. Ma fu ben sorpreso quando pervenutovi, ebbe bel chiedere di quel quadro, senza potere ottenere nessuna risposta sodisfacente ! Nessuno vi rammentava più il Sig. Beniamino Alaffre, nessuno il S. Sebastiano di Fra Bartolommeo. Dopo molte inutili investigazioni di vari anni, non mai perdendosi di coraggio ed affidandosi all’ adagio chi cerca trova, credette infine di esser giunto allo scoprimento del dipinto desiderato, leggendo come nella Cattadrale di Besanzone si ammirasse un capo d’ opera di Fra Bartolommeo, designato col titolo il martirio di S. Sebastiano-, ma la descrizione che succedeva di quel dipinto lo tolse tosto dall illusione. Nondimeno il pensiero di aver trovato altro quadro di quell insigne artefice , taciuto dagli storici d’arte Italiani , e il desideiio di ragguagliarne il P. Marchese, lo invogliarono a vederlo, e l'anno appresso recandosi a Besanzone per ufficio del suo ministero, come appena potè, si diresse alla cattedrale insieme coll’ abbate di Beausejour. Ammirato lungamente il dipinto, i due ecclesiastici risolvettero di rintracciarne l’istoria, ed il P. Marchese informato di subito della scoperta e regalato di uno schizzo del quadro, potè segnalare nella terza edizione della sua opera (1) la Vergine di Ferry Carondelet, sconosciuta fino allora in Italia. Il Prof. Bayonne persisteva nondimeno nell’ idea di ritrovare (1) Memorie citate, Genova 1869, vol. II, pag. 93, nota 2. GIORNALE LIGUSTICO il S. Sebastiano; e nel 1875 dovendo rimanere in Tolosa più a lungo dell altra volta , riprese le indagini iniziate nel 1857 e con più diligenza, per saper cosa fosse avvenuto del Sig. Beniamino Alaffre e del suo quadro. Dopo infinite ed inutili indagini, avendo trasmesso una nuova nota molto particolareggiata alla Direzione del Museo sul Sig. Alaffre e sul quadro ricercato, potè il giorno della sua partenza avere per tutta risposta dal nuovo Conservatore del Museo medesimo , un appunto di questo tenore : « Il Sig. Alaffre è morto presso » le sue sorelle a Paulhan ». Ne egli mancò di condursi colà, e potè trovare la casa, e 1 unica sorella del Sig. Alaffre, ed aver notizie del tanto ricercato dipinto. Non però dopo cosi lunghe fatiche ebbe il conforto di vederlo allora, giacché il Sig. Beniamino Alaffre lo legò morendo al fratello Goffredo, che lo lasciava il 1 marzo 1871 a suo figlio Giudice di pace a Bézenas, che colà lo trasportava; ma per disgrazia non trovavasi allora in paese. Il Prof. Bayonne necessitato di ridursi al suo monastero, dovette rimettere ad altro tempo il vedere il quadro tanto desiderato, e contentarsi di molte notizie che relative ad esso ebbe dalla Sig. Alaffre. Il fratello suo Beniamino non abitava costantemente Tolosa, ed era tanta l’affezione che aveva pel suo quadro, che si faceva seguir da esso da Paulhan a Tolosa e da Tolosa a Paulhan. Egli mori il 1867 raccomandando alla sorella di donar quel dipinto a suo fratello Goffredo, dottore in medicina. Infine le ricerche di 18 anni avevano sortito un esito felice, e il S. Sebastiano era di nuovo ritrovato. Uno dei suoi correligionari, più fortunato di lui, potò vederlo poco appresso, e ne rimase entusiasmato, confermando in pari tempo le precise misure date di quel dipinto dal Procuratore di S. Marco. Fu allora che il Prof. Bayonne, nell’aspettativa di ammirarlo GIORNALE LIGUSTICO ”9 cogli occhi propri, volle intanto dare annuncio agli amatori dell’ arte del risultato delle sue indagini, e pubblicò la spiritosa lettera intitolata, come io abbia ritrovato il S. Sebastiano di Fra Bartolommeo. Ora poi veduto il dipinto, mi scriveva di esso da Parigi: « Il » chiaroscuro e la grazia incomparabile della figura di S. Se-» bastiano, sono degni di Leonardo da Vinci e di Raffaello. » Non ha niente di quel grandioso michelangelesco, che il » Frate volle introdurre nel suo S. Marco. San Sebastiano è λ rappresentato fra P adolescenza e la virilità ; la testa bellis-» sima è coronata da un’ aureola appena visibile sul chiaro-» scuro ». Mi aggiungeva poi che sebbene la moda volga ora gli amatori ai quadri fiamminghi e ai soggetti di genere, già sono state fatte vistose offerte di quel dipinto, al quale il suo scritto, riprodotto da molti giornali di belle arti e letteratura, condusse numerosi visitatori. Abbiasi pertanto le nostre più schiette congratulazioni il Prof. Bayonne mercè cui se il giudizio degli intelligenti sarà, come sembraconcorde nel riconoscere in quella tavola un’opera originale, tornerà ad ammirarsi un dipinto dei più preziosi fra quelli dell’ insigne artefice toscano. V. Nuovi documenti riguardanti Fra Bartolommeo. Le memorie che seguono le ricevemmo nella forma con che le pubblichiamo dalla cortesia del medesimo Prof. Bayonne, copiate testualmente da antiche carte ritrovate da lui. Non però son tutti documenti originali, ma nella maggior parte trascrizioni di quelli, eseguite per quell’amore di raccogliere in. volumi miscellanei notizie d’ ogni sorta, che formò nei due secoli decorsi la delizia di tanti eruditi. Ed è da saper loro grado di averci serbato nelle copie molte memorie che non 120 GIORNALE LIGUSTICO avremmo possedute, essendo andati dispersi nel principiare del secolo presente molti documenti originali. Per queste che ora si danno in luce rimane chiarito anche qualche punto controverso della vita dell’ illustre artefice ; cosi si rende certo che vestito 1 abito religioso non rimase già sei anni senza riprendete i lavori di pittura, come era sembrato doversi ritenere all egregio P. Marchese, ma non più che quattro; e dimostra ciò la convenzione stipulata sul finir del 1504 con Bernardo del Bianco, di dipinger per lui la tavola da collocarsi nella Badia di Firenze. Pei che poi al principiar dell’ anno 1505 allogasse il fratello Pietro con l’Albertinelli, mentre essendosi ridato all’arte poteva egli stesso istruirlo in quella , ci è ignoto. Si potrebbe dire che forse se cedeva alle istanze che gli si facevano per dipingere la tavola a Bernardo del Bianco, non avesse però in animo in su quel primo di rimettersi all’ arte come ad occupazione speciale della vita; ma non sarebbe che una congettura ; e d’ altra parte le espressioni adoperate nella scritta, e la condizione posta dal del Bianco, che non potesse Fra Bartolommeo prendere a fare altro lavoro grande prima di aver compiuta la sua tavola, non mostrano punto che proprio a suo riguardo, e per uno speciale favore, e per la prima volta, riprendesse P artefice i pennelli; ma darebbero piuttosto a credere che egli avesse ricominciato a dipingere assai prima. \ iene poi riportata al 1510 la commissione avuta dal Frate della gran tavola per la sala del Consiglio in Firenze, e cosi a un anno prima di quello che opinava il P. Marchese, e a sette anni innanzi di quanto aveva detto il Vasari. GIORNALE LIGUSTICO 121 I. 18 Novembre i;oj. Contratto fra Ser Bernardo del Bianco e frate Bartolommeo relativo al quadro destinato alla Badia di Firenze. In nomine Domini N. J. X. amen. Anno Domini 1504, die vero 18 Novembris. Sia noto e manifesto come egli è certa cosa che Bernardo di Benvenuto del Biancho, ciptadino fiorentino, ha dato a fare una tavola daltare, la quale ha a stare nella chiesa della badia di Fiorenza nella cappella di detto Bernardo, a frate Bartholomeo di S. Marco di Firenze, con questi pacti et conditioni, cioè: che decto fra Bartholomeo sia tenuto a fare decta tavola con le infrascritte figure, cioè una madonna ritta con il bambino in braccio , e dalla mano destra sancto Bernardo et sancto Francesco, et dalla sinistra sancto Barnaba et sancto Benedetto, et con certi angioli secondo che sta i1 disegno ha fatto detto fra Bartholomeo, et mostro a detto Bernardo; et le figure habbino a essere grande tanto quanto si chiede nel quadro di detta Cappella; et più, che infino che detta tavola non è finita, che decto fra Bartholomeo non possi pigliare altra tavola a dipingere o altro lavoro grande ; e così sono dachordo che decto Bernardo sia obbligato dare a decto fra Bartholomeo fra mesi .... prossimi . ... et poiché decta tavola sarà finita, se non sono dachordo detto fra Bartholomeo e Bernardo del pregio di decta tavola, che si habbi a chiamare dua amici comuni et farla stimare, o vero se non fussino dachordo 1’ abbino a rimettere in dua dell’ arte et a quello che sarà giudi-chato si habbi a stare (1) ; et tanto debba pagare detto Bernardo a detto fra Bartholomeo per decta tavola. Et per observatione delle predecte cose decto Bernardo si sottoscrive di sua propria mano così essere contento et promettere , et decto fra Bartholomeo con licentia del suo Padre priore cosi prometterà osservare, soscrivendosi di sua propria mano anchora lui. Et io Don Sebastiano monacho della Badia di Firenze ho facto questo scripto di mia propria mano a quegli delle dua parti, anno, mese e dì di sopra. Io Bernardo di Benvenuto del Biancho sono contento a quanto di sopra. (1) Ciò avvenne, mi la differenza insorta sul prezzo fra il committente c il dipintore, fu dopo lungo c molesto litigio composta da Francesco Magalotti, cognato di Bernardo del Bianco, soltanto il 17 luglio del 1507. (Vedi P. Marchese, opera cit., vol. II, pag. 39 e docum. II). 122 GIORNALE LIGUSTICO Per testimonianza mi sono sottoscritto di mia propria mano questo ili detto di sopra. Io fra Bartholomeo di Pagok) di licentia del soperiore di sancto Marco sono contento al quanto di sopra è scripto, ed in fede di ciò mi sono sottoscripto di propria mano, di detto di sopra. Fuori si legge: Della quale (tavola) avemo a pagamento ducati cento d’ oro (i). II. 30 Aprile 1506 e 16 Aprile 1507. Note riguardanti due quadri per Domenico Perini (2). 1506 — Da Domenico Perini a dì 50 detto (aprile) per parte d’un pagamento di un quadro che le fece Fra Bartolommeo dipintore: 175. 1507 Da Domenico Perini a dì 16 detto (aprile) fioreni 30 larghi d oro in oro recò il soppriore disse per pagamento d’un quadretto den-trovi un Presepio ovvero Natività del Nostro Signore, el quale aveva dipinto Fra Bartolommeo nostro frate e a lui venduto 210.1 III. Nota riguardante un quadro per la Compagnia dei Contemplanti (3). 1508 — Dalla Compagnia per infino di novembre passato della Assunzione della Vergine alias de’ Contemplanti, ducati 52 d’ oro in oro, et per loro da M. Giuliano Filippo Tornabuoni e M. Niccolo Deti Canonici fiorentini e per le mani di Francesco Cambi, e sono ducati cinquanta per una tavola dipinta loro da Fra Bartolommeo nostro frate, e due ducati per spese fatte in essa, recò Fra Giov. Battista Stroza Syndaco contanti 364. (1) Si trova fatta menzione di questo lavoro anche in altro ms. posseduto egualmente dal P. Bayonne, nel quale fra altre notizie riguardanti il convento di S. Marco si trova la nota seguente : » Annno 1507. — Da Bernardo di Benvenuto del Bianco per insino a di 16 di luglio fio-« rini 60 larghi d’ oro in oro, presso di dipintura della tavola di S; Marco (S. Bernardo) recò « Fra Ruberto al libro G a 66, 420 ». (2) Questi due dipinti venduti a Domenico Perini per inviare in Francia, il primo de’ qual; rappresentante Cristo e la Maddalena, della grandezza d’un braccio, l’altro grande mezzo braccio, figurante la Natività, sono registrati nel Catalogo del Sindaco, l'uno pel prezzo di ducati 44 d oro larghi, 1’ altro pel prezzo di ducati 30. Si ignora dove ora si trovino. (3) Anche questo dipinto per la Compagnia de’ Contemplanti e registrato nel Catalogo del Sindaco. Passò in casa del magnifico Ottaviano de’ Medici e fu conservato dal figliuolo M. Aies* saudro con molta cura, ma e incerto ove passasse dipoi. GIORNALE LIGUSTICO 123 IV. Note riguardanti un quadro fatto per Lucca (1). 1509 — Et per infino a di 20 agosto lir. 70 dal Sa ... . di Lucca per parte della pittura della tavola dipinse Fra Bartolommeo e quale recò Fra Barnaba di Centi in ducati dieci d’ oro — 70. Da Fra Bartolommeo dipintore per infino a di 4 ottobre 1. 70 per parte di dipintura della tavola la quale dipinse per Lucca, recò lui contanti in diverse monete — 70. 1510· — Da Fra Bartolommeo dipintore a dì 16 settembre recò il Priore contanti — 35. V. 26 Novembre 15io. Deliberazione della Repubblica Fiorentina che venga commesso a Fra Bartolommeo la tavola per la gran sala del Consiglio. I . h . S MDX et die XXVI mens. Novemb. Magnifici et Excelsi Domini et Vexillifer Justitiae simul adunati in sufficienti numero per eorum partitum deliberaverunt et deliberando decreverunt, videlicet: Tabula altaris Salae magnae Consilii majoris qua fuerat in vita olim Philippi fratris Philippi pictoris eidem Philippo ad ipsam pingendam locata qua propter ejus subsecutam ■ mortem pingi per eum non potuit, detur et locetur ad ipsam depingendam et faciendam Fratri Bartholomeo pictori, qui est frater in Conventu et Ecclesia Sancti Marci de Florentia Ordinis Predicatorum Sancti Dominici, eo modo et formis et cum eisdem condictionibus et mercede cum qua et quo et quibus prout ipsa fuerat per primo locata dicto Philippo F.ri Philippi etc. Mandantur etc. Ego Angelus Olim Ser Alessandri etc. CE) (1) Questa tavola e quella che trovasi nella Cattedrale di I.ucca, conosciuta sotto il nome della Vergine del Santuario. H registrata nel Catalogo del Sindaco, fra quelle eseguite nel tempo della seconda società di Fra Bartolommeo con Mariotto Allertinoli!. 124 GIORNALE LIGUSTICO VI i Gennaio 1515 (stile fiorentino). Contratto tra Frate Bartolommeo ed un allievo. Sia noto et manifesto a ciaschuno che leggerà la presente scripta come io Fra Bartolomeo pictore in S. Marco Ord. Pred. con licentia et com-messione havuta dal Padre Priore di S. Marco Fra Hieronymo de’ Rossi, ho preso per garzone et lavorante in bottega a dipingere Francesco di Filippo da Firenze, questo dì primo di gennaio 1515, con questi pacti et condizioni: chio gli debba dare ogni anno per suo salario et pretio ducati dieciotto larghi d’ oro in oro, lavorando lui in bottega o altrove ad mia requisitione l’anno integro, excepto i giorni festivi e consueti di guardare. Et ogni volta che il detto Francesco per sua comodità o altra occasione mancassi dall’ anno integro a lavorare, alhora lui sia tenuto rimectere quel tanto che mancherà, et non rimettendo alhora io non sia tenuto al dargli lo intero numero di 18 ducati ma debba diffalcare quello tanto che lui non ha lavorato. Ed io Fra Bonifacio di S. Marco Ord. Pred. ho facta la presente scripta ad istantia di Fra Bartolomeo et di Francesco sopra-dicti. Et per fede del vero luno et laltro si soscrivera di sua propria mano, anno mese e di sopradecto, anchora di sotto si soscriveranno et danari dati et ricevuti et el tempo che Francesco mancasse. Io Fra Bartholomeo sopradecto sono contento a quanto di sopra si contiene anno et di decto di sopra, et per fede di ciò mi sono sotto-scripto di mia propria mano. Io Francesco di Filippo sono contento etc. etc. (A tergo). Io Francesco sopradecto o a rimectere mesi dua di tempo e quali mi sono iscioperato per le faccende di Piero Zeranio quando e morì, e servì percio aiutare a Giovanni per infino a di decimo di decembre 1516. Ricevuto 18 agosto 13 ducati . . . . 65 » 13 dicembre 1516. . R io » 24 marzo 1516 . . 2 » 30 marzo 1517 . . 2 * 6 agosto .... 2 Ho servito mesi 22 — a rimettere 2 ’/2 GIORNALE LIGUSTICO 125 VII. Inventario di disegni ed altre masseritie rimaste di frate Bart.° dipintore. 106 Charte di disegni di ignudi, crocifixi et torsi cioè figure troncate. 50 » di componimenti schizati. 120 » di teste di sancti et sancte et di donne et di huomini in varie foggie. 210 » di sancti et sancte et angeli vestiti. 16 » di Vergine in varie foggie. 16 » di ischizi di varie cose. 64 » di bambini neri et rossi. 4 Ruotoli in tela di paesi coloriti, cioè tochi di penna. 6 Quadretti di paesi in tela coloriti. 106 Fogli di paesi non coloriti cioè tochi di penna. 16 Charte danimali et capitegli. 63 Fra teste, piedi, et torsi di gesso. 22 Boze di ciera, cioè bambini et altre cose. 136 Charte di figure tochi di penna et di carbone di varie cose. 43 Charte tochi di rosso cioè bambini figure et teste. 12 Libretti di disegni tochi di penna et carbone. (Le dette cose ha frate Paulino nel suo frannello). 2 Paia di sexte 1 a i/2 baccio l’altro */, , e quali di y3 dicono erano di Mariotto. i Modello di legno grande quanto un uomo e dicono era del sopradetto. i » di circha uno braccio. 3 Pezzi di porfido da macinare colori. 1 Pezzo di colombino, uno ne ha fra Eustachio. 3 Bambini di giesso che vene uno che mezo, uno se che ne vende. 2 Quadri frandreschi (sic) di figure fantastiche. Vili. Inventario di disegni ed altre masseritie comodate a Fra Paulo da Pistoja stimati da Lorenzo di Credi. Imprimis. 109 Charte dignudi di più sorte con alcuni torsi. 141 « di teste di sancti et sancte di donne et di huomini di più foggie. 275 λ di sancti et sancte et angeli vestiti. y0 » di bambini rossi et neri. 126 GIORNALE LIGUSTICO 40 Charte di paesi 10 coloriti et 30 11011 coloriti et disegnati con penna. 19 » di animali et capi di animali. 55 » di componimenti schizzati. 60 » di schizi di varie cose. 28 » di schizi di penna. 42 » di bambini et figure et teste, tochi di rosso. 12 Libri di disegni tochi di penna et carbone, in tutti charte 180 incirca. 22 Boze di cera di bambini et altre..... 63 Pezzi fra teste piedi et torzi di gesso, i Modello di braccia 1. i » grande quanto un uomo. 1 Pietra di porfido da macinare et macinello. 10 Teste di gesso di getto. 2 Paie di sexte 1 di braccia l/2 et uno 2/j di braccia. E sopradetti disegni sono stati stimati da Lorenzo dj Credi fior. 30, computando in tal valuta le sopradette masseritie, come per fede di ciò apare qui di sotto di mano di Lorenzo. ANCORA UNA MEMORIA SULLA CONGIURA FIESCHINA Il signor cav. Antonio Gavazzo ci comunica la seguente lettera da lui rinvenuta nell’Archivio di Stato (1), e che contiene alcune notizie sulle condizioni di Genova, le quali ci par bene di far conoscere. Al Reverendo e molto Magnifico Signor Abbate di Negro Embassadore per la Repubblica di Genova appresso la Cesarea Maestà. Signor Abbate, non ne par haver satisfatto a noi medesmi per le allegate in quella parte delli avvisi che il Signor don Ferrante ne da, con volerci far credere che vi sia nella città non buona intelligenza. E noi che conoscemo tutto il contrario e che tutto il mondo ne ha fatto isperienza, e che Sua Signoria che 1’ à provato e provò tutt’ il di doveva crederlo (1) Senato, filza dell’anno i $ $ 3. GIORNALE LIGUSTICO I27 più deili altri, e finge aver avisi che dimostrano 1’opposito, bisogna dire chel vogli da lui stesso ingannarsi, e perchè quest’ufficio che voi fare ς,οη noi di carita poteva haverlo fatto e farlo tuttavia a contrario oggietto. In corte per questo vi s’ è scritto quanto harete visto per 1’ alligate de hoggi, al che aggiungemo che sarà ben che vi faciate cader in proposito dovunque vi parerà raggionarne, affermando a tutti che non po-tria essei maggior fideltà in questo populo ne più zello verso questa Repubblica de quello che avemo provato alli 3 di Genaro del 47 (1547), perchè al liora il populo tutto avea P armi in mano. E li nemici di questa patria, grandi per natura al’ hora, adesso per grazia di Dio estinti, con 1 armi in mano disfate le galere, morto il Signor Giovanni (1), absente et infermo il Principe (2), con 60 in 70 fanti in piazza e non più. E con tutto ciò non vi fu homo che cridasse altro che libertà e repubblica, nè si trovò pur un homo contrario al stato presente. E se al’ hora non se periclitò nè se ne corse" pericolo, adesso nè si può temere nè si deve con tenere ordinariamente 700 fanti in piaza ; e quasi che delli dodeci li undeci mesi ve ne sono più de mille ; con aver conosciuto nelli consegli una tanta conformità che di 400 sei solamenti vi ne sono stati contrarij si dirà che dentro vi sia manegio? E questa è una cosa ridicula o veramente ordita con fine non buono. E francesi spargono queste cotalli cose e pervenghino alle orecchie di don Ferrante non nascono d’ altro se non che vorrebbono scandalizarne, e far che noi stessi non si fidassimo 1’ un di l’altro. E Dio havesse voluto che le spie che esso don Ferrante tiene fossero state tanto vigilanti in avizarlo delli tradimenti che si facevano in Alba et altri loci, come vedemo che sono quelle che gli danno gli avisi delle cose nostre ; li quali quando non hanno che referir inventano cose ridicule forsi per guadagnar la paga. E se ben questo pocheto del discorso vi sarebbe senza dubio socorso, havemo voluto farlo per esaltare un poco quel che preme, che questa nostra intelligenza e concordia non vogli esser creduta da chi ne fa tuttavia tanta esperienza. Di Genova il di 3 di fevraro mdliii. (1) Giannettino D’ Oria. (2) Andrea D’ Oria. 128 GIORNALE LIGUSTICO DI UNA FALSA PORPORA TROVATA IN ROMA per Antonio e Giovanni De-Negri Le porpore marine, cioè i tessuti di lana (i) o di seta (2) tinti coll umore dei murici, furono sempre rarissime (3), e nelle epothe di maggior lusso i porporari (4) soddisfecero alle sfrenate richieste adulterando le vere porpore, ossia ne (1) Omero (Odiss., IV, 135. — VI, 53), Plinio (Hist. mundi), in più luoghi; Ovidio (Amor, lib. Ili), Seneca (Hercul. Oet., Act. II, Se. 1), Tibullo (lib. IV, eleg. 2; lib. II, eleg. 4), Aristotile, Vitruvio, Polluce ed in genere tutti gli antichi scrittori. (2) Sidonio Apollinare, (Carmen XV, vers. 1^7); Seneca, (Hipp., Act II, Se. 1); Vopisco, (in Aurei, vita); ed il Codice Giustiniano, (Lex. I, lib. IV, tit. 40). Anzi a questo riguardo vogliamo riferire una epigrafe trovata presso Marino, sopra un cippo di marmo bianco, la quale fa menzione d’un porporario de Fico Tusco, il qual vico era in Roma e vi si fabbricavamo le vesti di seta, come si legge in Marziale (lib. XI, Ep. 28) : Nec itisi prima velit de Tusco serica vico. L’epigrafe è la seguente, venne copiata da P. Rosa ed è registrata nella memoria del dott. Henzen nel Bollettino dell'istituto di Corrispondenza archeologica, Roma, 1853, pag. 131: L . PLVTIO . L . L . EROTI PVRPVRARIO . DE . VICO TVSCO . PLVTIA . L . L. AVGE FECIT . SIBI. ET VETVRIAE . C . C . L . ATTICAE. E dunque probabile che questo Pluzio fosse un tintore di porpora serica. (3) J. Pollux, Onom. lib. VII, cap. 15. — Athen., lib. XII. — Martial., lib. Vili, Ep. 48. (4) Porporari dicevansi coloro che tingevano in porpora. Veggasi Polluce (Onom., lib. V, cap. XXXIII) ed Eliano (De nat. anim., lib. XVI, cap. 1). GIORNALE LIGUSTICO 129 imitarono il colore con tinte che traevano dalla Gallia (1), dall Egitto (2) e dalle isole dell’Arcipelago greco (3). Questo fatto, storicamente sicuro, ci fornisce la principale ragione del perchè non siasi ancora trovata fra le anticaglie una veste qualunque tinta colla vera porpora marina, mentre que’ pochi avanzi di tessuti antichissimi che si scoprirono in alcuni sepolcri e che per il loro colore porporino vennero creduti reliquie dell’ antica porpora, si riconobbero fucati (4) ossia adulterati con tinte estratte dalle piante. (1) Plikius, Historia mundi, lib. XXI, § XCVII. — Hyacinthus in Gallia maxime provenit. Hoc ibi fuco hysginum tingunt. lib. XXII, § III. — Jam vero infici vestes scimus admirabili fuco..... transalpina Gallia herbis Tyria atque conchylia tingit......Nec quaerit in profundis murices. (2) Clemente Alessandrino (Poedaglib. II, cap. X) dice che in Egitto.....propter hanc (purpuram) Tyrus et Sidon.....maxime desiderantur, . ... at etiam delicatis pannis admiscentes dolosae mulieres . .... fraudolentes dolosasque lincturas, insano quodam amore modi modestiaeque limitem transiliunt. Ed Arriano (Peripl. mar. eryth.) pariando dei commercio dell’ India racconta che ivi vendevansi vesti militari i cui colori erano adulterati, (... abollae adulterini coloris, Op. cit., pag. 145) e lo stesso ripete delle vesti arabiche (.... vestes arabicae et maxima ex parte quidem adulterina; Op. cit.. pag. 157) e di quelle che si mandavano a Barigaza ( .... vestis simplex et adulterina omnis generis, Op. cit., pag. 166). (3) Plinius, Op. cit., lib. ΧΠΙ, § XLVIII. — Circa Cretam insulam nato (fuco) in petris purpuras quoque inficiunt.....lib. XXXII, § XXII. — Laudatissima (alga) quae in Creta insula juxta terra in petris nascitur; tingendis etiam lanis, ita colorem adligans, ut elui postea non possit ......... lib. XXVI, § LXVI —.......phycos thalassion, id est, fucus marinus, latucae similis , ... . crispis foliis, quo in Creta vestes tingunt. Pare che anche a Tiro si facessero porpore fucate : Strata micant, Tyrio quorum pars maxima fuco Coctu diu, virus non uno duxit alieno. (Lucanus, Phars., lib. X). (4) In modo translato fucatus significa adulterato. Plinio parlando del minio distingue il vero dal falso e questo chiama fucato (fucatum nigre- Giork. Ligustico , Anno V. 9 130 GIORNALE LIGUSTICO A dire il vero le ricerche archeologiche fatte per rinvenire qualche saggio della vera porpora degli antichi furono finora pochissime, ne noi sappiamo che i chimici abbiano mai studiata altra porpora all’infuori di quella rinvenuta nel 1864 in Milano nei Sepolcri Santambrosiani, la quale era certamente adulterata perchè imitata con una miscela d’indaco e d’ altra sostanza rossa che venne creduta resina-lacca (1). Ignoriamo se esista ancora la pretesta porporea scoperta in Pompei e che una volta trovavasi nel Museo di Portici, in ogni modo non fu studiata la natura della materia xolla quale era tinta. I segnacoli, porporini che si trovarono in alcuni libri bizantini antichissimi erano colorati colla cocciniglia e d ugual natura era l’inchiostro porporeo adoperato dagli Imperatori Greci; e non era certamente preparato coi murici il porporisso rosso analizzato dal prof. Pilade Paimeri e rinvenuto a Pompei (2). scit. Gp. cit., lib. XXXIII, § XL); come pure da 1’ appellativo di fucato all’ oppio che non sia genuino)..... quae in fucato (opio) non eveniunt, Op. cit., lib. XX, § LXXVI ; ed altrove alla scurrilità d’ un servo, che chiama subdola, attribuisce pure 1’ epiteto di fucata (Liciscus Legonem puerum subdolae ac fucatae vernilitatis, Op. cit., lib. XXXIV, § XIX), ed è questo il significato che ha nel dialetto, genovese la parola fuccao (persona astuta e fraudolenta. Casaccia, Όϊχΐοη. genov.) la quale forse deriva dal latino fucatus. (1) FrapollI, Lepetit e Padulli, Sulla natura della sostanza colorante-trovata nell’ urna di S. Ambrogio in Milano. (Ga%%. chim. ital., Palermo, 1872, pag. 72). G. Bizio, La porpora degli antichi e la sostanza colorante trovata nel-V urna di S. Ambrogio in Milano. (Ga%{. chim. ital., 1872, pag. 433. A. G. De-Negri, Sulla sostanza colorante trovata nell’urna di S. Ambrogio in Milano. (Atti della R. Università di Genova. 1875, vol. III. pag. 112. (2) P. Palmeri , Ricerche chimiche sopra 12 colori solidi trovati a Pompei. (Giorn. degli scavi di Pompei, nuova serie, vol. III. Napoli, 1876, n.° 26). GIORNALE LIGUSTICO 131 Tra le porpore erbacee (1) vuoisi ancora annoverare quella che nel gennaio del 1872 si trovò entro un’urna d’argento in Roma nella basilica dei XII Apostoli. Quest’ urna giaceva (1) Porpora erbacea, cioè tinta con colori estratti dalle piante, in Apposizione della vera porpora che chiamavasi marina, perchè colorata col-1’umore dei murici, cosi nel libro dei Maccabei (lib. I, c. IV, 23), in Omero (Odiss., lib. IV. 53), in Aristotile (De colorib., tona. III) ed in Polluce ; anzi secondo quest’ ultimo non era vera porpora marina se non quella dei re, le altre erano tutte fucate e si indicavano col nome generico di porpore (Vestis autem regia ex purpura maritima erat, aliorum vero e purpura tant.um. J. Pollux, Onom., lib. VII, cap. 15). • Allorché gli antichi volevano parlare della porpora vera le davano il nome di ostro da οστρεον, conchiglia marina (Quod ex concharum mannarum testis eximitur ideo ostreum est vocitatum. Vitruvius, lib. VII), e questo nome venne attribuito di .preferenza alle porpore, tirie e sidonie, le quali avevano fama d’ essere preparate col liquido porporigeno dei murici ; onde Ovidio verseggia: ......Tyrioque nitentior ostro Flos oritur.....(Metamorph., lib. X) ed altrove ......et Tyrio jaceat sublimis in ostro (Heroidum, Ep. XII) e Stazio Nec te Sydonio velatam molliter ostro (Silvarum, lib. V) e Sidonio Apollinare chiama sidonio il murice Serica sydonius fucabat stamina murex (Carmen XV). Anche Alcimo Avito distingue assai chiaramente 1’ ostro ossia porpora marina, dalla porpora comune ossia fucata. Nec te sydonimi bis cocti muricis ostrum Induit, aut rutilo permulcens purpura fuco (Poemat., lib. VI). e lo stesso fa Orazio laddove dice che 1’ uomo accorto per distinguere 132 GIORNALE LIGUSTICO nel sepolcro degli apostoli Filippo e Giacomo minore, il quale verosimilmente rimonta all’ anno 566, cioè a papa Giovanni III. Allorquando nel 1876 noi abbiamo dato alle stampe un no- l’ostro sidonio dalla porpora fucata deve Γ uno all’ altro avvicinare e quello porre in contrasto con questa, onde facilmente conoscere il vero: .....qui sydonio contendere callidus ostro Nescit aquinatem potantia vellera fucum. (Epist., lib. I. ep. 10). Anche il nome di blatteo venne attribuito alla vera porpora marina e particolarmente a quella che preparavasi a Tiro: Pontus castorea, blattam Tyrus, aera Corinthus. (Sid. Apoll. , Carmen V) · ed il suo colore era quello delle viole Aurus ordo crocis, violis hinc blatteus exit (Venant. Fortunat, lib. VII, Poem. VII) ossia quello della porpora Albent purpureis ubi lactea lilii a blattis (Venant. Fortunat., lib. IX, Poem. X) ed è probabile che fosse la stessa cosa che la porpora dibafa, mentre sappiamo che veniva da Tiro (blattam Tyrus), che ne aveva il colore (purpureis blattis, — violis hinc blatteus) ed Alcimo ci avverte che tingevasi due volte alla maniera della porpora dibafa. .....et fulgidus auro Serica bis coctis mutabat tegmina blattis (Alcim. Avit, Pom., lib. III), ciò che pure ripete Sidonio lib. IX, ep. XIII. I Greci antichi chiamarono βλαττίον il rostro di murici (Blatta Byzantia os nasi purpurae), in seguito prendendo la parte per il tutto blattion venne a significare conchiglia e finalmente il colore che estraevasi dalle conchiglie ossia la porpora marina. Ed infatti blattifero fu chiamato il Senato romano, come quello che vestiva la porpora Blattifer vel quam tribuit Senatus (Sid. Apoll. , lib. IX. Ep. ult.). Quindi Blatteum fu sinonimo di Ostrum, e 1’uno e 1’altro si diedero al colore dei murici, mentre invece purpura fu nome generico, col quale s’indicarono tanto le porpore vere, quanto le false, ed anzi il più delle volte soltanto le fylse. GIORNALE LIGUSTICO 133 stro lavoro sulla' Porpora degli antichi (i), abbiamo manifestato il desiderio di avere qualche tessuto porporino di vecchia data onde vedere se per caso potessimo rinvenirne qualche brano che fosse veramente tinto coll’ umore dei murici. A questo nostro desiderio soddisfaceva immediatamente l’illustre P. Angelo Secchi facendoci pervenire una piccola quantità di quella sostanza porporina che nel 1872 era stata trovata nella basilica dei XII Apostoli ed a facilitarcene lo studio ci comunicava gentilmente alcuni suoi appunti in proposito. La quantità di materia da analizzare che ci fu mandata era piccolissima, cinque 0 sei centigrammi soltanto, più un residuo proveniente da una precedente analisi incominciata da altri. Benché così male provvisti noi abbiamo voluto tentare la prova, e crediamo essere riusciti della nostra impresa, determinando la vera natura della sostanza colorante in questione, od almeno accertando non essere questa la vera porpora marina. Il P. Secchi, che essendo a Roma potè vedere questa porpora in grande quantità ed anche sottoporla ad alcuni assaggi chimici, ci scriveva che presentava le apparenze di una stoffa ridotta in minuta polvere, che pareva un tritume d’ab ito tarlato, a fili cortissimi, tanto che alcuni lo credettero spugna.... questa polvere bagnata con acqua e spremuta col dito sulla carta bianca dava Un bellissimo colore a^jiirro con filetti rossi. Il suo colore naturale era un bellissimo a^urro-violaceo con riflessi di rosso. Il piccolo campione messo a nostra disposizione presentava gli stessi caratteri notati dal P. Secchi, soltanto abbiamo constatato che esso conteneva pochissimi filamenti organici e che la sostanza colorante era insolubile nell’ acqua, per cui se qualche volta il liquido pareva violetto ciò dipendeva dal polviscolo sottilissimo che restava in sospensione. (1) A. e G. De-Negri, Della materia colorante dei murici e della porpora degli antichi. (Atti della R. Università di Genova, \ol. Ili, 1876). 134 GIORNALE LIGUSTICO Stante Γ esiguità dei campione furono pochi gli esperimenti che noi abbiamo potuto eseguire, e ci fu d’uopo di molto ordine per non sprecare inutilmente la materia prima, nel che siamo riusciti facendo servire le medesima porzione a più saggi. Ciò non di meno i risultati ottenuti ci hanno dimostrato che anche questa non è la vera porpora marina, ma una porpora erbacea ossia fucata, colla quale sono pure mescolate le reliquie d un tessuto coccineo, anch’ esso sciupato dal tempo ed un polviscolo minerale di color porporino, il quale con molta prooabilità potrebbe essere una specie di porporisso, se non il vero, almeno una imitazione di esso. Ed infatti nella reliquia porporea della basilica dei XII Apostoli esistono molte fibre di lino, altre rosse ed altre violette, alcuni pochi filamenti di lana rossa e gran copia di scaglie, lamellari, oblunghe, striate e trasparenti di colore azzurro violetto carico. Questa diversità di fili tessili e di colori accenna a varietà di tessuti, ovvero ad unico· tessuto che fòsse a più colori, od anche ricamato, e le scaglie solide azzurro-violette richiamano alla mente il porporisso con cui si dipingevano i muri e che forse venne impiegato nella decorazione della primitiva ed antichissima urna mortuaria. Come abbiamo detto, i filamenti di lino non sono tutti dello stesso colore ; ve ne sono dei rossi e dei violetti, la tinta è abbastanza solida, penetrò profondamente nella materia tessile e riempiè la cavità tubulare delle fibre. Ordinariamente questi fili sono cortissimi, assai più brevi di quelli di lana, ma il loro numero è molto maggiore. Questi ultimi sono tutti rossi, ed apparentemente il loro colore non differisce punto dal rosso vivo leggermente ametistino che presentano i filamenti di lino, il che fece nascere il sospetto che gli uni e gli altri fossero tinti colla medesima sostanza colorante, ciò che venne poi dimostrato dai saggi chimici. GIORNALE LIGUSTICO ISS Nel precedente nostro -lavoro riguardante la Porpora degli Antichi noi abbiamo dettagliatamente indicate la proprietà del rosso di porpora, abbiamo descritto il suo spettro d’assorbimento ,. il quale presenta una leggiera banda oscura nel gialloverde, ed abbiamo notato che non è alterato dagli acidi diluiti e che anzi si discioglie assai bene negli acidi concentrati colorandoli in rosso. Or questi caratteri non si riscontrano nel principio rosso analizzato, che anzi gli acidi, particolarmente se concentrati, ne estinguono facilmente la fiamma ed in ultimo lo rendono giallo. Quanto ai risultati microspettroscopici noteremo che in nessun modo abbiamo potuto vedere la banda oscura che appartiene al rosso di porpora. Del resto non pare che gli antichi usassero tingere col-Γ umore dei murici le fibre vegetali, o se il facevano ciò avveniva molto raramente, mentre nella · tintura del lino adoperavano colori erbacei e quando volevano ottenere un rosso assai vivo, come'è quello di cui parliamo, adoperavano il coccus che chiamavano eziandio coccigranum, vermiculus, joie (1), · il quale secondo gli eruditi non è altro che il Chermes vegetale, con cui ancora attualmente preparasi lo scarlatto (2), e che prima che si estendesse Γ uso della cocciniglia serviva pure per fare il cremisi ed altri rossi viva-' rissimi, ora accesi e fiammeggianti, ora invece più. cupi e leggermente violetti. Le proprietà spettrali e chimiche della sostanza tintoria rossa di cui si tratta collimano benissimo con quelle del principio colorante del Chermes, di guisa che ne risulta evidente P identità. L’lina e Γ altro ingialliscono quasi istanta- (1) P. Schützemberger , Traité des matières colorantes. Paris, MDCCCLXVII, tom. II, pag. 342. (2) J.. Girardin, Leçons de Chimie élémentaire appliquée. Paris, 1862, tom. II, pag·. 526. 136 GIORNALE LIGUSTICO neamente in contatto degli acidi minerali, e dove 1’ azione dell’ acido non sia troppo profonda un piccolo eccesso di ammoniaca ripristina la tinta, la quale in tal caso riesce meno accesa ma tende maggiormente all’ ametisto nel quale però predomina il rosso. L’ ammoniaca concentrata e le soluzioni alcaline a poco a poco distruggono la tinta ametistina, la rendono rosso-vinosa ed in ultimo gialla. È bellissimo il porporino che si ottiene colla potassa diluita e somiglia a quello della cocciniglia ammoniacale, ma da questo si distingue perchè d’ un violetto assai più rosso. Sono notissime le due bande d’ assorbimento esistenti nello spettio delle soluzioni alcoliche ammoniacali di cocciniglia, le quali occupano presso a poco la stessa regione spettrale do\e si trovano le bande del sangue. Queste bande si vedono difficilmente nelle soluzioni ammoniacali di Chermes, ordinai iamente vi sono appena accennate, oppure in loro luogo sta una banda unica, molto estesa ed assai male definita, che vela appena il giallo-verde ed anzi un eccesso di ammoniaca ovvero d alcole fa scomparire anche questa banda e non ottiensi che uno spettro continuo più o meno intensamente velato, massime alle due estremità. Il contrario avviene se in luogo dell ammoniaca si adoperi la potassa, in tal caso lo spettro è nitidissimo, e si vedono le due bande molto distinte, le quali. corrispondono a quelle delle soluzioni alcolicopotassiche di cocciniglia. Le soluzioni alcaline di cocciniglia a poco a poco si scolorano quelle invece di Chermes hanno ancora una tinta rossa dopo 24 ore; il contrario avviene se si faccia uso dell’ ammoniaca. Inoltre le soluzioni di cocciniglia alcaline sono sempre d’un ametista deciso, quelle invece di Chermes sono d un ametista che tende al rosso-aranciato (1). (1) Vogliono alcuni chimici che il principio colorante del Chermes sia identico con quello della cocciniglia, il che è ancora dimostrato dalla sue proprietà spettrali secondo che noi stessi abbiamo constatato; ciò GIORNALE LIGUSTICO r37 Alcuni saggi microspettroscopici ripetuti colla sostanza rossa analizzata confermarono quanto già erasi dedotto dagli esperimenti chimici e quindi stabilirono meglio che quei filamenti di lino oppure di lana non sono tinti col rosso dei murici, ma colla grana. Riguardo alla sostanza colorante violetta che si vede sopra molti dei filamenti di lino, ma che non si rinvenne nella lana, non è sicuramente porpora marina, e nemmeno una imitazione di essa fitta col guado oppure coll’ indaco, a somiglianza di quella trovata nel 1864 nei sepolcri Santam-brosiani. Il colore violetto carico di cui si tratta è instabilissimo e se per qualche istante resiste all’ azione dell’ acido cloridrico diluito, a poco a poco piglia il colore rosso-vinoso, e dopo un lungo contatto diventa giallastro. noii di meno i tintori ci attestano che colla cocciniglia non si possono avere certe tinte che invece si ottengono bellissime colla grana. Cependant il est certaines couleurs pour les quelles on ne peut pas encore s en passer: telle est celle que les Orientaux préfèrent pour leurs calottes ou bonnets nommés Fez ou Tarbouches (J. Girardin, Leçons de Cb.élém. appi. Tom. II, pag. 563). , Nel Chermes, oltre al principio che esso ha comune colla cocciniglia, ne esiste senza dubbio un altro assai più stabile, il cui rosso tende al-1’ arancio. Infatti nel corso dei nostri studi spettrali notammo che le soluzioni alcaline di Chermes, quantunque ancora assai cariche di tinta, ciò non di meno non sono più capaci di produrre nello spettro le due bande, che abbiamo indicate,· mentre le soluzioni corrispondenti di cocciniglia assai più diluite e pero molto, meno colorate somministrano uno spettro d’ assorbimento visibilissimo. Questo fatto dimostra che il· colore ' rosso leggermente ametistino della soluzione alcalina di Chermes dipende da due pigmenti diversi Γ uno dotato delle stesse proprietà spettrali che appartengono a quello della cocciniglia e l’altro ugualmenle rosso ed incapace di produrre nello spettro le dette due bande. Il primo abbondante nella cocciniglia non esiste che in piccola quantità nel Chermes, mentre-invece vi s’incontra in maggior copia il secondo. i3S GIORNALE LIGUSTICO Analoga è 1’ azione dell’ acido solforico. Adoperando acidi ' concentrati il color giallo comparisce subito. Se quando i filamenti sono di color vinoso, per F azione di un acido diluito, si aggiunge ammoniaca in eccesso, ricompare immediatamente il colore azzurro-violetto primitivo. La potassa diluita produce lo stesso effetto, ma concentrata distrugge la tinta e le fibre diventano arialle. Questo principio azzurro-violetto pare identico con quello che esiste nella sostanza minerale azzurro-violetta di cui è formata la maggior parte del polviscolo porporino analizzato; imperocché coi reattivi sperimentati si comporta nello stesso modo. Inoltre abbiamo potuto constatare che non si discioglie negli ordinari solventi della porpora e dell’ indaco (cloroformio , acido solforico ed acido acetico) e che scaldato non emette vapori violetti (Indigotina animale o vegetale). A giudicarne da alcuni saggi microchimici questa sostanza colorante sarebbe molto analoga a quelle che si estraggono da alcuni licheni, ed ha qualche somiglianza col tornasole; e non vi ha dubbio che con essa è associato un principio minerale (calce, argilla ed ossido di ferro) ed una sostanza glutinosa di natura organica, il che fa credere che questo colore, piuttosto che per tingere un tessuto abbia altra volta servito per dipingere col pennello: Gli antichi facevano grande uso del fuco per produrre delle tinte le quali imitassero quelle della porpora (i) e lo ado- (i) Oltre al fuco per imitare i colori porporini gli antichi adoperarono altre materie tintoriali, le quali ordinariamente erano miscele d’ azzurro e di rosso. Nella Gallia i tintori valevansi del guado, del giacinto ed anche dei vaccinii, secondo che apprendiamo da Plinio, (Op. cit., lib. XXII, § II; — lib. XXI, § XCVIÌ; — lib. XII; § XXXI) e da Vitruvio (cap. ult., pag. 148). Il Filargirio crede che il vaccinio sia la stessa cosa del giacinto. Virgilio attribuisce ai vaccinii lo stesso colore che hanno le viole: Et violae nigrae sunt et vaccinia nigra, Eclog. X. GIORNALE LIGUSTICO 139 perarono ora solo (1), ora invece unito con altri ingredienti (2),-e qualche fiata lo mescolarono eziandio coll’ timore porporigeno dei murici (3). Ordinariamente veniva-il fuco dall’Oriente e specialmente di Creta, nasceva tra gli scogli nei luoghi guadosi. I Greci lo dicevano Phycos thalassion (4) ossia fuco marino. Usavasi pure 1* indaco (A. e G. De-Negri, Della materia colorante· trovata-nell’ urna di Sani’ Ambrogio in Milano. Atti della R. Univ. di Genova). Quanto al rosso facevasi colla robbia (Vitruvius, VII. 14) ovvero colla grana (Plinius, Op. cit., lib. XXIV, § LVI) e non ;di rado ottenevasi col balaustrio che era il fiore del pomo granato (Plinius , Op. cit., lib. XIII, § XXXIV). (1) Plinio nei luoghi citati colla nota 7. Catullo negli Argonauti dice che la porpora tingevasi col fuco roseo — roseo fuco. (2) Plinius, Op. cit., lib. XXII, § XCVII. Democritus Abderit. In Phisic. — Ad praeparationem vero purpurae ingredientia sunt haec. Fucus, quem vocant pseudoconchylium, et cocclius, et flos marinus..... (3) Plinius, Op. cit., lib. XXVI, § LXVI. - Phycos thalassion, idest fucits mcirinus .... quettt conchyliis substernitur. (4) Lucrezio (lib. IV, 1121) parla d’una veste talassina o talassica ........teriturque thalassina vestis Assidue et Veneris sudorem exercita potat. Ovidio enumerando i colori che s’incontrarono nelle vesti, accenna a quelli che imitavano le onde e che da queste pigliavano il nome : Hic unda imitatus·, habet quoque nomen ab undis; Crediderim Nymphas hac ego veste tegi. (Ovidius, De art. amat. lib. III, 176)· Con tutto ciò non si potreobe invece sospettare che quelle vesti si dicessero talassiche perchè tinte col fuco talassico? E la ferrugine, che al dire di Plauto {In mil. Act. IV. Se. 4) e un colore talassico, non sarebbe per avventura una qualità di porpora fucata ? .....Palliolum habeas 'Ferrugineum, nam is color thalassicus est. 140 GIORNALE LIGUSTICO Eranvi fuchi di varie specie ed è probabile che fossero ori-celli, e comunemente adoperavansi per aggiungere azzurro alla porpora allo scopo di accrescerne il pregio essendo maggiormente stimata quella in cui colore era più carico (1). Per questo mettevasi il fuco sotto al conchilio (2) ovvero se ne tingeva il giacinto per ottenere l’isgino (3), il quale a no-stio avviso era una tinta porporina-cerulea, mentre Properzio ci fa sapere che appunto ceruleo era il colore che somministrava il fuco : An si caeruleo quaedam sua tempora fuco Tixerit, idcirco caerulea forma bona est (4). Del resto il ceruleo era uno dei colori che chiamavansi poi poi ini (5) , come lo era egualmente il violetto quasi az-zuiro (6) , il quale fra tutti i colori porporini era preziosissimo. (1) Plinius, Op. cit., lib. IX, § LXII. — Rubens color nigrante deterior. (2) Plinius, Op. cit., lib. XXVI, § LXVI. — Vedi nota 19. (3) Plinius, Op. cit., lib. XXI, § XCVII. — Hyacinthus in Gallia maxime provenit. Hoc ibi fuco hysginum tingunt. (4) Propertius, lib. II, Eleg. 18. (5) Secondo Maimonide la porpora del sommo Sacerdote degli Ebrei, che ottenevasi coll’ umore dei murici, era turchina ossia celulea. ... Et postea elixus erat lanam in eum immergunt, donec fiat coelo concolor (Hieroz. Brochart, part. II, lib. V, c. 9). Plinio scrive che le tende di cui era ricoperto 1’ anfiteatro di Nerone eianò cilestri(co7on coeli). Diodoro Siculo invece le dice porporine, ciò che prova che il celuleo era un colore porporino, giacché l’uno e l’altro parlano delle medesime tende come risulta dalle loro descrizioni. Veggasi nota 39. (6) Era azzurra la porpora dei re persiani della quale parlano Vopisco (in Aurei, vita) e Curzio (Cidarim Persae Regium capitis vocabant insigne : hoc coerulea fascia albo distincta circuibat. — Q, Curtius, lib. III). Anche i re galli avevano la porpora azzurra, ma questa forse si faceva col guado, il quale secondo Plinio veniva adoperato dai porporari ( . . . . infectores lanarum utuntur. — Op. cit., lib. XX, § XXV), ed era coltivato nella Gallia (simile plantagini glastum in Gallia. — Op cit lib. XXII, § II). GIORNALE LIGUSTICO 141 Inoltre conviene ricordare ciò che abbiamo sopra notato che la sostanza tintoriale con cui è colorato il polviscolo minerale presenta gli stessi caratteri chimici che vennero constatati nel principio azzurro-violetto con cui sono tinti i filamenti di lino, per cui noi Γ abbiamo giudicata identica. Or bene questo fatto rende ognora più probabile quanto abbiamo finora detto, cioè che il violetto carico analizzato sia fuco, essendo noto che questa pianta serviva non solo nella tintoria dei tessuti, ma è probabile che si adoperasse ancora per fare il ceruleo e qualche volta entrava nella composizione del porporisso. Era il ceruleo, così detto con nome proprio, un colore solido usato nella pittura e ve ne aveva di varie gradazioni, fra le quali una assai carica di tinta (1). La base ne era la creta o meglio un’ argilla, alla quale comunicavasi la tinta col sugo d’ un’ erba (2). Non potevasi stemperare colla calce, ma era d’'uopo valersi della creta chè altrimenti se ne (1) Plinius, Op. cit., lib. XXXIII, § LVII. — Caeruleum arena est.... candidiorem, nig.rioremve. ' Distinguevano gli antichi varie gradazioni nell’ azzurro, e dove non bastasse la testimonianza di Pliiiio, si avrebbe pure quella d’Ovidio il quale nel III libro dell 'Arte aviatoria descrivendo i colori delle vesti femminili, prima ci presenta quelli abiti il cui vago turchino somiglia al ciel sereno e poi ci indica quelli la cui tinta imita il colore delle onde. 'Aeris ecce color, tum quum sine nubibus aèr, Nec tepidus pluvias concitat auster aquas. Hic undas imitatus, habet quoque nomen ab undis: Crediderim Nymphas hac ego veste tegi. (2) Plinius, Op. cit., lib. XXXIII, § LVII. — Caeruleum Tingitur autem omne et in sua coquitur herba, bibitque succum. S 142 GIORNALE LIGUSTICO guastava la tinta (i). Se ne faceva anche del falso colorando col succo delle viole la creta eritrea (2). Il porporisso era un colore solido adoperato esso pure nella pittura, impastandolo con sostanze glutinose ed imperocché era di grande valore veniva fornito al pittore da colui per cui ordine eseguivasi il lavoro (3), Si faceva mettendo a bollire nella porpora la creta argentaria (4). Ma si rendeva più bello imbevendolo di isgino (5) , oppure si faceva a meno delle porpore e si colorava senz’ altro la creta colla robbia e col- 1 isgino (6) il quale per testimonianza di Plinio era -un (1) Plinius, Op. cit., lib. XXXIII, § LVII. — Usus in creta, calcis impatiens. (2) Plinius, Op. cit., lib. XXXIII, § LVII. —......fraus, viola ai ida decocta in aqua succoqiie per linteum expresso in cretam eretriam. (3) Plinius, Op. cit., lib. XXXV, § XXVI. — E reliquis coloribus, quos a dominis dari diximus, propter magnitudinem pretii, ante omnes est purpurissum ; lo stesso ha già detto al § XXI del medesimo libro. (4) Plinius, Op. cit., lib. XXXV, § XXVI. —.....purpurissum e creta argentaria, cum purpuris parietes tingitur.....Era grandemente pregiato il porporisso puteolano, cioè preparato colla creta di Pozzuoli ed anzi stimavasi migliore del Tirio, del Getulico e dei Laconico (Quare Puteolanum (purpurissum) potius laudatur, quam Tyrium, et Getulicum, et Laconicum, unde pretiosissimae purpurae. Plin., loc. cit.). .Checché ne pensi o ne dica qualche erudito, è fuor di dubbio che a Pozzuoli vi erano officine porporarie, forse istituite dai Tiri, i quali vi tenevano una fattoria (Gruteriana, 1105. 3). Infatti lord H. Walpole scoprì presso una tomba di Pozzuoli questa -epigrafe che ci ricorda il nome d’ un porporaio ossia tintore di porpora : D.M. L . PL . HER. MIPPO. PVR. Questo Mippo sarebbe forse un fabbricante di porporisso puteolano? (5) Plinius, Op. cit., lib. XXXV, § XXVI. — Quare Puteolanum potius laudatur.....causa est quod hysgino maxime inficitur. ..... (6) \^itruvius, Op. cit. VII. 14. — Fiunt purpurei colores infecta creta rubiae radice et hysgino. GIORNALE LIGUSTICO H3 colore fucato (i). Era dunque il porporisso un colore rosso, leggermente porporino, e con esso si poteva simulare la por pora attaccandolo coll’uovo, sopra un fondo peruleo (2). Or bene noi siamo d’ avviso che là sostanza a scaglie di colore azzurro-violetta rinvenuta nel tritume da noi analizzato, sia veramente il ceruleo di cui parla Plinio 0 meglio un porporisso adulterino steso sopra il ceruleo e la sostanza glutinosa - che lo accompagna potrebbe essere albumina od altra materia attaccaticcia che ne tenga il -luogo (3). D’ordinario gli antichi non tingevano coll’umore porpori-geno che la lana e la'seta, il colore di porpora che qualche volta mettevano sul lino (4) ed in genere sopra le fibre vegetali 'non era vera porpora marina ma erbacea o fucata. ■Ciò non di meno Diodoro Siculo narra che certi popoli abitanti le Isole Fortunate « Si fanno vesti colla bianca la-» nugine che prendono entro una canna, la quale, tingono » colle ostriche marine » (5). Erano porporine le tende che coprivano F anfiteatro di Nerone (6) ; come pure le vele della nave di Cleopatra alla (1) Plinius, Op. cit., lib. XXI, § XCVII. — Veggasi· la nota 23. (2) Plinius, Op. cit. lib. XXXV, § XXVI. — Si purpuram facere malunt, caeruleum sublinunt, mox purpurissum ex οϋο inducunt. (3) Plinius, Op. cit., lib. XXXV, § XXVI. —.... ex ovo inducunt. Vitruvius, Op. cit. lib. VII, cap. X, —.....et ea contrita cum glutino in opere inducetur,..... (4) Plinius, Op. cit., lib. XIX, § V. — Tentatum est tingi linum quoque ..... (5) Diodorus Siculus, Rer. antiquit., lib. III. —.......vestes parant ex lanugine ac splendida ex medio arundinem sumpta, qua maritimis tincta ostreis vestimenta purpurea conficiuntur. (G) Plinius, Op. cit., lib. XIX, § VI. — Vela nuper colore coeli, stellata, per rudentes iere etiam■ in ampbytheatro Principis Neronis. Diod. Sicul. , lib. LXVI> — Vela per aerem extensa, solis arcendi causa, purpurea erant. .144 GIORNALE LIGUSTICO battaglia d’Azio (i) , le quali è a supporsi che fossero di lino ovvero di carbaso , giacché queste sono le materie tessili con cui anticamente si facevano vele e tende, e perchè Plinio ne parla nel libro dove ragiona del lino. Cosi parimenti erano di lino molti di quei veli trasparentissimi, chiamati nebulae, ad uno dei quali Lucano da l’epiteto di Sidonio ossia porporeo : Candida Sidonio perlucent pectora filo (2). Le vesti di lino anticamente servivano negli usi sacri; gli Egizi, gli Ebrei, i Greci e gli stessi Romani usavano seppellire i morti ravvolti in sindoni di lino. Nè queste tele funerarie erano sempre bianche, ma vi fu tempo in cui per maggior lusso si fecero porporine per cui fu d’ uopo prescrivere con una legge che avessero ad essere bianche e. non altrimenti tinte con grave dispendio (3). Ma ciò che più importa sapere, perchè più da vicino interessa al nostro caso, si è, che anche i primitivi cristiani usarono di mettere in tele di lino, qualche volta preziose (4), i cadaveri, e che S. Eutichiano papa ordinò che i resti dei martiri fossero seppelliti con dalmatica porporea (5); ed il rito ecclesiastico prescrive da tempi remotissimi che ai cadaveri dei vescovi, dei preti, dei diaconi, e dei suddiaconi si dia sepoltura entro vesti di colore violaceo (6). Del resto le porpore fucate erano comunissime presso gli (1) Plinius, Op. cit., lib. XIX, § \. — Velo purpureo ad Actium cum M. Antonio Cleopatra v'enit.....Hoc fuit imperatoriae navis insigne. (2) Lucanus, Pbars, lib. X. V. 125. (3) Cicero, De legib., I. 2. —......color albus praecipue decorus deo est, tunc in coeteris, tunc maxime in textili. (4) Tertullianus, De Cor. mil.r c. 3. (5) Lupi, Dissertazioni, Faenza 1785, Dis. IX. — Ut quicumque fidelium martyrem sepeliret, sine dalmatica aut colohio purpureo, nulla ratione sepeliret. (6) D’Avino, Enciclopedia, vol. I, pag. 645, GIORNALE LIGUSTICO I45 antichi, nè la cosa poteva essere altrimenti, imperocché la porpora marina era cosa di grandissimo valore (i) e quindi rarissima (2), di modo che diventò distintivo dell’ autorità regia (3) e pontificia (4) e Giove stesso si copri di porpora (5).e fu detto porporioni (6). Ma quando le vesti (1) Plinius, Op. cit., lib. IX, § LX. — Conchylia et purpuras omnis hora atterit, quibus eadem mater luxuria paria paene et margaritis pretia fecit. Martialis, lib. VIII, Ep. 10. — Emit lacernas millibus decem Bassus Tyrias coloris optimi: Id. lib. X, Ep. 41. — Constatura fuit Megalensis purpura centum Millibus, ut nimium munera parca dares. Teopompo (lib. XV delle Storie) scrive che in Colofone la porpora pa- gavasi a peso d’ argento (.....par namque purpurae argenti pondus rependebatur. Athen., lib. XII); ed Orazio (lib. I, Epist, 10) diceche il dolore di colui a cui fu venduta una porpora fucata in luogo del vero ostro sidonio è tale che tocca il cuore ed il danno è certo. (2) Atheneus., lib. XII. —.....quod indumentum eo seculo rarum fuit etiam apud reges et extimationis maximae..... Martialis, lib. VIII, Ep. 48. Non quicumque capit saturdtas murice vestes ; Nec nisi deliciis convenit iste color. (3) J. Pollux, Onom., lib. VII, cap. 15. (4) Gregorius Nissenus, Orat. S. Teod. (5) Nell’ atrio d’ una casa di Pompei vicina al tempio della Fortuna è dipinto un Giove assiso sopra un trono d’oro, la cui spalliera è ricoperta d’un drappo violetto ed un ricco panno di porpora violata vela le gambe del dio ('Herculanum et Pompei. Paris, MDCCCXL, vol. IV, pag. 125, PI. 52). Servio Tullio vesti con pretesta di porpora l’idolo della Fortuna (Plin., Op. cit., lib. Vili, § XLVIII); ed a Giano offerivasi la porpora Purpura te (Jane) felix, te colat omnis honos. Martialis, lib. Vili, Ep. 8. (6) Fabretti, Corp. Inscrip. ital., Aug. Taurinorum 1867. — Purpurio — onis. Adjunctum Iovis, in marmore apud Marini. Inscr. alb., pag. 1, n.° 1. IOVI. OPTIMO . MAXIMO . PVRPVRIONI. Giorx. Ligustico, Anno V. 10 146 GIORNALE LIGUSTICO porporine diventarono comuni, di guisa che le indossarono i mimi, i gladiatori ed i servi stessi, si dovettero necessariamente adulterare, onde ribassarne il costo (1), secondo che testimoniano Plauto, Cicerone, Orazio, Ovidio, Ma-ziale, Petronio, Polluce, Clemente Alessandrino, Democrito ed Arriano. La natura adulterina della porpora in questione risulta an- Geremia (cap. X, v. 9) e Baruch (cap. VI, v. 12) ci mostrano ricopeiti di porpora i simulacri di tutte le divinità babiloniesi ed altrettanto din.-Tertulliano nel libro dell’ Idolatria (cap. XVIII). (1) Che le porpore erbacee costassero assai meno delle marine risulta da più luoghi. Ovidio consiglia alle sue donne di non ambire 1 ostro tirio ma di volersi contentare di lane tinte con colori di minor prezzo. Quid de veste loquar ? Nec vos, segmenta, requiro; Nec quae his tyrio murice, lana, rubes. Quum tot prodierint pretio leviore colores, Quis furor, est census corpore ferre suos ? (De Art. amat., lib. III, v. 169). E Marziale ride di Basso il quale andando sempre vestito di colori erbacei, metteva poi la porpora nei di solenni, Herbarum fueras indutus, Basse, colores, Jura theatralis cum siluere loci. Quae postquam placidi Censoris cura renasci: Jussit, et Oceanum certior audit eques; Non nisi vel cocco madida, vel murice tincta Veste nites, et te sic dare verba putas. Quadringentorum nullae sunt, Basse, lacernae Aut meus ante omnes Codrus haberet equum. (Lib. V, ep, 23). Ed altrove alludendo alla semplicità delle proprie vesti, che mette in confronto con quelle di Marco assai più ricche, dice: Me veste la Gallia, te Tiro Te Cadmea Tyros, me pinguis Gallia vestit: Vis te purpureum, Marce, sagatus amem ? (Lib. VI, ep. 11). giornale ligustico T47 cora e\ idente dalla sua instabilità, imperocché quantunque siasi conservata per più di 12 secoli, restando chiusa in un sepolcro entro un urna d’ argento, essendo facilmente scolorata dagli acidi e dagli alcali anche diluiti, non avrebbe sicuramente mantenuta la sua tinta per un tempo così lungo se fosse stata esposta alla luce od altrimenti soggetta all’ azione dell atmosfera. Le vere porpore erano pregiate non solo per la loro vaghezza, che risultava ognora maggiore se ponevansi in confronto colle false (1), ma erano estimatissime perchè non temevano le ingiurie della luce (2) nè quelle del tempo (3) e non erano scolorate dalle lavature (4). Nel polviscolo porporino trovato nella basilica dei XII Apostoli abbiamo pure constatata la presenza di molti fili di lino di color rosso-vivo leggermente ametistino che noi giudicammo tinti colla grana, eranvi pure, ma in numero molto minore, dei filamenti di lana dello stesso colore. Sono notissime le vesti coccinee degli antichi, stimatissime poco meno della porpora, 1’usarne apparteneva ai ricchi (5), (1) Horatius, Epist., lib. I, epist. 10. (2) J. Pollux — Pachimerus. (3) La porpora ermionica trovata da Alessandro nel tesoro di Dario conservò la sua bellezza inalterata per più di 200 anni (Plut. In Alex. mag. vita) e secondo Plinio (Op. cit., lib. VII, § XL Vili) la pretesta di porpora con cui Servio Tullio rivestiva il simulacro della Fortuna si conservò intatta per più di 260 anni, cioè fino alla morte di Seiano il quale fu ministro di Tiberio. « (4) Lucretius, lib. VI. Purpureusque colos conchylii jungitur una Corpore cum lanae, dirimi qui non queat usquam Non si Neptuni fluctu renovare operam des, Non mare si totum velit eluere omnibus undis. (5) Atheneus, lib. XII. Martialis, lib. VIII, ep. 48. Propertius, lib. III. — Matrona incedit census indicta nepotum. I4§ GIORNALE LIGUSTICO agl’imperatori (1) ed ai Pontefici (2). I tessuti coccinei si mescolavano coi porporini e vi si facevano ricami d’ oro (3) e di gemme. È certo che il coccus desili antichi è il nostro Chermes vegetale (4); usavasi per tingere non solo la lana e la seta, ma eziandio il lino (5). La tinta che somministrava era lo scarlatto ed ancora oggidì serve a quest’uopo, ma spesso univasi colla porpora (6) ed è probabile che entrasse in molti colori composti (7). (x) Plinius, Op. cit., lib. XXII, § III. —.....coccum imperatoriis dicatum paludamentis. Isidorus, lib. XIX, cap. 24. — Paludamentum erat insigne pallium imperatorum cocco, purpuraque et auro distinctum. (2) Exodus, cap. XXVIII. 7. — Faciunt autem superhumerale de auro et hyacinto et purpura coccoque bis tincto et bysso retorto opere polymito. (3) Isidorus, lib. XIX, cap. 24. — Veggansi le note 59 e 60. Exodus, cap. XXVI. 1. — Decem cortinas de bysso retortas, et hyacintho ac purpura coccoque bis tincto opere plumario facies. (4) Plinius, Op. cit., lib. XXIV, § IV. — Coccum ilicis.....Est autem genus ex eo in Attica fere et Asia nascens, celerrime in vermiculum se mutans...... Id., lib. XXVII, § XLVI. — Cocco Gnidio color cocci, magnitudo grano piperis major..... Id., lib. XXI, § XXII. — Rubentem in cocco. II coccus dicevasi anche vermiculus, il qual nome corrisponde all’ebreo tolhaath, all’ arabo kermes, al vermillon francese ed al vermiglio in italiano (Pro cocco juxta latinum eloquium, apud Hebraeos tolhaalth, idest vermiculus scribitur. Hieron., Epist, 128. Ad Fab. de ,vest. sacerd.). (5) Plinius, Op. cit., lib. XXX, § XXX. — Lino rutilo in linteolo. Id. lib. XXIV, § CVI. — Et illigata in lino rufo. (6) Plinius, Op. cit., lib. IX, § LXV. —.....coccoque tinctum- Tyrio tingere...... (7) Plinius, Op. cit., lib. XXXV, XXVI. Il prof. Paimeri è d’ avviso che il colore n.° 185 rinvenuto in Pompei sia appunto un porporisso, fatto colorando colla robbia e colla cocciniglia (noi crediamo col Chermes) la terra bianca di Pozzuolo (Ricerche chimiche sopra dodici colori solidi trovati a Pompei, Op. cit.). GIORNALE LIGUSTICO 149 A complemento di quanto finora abbiamo detto intorno al tritume porporino della basilica dei XII Apostoli, resterebbe a ricercare se i filamenti di diverso colore in esso trovati provengano da un unico drappo, il quale fosse a più tinte, oppur ricamato, ovvero da due o più tessuti di diverso colore. Rispondere a questo quesito è cosa non solo difficile, ma impossibile. Gli antichi sapevano tessere drappi con fili di di diversa tinta, ed erano queste le opere polimite (i); in Egitto si conosceva l’uso dei mordenti, mediante i quali con un medesimo bagno, ottenevano nello stesso tempo più colori sul medesimo tessuto (2), come pure è antichissima 1’ arte del ricamo e tra la vesti ricamate erano assai rinomate quelle di Babilonia (3). Spessissimo vengono dai classici ricordati gli abiti d’ un sol colore, e quelli che erano arricchiti di molte tinte; parlano di vesti variate, variegate, cangianti, dipinte, ricamate, ornate di meandri, di frangie, nastri e (1) Plinius, Op. cit., lib. Vili, § LXXIV. — Plurimis vero liciis intexere, quae polymita appellant, Alexandria instituit. Lucanus. Pars auro plumata nitet, pars ignea cocco Ut mos et Phariis miscendi licia telis. (2) Plinius, Op. cit,, lib. XXXV, § XLII. — Pingunt et vestes in Aegypto inter pauca mirabili genere, candida vela postquam adtrivere illinentes non coloribus, sed colorem sorbentibus medicamentis. Hoc quum fecere, non adparet in velis: sed in cortinam pigmenti ferventis mersa, post momentum extrahuntur picta. Mirumque quum sit unus in cortina colos, ex illo alius atque alius fit in veste, accipientis medicamenti qualitate mutatus. Nec postea ablui potest; ita cortina non dubie confusura colores, si pictos acciperet, digerit ex uno, pingitque dum coquit. (3) Plinius, Op. cit., lib. VIII, § LXXIV. — Colores diversos picturae intexere Babylon maxim celebravit, et nomem imposuit. Martialis, lib. VIII, ep. 28. Non ego praetulerim Babylonica picta superbe Texta, Semiramia quae variantur acu. Plautus. — Babylonica peristromata, consuta tapetia. r5° GIORNALE LIGUSTICO cordoncini, porporini, coccinei, azzurri e di tutti quanti i colori, dalle gradazioni più belle e più vive alle più tenere e delicate. Ciò non di meno considerando che i filamenti di lino azzurro-violetti esistenti nel polviscolo analizzato sono in numero presso a poco uguale a quello dei filamenti di lino rossi, quando invece quelli di lana in confronto sono pochissimi, si potrebbe ammettere, come verosimile, che il detto polvi-scolo provenga dalla distruzione di un unico drappo di lino, intessuto di violetto e di rosso e ricamato con lana rossa; e ioise era una di quelle opere polimite a due licci il cui prezzo arrivò a vincere quello de’ ricami babiloniesi (i). Quindi riepilogando queste nostre conclusioni, noi diciamo che a nostro avviso il tritume porporino trovato nell’ urna d argento nella basilica dei XII Apostoli proviene da un’ antichissima tela di lino la quale probabilmente era tessuta a due fili, 1 uno de quali rosso (coccineo) e 1’ altro azzurrovioletto (fucato), il cui colore nell’insieme doveva essere d’un porporino piuttosto vago ed elegante, la quale si può ammettere che fosse arricchita d’ornamenti fatti con lana rossa. Non e dunque improbabile che quella sindone o veste antichissima fosse un opera polimite alessandrina di color porporino, con guernizioni, ricami o frangie coccinee. Inoltre noi crediamo che la sostanza minerale azzurrovioletta che in tanta copia trovammo mista coi filamenti tes-’ sili, sia un residuo del colore dato col pennello con cui in tempi remotissimi era stato decorato P antichissimo sepolcro dove prima di papa Giovanni III giacevano le ossa degli apostoli Filippo e Giacomo minore. Forse è questo un saggio di quel colore che i Romani chiamavano ceruleo e che met- (i) Martialis, lib. XIV, ep. 150. Haec tibi Memphitis tellus dat munera: victa est Pectine niliaco jam Babylonis acus. GIORNALE LIGUSTICO tevano sui muri ovvero sui legni ricoperti d’ un intonaco calcare (i), oppure è una specie di porporisso adulterino, del più carico di tinta, il quale serviva agli stessi usi e si adoperava nel medesimo modo, ora isolato, ora invece con altri colori, e non di rado col ceruleo, se volevasi imitare la porpora. Questo lavoro venne eseguito nel Laboratorio di Chimica generale della R. Università di Genova. SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA '(Continuazione da pag, 7/) XXIII. Sezione di Archeologia. Tornata del 6 Luglio 1877. Presidenza del Preside can. prof. Angelo Sanguinei i. 11 socio D. Marcello Remondini legge la seguente Dissertazione intitolata: Come debba reintegrarsi la supposta iscrizione dei Sapienti Pisani, già nella chiesa di San Domenico in Genova. Fra le iscrizioni medioevali, che nel mio continuo ricercare di esse, a seconda dell’ onorevole incarico cui tengo da Voi, stimatissimi Soci, solleticassero di più la mia curiosità, e accendessero in me vivo desiderio di rinvenire, si è una la quale accennerebbe ai Sapienti Pisani fatti prigionieri alla Meloria, morti in Genova e sepolti nella chiesa di San Domenico, secondo che lessi nella monografia della chiesa di San Matteo dettata dal nostro compianto collega Jacopo D Oria. Il quale al capo III dice, che tra i prigionieri fatti in quella occasione furono diciasette Sapienti; e nella relativa xxix ìl- (1) Argilla, gesso, creta. IJ2 GIORNALE LIGUSTICO lustrazione scrive : — « Il Du Cange nota come Aulo Gellio chiamò Sapientes i maestri di diritto, e come nel medio evo avessero in Italia pur tale appellazione i primarii cittadini, col consiglio dei quali erano le cose pubbliche amministrate. Quelli fra i Sapienti di Pisa, che morirono prigionieri in Genova, vennero tumulati nella chiesa di San Domenico. Sul loro sepolcro, quando nel 1300 si conchiuse la pace fi a le due avverse Repubbliche, fu scolpita la seguente iscrizione , cui il Piaggio ed il Paganetti ci conservarono : ANNO MCCC. SEPVLCRVM IN Q.VO SVNT SEPVLTI SAPIENTES CIVES PISAR V Μ ET IN EO Qyi YOLVNT SEPELIRI ». Confesserò che sprone ancora più forte a questa ricerca fu in me un certo sospetto, che la recata iscrizione non sia punto genuina. Donde abbia desunto il D’ Oria che questi Sapienti di Pisa fossero in numero di diciasette non saprei, che egli noi dice: sta per altro che così il Piaggio come il Paganetti ci danno entrambi in questi precisissimi termini la epigrafe. Ed io metterei pegno che il nostro socio riposò interamente sulla fede di questi due raccoglitori, e soltanto cercò di ingegnosamente spiegarla. Ciò posto, lasciamo in pace il D’Oria, e facciamoci a interrogare il Piaggio e il Paganetti. Ma essi non parlano; e si tengono paghi di darci la iscrizione come esistente nella chiesa di San Domenico. D’ altra parte sono così perfettamente concordi nel riportarla, da farmi nascere in cuore un altro sospetto sul conto loro : cioè che il Paganetti, scrittore del 1766, 1’ abbia avuta o tolta dal Piaggio il quale fin dal 1720 la ponea nella sua raccolta. Di modo che questi due GIORNALE LIGUSTICO ISS testimoni si ridurrebbero a un solo : il Piaggio. Il Paganetti si sa che si rimetteva facilmente alle relazioni altrui; ed è per ciò, io penso, che in fatto iscrizioni sono ne’ suoi volumi tanto stampati che manoscritti inesattezze ad ogni piò sospinto. Ma 1’ avranno altri, mi direte voi. — Nò, per quante indagini io m’abbia fatto. Nè il Pasqua che raccolse prima di loro nel 1610; nè il Giscardi che, mezzo fra loro, compilava nel 1754 una sua doppia raccolta ; nè l’Acinelli, nè altri che mi sappia fra gli antichi e moderni. Il Piaggio adunque la ci diede , e non altri che il Piaggio. Però i marmi scritti che erano in San Domenico fortunatamente son salvi, almeno per la massima parte. Ce ne è uno al Municipio, uno nel palazzo Spinola in Pellicceria, uno a Santa Maria di Sanità ; altri si trovano in San Matteo , altri in San Pancrazio, altri alla porta dell’ oratorio della Concezione in Castelletto ; una grandissima parte poi nella nostra Università. Dunque si cerchi questo epitaffio, e chi sar' Così pensai, e così feci. — Ma vana fatica ! Tra i più che trecento pezzi di marmo che appartengono alla distrutta chiesa di San Domenico da me veduti, nè uno che abbia Γ epigrafe di cui parliamo. Per altro non fu tutta fatica sprecata. Ne trovai uno al quale il Piaggio non accenna nè punto nè poco, e che mi dà luogo a induzioni meritevoli, a veder mio, di essere sottoposte al vostro giudizio , per venire a due non dispregevoli risultati; cioè P eliminazione di una epigrafe creduta esistere ma non mai esistita, e la riunione delle due metà di una epigrafe sola, fin qui malamente divise come fossero due iscrizioni a parte, così nella raccolta scritta del Piaggio come in quella dei marmi che è nelle scale del nostro Ateneo. Il marmo a cui accenno, è un pezzo a cilindro, il quinto de’ sei (a contare dall’ alto in basso) de quali oggi là in *54 GIORNALE LIGUSTICO quelle scale si compone la colonnina sorreggente il busto del P. jSpotorno. — Questo marmo porta la seguente scritta APrilis · mcccc · i · memo · z · volvwt SEPellin · possit · qmilibèì · pisanzìì Qui ■ HIEO ■ VOLVEHT · SEP ELIRI. Son quindici parole con nulla meno che dodici abbreviazioni , e per giunta in nesso e così formate da potersi con facilità scambiare con altre. La parola abbreviata AP con cui comincia l’epigrafe, ha il P così fatto che pare una N. Cosicché AN da nulla preceduto e seguito immediatamente dalle cifre della data, chi è che non spiegherebbe per anno? Poi 1 ’ emme che vale millesimo : e i C delle centinaia innestati così uno nell’altro, da poter di quattro che sono in realtà esser presi agevolmente per meno. Sè-guita un’asta: è l’unità che fa parte della data 1401 ; la quale asta, staccata com’ è dal resto e in mezzo a due punti, può dar luogo a interpretazioni diverse. Viene poi in qvo segnato colle sole iniziali I e Q, così unite insieme da poter essere lette per in. Segue il segno della congiunzione et , indi un "V e un O (la prima sillaba di volunt) facili a togliersi tutte tre unite per qvo : la seconda sillaba di volunt} cioè lvnt , quanto è facile ad essere letta per svnt ! Qui finisce la prima riga. La seconda ha quattro parole in tutto ; delle quali è prima sepi, abbreviazione che può dare tanto sepelliri quanto sepulti. Seconda è poss, cioè P, O e due S con una trattina sopra: è il possit detto pocanzi da me, ma che altri con diverse idee può torcere ad altri significati. Sèguita per terza il qvilibet abbreviato, in lettere un po’ appariscenti appena quattro e non troppo ben fatte, le quali GIORNALE LIGUSTICO I55 * possono benissimo piegarsi a dar la parola cives. — Pisarvm poi nella quarta parola ve lo leggerebbe chichessia, prestan-dovisi benissimo il pisan che in realtà ci è}, terminante col segno di abbreviazione che può dare così rvm come vs. Vien presso nella terza riga un Q che vale q.vi; ma che non mi farebbe specie se, cancellata alquanto nel marmo la parte a destra della lettera, venisse scambiato col solito segno del-P et. Segue in eo , chiarissimo, non ostante 1’ enne, in abbreviazione. Indi volverit coll’ erre segnato per una trattina facile a sfuggire di vista ; e per conseguenza un volunt o checché altro in luogo suo. Finalmente, metà ancora nella terza e metà nella quarta riga, la parola sepeliri bella e lampante. Ma a che scopo questa minuta e noiosa esposizione? A farvi toccar con mano, se potessi, lo scambio del Piaggio. Sì; più ci penso', e più mi persuado che quella iscrizione dei Sapienti Pisani riferita dal nostro raccoglitore non esiste e non esistette mai, nè altro è che questa or da noi analizzata e da lui letta a sproposito. O non lo sentite anche voi? ap. mcccc — anno 1300. La cifra I — 0 presa per iniziale, 0 pel segno della parola sepulcrum. i 0.· z · volvt · sepi — in quo sunt sepulti ■ qilib · pisan' — cives Pisarum · 0. · i eo · volveit sepeliri — et in eo qui volunt sepeli) i. Quindici parole in una e quindici' parole nell’ altra, non tenuto conto dell’ ultimo avi scaturito non saprei donde, se non è dall’ 0 di eo che sta innanzi al volverit. Ma possibile? Scambiare 1400 con 1300? E qual meraviglia ? Un altro simile marmo che sammenta il sepolcro dei OOIHNALE LIGUSTICO fratelli Maineri porta la data di 1433 > eppure fu letto dal Piaggio, e l’abbiamo nella sua raccolta, con la data del 1238. Ma dov è, ripiglierete la parola sapientes ? — Il Piaggio la lesse - sapete dove ? — nel. poss abbreviazione di possit. Io mi penso che il signor Domenico debba aver dato per un pezzo le spese al cervello, per leggere e darsi ragione di quel poss abbreviato, messo in mezzo al svnt sepvlti da lui letto innanzi e al cives pisarvm da lui letto dopo. E chi ne dice che un bel di, affacciatosi alla sua mente notarile quel sapientes da lui letto forse in qualche antico atto del medio evo, nel senso attestatoci dal Du-Cange e adottato dal nostro Jacopo D Oria, non gli sia sembrato di vederlo nascosto se non altro in quei due S sormontati dalla trattina abbreviativa, e non abbia detto , non trovando di meglio : Oh ! si tengano il po i lombardi, i due S voglion dire sapientes ? Ma checché sia di ciò, non è a tenersi per istrana cosa, e tanto meno per impossibile, lo scambio di poss con sapientes. Non ci è grandissima differenza tra Georgius e Andi casi tra Bernardus e Raphael? Eppure troviamo questi due scambi fatti dal nostro Jacopo D’ Oria nella sua Descrizione di San Matteo, là dove legge Y iscrizione del capitello di una delle quattro colonnette angolari del chiostro. Jacopo D’Oria accuratissimo, che osservava con diligenza, e segnava con iscrupolo e punti e croci e abbreviazioni ! Chi sa in quale angolo della chiesa di San Domenico sarà stato il nostro cippo, di qual luce illuminato, a quale altezza, e via dicendo ? Quando si ha il marmo libero alla mano, da potersi esporre alla piena luce del sole come aggrada e come torna meglio, è un conto ; ma quando è fisso in un dato posto , tante volte sfavorevolissimo, è ben altra cosa. In Albenga , nella chiesa di S. Malia in fontibus, è una lapidetta incastrata in un pilastro alla non maggior© altezza di un uomo. Si direbbe co- GIORNALE LIGUSTICO modissima a leggersi ; eppure io non vi potei riuscire, benché la stessi a considerare lunga pezza. La lessi solo qui in Genova, pel calco che ne ritrassi e che [restava libero alle mie mani. E il nostro socio corrispondente cav. Rossi, che nella sua Storia di Albenga mette tutte le iscrizioni di quella città, perchè questa non reca? Perchè, scommetterei, non potè leggerla. — Dunque perdoniamo al Piaggio se credette di yedere sapientes in possit, in quo sunt dove è in qvo volvnt, con tutto il resto ; e conchiudiamo questo primo tratto del nostro discorso con ritenere (almeno come pare a me) che la iscrizione Anno millesimo ter centesimo Sepulcrum in quo sunt sepulti Sapientes cives Pisarum etc. riferita dal Piaggio , riportata dal Paganetti, e dal D’Oria commentata, non esistette mai: ne altro e che una sgraziata fraintenditura del marmetto il quale dice: Aprilis millesimo quadringentesimo primo in quo et volunt sepelliri possit quilibet pisanus con quello che segue. Passiamo ora al secondo de’ due punti che ci siamo prefissi. E innanzi tutto domandiamo : che cosa dice questa scritta ? Quel volunt da che è retto? Le parole in quo della prima riga, e in eo della terza a che si riferiscono ? Certo a sepolcro, dacché si parla qui di seppellimenti ; ma dov è la parola Sepulcrum ? Inoltre la particella et dopo la data (in quo et volunt) ne dice chiaro che quanto segue è una aggiunta alla proposizione principale; ma questa proposizione principale iS8 GIORNALE LIGUSTICO dove si trova? Nulla dirò dell’ AP, con cui comincia la scritta, e che così solo riesce a una anomalia : nulla dirò del non portare , contro il consueto, alcun segno di principio in capo, come a dire la croce o lo stemma, benché abbondi lo spazio ; ma evidentemente questa non è iscrizione intera. Sopra a questo cippo doveva in origine essercene un altro, che dia la prima parte seguita da questa la quale ne costituirebbe la seconda. Rintracciamola. Svolgendo la raccolta del Piaggio, dopo la iscrizione dei Sapientes, da lui riferita nel vol. II, pag. 195, non più oltre della pag. 197 del medesimo volume mi si affaccia una scritta col suo stemma in capo , la quale si riferisce a certi Lolia (com’ egli scrive) cittadini di Pisa , con la doppia data di marzo 1400 e di aprile 1401. — Quest’ ultima data , e il civium Pisarum che contiene, mi pare che la facciano accostare d’assai alla mezza iscrizione trovata fra i marmi che sono all Università. Di grazia vediamo se anche di questa troviamo traccia in quei marmi. Detto fatto, onoratissimi Soci. Ecco che nelle scale dell’ Università sul medesimo ripiano , in una seconda colonnetta formata colle epigrafi a cilindro appartenenti a San Domenico, e posta a sostenere il busto di non so qual gentiluomo antico, sta appunto la epigrafe desiderata. Essa è la seconda a contar dall’ alto in basso, la quale letta a dovere dopo la croce con cui comincia, dice: f sepulcrum · moanms · z · lodovici · oeL · vo LIA · Z · FRATRVWi · Z FILIPr · MICAELÛ · pe VOLIA CIVIVW · PISARM7W · in QUO POSltUS · FVIT · MICHAEL · PETRI · De VOLIA · DIE · XVII · O o MArCII · M CCCC · SVPfADITWÌ · FILIP/W · DIE · XXI · .7. ° 0 \mlis · μ ccccl · supravìctus · FILIPMÌ · DIE · XI · I GIORNAIE LIGUSTICO *59 Si noti che quanto segue ad Aprilis si vede scritto a modo di correzione, e che l’asta con cui il marmo si termina è solcata alquanto in disparte dall’ xi. Veramente io era da principio inclinato a credere che l’abbreviazione DL VOLIA nella prima riga dovesse significare de loco Volia, sia perchè poi nelle altre linee, ripetesi semplicemente de volia , sia perchè nell’ Istoria delle, famiglie fiorentine di Pietro Monaldi (pag. 421) si afferma che l’antico e nobilissimo casato pisano Da Voglia è cosi detto da una contrada d’ onde vennero. Se non che , dietro il parere (voi sapete quanto apprezzabile) de’ nostri soci Desimoni, Belgrano e Sforza , leggeremo in vece del volia, trovandosi benissimo dei cognomi scritti nella forma del su riferito. E il marmo qui finisce : ma 1’ epigrafe è proprio finita ? _Confesso che in quanto al senso propriamente non mancherebbe nulla, potendosi quell’ ultima asta di cui ho toccato, ritenere come non esistente, e fatta dallo scultore 0 per isbaglio o nell’ idea di formar la lettera A iniziale di Aprilis in relazione colla data scritta poco prima. Ma debbo anche confessarvi, che a farla cosa finita non mi sento inclinato : tanto più che dopo quel pezzo di A, benché vi sia posto d* avanzo , non si vede nessuno di que segni che i nostri vecchi, generalmente parlando, avevano cura di mettere per indicare la fine, come a dire una 0 più foglie a rabesco, ovvero parecchi punti in linea 0 a forma di cioce. ì\o qui non ci è nulla. Dunque io direi che Γ epigrafe si continuava con altro marmo. E non potrebbe appunto essere quello frainteso dal Piaggio, e che comincia precisamente colla stessa data con cui finisce questo , aprilis mcccci, quasi continuando la frase ? Lo scultore cominciava a indicare la parola Aprilis nel primo pezzo, e già avea formato 1 asta principale del-1’ iniziale A, quando credette miglior partito mettere il mese unito all’ anno che andava a scolpire nel pezzo di ι6ο GIORMALE LIGUSTICO marmo sottostante. Di qui quell’ asta , che nei primi anni forse stette coperta da un qualche mastice ; di qui la divisione dei giorni rimasti nel primo pezzo dal mese ed anno posti nel secondo. Oh ! l’addentellato non potrebbe desiderarsi migliore. Ad ogni modo proviamo a metterli insieme; e se non armonizzano perfettamente, non sia. Eccoli uniti ; essi vengono a dire così: Sepolcro di Giovanni e di Ludovico del Volia e fratelli, e di Filippo e di Michele del Volia cittadini di Pisa,. In cui fu posto Michele di Pietro del Volia il giorno iy Mar^o 1400. Il sopradetto Filippo il giorno 21 Aprile 1401. Poi di nuovo correggendosi : Il sopra detto Filippo il giorno 11 Aprile 1401. Nel quale anche vogliono possa sepellirsi qualunque pisano che in esso voglia esser sepolto. Ditemi di grazia non cammina egregiamente ? Ma già capisco , e vedete se indovino. Quasi quasi sareste con me, ma osta ancor qualche cosa. I caratteri de’ due marmi non vi pare che siano pienamente conformi ; poi in uno le righe sono più lunghe e nel- 1 altro più ristrette; finalmente pensate che se fossero stati questi due pezzi uniti là in San Domenico , il Piaggio non ne avrebbe tanto malamente divise le scritte. E concludete: Noi non ci possiamo indurre a far tanta ingiuria ad un uomo che non era certo senza abilità ed ingegno. E dite bene, o Signori. Per altro ho ancora da esporvi una piccola cosa, che spero farà scomparire queste difficoltà. GIORNALE LIGUSTICO È un mio quasi divinamento, se volete , ma ho fiducia che non lo troverete infondato. Dunque bisogna sapere che la chiesa di San Domenico era e fuori e dentro, almeno in parte, costrutta a zone alternate bianche e nere. Fra voi forse sarà chi l'avrà ancora veduta, e saprallo. Io non la vidi, ma per la facciata il so da un rozzo disegno che ne ha il Piaggio, e per l’interno da un quadro esistente nella sacristia di S. Maria di Castello rappresentante la predicazione di S. Vincenzo Ferreri in San Domenico, nella quale dipintura è un po’ di prospettiva di detta chiesa. — Ora io penso che, o isolate o aggruppate con altre, debbono essere state colà delle colonne più o meno alte, fatte a pezzi alternati di marmo bianco e di pietra scura. I cilindri di pietra e anche di marmo non iscritti pigliarono in gran parte la via dell’ Acquasola,, dove furono posti a sorreggere dei sedili; i cilindri di marmo scritti penso sieno questi che abbiamo all’ Università. Ed ecco come la immagino io. I due nostri pezzi erano divisi da una zona di pietra scura. Lo scultore trovatosi con a mano quella epigrafe un po’ lunga, da scrivere in una di queste colonne, poich’ ebbe riempiuta una zona fu costretto di passare all’ altra sottostante. Di qui l’apparente diversità di carattere. Dico apparente; perchè in realtà non ci è differenza nelle forme. Soltanto nel primo pezzo è generalmente più piccolo, più fitto, più premuto, essendosi Γ incisore tenuto forse nell’ impegno di fare che la epigrafe tutta intera in quello si contenesse: nel secondo invece è più grande, più aperto e sciolto, dacché l’artefice avendo dovuto passare a questa nuova zona, contro ciò che sperava, veniva a sovrabbondargli lo spazio. Similmente diversificano le righe, in quanto che nel primo pezzo sono più lunghe e nel secondo meno ; ma coir intramessa della zona nera venendo a rallentarsi in certo modo la relazione di simmetria Giorn. Ligustico, Ai ino V. IÓ2 GIORNALE LIGUSTICO tra l’uno e F altro, forse lo scultore che si vedea aver più poco da scrivere, pensò rendere servigio al lettore concentrando maggiormente sotto gli occhi di lui quel resto di leggenda che girando a circolo , se è lunga, riesce sempre d’ incomodo. — E per quanto riguarda al Piaggio , ecco che questa medesima disposizione di cose fa si che egli possa venire scusato, se quei due pezzi di marmo furono da lui giudicati due iscrizioni distinte invece di una sola. Anzi dalla postura che tengono queste iscrizioni jnella sua raccolta, parmi di poter con tutta probabilità indovinare eziandio in qual modo gli avvenne di errare. Come già dissi, la mezza iscrizione che chiameremo con lui dei Sapienti sta a pagine 195 , poi seguono nella stessa pagina e nella successiva 196, altre quattro iscrizioni tutte, tranne una, munite de’ loro stemmi, che anch’essi doveano occupare delle zone intere, non trovandosi punto nei marmi che contengono le scritte; indi a pagine 197 è l’epigrafe dei Volia, cioè quel tanto che ne forma la prima parte. — Ammetterete facilmente con me, che Γ ordine delle iscrizioni nei volumi del Piaggio deve essere quello che a queste toccò in sorte nel taccuino di lui, mano mano che egli le andava raccogliendo. Il Piaggio adunque entrato in San Domenico con animo di copiare le iscrizioni, si accosta a una colonna a zone bianche e nere, la quale è tutta istoriata da capo a fondo. Vorrebbe sì egli cominciare dalle prime zone sotto il capitello, ma riescono un po’ alte. Figuratevi ! Fra neri e bianchi), la colonna conta quindici pezzi, alti ciascuno 25 centimetri; i quali con un po’ di base danno una altezza di quattro metri. La luce è piuttosto scarsa ; i caratteri sono fitti e non troppo bene formati; mancano per giunta di quella tinta nera di cui vedete voi provvedute le copie in calco; il signor Domenico non è poi un gigante; insomma non arriva a leggere. Prende se volete GIORNALE LIGUSTICO uno scanno, una sedia , la prima che viengli alla mano, e ci monta sopra, arma anche gli occhi delle lenti, ma è ancora distante. Egli riesce appena stentatamente a quella che è all’altezza di tre metri nell’ antipenultima zona procedendo all’insù, la zona appunto portante quella seconda metà che egli tolse per Γ accenno sepolcrale de’ Sapienti Pisani, e dice seco stesso: Ebbene, cominciamo da questa per ora, poi cercherò mezzo di avvicinarmi a quella lassù; e aperto il taccuino scrive. Quell’ AP con cui comincia la scritta, e che pare AN, seguito per giunta dal millesimo, per cui legge Anno millesimo tercentesimo , fa che egli non entri per nulla in sospetto che questo non sia proprio il principio della iscrizione; e le righe più corte e il carattere più aperto che distinguono questo secondo pezzo dal primo che gli soprastà, 1’ intermezzo della zona nera, tutto induce il Piaggio a credere che l’un pezzo non abbia punto da fare coll’ altro. Finito questo tratto, passa alla zona sottostante e legge e scrive la epigrafe di un Antonio de’ Caselli ; poi più sotto ^un’ altra che riguarda un certo Agostino Gafollo, ciascuna delle quali sta propriamente a sè; e cosi forse si conferma vieppiù nella idea, che quante sono le zone Scritte tante sieno le epigrafi. Indi seguita più giù verso terra, e segna tre stemmi che occupano una zona; e più sotto ancora, accosto alla base, la iscrizione de’ fratelli Maineri. — Li appiè della colonna in piana terra, ovvero nella parete a fianco, è pure un’iscrizione sepolcrale di un certo de’ Vinelli : non è più a cilindro , ma è tanto vicina eh’ egli stima copiarla, prima di andare in cerca di una scala che gli renda possibile il leggere quella che è lassù in alto. E così nel suo volume abbiamo anche questa registrata (benché non appartenga alle iscrizioni della colonna) innanzi a quella che delle appartenenti alla colonna è la prima di tutte. — In ultimo si adopera per questa; e riuscito ad accostarvisi, ne disegna lo stemma, 164 GIORNALE LIGUSTICO scolpito in una zona a sè, indi trascrive Γ epigrafe leggendo : Sepulcrum dominorum Joannis et Ludovici de Lolia et fratrum col resto che segue. Lettura fatta per altro tuttavia con difficoltà, come ne dicono i ripetuti Lolia invece di Volia, il dominorum e un dominus più sotto che non ci sono, e filii nella finitiva invece di Filippus. Errore quest’ ultimo che cooperò anche certamente non poco a. fare che il raccoglitore non avvertisse nè la ripetizione della data per correggere, nè Γ addentellato col pezzo che sottostava. Onorevoli Soci, tutto questo non vi par naturale? — Ma facciamola finita e conchiudiamo : La iscrizione Anno 1300 Sepulcrum in quo sunt sepulti sapientes cives Pisarum etc., ovunque si trovi, va eliminata come quella che procede da una lettura affatto erronea. L’ altra poi cjie accenna ai Voglia di Pisa vuol essere compiuta, unendo ad essa quel pezzo che oggidì si trova nella colonnetta che regge il busto del P. Spotorno e che dice: Aprilis 1401 in quo et volimi sepeliri possit quilibet pis anus qui in eo voluerit sepeliri. Più. Sarebbe anche bene che ad essa ritornasse eziandio lo stemma che le appartiene, consistente in uno scudo diviso orizzontalmente in due, e da destra a sinistra traversato diagonalmente da una larga fascia con ai due lati un circolo tagliato da una sbarra terminante a uncino nelle due estremità. Questo stemma scolpito in un cippo che dovea soprastare alla scritta, e sopravvivuto non so per quale fortuna alla strage de’ suoi simili, dopo essere stato per anni ed anni al sommo di una colonna in San Domenico, giace ora avvilito e quasi nascosto all’Acquasola, sotto il settimo sedile a mano sinistra del viale che è ad oriente di quel passeggio a comin- GIORNALE LIGUSTICO ciare dalla parte che porge in via Ugo Foscolo. — Posso sbagliare, o Signori, ma esso è tutto il segnato dal Pasqua e dal Piaggio nello scudo che sta nel mezzo del cippo. E notate che fra tutti gli stemmi segnati da costoro come esistenti nella chiesa di San Domenico, non ce n’è altro di questa forma. Di maniera che, non ostanti i due segni suindicati che pigliano in mezzo lo scudo contenente l’impresa, segni omessi dai due collettori, e per la forma in sè dello stemma , e per essere sopra un marmo che si sa appartenuto alla chiesa di San Domenico , e sopra un marmo a cilindro corrispondente nelle dimensioni e in tutto ai due pezzi scritti esistenti all’Università, io sento di doverne inferire che àp-partiene assolutamente a questa iscrizione. Questo è il convincimento mio; ora attenderò il vostro giudizio. Prima però di tacermi, e giacché mi si porge favorevole 1’ occasione , permettete che passi a dirvi ancora due parole d’ un altro monumento che ci tocca più assai da vicino che non quello dei pretesi Sapienti di Pisa. È questo il sepolcro dei figli del cancelliere Facino Stella, padre agli annalisti della nostra Repubblica. — Vedete qui che cosa si trova in una delle rammentate colonnette nelle scale dell’ Università. — Un cilindro in cui è scolpito: -j- · SEPVLCRVM · GEORGII · JOHANNIS · ET · FRANCISCI FILIORVM · Q.VONDAM . FACINI · ST ELLE · JANVE · CANCKLLARIJ • M · CCCC · XI. Non basta. — All’ Acquasola , pur sotto un sedile a servire di fulcro, è un altro cilindro con uno stemma che è tutto quello cui tanto il Pasqua quanto il Piaggio annettono al- 166 GIORNALE LIGUSTICO l’anzidetta iscrizione, consistente in uno scudo diviso in due parti e occupato nella parte superiore da tre stelle poste in linea orizzontale, e nella inferiore come da una lastra a cinque punte airinsù. — Queste due parti stemma ed iscrizione, si vede chiaro che formavano insieme un solo tutto nel fusto di una colonna a zone bianche e nere in quella stessa maniera che nel monumento Del Voglia. Ancora. Nel 1522 questo monumento dei tre fratelli Stella tu rinnovato (secondo rilevasi da ciò che ne riferisce il Piaggio) mediante una tomba in piana terra divisa in due riquadrature , nella inferiore delle quali fu scolpito lo stemma colle punte e colle stelle anzidette ; e nella cornice di così tatte riquadrature fu scritto (riferisco dal Piaggio) ; Renovatum est sepulcrum Georgii Joannis et Francisci memoratorum epigramati cui sculpti ("forse epigrammate hic sculpto) et prolepis filium (così) cum Joanne et Luchino fratribus q. Lodixii MDXXII. X. Kal. Decembris. E certamente vicino a questa tomba fu posta una lastra larga un buon metro ed alta 45 centimetri, con entro nuovamente lo stemma preso in mezzo da altre quattro stelle, e sopra di esso questi versi eh’ io a preferenza del Piaggio tolgo dal Pasqua : Stelligeri Pater alme poli mundique redemptor Suscipe nos nostrosque pius per secula gratos (forse gnatos) Quesumus hoc terni fratres cognomine Stellae Supplicibus votis prius ipse Georgius ortu Hinc ego Francisais medius sed utroque Joannes. * Al presente, di questo rinnovato sepolcro la prima parte contenente Γ iscrizione storica non saprei ove rinvenirla. Chi sa mai qual fine abbia fatto ! Ma la seconda parte contenente Γ iscrizione poetica esiste; e io la vidi un dieci anni or sono GIORNALE LIGUSTICO nelle scale del giardino botanico all’ Università, poi in un cor-ridojo di essa ove stette smossa da luogo per lungo tempo in attesa, secondo che si diceva, di esser {meglio collocata. Ora è per certo con tante altre ammassata nel sotterraneo dell’Università medesima, dove parmi quasi sentirla colle sue compagne uscire nella mesta e troppo nota canzone: Stavamo meglio quando stavamo peggio! Onoratissimi Soci, senza pretendere di avere quel che più non si trova , con questi tre pezzi che ancora esistono — lo stemma a\Y Acquasola, l’iscrizione a cilindro nelle scale dell’ Università, e 1’ epigramma ne’ bassi fondi della medesima — non si potrebbe far rivivere un monumento che formava certo una delle belle glorie del nostro antico San Domenico ? E non sarebbe opera degna della nostra Società 1’ adoperarsi perchè si ravvivi una memoria che tocca così da vicino i nostri stroriografì ? — Giudicatene voi. XXIV. Sezione di Storia. Tornata del 13 Luglio 1877. Presidenza del Preside cav. avv. Cornelio Desimoni. Il socio Neri legge le c1S[_,oIì%ìì stilla vita e sugli sci'itti di monsignor Agostino Favoriti (ved. Giornale Ligustico, a. 1877, pag. 278-300). XXV. Sezione di Belle Arti. Tornata del 20 Luglio 1877. Presidenza del Preside cav. prof. Giuseppe Isola. Il socio D. Marcello Remondini comunica la notizia di un quadro esistente nella parrocchia di Triora, in valle 168 GIORNALE LIGUSTICO Argentina sopra Taggia, rappresentante il Battesimo di Gesù Cristo, nel fondo del quale è questa iscrizione: Tadeus · de · Senis · ΡΙΝΧ1Τ · HOC · OPUS · M · CCC · L · XXXX · V · II. E messo sull'avviso che questo Taddeo da Siena potrebbe essere il Taddeo Bartoli di Mino, dopo aver fatto indagini da ciò, riferisce il suo avviso pel si, fondato sulle seguenti ragioni. i.a Che la iscrizione del quadro di Triora è assai conforme a quelle che il Bartoli soleva mettere ai suoi dipinti; 2.a Che la data del 1397 consuona mirabilmente al tempo nel quale, secondo argomenta il cav. Alizeri, per certi documenti pubblicati già dal socio comm. Varni, il Bartoli dovette far dimora nella nostra città. 3.“ Che il dipinto di Triora sia nella figura, sia nella forma de’caratteri dell’iscrizione a quello apposta, sembra rassomigliarsi d’ assai nello stile ai dipinti che adornano oggi le pareti del presbiterio in San Colombano, non che ai caratteri delle leggende che a questi dipinti si trovano unite ; dipinti che si vogliono essere gli avanzi delle tavole lavorate dal Bartoli per la chiesa di San Luca in Genova. Finisce il Remondini la sua relazione con descrivere il quadro, e presentandone nel tempo stesso uno schizzo da lui fatto sopra quello eh’ egli prese alla sfuggita nella sua visita a quella lontàna parrocchia. Lo schizzo ritrae la pittura non in ciò che sarebbe minuta particolarità, come a dire il colore e la forma delle vesti negli angeli, ma quello che è di sostanza, scompartimento, prospettiva, figure, e loro posizione, oltre la cornice e le leggende. Il Preside rende grazie al collega D. Remondini per la comunicazione da lufatta, ne loda l’importante scoperta, ed anche la diligenza con cui si vede condotto lo schizzo accennato. GIORNALE LIGUSTICO 169 Il socio Neri prosegue e termina la lettura delle sue Note-relle Artistiche (ved. Giornale. Ligustico, a. 1877, pag. 300-329). Il socio Belgrano legge la rassegna di due recenti pubblicazioni artistiche del cav. Antonino Bertolotti (id., pag. 348-352). Il socio Desimoni comunica l’estratto di un rogito del notaro Agostino De Franchi-Molfino, riferito nelle Miscellanee mss. del Poch alla Civico-Beriana (vol. IV, reg. II. 24) sotto la data del 1551, in questi termini : Lucas de Camblaxio Joannis, pictor, maior annis 2/, . . . fatetur habuisse scuta 8 auri, infra solutionem scutorum 21 auri, pro praetio unius an-conae pingendae per dictum Lucam pro ecclesia sancti Laurentii de Lacu (Lago nel distretto di Levanto), in qua pictae sint imagines, scilicet in medio sancti Laurentii, et ab uno latere sanctae Catarinae et ab alio sancti foannis Baptistae. Soggiunge lo stesso Pòch allegato all* atto essere lo schizzo di essa ancona a chiaroscuro. XXVI. Sezione di Archeologia. Tornata del 27 Luglio 1877. Presidenza del Preside can. prof. Angelo Sanguineti. Il socio Desimoni comincia a dar lettura di una sua memoria intitolata : La quarta Crociata, il marchese Bonifacio di Monferrato ed i trovatori provengali alla Corte di lut. — Se ne darà relazione quando la lettura sarà compiuta. XXVII. Assemblea Generale. Tornata del 5 Agosto 1877. Presidenza del Presidente covwi. Antonio Crocco. Si procede alla nomina di parecchi soci effettivi. Il socio Neri, a nome della Commissione di ciò incari- 170 GIORNALE LIGUSTICO cata, riferisce sulle proposte di nuovi soci corrispondenti ; e Γ Assemblea elegge come tali il prof. ab. Rinaldo Fulin (Venezia), il signor Gabriele Gravier (Roano) e il barone Antonio Manno (Torino). Il Presidente legge il Discorso di conclusione del ventesimo anno accademico. Si rallegra che il già corso periodo abbia mostrato il nostro Istituto fiorente di gioventù rigogliosa; e confida che l’età progrediente gli debba ognora crescere vigore a procedere verso di una robusta virilità. Toccando dell avvenire, per ciò che risguarda il generale andamento delle umane vicende, dice che in molta parte gli si affaccia torbido e minaccioso ; e teme che alle minacce seguiteranno funesti gli effetti, se non saprà stornarsi la procella col far provvisione di senno, e nudrire di forti studi e del- 1 antica sapienza la giovine generazione. Considera che gli avi nostri amando anch’ essi di caldissimo amore la libertà, non ne disgregarono il culto da quello degli altri veri morali. Amavano similmente la scienza (cosi aggiunge) ; ma la scienza derivata dalle pure e limpide tradizioni della Scuola italica; la scienza onde furono maestri P Alighieri ed il Vico. Nè cosi parlando, afferma dover egli essere stimato un male avveduto encomiatore del tempo trascorso, di cui riconosce pure i vizi e le colpe; soltanto gli giova stabilire questo concetto : che migliori di noi in ciò che s’attiene a disciplina morale, essi offrono nel complesso delle azioni e degli studi, e in molti particolari della vita sociale, uno spettacolo attissimo a consolarci del morale decadimento che si deplora ai dì nostri. Recando la sentenza del Tommaseo, che in tutto b storia e nella storia e ogni cosa, proclama che negli studi storici, e massime in quelli che concernono all’Italia, dee trovarsi riposta la virtù sanatrice dei danni testé lamentati. Infervora perciò i colleghi a proseguire in cotesti studi, poiché li anima la certezza di ritrarne gli avviamenti ad un ristoramento futuro. GIORNALE LIGUSTICO L’Assemblea accoglie con plauso le parole del suo Presidente. ANNO ACCADEMICO 1877-78. XXI dalla fondazione dell' Istituto. I. Assemblea Generale. Tornata del 16 Dicembre 1877. Presidenza del Presidente comm. Antonio Crocco. Il Presidente dichiara aperto il nuovo anno accademico. Il Segretario Generale, cav. Belgrano, legge la Relazione su gli studi e P amministrazione della Società nel decorso anno 1876-1877; e presenta i doni di moltissime opere pervenuti all’ Istituto. È notificata la proposta di nuovi soci effettivi. Sono distribuiti due fascicoli degli Atti, dei quali venne testé compiuta la stampa, cioè : Vol. IX, fascicolo III. Contiene: Sui primordi dell’arte della stampa in Genova. Appunti e documenti raccolti dal socio Marcello Staglieno. — Secondo Supplemento alle Notizie della Tipografia Ligure sino a tutto il secolo XVI, pel socio Nicolò Giuliani. Vol. XIII, fascicolo II. Contiene : Studi e documenti su la Colonia genovese di Pera, pel socio L. T. Belgrano. Il fascicolo I, destinato a contenere un Discorso Storico, uscirà nel prossimo 1878, unitamente ad un Atlante di Tavole nelle quali verranno prodotte per fac-simile le lapidi storiche ed altri monumenti della stessa colonia. I72 GIORNALE LIGUSTICO ì^uwamiaiii i jumuni uwawfffB II. Sezione di Archeologia. Tornata dell’u Gennaio 1878. Presidenza del Preside cav. abate Angelo Sanguineti. L adunanza deplorando la immensa sventura da cui è stata colpita la patria, per la morte del Re Vittorio Emanuele II, avvenuta il giorno 9 corrente, si scioglie senza dar corso alla lettura iscritta nell’ ordine del giorno. III. IV. Sezione di Archeologia. Tornate del 18 e 25 Gennaio 1878. Pi esiden\a del Preside cav. abate Angelo Sanguineti. Il socio Desimoni prosegue a leggere la sua Memoria sulla Quarta Crociata e Bonifacio di Monferrato. Si comincia la lettura della Dissertazione del socio Amat di San Filippo: Della vita e dei viaggi di Lodovico de Varthema (ved. a pag. 4-73). V. Sezione di Belle Arti. Tornata del 1.° Febbraio 1878. Presidenza del Preside cav. prof. Giuseppe Isola. Il socio Neri, a nome del prof. Enrico Ridolfi, comincia la lettura della Dissertazione di quest’ ultimo : Di alcune opere poco, note di fra Bartolomeo Della Porla (ved. a pag. 81-126). GIORNALE LIGUSTICO 173 Per la ricorrenza del trigesimo giorno dalla infausta morte di Vittorio Emanuele, la Società ha spedito a S. E. il Ministro della Pubblica Istruzione il seguente Indirizzo, con preghiera di farlo pervenire nelle Auguste Mani di S. M. il Re Umberto I. Sire, Fra le attestazioni del profondo rammarico, che eccitò in tutti gli animi la immensa sventura da cui fu colpita l’Italia, questa Società non poteva per fermo rimanere silenziosa. Primo fra gli Istituti che, seguendo l’impulso dato dal Magnanimo Carlo Alberto allorché creava la Deputazione Reale di Storia Patria, ponesse a speciale intento dei propri studi la illustrazione dei grandi fatti e il culto delle gloriose memorie, la Società Storica Ligure, 0 Sire, ammirava nel valoroso Guerriero e nel lealissimo Principe che vi fu Padre Quei che informava del suo genio la splendida epopea per per cui si fece l’Italia degli Italiani. • Richiamando al commosso pensiero le strenue virtù delle quali la Maestà Vostra è l’erede degnissimo, e con esse il favore di che fu ognor generosa verso di questa patria Istituzione la sempre compianta memoria di S. A. R. il Principe Oddone, la Società Ligure di Storia compie un atto di sacro debito porgendo alla Maestà Vostra 1’ omaggio della profonda sua condoglianza. Piacciavi, o Sire, di accoglierlo insieme all’attestato di quella incrollabile devozione, che uniti agli altri Italiani ci stringe intorno al Trono asceso da Voi e dall Augusta Vostra Consorte col plauso di tutto il mondo civile. ' Genova, addì 9 Febbraio 1878. Il Presidente Antonio Crocco. Il Segretario Generale L. T. Belgrano. *74 GIORNALE LIGUSTICO In risposta al su riferito Indirizzo, la Presidenza della Società ha poi ricevuta la Lettera seguente: Roma, io Marzo 1878. •Illustrissimo Signor Presidente, Sua Maestà ringrazia la Società Ligure di Storia Patria delle sue espressioni di condoglianza per la morte del Gran Re Vittorio Emanuele. Il nostro Augusto Sovrano sa apprezzare 1’ alta importanza di codesta Società cosi insigne per virtù di dottrina e di patriottismo, e ben conosce come esercitando Essa la sua operosità in una terra tanto splendida di gloriosi ricordi, accresca sempre più quei tesori di esempi e di insegnamenti che dando lustro al passato preparano la grandezza dell’ avvenire. Sua Maesta il Re desidera che io assicuri codesta Società della continuazione di quella particolare stima e benevolenza di cui la distinguevano il suo Augusto Genitore ed il suo ben amato Fratello Oddone di Savoia di sacra e lagrimata memoria. Il Segretario Particolare di S. M. il Re C. N. Torriani. All’ Ill.mo Signor Presidente la Società Ligure di Storia Patria Genova. VI. Sezione di Archeologia. Tornata del 22 Febbraio 1878. Presidenza del Preside cav. abate Angelo Sanguineti. Seguita la lettura del socio Amat, intorno la vita ed i viaggi del Varthema. GIORNALE LIGUSTICO VII. Sezione di Belle Arti. Tornata dell’8 Marzo 1878. Presidenza, del Preside cav. prof. Giuseppe Isola. Il socio Neri compie la lettura della Dissertazione del prof. Ridolfì, su alcune opere di Bartolomeo Della Porta. Vili. Sezione di Archeologia. Tornata del 15 Marzo 1878. Presidenza del Preside cav. abate Angelo Sanguineti. Si termina la lettura del socio Amat sul viaggiatore Varthema. » ANNUNZI BIBLIOGRAFICI Curiosità e Ricerche di Storia Subalpina. Torino, Bocca, 1877. Puntata IX· e X. L’avv. Perrero proseguendo i suoi studi d’aggiunte e correzioni agli storici piemontesi, ragiona di Pirro Ligorio, del cav. Cassiano Dal Pozzo, insigne collettore d’antichità già dottamente illustrato dal eh. Lumbroso, del celebre pittore Nicolò Pussino, dei cardinali Richelieu e Mazzarino, di Madama Cristina di Francia e del periodo tempestoso deila sua reggenza in Piemonte. L’ operosissimo cav. Promis pubblica alcuni cenni biografici e varie lettere di Galeotto Del Carretto, uno dei creatori del teatro moderno ; e correda il lavoro colla produzione di una bellissima medaglia, che ci offre le fattezze di Isabella d’Este marchesana di Mantova nel 1490. Piena di nobili affetti è la commemorazione di Carlo Baudi di Vesme fatta dal senatore Ricotti ; e riboccanti di generosi pensieri sono i commenti di Nicomede Bianchi alle Memorie e lettere inedite di Santone di Santa Rosa. Il signor D. P. (potrebbe anche essere l’avv. D. Perrero) propone all’esame degli studiosi il quesito, se sia pienamente esatto quanto af- i76 GIORNALE LIGUSTICO ferma il Cibrario nella Storia di Torino, che cioè la discendenza di Pietro Micca si estinguesse con Pietro Antonio, nipote dell’Eroe d’Andorno, morto il 7 marzo 1803. Da alcune carte dell’Archivio torinese di Stato, sembrerebbe doversi ammettere che il Micca oltre a due nipoti ex filio, Pietro Onorato e Pietro Antonio, ne ebbe pure un terzo dal quale nacque Anna Maria Susanna, maritata a G. B. Bricco, e vivente ancora ne’ principii del 1846. Curiosissimi ragguagli ci reca lo Spicilegio nel Regno di Carlo Alberto, del barone Antonio Manno. Vi si discorrono 1’ istituzione dell’ Ordine di Savoia, i Pensieri e le Riforme del Re Magnanimo; e rilevasi che nel discutere a Corte i primi progetti di una distinzione speciale da conferirsi ai più illustri cavalieri della scienza, « un marchese Pateri, genovese, aveva... suggerita la fondazione di un ordine che, per soddisfazione a Genova, sarebbesi intitolato da San Giorgio : coll’ insegna di una croce patente bianca, coll’effigie del patrono in cuore, colla leggenda onore e merito, e col nastro eguale a quello che ora si adottò per l’ordine della Corona d’Italia » (p. 201). L’ avv. Perrero tratta un importante episodio di Storia del Piemonte, col titolo: Un carceriere vercellese del tempo antico, a proposito dell’acquisto per parte della Casa di Savoia del feudo di Desana (a. 1683-1701). Reca poi un notevole contributo alla storia de’ costumi il sig. Filippo Saraceno co’ Giullari, menestrelli, viaggi, imprese guerresche dei Principi d’Acaja (a. 1295-1395); ed aggiunge un capitolo a quella delle nozze illustri Il Matrimonio della Principessa Maria Teresa di Savoia co l Conte d’Artois (a. 1771), le cui trattative sono minutamente descritte dal signor P. Occella. Dopo una lunga intramessa (ben sappiamo cagionata da gravi lavori), il cav. Vayra ripiglia il Museo Storico della. Casa di Savoia, descrivendo codici preziosi e porgendone accurati fac-simili. I paleografi vedranno con piacere un saggio de’ caratteri onciali del famoso codice bobbiese Epitome institutionum divinarum di Lattanzio ; gli artisti gli saranno riconoscenti per la bella cromolitografìa di una delle miniature che adornano il volume della Cité de Dieu, istoriato nel Belgio ai tempi di Filippo il Buono, in servigio di Antonio di Borgogna. Aggiungiamo che argomento d’utili studi porgerebbe il confronto di questo codice col ricchissimo Quinto Curzio di Carlo il Temerario, serbato nella Biblioteca dell’Ateneo genovese. Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO τ77 ISCRIZIONI GEMMARIE Le iscrizioni gemmarie furono, come è noto, screditate superlativamente dal Kohler, in specie quelle enunciami nomi di artisti, delle quali, fra tante, egli non ne ammise per genuine più di cinque. Per contro, niuno ignora come il Tòlken, il Brunn, il Raoul-Rochette, lo Stephani e altri (i) abbiano assunto la difesa di questa classe di monumenti, adoperandosi a dimostrare la perfetta autenticità di molte fra le iscrizioni condannate per apocrife dall’ ipercritico di Pietroburgo. Oggidì su questo tema non havvi sensibile differenza di opinioni fra gli eruditi; i quali, pur riconoscendo in massima come questa, non meno delle altre classi archeologiche, abbia fornito all’ impostura dei falsarii un largo campo di applicazione , son tuttavia pressoché unanimi nell’ ammettere che il numero delle iscrizioni gemmarie apocrife sia di gran lunga (i) Nominerò fra questi il comm. G. B. De Rossi, il quale forniva in proposito al Brunn un argomento senza replica onde ribattere le obbiezioni del Kohler riguardo al celebre intaglio in cristallo di rocca colla protome di Minerva, firmato da Eutiche figlio di Dioscoride. Mentre, infatti , 1’ iscrizione di questa gemma veniva dal Kohler giudicata una falsificazione di data non anteriore ai tempi del barone di Stosch, il De Rossi provò che ben tre secoli prima di tale epoca, che è quanto dire in un tempo a cui la pretesa falsificazione non potrebbe farsi mai risalire, la gemma in questione già esibiva la stessa epigrafe, come risulta da un documento irrepugnabile, quale è la descrizione fattane da Ciriaco d’Ancona in un ms. del 1445 > di cu^ ^ medesimo comm. De Rossi dava comunicazione all’Instituto di Corrispondenza Archeologica {Bull. dell'Instit., 1854, pag. 10, 26). Detta gemma, da non confondersi colla copia esistente nella collezione del duca di Marlborough, trovasi ora in proprietà del mio amico il march. C. Strozzi in Firenze, il quale per mezzo, appunto , del De Rossi la sottoponeva testé all’ esame del citato Instituto {Bull, dell’ Institut., 1878, pag. 40). Gjorn. Ligustico, Anno V. GIORNALE LIGUSTICO inferiore a quello delle indubbiamente genuine; non senza deplorare in pari tempo che di queste ultime non esista finora una buona collezione compilata in guisa da rispondere al duplice scopo di render di pubblica ragione una quantità non irrilevante di monumenti epigrafici insieme e figurativi, inediti o poco conosciuti, e di esibire questo materiale coordinato in modo da renderlo suscettivo d’ un trattamento scientifico. Si capisce come in un* epoca nella quale furono in gran voga le collezioni di gemme antiche, la peculiare ricerca di cui erano oggetto per parte dei collettori le inscritte, e conseguentemente il prezzo elevato a cui pervenne questa specialità abbiano suggerito agli artisti litoglifi la speculazione di incider gemme litterate a contraffazione delle antiche, e sopratutto di aggiungere alle antiche anepigrafi una iscrizione all* oggetto di aumentarne il pregio : ma non è men vero che insieme alle non poche spurie trovasi nelle collezioni pubbliche e private una considerevole quantità di gemme inscritte sulla legittimità delle quali non potrebbe cadere il menomo dubbio. Una silloge di iscrizioni gemmarie compilata colla critica e giusta il metodo che si addicono a siffatti lavori, riuscirebbe utile non meno che interessante a quanti fanno soggetto di studio la disciplina della classica antichità. Imperocché, oltre al contribuire con un ragguardevole contingente di materiali all’ incremento del corpo epigrafico, questa silloge avrebbe per risultato di arricchire di nuovi elementi, in specie gli onomastici greco, latino ed etrusco, c forse in particolare, anche il catalogo finora troppo esiguo degli antichi incisori in gemme; di schiuder nuovi punti di vista per la retta intelligenza di molti tipi enigmatici, e in generale per una più razionale classificazione delle rappresentanze gemmarie; finalmente, di porgere col mezzo dei riscontri la chiave onde decifrare le sigle e interpretare le forinole proprie di questa GIORNALE LIGUSTICO I79 classe di iscrizioni. Che se Γ esame analitico e comparativo delle figuline, dei piombi, dei sigilli enei e di altre credute quisquiglie , valse, massime in questi ultimi tempi, alla scienza 1’ acquisto di molti veri cronologici, geografici, storici e filologici , niun dubbio che altre non mén preziose nozioni circa i costumi, le usanze, i sodalizi, le feste, le osservanze religiose , le pratiche superstiziose e altri particolari della vita antica taciuti o mal dichiarati dagli scrittori e dai monumenti abbiano ad essere il frutto d’ uno studio approfondito delle iscrizioni gemmarie. Ma in quest’ ordine di ricerche la luce non si ottiene che per mezzo di confronti; di che risalta vieppiù la necessità d’ una silloge di tali iscrizioni compilata allo scopo e nel senso da me pur dianzi accennati. A coloro i quali si occupino della inchiesta di materiali per un lavoro di questo genere, non riuscirà discaro che io offra loro i seguenti eh’ ebbi occasione di raccogliere in tempi diversi, trascrivendoli colla maggiore esattezza dai rispettivi originali. Sono semplici appunti senza critica, desunti qua e là dal taccuino d’un dilettante archeologo, ma anche tali, possono servire allo scopo per cui modestamente li oflro, e perciò credo opera non affatto inutile fissarne la memoria, togliendoli dalle schede volanti a cui vennero affidati di mano in mano che mi cadevano sott occhio. i. ^3^ (meas) Eroe nudo, clipeato, che lascia cader di mano l’asta, mentre sta per essere colpito da un grosso sasso vibratogli dall’ alto. Scarabeo in corniola con doppio orlo etrusco, presso il march. Carlo Strozzi in Firenze. La voce ineas di questo scarabeo non è forse senza relazione colia ben nota meati ricorrente su specchi (1) qual (ij Fabretti, Corp inscrip. italic. antiquior, aevi, η.' 1067,2146,1470. 2494 bis, 2500, 2551 bis. ι8ο GIORNALE LIGUSTICO nome proprio di genio o divinità femminile etrusca che ha molti punti di contatto colla Vittoria della mitologia grecoromana. Trattasi qui molto probabilmente d’un nome personale virile da aggiungersi alla serie ormai cospicua nell’ onomastico etrusco degli uscenti in - as al caso retto (2) ; sia che questo nome esprima il gentilizio del proprietario o dell’ incisore della gemma, sia che si riferisca invece al personaggio raffigurato sulla medesima, ossia al protagonista d* un mito greco (3), od etrusco, di cui la tradizione non sia pervenuta insino a noi. 2· TI E'JTH (ti eìta) Incisa sulla pane piana di grosso scarabeo in agata sardonica con orlo etrusco, a lato dell’ infradescritta rappresentazione a intaglio cavo, di stile e lavoro etruschi. Giovane eroe senz’ altra veste che una pelle di fiera dalla cintura al ginocchio, seduto su masso, la destra stringente ancora la spada ma il capo e il busfo inclinati come chi sta per venir meno e accasciarsi, a stento sorreggendosi colla sinistra poggiata sull’ impugnatura di nodosa clava. Dietro al medesimo, sovrastandogli di tutta la metà superiore del corpo, figura virile alata e barbata, nuda, stante, di fronte colla testa a destra, in atto di mossa, con ramoscello nella mano destra. (1) Disponendo i nomi propri virili etruschi che si conoscono per mezzo degli scrittori e delle epigrafi in quattro diverse categorie, secondo che escono ai caso retto in -as, in -es, in -is od in -us, nella qual classificazione vuoisi tener conto del fatto che detti nomi spesso ricorrono sui monumenti monchi della sibilante finale, forse a rappresentazione della pronuncia volgare, si trova che le due serie più ricche sono quelle carat-teriiraic dall' uscita in -« e in -as. (2) Cf. Ai/as, Eivas1 = Αίας, Pelias == Πιλίζς, A i tas' — Άιδας, Acvas, Evas — Ήφς, Cbalchas — Καλκ*ς etc. GIORNALE LIGUSTICO l8l Nel museo di antichità di Parma. Si cercherebbe invano nella mitologia etrusca o greca un soggetto a cui possa convenire Γ anzidetta rappresentazione, e da cui si possa desumere qualche criterio per la dichiarazione dell’ iscrizione. Le ali di cui è fornita la figura principale non costituiscono in questo caso un attributo abbastanza determinativo , sapendosi che nell' iconografia etrusca veggonsi assegnate non pure a molte divinità, ma perfino a personaggi di miti greci , come per esempio a Calcante e ad Adone, che ricorrono alati su specchi (i). Il compianto prof. G. Corssen al quale, pochi mesi prima della sua morte, avevo comunicato una impronta in zolfo di questo scarabeo, mi scriveva in proposito averne conferito col dott. Giorgio Treu assistente direttoriale dell’ Antiquario Berlinese e speciale conoscitore di questa classe di cimelii, il quale, dopo constatato 1’ etruscismo del lavoro, gli avea messo sott’ occhio due gemme del suddetto Antiquario pari-menti etrusche con rappresentazioni congeneri, Γ una con simile figura alata e barbata, ai cui piedi figura giacente di donna morta, l’altra esibente la stessa figura con donna moribonda (2). Da parte mia ricorderò soltanto come nella silloge del Ficoroni (3) sia riprodotto un intaglio in sardonica ad orlo etrusco con analoga rappresentazione spiegata dallo stesso Ficoroni pel Tempo, dum cxtinctam focminam juniorem gremio continet ! Nella sfera troppo limitata in cui versano le attuali nostre cognizioni d’intorno la teologia e la mitologia degli Etruschi, sembra non potersi dare a questa rappresentanza altra più (1) Mus. Etr. Vatie. I, tav. XXIX, nurn. 1; Fabretti, Op. cit., 2157, 2512; Gerhard, Etr.spiegel, taf. CCXXI1I (111,212), CX\ (111,117). (2) Tòlken, Ver\eichniss der Gemmensammlung, II Kl., n. 90, 125. (3) Francisct Ficoronii gemmae antiquat litteratae, Romat iJfS, tb. Vili, num. 6. ïS 2 GIORNALE LIGUSTICO plausibile interpretazione, fuorché considerando la figura principale della composizione come una divinità della Morte, quale la concepivano gli Etruschi, secondo risulta da altre analoghe rappresentazioni; divinità da non confondersi col-Γ orrido Cbariin padre dell’ Orcus latino, e nettampoco cogli ovvii Tanati o genii della morte, cosi maschili come femminili, che ricorrono su tanti monumenti etruschi, ma bensì un dio austero e imponente, dalle forme nobili e grandiose, dal volto spirante terribile maestà; forse il Mantus, che ha unti rapporti col Dis pater dei Romani (i). Per quanto concerne l’iscrizione, leggendola da sinistra a destra, al che inclinava il Corssen, potrebbe spiegarsi il II come sigla dell’ovvio prenome etrusco Tite, nel qual caso bisognerebbe veder nell’ altra parola espresso un gentilizio di cui non ricorre esempio in altri monumenti scritti. Senonchè dubito che la lezione proposta dal Corssen soddisfi a tutte le esigenze della critica, e a dire il vero, egli stesso riconosceva in proposito di non possedere alcun criterio abbastanza certo per desumere se Γ iscrizione si riferisca alle due figure rappresentate, od esprima piuttosto il nome dell’artefice litoglifo od il possessore dello scarabeo. Qualunque sia, del resto, la spiegazione di cui può essere suscettivo, a me basti aver pel primo richiamato su questo insigne cimelio Γ attenzione dei dotti, e aver cosi offerto occasione a chi attende ex professo a questi studi di tentare la soluzione dell’ interessante enigma figurativo e filologico che mi limito per ora ad enunciare. (l) .... etrusca lingua Mantum, ditem patrem appelant (Serv. ad V ir g., Atn. X, 198). GIORNALE LIGUSTICO 183 3· VIP IACF Guerriero vestito di ricca armatura, la spada sguainata nella destra, in atto di schermirsi poggiando un ginocchio a terra e rannicchiandosi dietro il largo scudo. Le tre prime lettere dell* iscrizione sono incise nel campo, dietro la cresta dell’elmo, le altre nell’interno dello scudo. Corniola con orlo etrusco, di magnifico lavoro, presso il marchese C. Strozzi. La leggenda latina nulla detrarrebbe per sè stessa all’ e-truscismo della rappresentazione figurata, non mancando, del resto, esempi dello stesso nome latinamente inscritto su titoli d’ origine e di lavoro indubbiamente etruschi (1). La voce vihia esibisce 1’ ortografia etrusca e ialisca del noto A O nome femminile Vibici, siccome è attestato da non pochi monumenti su cui la stessa voce figura come gentilizio, e più raramente anche come prenome (2). Il titolo di questa Vibia inciso a caratteri latini, arcaizzanti, colla nota della paternità alla romana, su gemma etrusca e con etrusca ortografia, richiama al pensiero l’ambizione in voga presso i patrizi romani nei primi tempi dell’impero, di ostentare rapporti genealogici con antichissimi atavi etruschi. In un’ epoca anteriore, alcune delle grandi case romane aveano spinto le loro pretensioni nobiliarie fino a proclamarsi di origine divina. I Giulii vantavansi discendere da λ encre (j)> i Lamia (della gens Adiri) da Nettuno (4), i Fabii e gli (1) Fabretti, Op. cit., num. 1256. (2) Fabretti, Op. cit., num. 1327, 1375 » >435 - l87°» l874. 2180, 2452; id. i.° Supplemento, num. 438 bis a; R. Garrucci, Sylloge inscript, latin, aevi Rom. Reipubl., num. 802. (3) Sueton., Caes. VI. (4) Oraz., Od. Ili, 17. 184 GIORNALE LIGUSTICO Antonii da Èrcole (1) ecc. Sembra peraltro che il còmpito di provare mediante titoli abbastanza attendibili la propria discendenza in linea retta dagli dei immortali presentasse qualche difficoltà anche in quei tempi molto propizi alla coltivazione in genere degli alberi genealogici, dacché la maggior parte delle nobili famiglie romane compiacevasi nell’ ostentar di preferenza capostipiti eroici desunti in specie dal ciclo troico. Sarebbe superfluo qui rammentare come i Mamilii ripetessero la loro origine da Ulisse (2), e cosi i Memmii da Mnesteo, i Sergii da Sergeste, i Cluenzii da Cloanto, gli Azii da Ati, i Nauzii da Naute (3), ecc. Per farsi un concetto dell’ importanza che si annetteva agli stemmi troiani, basterà ricordare che essi furono soggetto di eruditissime illustrazioni per parte di Varrone e di Igino; come un’idea delle proporzioni che avea assunto tale vanità si può desumere dalle espressioni di Taicns, di Troiades e di Troiugenae, usate in senso di di-leggio da Cicerone (4), da Perseo (5) e da Giovenale (6) all indirizzo di nobili romani dei rispettivi loro tempi. Oltre le divine e le eroiche (7), furono poi tenute in gran conto le genealogie che facevano capo a personaggi leggenti) Plutarc., Fab. Mass. 1; Aut. 1. (2) T. Liv., I, 49; Festo, Qu. Vili, 12. pag. 130. (5) ^ irgil. , Actui. V, versi 117 c sgg., 568; Serv. ad Am. V, 72S; Fest., Qu. IX, 15. (4) Ef>ist. ad All. I, 12. (5) Sal., I, v. 4. (6) Sal., I, v. 100. (7) La moda delle genealogie divine ed eroiche era un prodotto del-! ellenismo, ed erano i Greci residenti in Roma i principali artefici di tali favolosi stemmi per uso proprio e di chi ne dava loro commissione, anche quando a Roma presso le classi più illuminate simili invenzioni gii erano oggetto di scherno. Marziale mette in canzone un Euclide, cavaliere d'industria dei suoi tempi, il quale vanta cospicue entrate dai suoi fondi di Grecia, lonçumqite pulchra stemma repetita Leda (Epigr. V, 35). GIORNALE LIGUSTICO darii dei primi tempi di Roma: così i Valerii gloriavansi discendere da quell’ antico omonimo che fu la cagione principale che i Romani e i Sabini, di nemici che erano, si fondessero in nn sol popolo (i); cosi i Pomponii, i Calpurnii, i Pinarii e gli Emilii vantavano per progenitori quattro figli di Numa, Pompo, Pino, Calpo e Mamerco (2), quest’ultimo così appellato da Mamerco figlio di Pitagora, a cui per la piacevolezza dei modi e la grazia nel ragionare era stato dato il gentil soprannome di αίμύλο; (3); così i Marcii derivavano il loro stemma dal re Anco Marcio (4), la cui madre Pompilia era aneli* essa figlia di Numa (5) ecc. Più tardi, quando il numero delle famiglie appartenenti all’ antico patriziato romano, già ridotte sul principiare del secolo Vili a non più di una quindicina, si andò vieppiù assottigliando, mentre cresceva in estensione e importanza la nobiltà avventizia creata da Cesare per antitesi alla vecchia aristocrazia repubblicana; quando dallo stesso Cesare vennero aperte le porte del Senato ai non italici, e Roma perdette il suo carattere specifico latino per diventar città cosmopolita, vennero in peculiar onore le diramazioni da vecchi ceppi extralatini , massime se derivati da schiatte italiche aventi una storia e una civiltà propria e anteriore a quelle di Roma, sebbene la loro nazionalità fosse allora da un pezzo completamente fusa nella romana. Fra queste niuna certamente poteva competere in linea di vetustà e di nobiltà colla etrusca: (1) Plutarc., Publicola, I. (2) Plutarc., Numa XXI, 1. , (3) Id., ibid. Vili. li; Paul. Aem. II, t. (4) Amitae meae Juliae (son parole di G. Cesare) maternum genus a regibus ortum, paternum cum diis immortalibus conjunctum est, nam ah Anco Marcio sunt Marcii reges, quo nomine fuit mater, a Venere Juin cujus gentis familia est nostra. Sueton. , Caes. VI. (5) Plutarc., Numa XXI, 1. 186 GIORNALE LIGUSTICO della cui antica potenza e civiltà ancor sopravviveva 1’ eco negli annali storici, nelle tradizioni e nei monumenti : ond’é che fin dai tempi di Augusto niun titolo si prestava a lusingare l’orgoglio d’ un patrizio romano quanto quello di Tyrrhena progenies con cui Orazio acclamava Mecenate (i). Contro l’etruscomania della nobiltà dei suoi tempi declama più particolarmente Persio, quando apostrofa il protagonista della sua terza satira colle parole An deceat pulmonem rumpere ventis Stemmate quod Tusco ramum millesime ducis? ed a questa tendenza, appunto, vuoisi riferire il carattere etrusco o etruscheggiante di alcuni monumenti romani del-1' epoca imperatoria (i). 4· T · Η · V Fulmine quinquefido, di elegante lavoro, foggiato sul tipo capriccioso che gli artisti greci idearono per la rappresentazione di questo emblema e di cui ricorrono svariati esempi in molte opere d’ arte, specialmente su monete della Sicilia. L’impugnatura, al centro, è formata da una testa muliebre con chiome fiammeggianti. Intaglio in corniola della mia collezione. La leggenda esibisce, secondo ogni probabilità, le iniziali del prenome, nome e cognome del possessore dell’ anello se-gnatorio in cui era incastonata la pietra incisa. Così Γ induzione desunta dalla nobiltà del lavoro circa l’attribuzione della gemma ad un periodo abbastanza alto della storia del-l’arte romana, è avvalorata in questo caso dalla triplice noti) Od. III. 29. (2) Non debbo tacere che avendo sottoposta a nuovo esame la gemma in discorso, non so abbastanza difendermi da qualche dubbio sulla sua genuinità. GIORNALE LIGUSTICO 187 menclatura del personaggio inscritto, nè uscirebbe dai limiti d’ una plausibile congettura chi riferisse il cimelio all’ epoca in cui il tipo del fulmine fu singolarmente popolarizzato da un conio della zecca imperiale portante la data della IX potestà tribunizia di Tito (anno 80 dell’ èra cristiana). 5- T · MESTRI Testa di moro. Intaglio in onice, di cui mi venne testé comunicata una impronta in ceralacca dal march. C. Strozzi. È deguo di nota che questa gemma fu trovata da poco nella Valdichiana, di dove appunto sembra provengano quelle monetine in bronzo d’incerta attribuzione, aventi al dritto una simile testa di etiope, e al rovescio un elefante ; le quali passano per etrusche, perchè portano una lettera dell alfabeto etrusco ai piedi di detto animale (1). Non è la prima volta che la numismatica e la sfragistica si scambiano luce e rivelano 1’ esistenza d una stretta correlazione fra le due serie monumentali. Nel caso concreto, la provenienza della gemma conferma 1’ origine etrusca dei quadranti suddetti, come il fatto che il possessore di questa gemma abbia desunto il tipo del proprio suggello dai conii monetali del paese ove fu rinvenuta accenna a rapporti d’origine, di patronato o di clientela del titolare colla città di cui il tipo stesso era simbolo. Il Tito Mestrio proprietario di quest’onice appartiene a famiglia non del tutto ignota in epigrafia, dove il nostro titolo fa riscontro al iq+*3W · lOqfH (Jartbi mestri) di lapide perugina (2), e trova posto fra 1’ antica tegola prenestina inscritta (1) L. Sambon, Recherches sur les monti, de la presqu'île ital., pag. 55, n. 76; Lanzi, Saggio ecc. II. 31, 115, tav. VII, n. 12; Carelli, Hai. vet. numtn., tab. XII, n. 3 ; Marchi e Tesseri, Aes grave del Mus. Kirch., pag. 98, cl. III, tab. suppl. n. 5; Fabretti, op. cit., 2461 B. (2) Fabretti, n. 1688. ι88 GIORNALE LIGUSTICO Q· MESTRI IIVIR C · TAPPVRI (i) (Quintus Mestrius Caius Tappurius Duoviri) , e la lapide d’Este intitolata a L · MESTRIVS C · F · ROM · LEG · IX (2) (Lucius Mestrius Caii Filius tribu Romilia Legionis IX). La mancanza del cognome in tutte tre le iscrizioni ci riporta ad un’ epoca in cui non erasi ancor dismesso 1’ uso che fu per tanto tempo oggetto di particolare predilezione ai romani (1), di distinguere, cioè, fra loro i membri di una stessa famiglia col semplice prenome. 6· ΓΗΛ10ΥΧΙ ... Tre guerrieri in atto di trasportare un eroe morto o ferito, sorreggendolo uno per le gambe e gli altri due sotto le ascelle. Le tre ultime lettere dell’ epigrafe son d’incerta lezione. Intaglio in corniola frammentato, già presso il capitano cav. P. Bellezza in Lucca. Sembra che la rappresentazione debba riferirsi all’ episodio omerico di Macaone che ferito da Paride vien trasportato in salvo dai soldati di Nestore per ordine di Idomeneo (2). Per quanto concerne 1’ epigrafe, giovi ricordare come nella Colti) Garrucci, Sylloge etc., n. 2249. (2) Corpus inscript, latin., V, 2507; Wilmmans, Exempla inscript, latin., 1441 a. (3) Gaudent praenomine molles Auriculae. (Horat., Sat. II. 5). (4) Omero, II., XI, v. 639. GIORNALE LIGUSTICO 189 lectaneci antiquitatum Romanarum (Romae, 1736') del Borioni, un intaglio in giacinto con figura di atleta (tav. 75) porta Γ analoga leggenda ΓΗΛΙΟΥ· Il Venuti illustratore di quella raccolta mette in rapporto questo nome con quello di un Aulus Gellius Myrrinus di lapide cortonese edita dal Gori (1). Più evidente apparisce il rapporto fra la gemma del Borioni e quella da me descritta. La ripetizione dello stesso nome su ambedue le pietre darebbe un certo peso all’ ipotesi di un Gellio autore dei due intagli ; ma già dissi che la lezione del-1’ iscrizione di cui mi occupo è, in parte, dubbia. Il fatto dell’ essere il nome segnato in greco e alla greca, militerebbe, del resto, in favore dell’enunciata ipotesi, l’uso di sottoscrivere in cotal guisa i propri lavori essendo stato comune a Gneo , a Felice e ad altri fra i più noti litoglifi romani. 7· Cornucopia vittata. Intaglio in agata giallastra, della specie chiamata aescbates dagli antichi perchè simile al corno del bue. Nella mia collezione. La gente Veraz'ia, di cui sembra esservi stato un ramo patrizio ed un altro plebeo, fu assai estesa in ordine cosi di spazio come di tempo, a giudicarne dalle non scarse memorie che di essa sparsamente sopravvivono, e dalle quali desumesi che parecchi de’ suoi membri coprirono importanti cariche civili, militari e sacerdotali vuoi in Roma, vuoi nelle pro-vincie (2). Ricorderò fra i membri del primo ramo quel (1) Inscript. ant. in Etr. exst., II, pag. 378. (2) Oltre le iscrizioni infra citate, ved. Muratori, Nov. thes. vet. inscr. 1, pag. 172, i ; II, pag. 755 , 4, ni], 1; Mommsen, Inscrip. Regni Neapol. 1467, 3952; Bull dell’ Instit. di corr. arch. 1848, p. 180; 1878 p. 124, ecc. 190 GIORNALE LIGUSTICO L. Verazio, homo improbus atque immani vecordia , di cui fa parola il giureconsulto Labeone appresso A. Gellio (1); e il L. Verazio Quadrato nominato ripetutamente negli atti dei Fratelli Arvali (2), qual Promaestro (negli anni 78 e 86 dell" èra volgare), Flamine (nel 78 e 89) e Maestro (per la 2.a volta nel 91) di quell’illustre sodalizio. Del secondo ramo citerò a caso il L. Verazio Felicissimo, patrono del pago To-lentinese, titolare di noto bronzo del museo di Berlino (3), e FA. Verazio Severiano di Pozzuoli, Cavalier romano, Curatore della repubblica dei Tegianesi ecc., di cui una insigne lapide cumana celebra ampiamente i meriti e le esimie liberalità (4). Non sembra possibile identificare il personaggio inscritto su questa gemma con alcuno dei Verazii il cui nome ci venne tramandato dagli scrittori e dalle lapidi : ma la mancanza del cognome, e la forma dei caratteri con globuli o perle all’estremità delle linee, che trova riscontro nelle leggende di (1) Noct. Att., lib. XX. i. § 13. La lezione L. Neratius di alcuni codici ha contro di se anche la grande autorità del Borghesi, il quale avverte giustamente in proposito che mentre il personaggio di cui parla Labeone non è certamente posteriore ad Augusto, di Verazii non si ha.sentore in Roma prima del IX secolo dalla sua fondazione (Inserì\. di Sepino, Oeuvr. V. p. 347). Accertata è, invece, l’esistenza dei Verazii nei tempi repubblicani tanto dall’ iscrizione di Cartagena num. 2206 della Sylloge del Gar-rucci, quanto dalla leggenda della gemma in esame. Lo stesso ragionamento vale riguardo al controverso P. Fulvio Verazio menzionato da Cicerone nell’ orazione Pro L. Fiacco. 20. (2) Corp. inscr. lat., VI. 2056, 2057, 2059, 2060, 2064, 2065, 2066, 2068, 2071. (3) Orelli, Inscr. lat. ampi. coll. 2474. Taccio avvertitamente del celebre titolo di C. Verazio Italo di Aquileia (Marini, Atti de’ fr. Arv., pag. 159; Orelli 4082), intorno al quale si travagliarono indarno il Borghesi e 1’Henzen (Ann. dell’ Inst., 1848, pag. 222), avendolo ultimamente il Mommsen relegato a buon dritto fra gli spurii (C. I. L. V. p. 7). (4) Mommsen, Inscr. R. Neap., 2569. GIORNALE LIGUSTICO I9I alcuni conii consolari dello scorcio del secolo VII di Roma, inducono ad assegnare con molta probabilità alla gemma in discorso una data anteriore all’ epoca imperiale. 8- QFI Apollo-Sole, nudo, stante, la testa radiata, il braccio destro alzato e la mano sinistra armata di sferza. Ai piedi, piccola ara accesa. Intaglio in diaspro sanguigno presso il cav. Bellezza , come il num. 6. Soggetto molto ripetuto su medaglie e pietre incise, nè sarà qui fuor di proposito osservare come dei tanti esemplari gemmarii di questa rappresentazione che mi caddero sott’ occhio, quasi tutti, per quanto ricordo, fossero in diaspro sanguigno : di che si può ragionevolmente arguire che oltre alle arcane virtù profilatiche e fìlatteriche che attribuivansi dagli antichi a questa pietra, per effetto di sua natura specifica (i), 1’ uso e l’impiego peculiare di essa si connettessero colla simbolica e colle pratiche del culto solare. Il Chifflet (2) assegna questa rappresentazione alla classe dei cosi detti Abraxas; e sulle di lui orme, G. Gronovio qualifica per Sol Abraxas una figura analoga della dattilioteca di Gorleo (3). È però da osservarsi che la stessa figura ricorre su medaglie imperiali fin dai tempi di Settimio Severo; il qual carattere ufficiale non consente di riguardarla come il simbolo particolare d’una setta filosofica e religiosa. Che più? trovasi una rappresentanza congenere in una pittura murale di .Pompei (4), ciò che ci riporta ad un’ epoca anteriore al gnosticismo. Questa figura pertanto non appartiene al ciclo delle rap- (1) Plin. , Hist. nat., XXXVII, 9; Orph., Lithica, 264 sq. (2) Abraxas, seu apistopistus etc., Anv. 1657, tab I, 3. (3) Gorlaei, Dactyl. cum explic. T. Gronovti, Lugd. Batav. 169/, II, 329. (4) Mus. Borb., VII. 55. 192 GIORNALE LIGUSTICO presentazioni abraxee più di quanto possa riferirsi a quello delle apollinee nel senso proprio della parola. Essa è relativa al culto del Sole, che specialmente nel decadimento dell’ impero, per la prevalenza sempre crescente delle superstizioni persiane, egizie e siriache fu in gran voga e fervore a Roma e nelle provincie; tanto che dal III secolo in poi, nelle cerimonie religiose e sui monumenti, il Sole fu proclamato conservatore di Roma, compagno invitto degli Augusti, protettore e signore dell’ impero. Ma il Sole, quale è effigiato sulla gemma in discorso e sulle tante sue congeneri, probabilmente riproduzioni di qualche insigne simulacro in gran divozione a quei tempi, sul tipo di quello la cui testa colossale si conserva nel museo Capitolino, non è altrimenti 1’Abraxas gnostico, come credette il Chifflet, e nettampoco 1’Apollo omerico col quale lo confondono altri, sebbene non sia senza affinità con entrambi. Maggiore è la sua rassomiglianza col-1’ Helios di cui la protome campeggia sul rovescio delle dramme di Rodi e dei denarii della gente Aquilia; e certo la sua imagine costituisce un anello di congiunzione fra il Febo ellenico e il Mitra persiano, come questo a sua volta si connette coll’ Iao-Abraxas degli Alessandrini, i cui simboli mostruosi incisi su innumerevoli gemme attestano la decadenza dell’ arte non meno che della religione grecoromana. 9- CCLXXXVI La Fortuna, stante, con timone e cornucopia; a sinistra un astro sottoposto a tre ovuli disposti in linea. Intaglio in diaspro rosso, della mia collezione. La stella a lato della figura ci avverte che la rappresentazione ha un senso astrologico e relativo all’ oroscopo del possessore della pietra. Si conoscono altre gemme su cui GIORNALE LIGUSTICO m ricorrono analogameute note numerali in relazione a rappresentanze oroscopiche (i). 10. A N La Fortuna, stante, con timone e cornucopia. Corniola presso il cav. F. Marsili in Firenze. 11. V Q F Mani in fede. Corniola già presso di me. Le lettere singolari sulle pietre incise non hanno sempie il valore di sigle onomastiche. In esse si compendiano talvolta formule di acclamazione, di augurio, di esorcismo e simili, di cui la chiave ci vien fornita da monumenti di alti e classi sui quali ricorrono in extenso o men compendiosamente. Così la V solitaria si può il più delle volte ritenere per compendio di vivas; così le lettere VT esprimono quasi sempre Γ ovvio utere felix, e via discorrendo. Altre volte le note di cui si tratta sono probabilmente iniziali di parole d ordine pel mutuo riconoscimento fra gli affigliati ad una fratria. Nè senza peso finalmente parmi la congettura del Morcelli (2), che s’incidessero talora di siffatte sigle festivis ut interpretibus garriendi iocandique materiem praeberent, al qual proposito cita egli opportunamente 1’ aneddoto dei tre LLL e due MM di cui nel libro II dell’ oratore di Cicerone (3), per argomentare che di questo genere di scherzi fossero vaghi gli antichi non meno dei moderni. Io sarei anzi inclinato ad allargare i (1) Ficoroni, Op. cit., tab. I, 15. Anche i num. 5 tab. II e 24 tab. Ili sono da assegnarsi alla stessa categoria. (2) De stilo inscriptionum. (7) ... . tota Tarracina tum omnibus parietibus inscriptas fuisse Uter as tria LLL duo MM; quum quaerens id quid esset, senem tibi quemdam oppidanum dixisse; Lacerat lacertum Largii mordax Memmius. De Orat. IL 59· Giorn. Ligustico, Anno V. 194 giornale ligustico limiti della congettura, ammettendo che lettere singolari figurassero non di rado sulle gemme non pure a materia di scherzo, ma e in qualità di Imprese individuali o gentilizie, come, a cagion d’esempio, in tempi posteriori figurarono nell araldica della Casa di Savoia le famose lettere fert di tuttora controversa interpretazione. Nel caso concreto, crederei potersi leggere abbastanza sicuramente \’(aleat) 0.(111) v(ecit). I2· GCIMARCLLF Hroe nudo con un ginocchio a terra, in atto di sguainar la spada per difendersi da un serpente che gli si avventa contro. Ha il capo coperto di elmo crestato, e il braccio sinistro armato di scudo. Corniola da me veduta in Napoli. Chi sia il protagonista di questa rappresentazione piuttosto ovvia su gemme specialmente etrusche non consta abbastanza chiaramente. A giudicarlo Archemoro osta anche la figura non abbastanza giovanile, e nettampoco può credersi uno dei compagni di Cadmo alle prese col drago della fontana di Marte, nulla indicando in questo guerriero dal capo galeato e dal braccio onusto di scudo l’inviato dall’ eroe fenicio ad attinger acqua alla suddetta fonte. Non ignoro che in parecchie rappresentazioni congeneri, altti ha voluto ravvisare lo stesso Cadmo in atto di consultare l’oracolo di Delfo (1), ma senza memomamente contestare Γ applicabilità di tale attribuzione alle rappresentanze di cui è cenno, è certo che e.ss.1 non potrebbe sostenersi nella fattispecie, opponendovisi i ecisamente 1 atto dello sguainar la spada che accenna senza meno ad un combattimento. Con più ragione si potrebbe pensale a Giasone, che comparisce su altri monumenti etruschi (!) ( fiABouiLLET, Calai, geti. et raisonn. des camées et pierr. gr. de la Bibl. imp. n. 1792, 1793, 1794. GIORNALE LIGUSTICO 195 in lotta col drago ; sebbene egli non figuri qui colla pelle di fiera di cui lo ammantano gli antichi poeti, nè col costume tessalo che ostenta su vasi dipinti, nè finalmente con un sol piede calzato, caratteristica di cui gli artisti greci eransi fatta una legge nell’ iconografia di questo eroe. Del resto, il combattimento di eroi con serpenti è lo schema favorito dehe più antiche tradizioni mitiche dei popoli di stipite ariano, adombrandosi in esso la lotta dei primi immigranti, vuoi colla natura selvaggia del suolo, vuoi cogli aborigeni primi posseditori del medesimo. Tale è, chi ben guardi, 1 ordine di idee a cui risponde nella più vetusta simbologia 1 emblema del serpente, animale orrido e letifero, nato e dimorante nelle oscure viscere della terra, personificazione del genius loci connesso col ricordo dei culti primitivi e delle più antiche imprese degli eroi. Per quanto risguarda la leggenda, sembra potersi plausibilmente decifrare g (en io) c(aii) 1 (uhi) marcell (ini?) f (elicit er) , trovando siffatta interpretazione riscontro in erudita gejnma non ignota ai cultori di questo ramo d archeologia (1). 13. ΜΝΗΘΗΟΛΥΜΙΠΙΑζ Testa barbata. Corniola nella Galleria di Firenze,n. 2162-288. La formula meminerit Olympias assegna questa gemma alla categoria dei cosidetti ricordini, il cui simbolo più usitato era una mano che pizzica o strofina il lobo inferiore d un (1) gen(i'o) l.plvti phoebi fel(iciter), corniola già del signor L. \e-scovali (Giornale Arcadico, tom. XXIV, pag. 101). Altri ha già fatto osservare 1* analogia che corre fra questa pietra incisa e i piombi Ficoro-niani con gprf (Genio Populi Romani Feliciter), fprf (Fortunae Popuh Romani Feliciter), vfrp (Vota Felicia Rei Publicae), relativi, per quanto si può arguire, a feste celebrate in onore del Genio di Roma, del Popolo romano ecc. (Carruggi, I piombi ant. racc. dall'Emin. Principe il Card. Lud. Altieri). 196 GIORNALE LIGUSTICO orecchio, colle leggende μνημόνευε (i), μνημονεύετε (2), memento (3) e simili Γ4· ΛΥΚΑΡΟΥ Giove sul trono con scettro e fulmine ; dinanzi a lui, la vittoria atto di incoronarlo; dietro, la Fortuna con cornucopia e scettro. Corniola nel Museo di Parma. Contro il presupposto che in questo nome al genitivo abbia a ravvisarsi quello dell’ incisore della pietra, in dipendenza del sottinteso nominativo εργον, oltre alla considerazione che il nome stesso non ricorre su altre gemme fin qui conosciute, militerebbe anche un argomento d’indole tecnica desunto dall esecuzione molto trascurata del lavoro. Non stimo tuttavia superfluo rammentare quanto già ebbi occasione di altrove accennare in materia di gemme (4), trovarsi, cioè, talvolta ripetuto eziandio sulle copie il nome dell’autore del- 1 originale, e apparire, anzi, molto probabile che il nome inscritto su certe gemme non sia altrimenti di artista litoglifo, bensì si riferisca piuttosto all* autore della rappresentazione originale in tavola, marmo o bronzo, ricopiata da altri in gemma. T5- Cl F Busto di re. Diaspro nella Galleria di Firenze num. 216. Ho accennato in altro mio scritto come su monete di L. Klio Cesare battute in Sinope, le sigle c 1 f stieno per rappresentare il rfome di questa città Colonia Julia Felix. Il (1) Ficoroni, Op. cit., tab. V. 12. (2) I. Spox. , Misceli, eruditae antiquit., Lugd. Bat. 1685. (}) Bull, deir Inst. arci). 1862, pag. 51. Est in aure imd memoriae locus, quem tangentes attestantur, id que fiebat ab actore cum verbo memento. Plis. I. 45. (4) Sigilli ant. rovi., pag. 6. GIORNALE LIGUSTICO 197 che non toglie peraltro che possano con pari ragione qui figurare in qualità di iniziali del prenome, gentilizio e cognome del possessore dell’ anello. 16. ΑΝΘΡ60 noe Sfinge e tirso, nell’ area U. Anello d’ oro nella Galleria di Firenze, num. 90. È manifesta 1’ allusione del tipo della sfinge al nome proprio άνθ-ρωπος. 17. PHILON Mercurio, senz’altra veste che una leggera clamide, stante, appoggiandosi leggermente sul caduceo capovolto che tiene colle sinistra, la destra all’ anca. Corniola della mia collezione. L’ iscrizione potrebbe anche ritenersi per abbreviazione di Philonicus, nome servile che si trova usitato più specialmente nei tempi repubblicani (1). 18. RVFI Face accesa. Corniola presso il cav. F. Marsili in Firenze. La paleografia della leggenda non lascia dubbio sulla data anteaugustea di questo intaglio. Come i num. 5 e 7 > è da aggiungersi alle congeneri della silloge Garrucciana (1). 19. HERMIA Due mani congiunte tenendo spighe e papaveri, emblema di Bonus Eventus (Αγαθή τύχη nei monumenti greci). Corniola presso di me. Hennia è nome maschile, come Papia, Democra, Neicia e (1) Garrucci, Syll., i443> x522· (2) Id., 2279-92. 198 ' GIORNALE LIGUSTICO altri, che trovatisi usati in tempi antichi a preferenza coll’apocope della sibilante finale, forma imitata, per quanto io ne giudico, dagli Etruschi, i cui nomi propri virili uscenti al caso retto in as venivano più spesso trascritti colla perdita della s (1), forse a significazione della popolare pronuncia. 20· N6IKH Combattimento di due guerrieri, uno dei quali ferito cade ripiegandosi all’indietro, mentre l’altro coperto collo scudo gli è sopra e sta per poggiare un ginocchio sul petto del vinto avversario. La leggenda è frammezzata da un ramoscello di palma. Agata cenerognola, di buon lavoro, presso di me. Nella fattispecie, non è già P iscrizione che dipende dal tipo, ma bensì questo che allude a quella. Trattasi, cioè, di un nome proprio Nice, (in greco νΐκη, vittoria), allusivamente al quale venne ideata e condotta in gemma la rappresentazione della vittoria d’un guerriero sul suo avversario, emblema parlante del nome di chi se ne serviva per suggello. 2I· MYPMIDCON In corona d’ alloro. Agata bianca presso il cav. Ferdinando Marsili in Firenze. E scritto che i servi e i liberti si servissero per segnare di laminette anuliformi in bronzo, e che l’uso degli anelli gemmati fosse esclusivamente riservato alle persone di condizione ingenua (2). Questa teoria non è così assoluta che (1) Cf. le forme Carna, Capsna, Puplna, Puntna, Perno,, Herina, Murina, Scansna, Sansna Uchum^na, Velcha ecc. Più frequente ancora è 1 ommissione della sibilante nei nomi colle desinenze in - is e sopratutto iin - es. (2) .... ncque unquam ab honestioribus hominibus, quorum proprii fuerunt anuli gemmati, sive sigilla, eiusmodi lamellas anulatas gestas esse crediderim. Mommsen, Inscr. R. Neapol. pag. 350. GIORNALE LIGUSTICO 199 non si possano contrapporle molte eccezioni: e basti, senza neanche uscire dai limiti di questa brevissima silloge, citare in proposito così il Myrmidon della gemma in esame, come 1’ Hermia del num. 19, il Philon 0 Philonicus del num. 17 ecc., tutti nomi servili, secondo che non pure è lecito arguire dalla loro grecità, ma vien confermato indubbiamente da documenti epigrafici (1). Piuttosto è il caso di distinguere i tempi; imperocché mentre non si può dubitare esservi stata un’ epoca in cui 1’ uso degli anelli gemmati era un esclusivo privilegio della classe ingenua, non è però men certo che in tempi posteriori non solo a liberti ma perfino a servi venne estesa la facoltà di portare al dito una gemma figurata 0 litterata ad uso di sigillo, del che porgono irrecusabile testimonianza i non pochi nomi servili inscritti appunto sulle 1 gemme stesse. 22. VUTI Diomede rapitore del Palladio, in atto di scendere dall ara su cui ha perpetrato il furto, nudo, tenendo il simulacro colla sinistra involta per riverenza nella clamide, e colla destra la spada sguainata e un ramo di palma. Dietro la testa, luna falcata ; dinanzi, astro. Corniola presso il cav. Bellezza in Lucca. Uno dei tanti Diomedi che corrono per le mani degli amatori di pietre incise. Secondo la congettura del \isconti, è probabile che 1’ originale di questa celebre composizione sia stata una pittura di Poiignoto in uno dei tempietti di fronte ai Propilei di Atene (2). Certo, essa deve derivare da uno dei più grandi maestri dell’ antichità, se si ha 1 occhio al nu- (1) Garrucci, Syll, 1063, 1579. H43> 1522; Wilmanns, Exem.pl., 164, 2535; Mommsen, C. I. L., I, ion etc. (2) Mus. Capit., tv. 15 nota; Op. var., I, p. 203 ; Mus. Worsl., p. 208. 200 GIORNALE LIGUSTICO mero delle ripetizioni, vuoi su bassorilievi (r), vuoi sopratutto su gemme, e se si consideri che parecchie di queste portano il nome dei più valenti incisori antichi, come Solone (2), Gneo (3), Dioscoride (4), Policleto e Calpurnio Felice (5), e altre, tuttoché anepigrafi, accusano la mano d’un artista di primo ordine come le due della Galleria di Firenze (6). Altre pietre di buona esecuzione esemplate sullo stesso originale possono vedersi citate o pubblicate da Mariette (7), de Stosch (8), Beger (9), Fabretti (10), Dolce (11), Winckelmann (12), Visconti (13), Raoul-Rochette (14) ecc. Quest ultimo scrittore espone Γ opinione che alcune delle pietre incise in cui si è creduto ravvisar Diomede, ma sulle quali non figura il Palladio, esprimano invece Oreste rifugiato nel santuario di Delfo, desumendo da ciò un argomento in favore della sua teoria relativa all’ impiego presso gli antichi d uno stesso tipo applicato a due personaggi diversi in una circostanza analoga. (1) Maffei, Mus. Veron., LXXV, 4; Raoul-Rochette, Mon. ined. d’antiquit. figur., pl. XXXII, 2. (2) Caylus, Recueil d’ant., etc., V pl. LII, 3. (3) Bracci, Comment, de ant. scalpt qui sua nom. incid. I, 50. (4) Id., Id., II, 61. (5) E· Q.· Visconti, Mus. Cap., tv. 15 nota. (6) Winckelmann, Descr. des pierr. gr. de la coll, de Stosch, p. 391; Gori, Mus. Flor., II, tb. XXVIII, 3; Zannoni, Gali, di Fir., serie ΛΓ, I. tv. IV. (7) Traiti des pierr. gr., Paris 1750, I, p. 94. (8) Gemmae ant. cael., Amst. 1724, p. 38. (9) Thes. Brande!}., Berlin 1696-1701, I, p. 94. (10) Tal·. Iliaca, p. 364. (11) Descr. del mus. di C. Dehn, II, p. 74. (12) Op. cit., p. 388 e seg. (23) Mus. Cap.,'tv. 12, 15; Mus Pio-Cl. III, tv. 41 nota, Mus. Worsl., Ρ· 98; Op. var. II, p. 124, 278, 279, 280, 357, 358, III, p. 422. (14) Mon ined. d’ant. fig. p. 198. GIORNALE LIGUSTICO 201 Fu osservato, non ricordo da chi, che i monumenti rappresentanti il ratto del Palladio provengono di preferenza dalla Magna Grecia; del che potrebbe trovarsi una spiegazione anche nel fatto che diverse città della Lucania, della Calabria e della Apulia vantavansi di possedere il Palladio stesso (i). Ma sonvi altre cause a cui si può attribuire la frequenza e la diffusione in Italia di questa rappresentazione: anzitutto , la credenza che il Palladio fosse un pegno misterioso del romano impero, una delle sette cose fatali nelle quali stava riposta la salute di Roma (2) ; poi il culto e la speciale devozione di cui fu oggetto Diomede tanto lunghesso il littorale dal mar Jonio, dove Γ eroe avea altari a Meta-ponto e a Turio, quanto su quello dell’Adriatico, massime fra i Daunii dell’ Apulia, nel cui territorio il Tidide profugo da Argo avea, secondo la leggenda, chiuso il ciclo della sua epopea, fondandovi un possente impero, di cui sopravviveva la tradizione non solo in quella regione ma fin oltre le foci del Po. L’ intaglio di cui c’ intratteniamo si differenzia dagli altri congeneri, vuoi per la luna e la stella, le quali crederei esservi state aggiunte dall’ incisore a significare che 1 azione succedette di notte, anziché in senso astrologico, vuoi perii ramo di palma che l'eroe tiene nella destra, vuoi finalmente per l’iscrizione, che io leggerei VLITI (0, ritenendo il secondo elemento come nesso di / ed i; la quale interpretazione permette di supporre che questo Ulizio possessore della gemma abbia scelto a tipo del suo sigillo appunto il ratto del Palladio per allusione onomastica ad Ulisse, ch’ebbe parte non secondaria in quell’ impresa, tanto che vedesi associato a Diomede in altre rappresentazioni figurate della impresa stessa (3). (1) Servio ad Aen., III, 550; Eckel, Doctr. numm. vet. II, p. 484· (2) Servio ad Aen., VII, 1S8. (3) E. Q_. Visconti, Mus. Pio-CÌ., III, tv. 41 nota, Op. var., Ili, p. 279. 202 GIORNALE LIGUSTICO 23· OVEZIAHI · SVAVI2 Maschera di Sileno. Diaspro nero nella Galleria di Firenze, num. 2296-302. La lezione del primo membro è incerta, non avendo io avuto agio di esaminare la pietra sotto un buon punto di luce. La voce suavis è ovvia in senso di acclamazione su anelli gemmati; qui peraltro sembra piuttosto nome proprio di donna, moglie 0 più probabilmente serva dell’ individuo il cui nome al genitivo precede il suo. Il nome Suavis è più sovente maschile , ma non mancano esempi del suo uso nell’ altro genere, come nell iscrizione di Suavis vinaria sulla parete esterna della basilica di Pompei (1). 24· ΑΠΟΛΛΟΔΟΤΟΥΛΙΘΟ Ί esta di Pallade coperta di ricca galea attica con alto cimiero sorretto da un grifo e crestato. Pasta di vetro presso il signor Lazzaro Bonaiuti in Siena. Il nome di questo Apollodoto, cui il Visconti qualifica aitefice di stile assai semplice, benché non molto corretto (2), leggesi su altre gemme conosciute (3). 25- MAKAPOC X ΓAAAI6HOC — ΣΑΦΦ(Χ ^ X ΜΥΤΙΛΗΝΑ X ΙΏΝ X Sulla parte convessa di grosso scarabeo in pietra serpenti) Zangemeister, Corp. inscr. lat., IV, 18:9. (2) Op. var., II, p. 125. (3) Ibid, p. 300, 337. GIORNALE LIGUSTICO 203 tina. La parte piana porta inciso un lupo gradiente. Nel museo di Parma. Le stelle stanno qui come su tante altre pietre a simbolo di prospero e lieto augurio (1). 26. 03 ΦΙΛ ΕΛΥ AK Protome di Serapide nello stile largo e corretto che è proprio dell’epoca alessandrina. Diaspro rosso presso· di me. La purezza del profilo, e la serena maestà che spira dalla fisionomia del nume accusano il magistero dell arte greca, mentre F eccellenza dell’esecuzione, massime 1 artificio dei capelli e della barba, attestano l’influsso della scuola egizia che possedeva il segreto di trattar le pietre dure come 1 argilla. L’ epigrafe accenna ad una dedica od acclamazione da amico ad amico. 27. PCùOY APAO γ ree Sulla parte piana di grosso scarabeo in diaspro verde. Nel museo di Parma. (1) Stellam significare ait Ateius Capito laetum et prosperum. Festos, v., p. 351, Müller. L’uso, del resto, di associare figure siderali alle rappresentazioni delle pietre incise è più antico di quanto si creda generai mente. A prescindere dalle pietre di lavoro fenicio, su cui non di rado ricorrono le stelle e la luna, trovansi rappresentazioni di astri perfino in lavori greci di carattere affatto primitivo. Una pietra lenticolare della collezione Rhousopoulos in Atene, con tipo rozzissimo riferito daU’Helbig all’ arcaico idolo di Demeter Melaina presso Phigalia (Pausan. Vili, 42, 4), già esibisce nel campo due stelle. 204 GIORNALE LIGUSTICO Probabilmente una delle tante formule di esorcismo di cui si servivano i medici basilidiani. 28. IAlu ^ Apollo-Sole, stante, con sferza. Diaspro verde presso il cav. F. Marsili in Firenze. Amuleto basilidiano come il seguente : 29· LAILVVORICnEFSEECIA La Speranza sedente su sgabello, con ramoscello nella destra prostesa. Dietro lo sgabello un’ àncora inclinata ; sotto, luna falcata. Corniola presso il signor Alessandro Lisini in Siena. Sebbene io non sia abbastanza persuaso che dalle iscrizioni gnostiche si possa ricavare quando che sia qualche costrutto in prò della scienza, che anzi son d’avviso la maggior parte delle stesse essere niente più che un arbitrario accozzamento di segni alfabetici 0 di voci che mai non ebbero un razionale significato neppure per coloro che le scrissero o le adoperarono come amuleti, stimo tuttavia non doversi tralasciare di prendere appunto delle inedite, nell’interesse di coloro che volessero oggi su più ampia scala e con maggior dovizia di materiali cimentare col crogiuolo dell’ analisi e della critica questa serie epigrafica sui generis, sulla quale già si travagliarono senza un positivo risultato il Macario, il Chifflet, il Molinet, il Montfaucon, il Caylus, il Matter e altri. L’imagine della luna è qui relativa alla dottrina dell’ influsso di questo pianeta sugli umani destini (1). (1) · . · · vitam nostram praecipue sol et luna moderantur . . . , sic vtriusque beneficio haec nobis constat vita qua fruimur. Macrob. Soniti. Scip., I. 19. GIORNALE LIGUSTICO 30. ΤΡΟΥΓΕΙ Busto di Serapide con diadema e modio. Corniola presso il cav. P. Bellezza in Lucca. La disposizione dei capelli, i quali non ricadono sulla fronte come nella maggior parte delle rappresentazioni di Seiapide, potrebbe far dubitare chc trattisi piuttosto di Giove, che ha con Serapide tanti punti di adesione; come, per contro, la barba alquanto rabbuffata e la fisionomia piutrosto truce fanno pensare a Plutone, il quale ha comuni con Serapide e con Giove il modio, il diadema e altri attributi. Se non che l’iscrizione , d’indole magica, conferma 1’ attribuzione della protome a Serapide, nel quale il sincretismo della teurgia alessandrina accozzò e fuse insieme i caratteri tipici delle due citate divinità; noto essendo che 1’imagine di Serapide fu adoperata in qualità di amuleto, ed occupa come tale un posto cospicuo in quella galleria iconografica a cui appartengono 1 tipi di Iside, di Arpocrate, di Alessandro magno, di Giulia Pia, di Elena, di Socrate, di Alcibiade, di Epicuro, di Virgilio (1) ecc., e che costituisce una sezione a parte dell antichità figurata. 31. COYHP ΛΝΟΜ X Abraxas, dalla testa di gallo e dalle gambe di serpe, loricato , con sferza nella destra e scudo nella sinistra. Diaspro color caffè nella mia collezione. Altro degli innumerevoli amuleti basilidiani a cui si attribuiva la virtù di preservare dalle malattie e di attirare le (1) P. L. Bruzza, Annal, dell’ Inst. di corr. arch. 1875, p. $ΰ e segg. 2θ6 GIORNALE LIGUSTICO 365 benefiche influenze che l’Abraxas numeralmente comprende e rappresenta. 32· CujA UIMAUC AEArnZ X AAluNAI ALPACA Z z Sulla parte postica del diaspro antecedente. Nella seconda linea leggesi il nome biblico di Άδωναι e nelle seguenti quello di Αβρακαζ ; altre voci sembrano attinte alla lingua del paese ove fiorivano le pratiche della cabala. 35· ΠΥίΟΘΣοο Testa di donna. Diaspro nero nella Galleria di Firenze, num. 2192-266. 34· PACRIO Testa di Pallade. Agata-onice, id., num. 210. Anche questa e la precedente appartengono, per quanto si può giudicare, alla categoria delle leggende gnostiche. Qui farò punto, per non dare a questa comunicazióne uno sviluppo maggiore di quanto comporti 1’ economia del fascicolo di cui è destinata a far parte. Giovi ricordare che Γ interesse di simili quisquiglie in genere è minimo, per non dire nullo, finché si osservino isolatamente, ma cresce in ragione diretta del numero quando si pongano in linea e a confronto con molte altre della stessa classe; sotto il qual punto di vista potrà apparire non affatto inutile la pubblicazione di questi quantunque pochi e sconnessi appunti epi- GIORNALE LIGUSTICO 207 grafici, ove si. consideri in essi niente più che un modesto contributo di elementi a disposizione di chi voglia usufruirli come materiali per un lavoro d’insieme. Vittorio Poggi. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Numismatique de VOrient Latin par G. Schlumberger. Paris, Ernest Leroux éditeur, 1878. — Un vol. in 4.° grande di pag. XII-504, e XIX tav. incise. All’ epoca nostra, che può vantare una serie di grandi pubblicazioni numismatiche, quali tra altre le importanti opere dell’Heiss sulle monete battute in Ispagna all’epoca romana, sotto i Re Goti, e le successive ispano-cristiane dopo· la invasione degli Arabi, le descrizioni delle monete della Repubblica Romana e dell’impero del Cohen, le altre dell’impero bizantino del Sabatier, le ricerche sulla moneta romana del d’Ailly, la Numismatica di Terra Santa del Saulcy, e quella degli imperatori delle Gallie del De Vitt, mancava tuttavia un consimile lavoro per le monete battute in Oriente durante 1’ occupazione latina, sebbene numerose ed esatte monografie sieno in diversi tempi venute alla luce, massime ai nostri giorni per opera dei sig. De Saulcy e Lambros. A questa deficienza tentò ovviare colla presente pubblicazione, ed a mio parere con ottimo successo, il sig. Schlumberger di Parigi, già noto per altri scritti numismatici, pei quali venne premiato dall’ Istituto di Francia. Egli con felice idea, dopo una breve prefazione storica in cui da ragione dell’ opera sua uscita sotto il patrononato della benemerita Société de VOrient Latin, inserì una interessante bibliografia decdi scritti riflettenti la numismatica dell Oriente Latino pubblicatisi durante il corrente secolo. Divide indi il signor Schlumberger sotto il punto di vista storico la numismatica 2o8 GIORNALE LIGUSTICO in questione in due distinti gruppi, dei quali il primo comprende i principati di Siria e di Palestina fondati in seguito alla prima Crociata, il regno di Cipro, gli Ospitalieri di S. Giovanni di Gerusalemme dopo che si fissarono in Rodi. Il secondo gruppo, più moderno e la cui origine data dalla quarta Crociata, comprende le monete battute dai Francesi e dagli Italiani in Grecia, nelle isole del Mare Egeo, ed in generale nelle differenti porzioni dell’ Impero greco smembrate in seguito alla Crociata del 1204. Di questo gruppo fanno quindi parte le monete per noi importantissime battute dai Genovesi a Caffa, Metelino, Scio e Pera, e dai Veneziani per le loro colonie di Levante: quelle dei principi d’E-piro e di Tessaglia, sorti dagli stessi sconvolgimenti che i principi di Morea e i duchi d’ Atene, e finalmente quelle degli Emir dell’ Asia Minore battute ad imitazione delle latine e destinate a facilitare le transazioni fra que’ Musulmani ed i Franchi. Al testo, redatto con molta chiarezza ed accuratezza, fanno seguito due copiosi indici e XIX tavole di monete eseguite dal sig. Dardel coll’ abbastanza nota sua maestria. Non intendo con questi brevi cenni dare un’ esatta idea dell’ opera del sig. Schlumberger, il che sarebbe affatto impossibile. Mio unico scopo è di rendere un sincero omaggio all’egregio autore, che non trascurò nè fatiche nè indagini per radunare quanto credesse utile al suo scopo; che fra la massa di pubblicazioni da lui esaminate e studiate riesci con sana e soda critica a scevrare il certo dal dubbio; che seppe maestrevolmente accoppiare l’utile dulci; e che con questo suo ottimo scritto faciliterà la via a quanti in avvenire si occuperanno di ricerche sulla numismatica dei conquistatori Latini in Oriente. V. Promis. Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO 209 LA TORRE DEGLI EMBRIACI Lettura fatta nella Seduta del 20 febbraio 1869 della Sezione Archeologica della Società Ligure di Storia Patria. Fu desiderato, o Signori, da alcuni socii, assai autorevoli per dottrina e zelo pel nostro Istituto, ch’io facessi lettura in questa Sezione dei risultati d’alcune mie indagini sulla Torre degli Embriaci. Essendo piaciuto alla attuale (1869) proprietaria la signora duchessa Melzi, nata Brignole-Sale, d’ incaricarmi di stendere un’ epigrafe ad illustrazione di quel-l’antico monumento, dovetti farvi sopra qualche studio e ricerca. Come vedete la nobil donna, inconscia della proposta qui nata di decorare d’inscrizione le patrie memorie, di proprio sentimento venne in questa deliberazione. Io dunque, accettato l’incarico, volli procurarmene le storiche notizie e sopratutto accertar bene, che delle tante torri, le quali sorgevano in Genova nel medio evo, queste fra le superstiti era dessa cui si conveniva il nome degli Embriaci. Comechè le indagini all’uopo mi sieno riuscite lunghe anzi-chenò, temo che questo mio lavoretto non meritasse Γ onore di questa, direi quasi, solenne lettura innanzi a voi; ma per le dette ragioni vorrete certo menarmela buona. Qualcheduno di voi avrà detto per avventura in cuor suo: ma chi dubita che la Torre in discorso non sia la Torre degli -Embriaci? Ed avrebbe mille ragioni. Considerato solo che la piazza, la casa, e la via per cui si sale al luogo conservarono fino a’ nostri dì quell appellativo, e ciò malgrado l’estinzione in Genova di quell illustre famiglia, se ne ha conclusivo argomento dell’ antico fatto. Nonostante, 1’ esistenza d’ un altra torre ad Portam S. An-dreae fabbricata di mattoni nel 1228 da un Giuglielmo Em- Giorn. Ligustico, Anno V. '4 210 GIORNALE LIGUSTICO briaco, diverso dall’eroe di Gerusalemme e di Cesarea, nominata in un atto governativo del libro Jurium del 1258, confuse le idee. La quale altra torre degli Embriaci nel 1284 era passata in altri uomini, come riscontrasi da un atto accennato a p. 314 del vol. I Foliati mu Notariorum: « Actum in contrata S. Andreae retro Turrim, quae fuit Ebriacorum, et quae hodie est Nicolai de Flisco ». Anzi gli Embriaci come i Della Volta ed altri casati se n avevano più d’ una; sicché erano in Genova numerosissime. Il Cartularmm Possessionum, che trovasi nell’ Archivio di S. Giorgio, nel voi. del 1425 ne registra non meno di 33, e varie ne nota nei dintorni stessi di quella che esaminiamo. La pluralità di torri possedute dalla famiglia assai dilatata degli Embriaci indusse Carlo Cuneo a sostenere (non so se a stampa) che la Torre di cui parliamo non era altrimenti che del Palazzo del Governo, mosso da precedente opinione che toccassero quella Torre le più antiche mura del Castello. Ma il palazzo ove funzionavano i Consoli era e per più 1’ Episcopale. Ove nei tempi più antichi risiedesse il Governo noi potremo per avventura saper mai, per manco, di monumenti, checché n’abbia asserito con piena sicurezza il Ganducio; asserzione che il Cevasco nella sua Statistique de Genes vol. I, p. 409 seguì, appropriandosi con tutta confidenza l’opinione ganduciana, e ricavandone testualmente le parole. La ragione poi che il Cevasco (ib. p. 414) obbietta non potersi tenere la Torre degli Embriaci per torre privata, giacché in tal caso (egli dice) nel 1x96 saria stata mozza alla misura legale di 80 piedi, non vale per chi considera la, potenza e P importanza in quei tempi della famiglia Embriaci, famiglia sempre nei più alti gradi del Governo civile e militare, posseditrice di gran feudi in Soria e fra noi. Chi considera che l’accennata legge non era nuova, ma rinnovazione di legge precedente che molti avevano elusa, sente che 1’ ob- GIORNALE LIGUSTICO 211 biezione non ha valore conclusivo e tanto più' se documenti espressi provino il contrario. Ecco il testo della citata legge, tolto a verbo dai nostri Annali: « Hic (Potestas Januae Drudus Marcellinus mediolanensis) primitus superfluitates turrium, quas pro velle suo quidam cives contra licitum et constitutionem Communitatis construxerant, unde Consulatus et Potestates, qui olim Civitatem rexerant, peccatum incurrerant iuramenti, sapienter et probatissime demoliri, et ad certum modum pedum octuagiuta redigi fecit ». Ma veniamo al diretto. Consta che la Torre in discorso appartiene alla prelodata duchessa Melzi, come erede dell’egregio marchese Brignole-Sale, del cui nome si onorava del suo vivente la nostra Società; entrò nella nobile famiglia Bri-gnole-Sale per eredità portatale dall’ultima Sale, figliuola di Giulio, e moglie di Gian Francesco Brignole che fu Doge della nostra Repubblica, e che coll’ eredità si aggiunse il casato Sale. Giulio Sale adunque con atto rogato dal notaio Rocca nel 1583, 27 settembre, l’acquistò per compra da Ottavio Cattaneo. Era entrata nei Cattanei nel 1539 comprata da Carlo Cattaneo. Era prima di Accellino Cattaneo q. Marco. Il quale Accellino, volendola vendere insieme colla casa, la proferse in preferenza a un Cattaneo, ch’era Leonardo; col patto di pubblica subasta. Così l’ebbe Leonardo per suo fratello il detto Carlo. Cosi viene scritto nell’atto di vendita: « quandam domum cum illius medianis et circumstantiis ac juribus et pertinendis quibuscumque, sitam Januae in contrata Mascaranae, seu S. Mariae de Castello, cui cohaeret antea platea, quae est etiam de juribus et pertinendis dictae domus, et ad dictam domum spectat et pertinet ». Notaio Granello. Tutte queste notarili citazioni son tolte dagli atti esistenti nello scagno degli eredi Brignole-Sale. Oi vediamo onde 1’ ebbe Accellino Cattaneo. Veggo dalla Pandette Richeriane, esistenti nell’Archivio del Governo, che tre fiatelli Giustiniani 212 GIORNALE LIGUSTICO del fu Pagano vendettero casa e Torre e pertinenze appunto al prenominato Accellino Cattaneo ai 17 marzo 1511. Mi par utile riferire P intero brano dell’ atto quale vien riportato dal Richeri, perchè quinci si vedono già incominciati i fideicommessi. E la descrizione dello stabile vuol essere « notata. « Gregorius, Antonius et Pantaleo Justiniani fratres q. Pagani, tamquam filii et haeredes testamentarii dicti q. Pagani ex ejus testamento manu q. Antonii de Bozolo notarii et tamquam filii et haeredes q. Isottinae eorum matris, filiae q. Joannis Justiniani olim Banca, attenta balia eisdem concessa per 111. D. Gubernatorem et M. Consilium DD. Antianorum de vendendo dictam domum, non obstante prohibitione alienandi, ut in dicto testamento dicti q. Pagani, et prout in dicta deliberatione continetur, rogata per Hieronymum de Logia cancellarium anno proxime elapso die 14 octobris, vendunt nob. Accellino Cattaneo q. D. Marci quamdam eorum domum cum Turri, domunculis et viridario, positam Januae in contrata Mascaranae, cui cohaeret ante carrubeus, in parte etiam carru-beuSjubi est una scala petrae,in parte viridarium cum domuncula dominarum S. Mariae de Gratiis, et si qui etc., et cum iuribus quae habent in platea quae est ante hostium dictae domus ». L’atto è del 1514 ai 17 di marzo. E si noti che la facoltà di vendere è in seguito vincolata all’ obbligo d’investirne il prezzo nel Banco di S. Giorgio a salvarne il fidecommesso in rendita di compere. Ma prima di Pagano Giustiniano, chi mai la possedeva? Fra le 33 torri accennate nel succitato Cartulario Possessionum del 1425 niuna altra riscontra colla descritta precedemente, se non quella di Giuliano di Castello. Così si annota: « Julianus de Castro domum cum turri, domuncula et viridario in contrata Mascharane, cui cohaeret ab una parte domus Illarii Gambari et ab alia scalinata de Straleriis ». Il viridarium esiste ancora, e forma un ampio distacco fra la casa degli Embriaci e quelle che già costituirono il mo- GIORNALE LIGUSTICO 213 nastero delle Grazie. E del pari v’ ha ancora la scalinata verso occidente, ridotta in ripida salita quasi a cordonata, che costeggia la casa e la torre, e che finisce.allato a Santa Maria di Castello. Gli atti dei notai fanno frequentemente cenno della Curia, della Platea Embriacorum fra Mascarana e Castello, notando eziandio i possedimenti tutt’ intorno dei varii rami della me-desima famiglia. In un istrumento per es. del 1184 in luglio si conclude : « Actum Januae in Castello in Curia Ebria-cerum ». E lo stesso leggesi in atti del 1200. La brevità mi costringe a risparmiarne le altre numerose citazioni, che qui potrei allegare. Ciò posto, il vedere un de Castro fra gli Embriaci nello stesso luogo è un buon rincalzo all’opinione, già abbastanza d’ altra parte plausibile, che quel Primus de Castro che fu Console nell’an. 1122 sia appunto quel Primus che come fratello del primiero Guglielmo Embriaco, fu a lui compagno nelle Crociate, quindi stipite dei de Castro. Arroge che non mancano esempi dell’ unione d’ambi gli appellativi. In atti del 1253 è nominato Enricus Embriacus de Castello; nel 1263 Nicolaus Embriacus de Castello; nell’anno stesso Joanninus Embriacus et Philippinus Embriacus de Castello fratres filii Nicolai Embriaci (senza altro aggiunto), ed anco Nicolaus Embriacus de Castello; e nel 1267 Nicola Embriacus de Castro et Philippinus ejus filius. Anzi troviamo nel 1238 Wilielmus Niger Embriacus de Castro, detto in altro documento dello stess’ anno Wilielmus Niger de Castello. E così basti di allegazioni; e procediamo. Egli è ammesso come verità storica, che il cognome Giustiniano non è che cognome d’albergo. E che fra le 18 (per lo meno) famiglie, che vi entrarono v* è la famiglia de Castro o di Castello, dunque una linea degli Embriaci. Il Ganducio comincia francamente la genealogia dei Giustiniani così: « 1122 Primo di Castello ora Giustiniano fu Console della Città ». Or pria di concludere non vorrete 214 GIORNALE LIGUSTICO (io confido) gravarvi, che io qui mi permetta d’aggiungere due parole sul cognome Giustiniani. La vera storia non ha ragioni da ammettere l’invenzione di varietà genealogica, onde si resero sì fecondi i secoli trascorsi, per cui due fratelli greci derivati dall’ imperatore Giustiniano vennero in Occidente, prendendo l’uno stanza a Venezia e l’altro a Genova. Quinci le due case, una di Genova, l’altra di Venezia. Il nostro annalista Giustiniani, comechè confessasse la sua famiglia della Banca, non di Grecia, ma di Rapallo, non si sentì di rifiutare l’accennata favola. Il Federici nel suo Abecedario genealogico (MS. della Biblioteca di S. Carlo) che la rifiuta in capo all’articolo, la espone poi in fine per una cotal convenienza rispetto alla famiglia, convenienza che la storia non dee ammettere. Ma nelle sue Genealogie (MS. Brignole-Sale), così si esprime: « Giustiniani, il cui Albergo composto da diverse famiglie fu istituito l’anno 1362, come infra, se ben il Vescovo di Nebio Giustiniano dice... che li Giustiniani di Genova e quelli di Venezia sono tutt’ una cosa. Il che quanto sia vero si lascia al giudizio dei lettori. La verità è che essendo 1’ infrascritte famiglie interessate nell’ Appalto di Scio detto Maona, da questo comune negozio nacque tant’ unione e lega, che si risolsero deponendo li loro proprii cognomi riassumer un nuovo e comune cognome de’Giustiniani, e ciò seguì in 1362 ». Poteva aggiungere, che la fusione di varie famiglie in un Albergo sotto un solo cognome era d’ uso fra noi, e che le famiglie, che governavano gli affari di Scio, avevano una buona ragione di preferire a proprio cognome il \rocabolo Giustiniano, che ai Greci rammentava un loro celebre imperatore; con che venivan quasi ad apparire di greco sangue fra i Greci, e meglio accetti. Lasciando, 0 Signori, al vostro autorevole giudizio queste mie osservazioni, qualunque sieno, per non abusare menoma- GIORNALE LIGUSTICO 215 mente della vostra sofferenza, io mi riepilogo, ponendo in fine le due iscrizioni, una per la casa e l’altra per la Torre, di cui venni incaricato. La famiglia Embriaca alzò la Torre e la casa. Ed in questo sentimento ho meco il nostro egregio Segretario generale cav. Belgrano, a pag. 89 della sua Vita privata dei Genovesi, ond’ egli arricchì il vol. IV dei nostri Atti. Ho pur meco la comune tradizione. La Torre rimase fino ad oggi, quale sorse ; la casa subì certo successive variazioni, e siccome eli’ora è, non è certo più nell’antica forma originaria, nella primitiva misura, infine nelle primitive condizioni. Fu proprietà della linea Embriaca de Castro. Alcuni dei de Castro si nomarono Giustiniani (1) entrando in quel-F Albergo od aggregato di famiglie noto sotto quel cognome del tutto nuovo, che i Maonesi di Scio s’avevano creato ed assunto. Torre e casa passarono per vendita nei Cattaneo, Quindi fu comperata da Giulio Sale, che fu l’ultimo di quella casa patrizia ; e per eredità venne ai Brignole-Sale sino all’ attuale Signora Luisa Brignole-Sale in Melzi Duchi di Lodi, come fu ragionato partitamente di sopra. Ecco dunque le due epigrafi, ch’io propongo, almeno per ora a mo’ di saggio (2). Sulla facciata della Casa. INTORNO A O.VESTA PIAZZA EBBERO STANZA GLI EMBRIACI CASATO MEMORABILE NELLE CROCIATE E IN PATRIA. SORGE Q.VI A TERGO LA TORRE NELLA SVA ANTICA STRVTTVRA. (1) Nel Cartulario delle Colonne P. L. di s. Giorgio, an. 1493 pag. 21, trovasi un Bartholomeus Justiniunus de Castro. La strada che conduce alla piazza degli Embriaci porta tuttora il nome di Via Giustiniani. (2) Queste iscrizioni dal tempo che furono proposte vennero incise ed impiombate, perchè la pioggia ed il sole non producessero lo sbiadimento dei caratteri, onde riuscissero sempre facilmente leggibili ; e sono tuttavia al loro posto. 2l6 GIORNALE LIGUSTICO Sulla Torre. OPERA DEGLI EMBRIACI COETANEA AL PATRIO COMVNE DALLE LEGGI NELL’ ECCEDENTE SVA ALTEZZA RISPETTATA BENCHÉ TRAPASSATA IN CATTANEO IN SALE IN BRIGNOLE SALE RECANDO AI POSTERI IN VN COLLA PIAZZA PALAGIO E VTA IL NOME DEI FONDATORI STA DI PIETOSO EROISMO E DI CIVILE GRANDEZZA MONVMENTO E TESTIMONIO. LVDOVICA BRIGNOLE SALE IN MELZI d’-HERYL v’appose ovest’EPIGR. NEL MDCCCLXIX. Can. Luigi Jacopo Grassi. I CISTERCIENSI IN LIGURIA SECONDO UNA RECENTE PUBBLICAZIONE Dell’opera onde diamo il titolo in nota (i) è autore il P. Janauschek dei Cisterciensi di S. Croce (Heiligenkreuz) presso Baden d’Austria, e ivi stesso professore di Storia Ecclesiastica e di Diritto Canonico. Il primo volume è venuto alla luce nel 1877 a Vienna, dalla Tipografia Imperiale, e col sussidio di quella I. R. Accademia delle Scienze. Quest’ ultima circostanza è già per sè un buon indizio della serietà e bontà del lavoro; ma cresce di pregio l’opera per chi considera come 1’ autore vi si sia travagliato per ben venti anni, e ne ammira una diligenza, una erudizione tedesca insieme e benedettina, nella grande abbondanza delle scritture (1) Originum Cisterciensium Tomus primus .... descripsit P. Leopoldus Janauschek Moravus Brunnensis S. S. Theologiae in Universitate Tubinensi Doctor .... Vindobonae 1877, di pp. LXXXII-394, con tavola genealogica lunga 7 metri e ripiegata in 17 fogli.' GIORNALE LIGUSTICO 217 consultate, degli amici e benevoli interrogati, degli indici e delia tavola genealogica, modelli di accuratezza; e che più importa, non può non approvare i sani criteri, la pienezza del concetto e la lucidezza dell’ ordine onde Γ opera intera sarà condotta, giudicando da questa primizia. L’ autore vuol fare un Monasticum Cisterciense; in cui si vedano passare a rassegna i figli e le figlie di San Bernardo insigni per santità, per dignità ecclesiastiche, per uffici civili, per erudizione, per lettere e per arti; ma i primi due volumi, che ne costituiscono come la base, devono fornire Γ enumerazione compiuta, ma severamente critica, di tutte le Abbazie dell’Ordine; il primo volume per quelle dei monaci, il secondo per le Abbazie di donne. Dico enumerazione critica, perchè vi sono già in manoscritti e alle stampe cataloghi più 0 meno antichi, e storie varie dell’ Ordine e documenti in buon dato; ma veramente la ricchezza genera confusione. Donde 1 autore ha ricominciato da capo; e in una introduzione ha prima di tutto eliminati i Monasteri e le Badie erroneamente assegnate ai Cisterciensi, ha trasferite a loro luogo quelle di monache dell’ Ordine che per errore erano state considerate come maschili; ha tenuto breve parola di alcuni Monasteri dubbii, ha separato le Abbazie cominciate ma non compiute, e dalle Abbazie vere Cisterciensi quelle che non erano che dipendenze o semplici Priorati. Ha anche eliminate dal suo lavoro quelle congregazioni le quali, sebbene derivanti dalla Cisteiciense, diedero origine a nuovi Ordini di riformati, come la fiancese dei Fogliensi, l’italiana dei Bernardoni e la Trappa. Tanto meno ha voluto toccare degli Ordini cavallereschi che ne provengono, tra i quali 1’ Ordine di San Maurizio di S.i\oia. Noi che per istituto nostro speciale guardiamo sempre a ciò che è o-enovese, vi trovammo tolta all’ Ordine Cisterciense 1’ Abbazia di Sant’ Andrea di Borzone nel Chiavarese, la quale era invece una diramazione della Casa Dei-, il celebre Mona- 2ΐδ GIORNALE LIGUSTICO stero di San Colombano di Bobbio fu restituito al vero suo Ordine, il benedettino: vi trovammo posto fra i dubbi un Monastero di San Pietro a Sarzana; e annoverate tra i riformati italiani le Congregazioni di San Bernardo de Voto entro Genova e di San Bernardo d’ Albaro o alla Foce fuori delle mura. Di un altro Monastero qui accennato del Pobleto parleremo più sotto. Per tale guisa sgombrato il terreno dagli errori, dubbiezze e cose estranee al suo scopo, 1’ autore procede alla descrizione delle singole Badie nell’ ordine cronologico della loro fondazione ben avverata. La prima Congregazione era stata fondata nel 1098 da Roberto di Molesme, in un deserto luogo chiamato Ostello 0 Cistercio, donde Γ Ordine prese il nome; ma non cominciò a progredire se non dopo entratovi verso il 1112 San Bernardo, che se ne può dire il secondo fondatore. Si vede difatto d’allora in poi un incremento che sembra miracoloso ; la più antica colonia non è che del 1113; eppure alla morte del Santo (1153) il numero ne era già di 343; e all’età dell’oro dell’ Ordine, che durò fino alla metà del trecento, l’autore registra 728 Abbazie di monaci oltre 14 Priorati sui juris : in tutto 742 fondazioni, che compongono la serie di questo primo volume. Contemplando tanta gloria passata, l’autore prorompe in uno sfogo tenerissimo di compianto per le dispersioni e le rovine accumulate ed esclama; inedia vita in morte sumus. Cistercio (Citaux in francese), a tempi del fondatore Roberto, era un luogo aspro e selvaggio della Borgogna, ora dipartimento della Còte d’ Or; si diramarono all’ intorno le prime figlie di quell’Abbadia; nel 1113 Firmitas (La Fertè sur Gròne) nel Dip. Saône et Loire; nel 1114 Pontiniacum (Pontigny) nella Yonne; nel 1115 Claravaìlis (Clairvaux, Chiaravalle) nell’Aube, e nell’anno medesimo Morimundus (Morimund) nella Haute Marne. GIORNALE LIGUSTICO 219 L’illustre e benemerito sig. Barone Reumont in un articolo di rassegna a questa opera medesima (1), succoso e pieno al suo solito di belle considerazioni, ha riepilogato la serie delle Abbazie Cisterciensi fondate in Italia dai primi agli ultimi tempi ; onde noi non ci permetteremo di rifar male quel che fu già fatto bene. Soltanto pel nostro vezzo sovra notato di dimorar volentieri sulle cose genovesi, diremo alcunché su questa parte dell" opera del Janauschek ; quantunque agli amatori della storia ligustica sieno noti i parecchi articoli sui Cisterciensi del Genovesato, inseriti nel Giornale degli Studiosi dai miei amici RR. fratelli Remondini (2). I quali si recarono sui luoghi, ne copiarono coll’usata loro diligenza e cognizione le lapidi, ne tracciarono e descrissero le vestigia 0 ne interrogarono la tradizione, quindi posero tutto ciò a confronto con quanto ne fu scritto antecedentemente. Dopo le cinque Badie fondate dal 1098 al 1115, continuò 1’ Ordine a diramarsi in altre otto per le vicine provincie della Francia, che ora si dicono i dipartimenti di Marne, Seine et Marne, Loiret, Dordogne, Haute Saône e Isère; finché passò le Alpi, e la prima a fondarsi su terra straniera, cioè la quattordicesima della serie generale, fu nel 1120 la Badia del Tiglieto : la quale, sebben posta oltre Appennino, possiamo vantar ligure e per la signoria che ivi aveva la Repubblica, e perchè oggi ancora il Comune sorto sul territorio del Monastero appartiene al Circondario di Savona; mentre il fabbricato dell’ antica Badia risiede più in giù nella più fertile pianura dell’ Orba non lungi dalle Mollare. Al P. Janauschek non arride la etimologia di Tiglieto dai tigli, che a que tempi coprissero le spalle di un monte ancor deserto di abitatori, (1) Nell’ Archivio storico italiano, 1877, i.° semestre, pp. 463-73· (2) Il Sacro Ordine de’ Cisterciensi in Liguria; nel Giornale degli Studiosi, Genova, 1871; volumi VI e VII, in nove articoli. 220 GIORNALE LIGUSTICO noi saremmo di parere contrario al suo, non sapendo che cosa valga la sostituzione sua spiegante Γ ignoto coll’ ignoto, e vedendo fra noi fatto frequente uso di analoghe derivazioni in odierni e anche grossi Comuni; i quali portano 1’ impronta dell’ antico stato ne’ nomi di Bosco , Rovereto, Pomaruolo, Oneto, Mortedo (dai mirti), Frassineto, Castagnole e Castagneto ecc. L’ autore poi è scusabile se ha espresso un poco inesattamente la famiglia a cui appartenevano i fondatori della Badia, Anseimo e figli, i quali sono i marchesi del Bosco e non quelli· di Ponzone; quantunque a dir vero la differenza non è gran cosa, perchè Anseimo primo marchese del Bosco è fratello di Aleramo primo marchese di Ponzone, e perchè i due rami concorsero poi con nuovi benefizi ad arricchire il Monastero. L’ antica Chiesa è ora posseduta dai marchesi Raggi di Genova, i quali conservano ancora gelosamente i documenti della Badia nel proprio archivio. Non dovrei parlare della vigesima seconda fondazione cisterciense, e seconda italiana, la Badia di Lucedio presso Trino di Monferrato (anno 1124); ma giova ricordarla come madre a sua volta di altra Abbazia ligure che vedremo, ed anche perchè essa ebbe l’onore di dare il titolo di Principe al nostro patrizio Raffaele De Ferrari di compianta e imperitura memoria. Ma bene e strettamente è genovese la terza italiana, che è la cinquantesima della serie generale, la Badia di Sant’ Andrea fra Sestri e Cornigliano non lungi dalla Regina della Liguria; fondata che fu nel 1131 da una colonia venuta direttamente da Cistercio, laddove quelle del Tiglieto e di Lucedio ne sono nipoti, figlie entrambe della Firmitas 0 Ferté. Nè la prole di Cistercio rimase sterile in coteste tre colonie italiane. Dal Tiglieto partirono i monaci nel 1136 a fondare Staffarda presso Revello nel territorio dei marchesi di Saluzzo, un secondo ramo di quella celebre famiglia ile-ramica a cui appartenevano pure i fondatori del Tiglieto. GIORNALE LIGUSTICO 221 Lucedio fondato dai marchesi di Monferrato (un terzo ramo alemarico) generò i Cisterciensi di Ripalta presso Tortona nel 1181, e nel 1214 la Badia di San Giorgio de Jubino del quale ultimo toccheremo più sotto. A sua volta la Badia di Ripalta tortonese riconosce una delle sue figlie nella ligure fondazione di Preallo o Peragallo (1234), oggidì chiamato il Porale; che è situato tra Genova e Novi a ponente di Ronco Ligure, sul confine di questo Comune con Voltaggio, sui monti che dividono le valli della Scrivia e del Lemmo. Quivi appunto una carta topografica, nel registro di Oltregiogo (1648) del-1' Archiviò nostro di Stato, pone una Chiesa di San Teodoro, così al certo chiamata quando Γ Abbazia di Preallo passò ai canonici lateranensi di San Teodoro di Genova. Sant’Andrea di Sestri presso Genova inviò anch’esso una colonia almeno nel 1254 a<^ un’altra Rivalta della diocesi torinese. Finalmente, sotto una data non ancora ben definita come vedremo più avanti, sorse la Badia di Santa Maria de Jubino o del Zerbino, già fuori delle mura di Genova in un luogo chiamato Mortedo, attualmente presso la piazza Manin. Fra tutte queste Badie la più celebre fu senza fallo quella di Lucedio, specialmente pel suo Pietro abbate che accompagnò alla quarta crociata il marchese Bonifazio di Monferrato suo signore ; e, divenuto questi Re di Tessalonica, ne ricevette l’Abbazia di Chortato a due miglia da quella capitale, per essere mutata in cisterciense. Lo stesso abbate poi dhe-nuto patriarca d’ Antiochia, o fondo o permutò nel 1214 in un Monastero del suo Ordine quello di San Giorgio de Jubino di che parlammo e riparleremo, situato nella Montagna nera di quella parte di Siria. Ad ogni modo apparisce dai documenti stampati, e molto più dai manoscritti, che anche gli abbati di Santa Maria del Tiglieto e di Sant’Andrea di Sestri ebbero una parte importante nel periodo del maggior loro fiore ; delegati spesso dai Papi a funzioni delicate, come 222 GIORNALE LIGUSTICO l’arbitrato tra vescovi, il componimento di paci anche fra i Comuni ecc. Non è nostro intento percorrere le serie degli abbati delle diverse fondazioni che più o meno saltuarie compariscono nei documenti, tanto meno annoverare i singoli atti notarili o no che le riguardano; sebbene ciò non sarebbe tanto difficile oggidì avendosi alla mano, oltre i più noti e sfruttati, le preziose collezioni del Poch e del Richeri con ricchi indici che si stendono anche ad altre Abbazie fuori della Liguria ; alle quali si dovrebbe aggiungere 1’ opera del Perasso sulle Chiese di Genova in dodici volumi, conservata nel torinese Archivio di Stato. Ma, oltrecchè questo fu fatto in gran parte dai sovralodati fratelli Remondini, la nostra rassegna deve ristringersi ad alcune osservazioni sui quesiti mossi dall’ autore sebbene con poco o punto di nuovi schiarimenti. Il Preallo o Porale non esiste oramai che in una vaga tradizione del popolo; Rivalta in poca distanza da Tortona (e non presso Novi Ligure come crede l’autore) si conserva almeno come Chiesa, e ne parlarono gli Atti della Società Ligure di Storia Patria (i). Il P. Janauschek sa che nel 1184 questa Abbazia ottenne (non per vendita, ma per donazione) il Castellato colla Chiesa di Gudio attiguo alla Badia medesima; ma egli crede che sia ignoto l’abbate che fece quel contratto. Se avesse potuto consultare il dotto Bottazzi (Monumenti dell’ archivio capitolare di Tortona; Tortona, 1837), avrebbe trovato a pag. 44 il documento relativo e il nome dell’abbate che è Pietro; come nel documento successivo del 1186 avrebbe riconosciuto l’altro atto da lui accennato, donde si rileva il nome del fondatore della Badia. Al primo di questi atti intervengono due persone, un canonico e un teste del luogo di Sale tortonese, (1) Atti della Società Ligure; Rendiconto; vol. IV, pag. CV. 1867. GIORNALE LIGUSTICO 223 in que’ tempi chiamato più spesso Sala. Ciò farebbe quasi sospettare che in questo, ora nobile borgo, abbia a cercarsi la non ancora trovata Badia di Sala occupata nel 1189 dai Cisterciensi di Staffarda; ma il non trovar cenno ivi di tal fatto in alcuna delle note fonti mi chiude l’adito ad ogni congettura. Accennammo già due volte ad un San Giorgio de Jubino. Questa Colonia di Lucedio fu bistrattata più delle altre dagli storici dell’ Ordine; essendosi confusi in uno tre, anzi quattro, Monasteri ; San Giorgio di Jubino nella Montagna néra, diocesi di Antiochia in Siria; San Giorgio, monastero in Alessandria della Paglia; San Sergio di Jubino nella diocesi di Biblo (ora Gebail) in Terrasanta; e 1’Abbazia di Santa Maria de Jubino fuori le mura di Genova, di cui ho toccato più sopra. Gli scrittori della nostra Storia ecclesiastica ammettono quasi generalmente che quest’ ultima Badia sia stata fondata dai Cisterciensi nel 113 6 ; però sorse primo a dubitarne il nostro collega cav. Belgrano (1), osservando non esservene traccia nelle ben note fondazioni di Siro arcivescovo, e i primi documenti che ne parlano essendo del 1302 e 1308. Ora il prof. Janauschek rinforza quest’ultima opinione, osservando che in niuno dei più antichi cataloghi cisterciensi si fa cenno di tale Badia come fiorente ne’ secoli XII e XIII; onde il eh. autore pensa che, col cadere della signoria dei Latini in Oriente, anche i loro Monasteri colà eretti rischiassero o si estinguessero a dirittura ; quindi i monaci di San Giorgio di Jubino di là si trasferissero in Occidente, e proprio fuori le mura di Genova, erigendo ivi 0 tramutando da altra più antica in cisterciense 1’ Abbazia di Santa Maria di Jubino, nome o corrotto o confuso nell’altro più volgare di Zerbino. (1) Illustrazione del Registro Arcivescovile ; Atti della Società Ligure, vol. II, parte I, p. 425. t 224 GIORNALE LIGUSTICO A me anche arride questa spiegazione, tanto più perchè nei nostri documenti ne abbiamo un altro esempio e calzantissimo. Beltramo abbate della nostra S. M. di Jubino era nel 1308 testimonio ad un atto, per cui Oberto Porporerio donava un pezzo di terreno fuori le mura di Genova, nel luogo chiamato Mortalo, a tre monaci dell’Ordine di San Basilio, fra Martino da Sagarito, fra Simeone e fra Guglielmo delle parti d’ Armenia; i quali (come aggiunge la bolla pontificia che segue tale donazione nello Schiaffino, Storia eccl. ms. ad annum) si erano qui ricoverati fuggendo dalla Montagna nera d’Armenia per le continue incursioni e devastazioni dei Saraceni, cioè (come si sa dalla storia) del Sultano d’ Egitto che finì col conquistare la Cilicia od Armenia minore colla Terrasanta. Si non che tanto il Monastero di San Basilio quanto 1’ Abbazia cisterciense di San Giorgio de Jubino erano già situati sulla Montagna nera delle parti d’Armenia: vale a dire in quella parte orientale del Tauro chiamata Amano in antico, Montagna nera nel medio evo e modernamente, se ben mi appongo, Almadagb. Considerato il tutto, nulla mi appare di più naturale che i Cisterciensi di San Giorgio, ritiratisi i primi in Genova, abbiano poi procurato ai Basiliani in Mortcdo, poco lungi dalla loro stessa Abbazia de Jubino, il terreno e forse anche i sussidi in danaro per costruire quel Monastero dell’ Ordine di San Basilio che vive tuttora nella Chiesa c nel nome almeno di San Bartolomeo degli Armeni: cosi anche ben si spiega la presenza all’ atto dell’ abbate de Jubino. Simile potrebbe essere il caso di San Sergio de Jubino, i cui monaci partirono forse verso lo stesso tempo da Biblo di Ferrasanta: oltrccchè a me pare che più punti di contatto meritino essere rilevati fra quei due centri orientali di San Giorgio e di San Sergio. L’aver entrambi lo stesso titolo de Jid’ino, Γ essere entrambi sotto lo stesso Patriarcato d’ Antiochia, la Montagna nera dividendo l’Armenia da Terrasanta, GIORNALE LIGUSTICO 225 dove Biblo giace a meriggio di Tripoli; tutto ciò mi fa credere che San Sergio, se non è fondazione anch’ejso di Pietro abbate cisterciense divenuto patriarca colà, per lo meno possa essere colonia dei monaci dell’omonimo San Giorgio. Se forse anche non contribuì ad un trasporto a Genova da Biblo la ricordanza degli Embriaci genovesi, che furono lungo tempo signori di quest’ultima città conquistata dai crociati e più nota sotto il nome medievale di Gibelletto. Devo però rilevare un errore sfuggito all’autore, e forse non senza la participazione nostra o de’ nostri amici. Egli cita un atto del notaro genovese Antonio Foglietta, del 26 febbraio 1400, in cui si direbbe secondo lui che San Giorgio de Jubino nella Montagna nera era un semplice Priorato soggetto all’ Abbazia di Santa Maria de Jubino di Genova. Avendo io consultato l’atto originale (1), trovo che non è così. Vi è bensì nominato un Priorato soggetto all’Abbazia de Jubino di Genova, ma non è quel San Giorgio della Montagna nera, sibbene un San Biagio di Nicosia capitale del regno di Cipro; un Monastero che mi pare ignorato dal Mas-Latrie, che è pure così bene informato anche delle cose ecclesiastiche di quella storia. Gli altri priorati di San Giorgio d’ Antiochia e di Valle di Cristo in Rapallo furono ^ (1) In Antonio Foglietta 1400-1402, carte 102 verso (Archivio Notarile). A. 1400,26 februarii. Convocato capitulo Monasterii S. Marie de Jubino Ordinis Cistcrciensis mandato Vcn. Patris Dui Johannis Abbatis dicti Monasterii.... Jam dictus Abbas in présent ia et consensu dictorum Monacorum etc., constituunt eorum nuntios et procuratores spectabilem et egregium militem D. Johan-nem Babini honorabilem Admiratum Regni Cypri et nobilem D. Imperialem Gentilem quondam D. Nicolai civem Janue ... ad petendum omne id quod dicto Dno Abbati et Conventui debetur in dicta insula Cypri ratione Prioratus S. Blasii de Nicosia qui est membrum dicti Monasterii de Jubino, et etiam ratione aliorum bonorum in dicta insula consistentium et maxime bysantios 200 annuatim in fundo (?) Nicosie dicto Monasterio debitos. GioxK. Ligustico, Anno V. '5 226 GIORNALE LIGUSTICO appiciccati dal Giscardi e da altri a quello di San Biagio di Nicosra, ma senza addurre fonti di giustificazione. Quanto al Priorato di San Giorgio d’ Alessandria della Paglia, contuso da altri col suo omonimo di Antiochia in Siria, dirò che esisteva veramente un Priorato di tal nome in quella citti, e vi ebbe che fare nel 1452 un Abbate de Jubino di Genova; ma non come capo, soltanto come arbitro in certa quistione a lui delegata da papa Nicolò IV; essendo le parti litiganti entrambe dell’ Ordine Benedettino, Γ Abbate di S. Siro di Genova e il Priore di San Giorgio di Alessandria che non volea riconoscerne la giurisdizione (1). Rimane a parlare, fra i cenobii maschili, di una fondazione cisterciense denominata Santa Maria de Pobleto. Della quale Γ autore dice, che non trova traccia nei cataloghi antichi nè ne san nulla i suoi corrispondenti tortonesi, nella cui diocesi tale Monastero dovea essere situato secondo le informazioni a lui comunicate da genovesi. Perlochè egli inferisce che o non fosse che una Grangia dipendente dall’ Abbazia di Ripalta tortonese, oppure fosse una qualche prepositura. Ignoriamo anche noi se Pobleto fosse un’ Abbazia o un semplice Priorato; ma che appartenesse ai Cistcrciensi, e che fosse nella diocesi di Tortona ma sotto la signoria più o meno diretta della Repubblica, lo si dimostra coi fatti seguenti. Dapprima vediamo di fissare la posizione di Pobleto ora af fatto ignota. Nell’archivio della Curia diocesana di Tortona (2) si deve conservare un documento in data del marzo 1614, —* (l) Estratto da pergamena autentica in Poch (Ms. alla Bibl. Civica), vol. IV, reg. V, p. 86: Nicolaus Episcobus___Abbati S. Mariae de Jubino del 1452 quarto idus (manca il mese e il resto) con altro Breve dello stesso Papa del 1455, X KalenJ. Octobris Pontificatus nostri anno VII. (2) Ricavo queste notizie dal mio amico cav. Alessandro Wolf, professore di lingue all’istituto Tecnico di Udine, il quale per più anni percorse il tortonese e il piacentino e ne interrogò minutamente gli archivi civili GIORNALE LIGUSTICO 227 col quale gli uomini di Castel dei Ratti, insieme ai vicini di Liveto e Cerreto, domandano al Vescovo di essere costituiti in parrocchia propria; dappoiché sono lontani dalla Chiesa matrice di Borghetto, e da questa divisi mediante il fiume Pobleto detto volgarmente la Barbera. Ancora: in un documento del 1464, conservato nell’archivio della stessa Curia, si trova indicato un Christophorus de Lugano, che tra molti altri titoli ha anche quello di canonicus eeclesie S. Victoris de Burgo Vallis Publeti, cioè della matrice nell’ora detto Borghetto. Meritano infine di essere notati più documenti imperiali riguardanti il Monastero in Ciel d’oro, a cui vien donata tra molti altri la Chiesa di S. Pietro di Pobbio (ecclesia de Pobli in valle Bulberia); il che parrebbe distinguere le due parti della valle: col nome di Poblo la superiore, di Pobleto la inferiore. Queste notizie chiariscono pure alcuni documenti del Liber Jurium Reip. Genuensis (2), ove si parla di una regione chiamata Pobleto e corrottamente Plumbeto. Niuno ha finora spiegato questo nome ora ignoto, ma dal contesto degli atti si capisce che si tratta proprio di questa valle inferiore della Borbera verso il suo confluente colla Scrivia. Intatti in uno di questi facendosi la rassegna dei feudatari della Repubblica, vi si annoverano anche i Signori di Pobleto e si dice che i loro possessi sono ultra Scriviam e dipendono dalla Curia di Gavi; la quale Curia marchionale, sebbene avente il suo centro al di qua della Scrivia, si sa che anche al di là avea molti diritti, fra i quali l’Avvocheria del Monastero Benedettino di Precipiano alla influenza della Borbera nella Scrivia. ed ecclesiastici ; riducendone il risultato in due Mss., uno per diocesi, ove sono accuratamente indicate le Pievi medioevali colle fonti e gli estratti più rilevanti. Ved. specie le pagg. 5 e 6 del Ms. tortonese, ove è la Pieve di S. Vittore del Borghetto. (1) Monumenta Hist. Patriae; Jurium I, colonne 50, 407, 551 e specialmente 492. 228 GIORNALE LIGUSTICO Con egual certezza non potremmo asserire che il Castello dei Ratti abbia preso proprio il luogo di Pobleto. A prima fronte anzi potrebbe supporsi che quel Monastero fosse alla destra del torrente Borbera e più in alto, colà dove si dice tuttora il Monastero di San Pietro di Molo. Senonchè il nome di Santa Maria titolare del Monastero Cisterciense si trova, sebben quasi perduto di vista, alla sinistra del torrente. Castel dei Ratti forma con Ceretto la parrocchia di S. Stefano, come si è detto di sopra; ma il De Bartolomeis (i) aggiunge che questi due luoghi dipendono da una Prepositura di Santa Maria, di cui non porge altro cenno. Sarebbe mai quel luogo sacro, che le carte dello Stato Maggiore sotto il titolo di N. S. della Mercede disegnano sulla cima del poggio alle cui falde sta il Castel dei Ratti? Ma per nulla tacere, il conte Carnevale non certo buon critico ma instancabile ricercatore di memorie tortonesi, lasciò scritto (secondo il Wolf) che i Canonici Regolari nel il34 fondarono il Cenobio di S. Maria di Lemmi, terra posta in un vicino Comune a scirocco di Castel dei Ratti. Noteremo infine che Castel dei Ratti è nome nuovo che prese quel distretto dai suoi feudatarii i Ratti-Opizzoni, onde si vede come sia stato dimenticato il nome di Pobleto. A ogni modo, senza pretendere di assegnar posto fìsso al Monastero Cisterciense, non ci par dubbio che era quivi la sua regione. Ed ora che lo abbiamo rinvenuto, vi possiamo applicare un curioso contratto di compra che, in atti del notaro genovese Angelino da Sestri, fa un fratcr Barlholometis moiiacus Monasterii Sditele Marie de Pobleto de Ordine Cisterciense (Richcri, in Archivio di Stato, I. 75, 2; anno 1274, 3 marzo). Il signor Rcumont nell’ articolo sovra lodato, con brevi (i) Notifie topografici* e statistiche degli Stali di S. M. il Re di Sardegna; Torino, 1845, Ϋ°Ι· IV, Ρ· l^49- GIORNALE LIGUSTICO 229 ma acconcie parole, ha posto Γ Ordine Cisterciense in confronto ai bisogni del secolo contemporaneo alla sua fondazione, mostrando la decadenza dei più antichi Benedettini, la istituzione di altri Ordini monastici a poca distanza di tempo e i benefici speciali recati alla civiltà dai Cisterciensi, che univano allo studio ed alla dottrina la pratica dell’ operosità civile e del lavoro manuale, specialmente nel dissodamento di lande erme e paurose che tanto allora abbondavano. Questo, non dubito, sarà soggetto prediletto dell’ autore nei volumi che seguiranno; e non dimenticherà, credo, anche i pochi nostri documenti genovesi; ove troviamo nella seconda metà del XIII secolo i cisterciensi fra Oliverio e fra Filippo maestri all’ Opera del porto e molo di Genova, il primo di essi in ispecie lodato in una lapide per ingegno divino (1). Vediamo già fin dal XII secolo una bella fama d’integrità acquistatasi da quest’ Ordine presso i genovesi, poiché gli Statuti 0 Brevi di quel secolo dispensarono i Cisterciensi dal prestare il giuramento di calunnia, che era imposto a tutti al principio d’ogni lite per cessare da sè il sospetto di calunnia o d’ingiustizia. E simile dispensa la vediamo pure confermata nel 1173 a Lodi dai rettori della Lega Lombarda. Ma noi non intendiamo, dimorarci su questa parte, che fu detta o sarà molto meglio che non si possa da noi. Piuttosto chiuderemo il nostro articolo con alcune considerazioni che furono già da noi accennate altrove, ma che pare non sieno troppo comuni fra gli scrittori che si occupano della storia di que’ tempi. Dal poco che sopra fu detto e dal molto più che si potrebbe dire, ma si sa abbastanza, risulta che i Monasteri furono fondati o dotati moltissime volte dai Conti e Marchesi nella loro signoria. Ma si può dire cosa nuova il ravvicinare (1) Belgrano, Documenti inediti riguardanti le due Crociate di S. Luigi, Genova 18^9, p. 536; Remondini, nel Giornale Ligustico 1874, pp. 405-8· 230 GIORNALE LIGUSTICO tutte queste fondazioni e dotazioni per dedurne la continuazione e le generazioni delle famiglie marchionali, quindi anche lo spirito che le dettava e la influenza reciproca che ne sorgeva pel progresso specialmente della popolazione rurale. Vediamo i Marchesi del Bosco fondare e coi loro consanguinei di Ponzone arricchire P Abbazia del Tiglieto, come poi aiutarono con più atti la fondazione dell’Ospedale, Ponte e Monastero femminile di Latronorio, come i consanguinei di Saluzzo dotarono Staflarda; come il loro stipite comune Ale-ramo avea fondato il Monastero di G rassano fin dal X secolo, ed altri loro rami marchionali aveano fondato a Spigno il Monastero di San Quintino, e il ramo di Monferrato fondava la Badia cisterciense di Lucedio. Anche i Marchesi di Gavi, sebbene di altra stirpe ma attigui a que’ del Bosco, vollero concorrere nei benefizi ai monaci di Tiglieto fin dal 1127 e ai monaci di Sant’Andrea di Sestri nel 1181. Caviamo inoltre da un atto postumo, ma ufficiale, che questi ultimi Marchesi donarono, forse prima del 1200, la terra, ora Comune, di Fran-cavilla (sulla via da Gavi ad Alessandria) ai Cisterciensi di Rivalta tortonese (1). Troviamo pure parecchi di que’ Marchesi ridottisi in Monastero; così Enrico di Ponzone al Tiglieto nel 1209, e Giacomo di Ponzone a Sant’Andrea di Sestri nel 1210; senza contare un’altro Enrico di Ponzone cavaliere nel 1262 e Maestro de’ Templari nel 1268, un Guglielmo de’ Marchesi di Gavi e due altri della stessa famiglia Enrico e Manfredo monaci a Sant’ Andrea di Sestri, il primo nel 1239, gl* a^tri due nel 1289. t Alcuni sarebbero forse inclinati a notare che i Marchesi di (i) Atto notarile citato dallo Schiaffino, Storia Ecclesiastica ms. all’ anno 1589, ma riferentcsi ad altro atto più antico. Anche il genovese Fulco di Castello signor di Rivalta nel 1199 donò all’Abbate il diritto di pedaggio che ivi godeva (Cicala , Miscellanee ad ann., mss. presso 1’ avv. Ambrogio Moliino, Deputato al Parlamento). ? / 4 GIORNALE LIGUSTICO 23 I quel tempo, dopo aver commesso chi sa quante e quanto grosse diavolerie, credevano tosto purificarsene col fondare, dotare ed entrare in monasteri quando non erano più in grado di farne delle diavolerie. Io non contrasterò che molte volte ciò sia stato vero, ma per altra parte la fede a que’ tempi era altrettanto ardente quanto le passioni ; e vogliamo sperare che questa fede avrà rimediato anche le piaghe dell’ anima, come ha rimediato in gran parte a quelle temporali, effica- . cernente contribuendo al progresso politico e sociale. Ma di tali vaste donazioni marchionali, se si cerchi la storia anteriore, si vedrà come già possedute dai Longobardi o dagli Imperatori e Re che succedettero, siano state anche da questi in larga copia già consegnate alla mano monacale, specie i luoghi più deserti; donde le fondazioni cisterciensi e di altri nuovi Ordini le più volte non sono in sostanza che restituzioni all’ antica disciplina obbliata dai Benedettini. Per la storia speciale della proprietà è dunque un fenomeno degno di studio profondo tale incrociamento di estesissime possessioni d’imperatori e Re, di Marchesi o Conti, di Militi o Signori di second’ ordine, di Vescovi e Monasteri e di intere possessioni trasmigrate, moltiplicate sul suolo già deserto, poi trasformatesi in Comuni. In qualche mio lavoruccio di più anni fa ho accennato con parecchi esempi a questo fenomeno, e alle conseguenze storiche e filologiche che se ne possono derivare; purché si raccolgano le nozioni più piene e minute nelle singole provincie, e le si trattino con sani criterii; si guardi segnatamente ai confini che dividono 1’ uno dall’ altro la provincia o il Comune, ai pascoli, agli sparti-acque. Dando qui un rapido sguardo al Genovesato, cominciamo ad intravvedere nei Monti cosi detti Liguri come uno strato generale antico signoreggiato dai Vescovi di Tortona, che fa pensare al patrimonio delle Alpi Cozie donato dai Re Longo- GIORNALE LIGUSTICO bardi alla Chiesa Romana ed estendentesi agli altri Appennini liguri signoreggiati dai Vescovi di Savona, Noli ed Albenga. In questi ultimi Appennini e presso alle cime che dividono gli affluenti al mare ed al Po, aveano fiorito già grandi Abbazie prima che i Cisterciensi vi rinnovassero lo spirito monastico. Intorno al Tiglieto potremmo raggruppare Giusvalla distrutta dai Saraceni già fin da quando nel X secolo i figli d’Aleramo fondarono San Quintino di Spigno. Ferrania fu fondata nel secolo XI dall’ aleramide Bonifacio stipite dei Marchesi di Savona e del Bosco. Dagli stessi Appennini scendendo giù per l’Orba inferiore, troviamo i possedimenti assai ragguardevoli dei cavalieri di Gerusalemme , i quali da Casal Cermelli (.Plebs S. Joannis de Urbe) si spingono saltuariamente fino a Gavi, e paiono derivazione non dubbia da quell’ Ottone di Gavi che fu precettore di essi cavalieri e affidato di delicati incarichi dal Re San Luigi di Francia. Quivi stesso altri vasti possessi e due interi Comuni già spettavano a Santa Maria di Castiglione presso Parma; Abbazia questa nel X secolo fondata e dotata del decimo di tutti i suoi beni dal marchese Alberto antenato degli stessi Marchesi di Gavi. Nel territorio di mezzo fra Gavi ed Alessandria stava la vastissima donazione della Imperatrice Adelaide al Monastero di San Salvatore di Pavia, comprendendo luoghi che al solo nome appaiono compascui o boschivi : Bosco , Rovereto, Freso-nara, Pasturano.; ai quali segue Francavilla, un Comune che già dunque cominciava ad affrancarsi e che un Marchese di Gavi donò ai Cisterciensi di Rivalta tortonese. Continuando a lambire i confini liguri lungo la cerchia che dal tortonese pei monti risale alla riviera di Levante, troviamo il feudo detto il Vescovato e i possessi dei Monasteri tortonesi di San Marziano e di Santa Eufemia ; P Abbazia di Vezzano presso Carezano; 1’Abbazia del Molo presso il Pobleto cisterciense; poi San Fortunato di Vindersi già nel X secolo, GIORNALE LIGUSTICO 233 poi Sant’ Onorato di Patrania presso Torriglia. Al meriggio di questi erano due Monasteri benedittini longobardi, San Pietro di Savignone e San Pietro di Precipiano lungo la via per a Genova. A settentrione al contrario, e rimontando sempre più all’alpestre, giacevano le possessioni di Pobbio, d’Alpepiana e del Giarolo, spettanti al Monastero longobardo di San Pietro in Co&lo aureo di Pavia; altre erano di quello del Senatore di Pavia. Rimontando ancora a greco, saluteremo il più celebre di tutti la Badia di Bobbio ; quindi sempre più avanti la Badia di Brugnato: entrambe le quali fondazioni resero fiorito il deserto; e le loro colonie divenute popolose formano oggi due diocesi, che quasi si toccano, facendo punta presso al mare in riviera di levante. A questa stessa punta delle due diocesi monacali fanno capo o si intrecciano altre minori Abbazie, quelle di Sant’Andrea di Borzone e di San Fruttuoso di Portofino; quest’ultima dal mare signoreggiando in tempi antichi i vicini ed ora nobili borghi di Recco e Camogli, graziata di larghe concessioni dalla Imperatrice Adelaide. In codesta regione confini naturali ben facili ancora a rilevare separavano nel medio evo il Comitato genovese da quello della Lunigiana; e quivi troviamo di nuovo la signoria del Vescovo genovese sulla valle di Lavagna, condotta in feudo dapprima poi occupata del tutto in nome proprio dai celebri Conti omonimi. Lascio le note Badie della Lunigiana al golfo e al monte. Siffatta tramutazione di confini di Comitati da reali o marchionali in monacali e da monacali in Comuni si avvera anche, sebbene più oscuramente, nella riviera di ponente; per esempio a Santo Stefano al mare ove si divideva il Comitato di Noli da quello d’ Albenga; e i cui possessi, ora moltiplicati in più Comuni, donò Adelaide Imperatrice ai Benedettini di Santo Stefano di Genova. Fu parimente ampia ed antichissima la signoria del Vescovo di Genova sovra il ter- 234 GIORNALE LIGUSTICO ritorio di San Remo, confine tra i Comitati d’ Albenga e di Ventimiglia. Accumulando questi e simili esempi, ciascuno capisce che non possono esser frutto di vendite o legati spicciolatamente /atti tante possessioni e tanto estese, per di più analoghe per posizione di confini e per provenienza dall’ Impero o dai suoi ufficiali resisi indipendenti; oltreché si sa quanto il danaro fosse scarso a que’ tempi. Donde dunque o come sarannosi potute formare tante e si ampie masse ? Secondo il mio modo di vedere altrove espresso e allargato anche ad altre regioni d’Italia, la cosa si spiega benissimo ammettendo che 1’ origine di tali possessi ha da cercarsi nella natura dei confini, i quali erano anticamente compascui e comuni fra i diversi popoli (nel senso di tribù o comunello), ma poi, specialmente nelle grandi divisioni di monti e fiumi più rilevanti, passarono in dominio dei Re o degli Imperatori, per una specie di legge regia o per multa di ribellione; poi ancora andarono negletti sempre più nel grande spopolamento d’Italia, e imbarbarirono nello incrociarsi delle ripetute invasioni; indi cominciarono a sbarbarirsi colle grandi concessioni che ne fecero ai vescovi e ai monaci i re e gli imperatori, i marchesi e conti; i quali ultimi da uffiziali temporanei di governo, per la debolezza dell’impero sorsero a feudatari con eredità, e fecero loro propri i possessi in natura che prima godevano solo per ragione d’uffizio (i). (i) Di questo soggetto parlai più volte, toccandone dapprima nel Frammento di Breve Consolare (Atti della Società, vol. I, p. 125 e in varie note seguenti); poi nella Tavola di Bronco della Polcevera (Atti pred. Ili, pp. 583, 610, 635, 666), ove cito l’applicazione che se ne potrebbe fare alle nomenclature e alle antiche divisioni degli agri lungo la spina del-l’Appennino e i suoi contrafforti fino a Bologna. Infine cercai la soluzione avvenuta degli antichi compascui in numerosi Marchesati, nelle mie Lettere sulle Marche dell’Alta Italia, Genova 1869 (nella Rivista Universale). GIORNALE LIGUSTICO 235 . Vi sarebbe un altro tratto da rilevare in onore delle antiche istituzioni monacali. Dappertutto ove era un pericolo si trovava un monaco alla custodia. Cosi vediamo il Monastero di Latronorio presso Varazze, cominciato da un Frate cisterciense con Chiesa, Ospedale e Ponte; così al Ponte di San Bartolomeo della Scrivia, una dipendenza della Badia Cisterciense di Rivalta. Altri ponti erano custoditi da monaci in Polcevera; due ospedali erano situati ai due punti estremi del Genovesato, uno a ponente e sul confine dell’antica diocesi tortonese, che fu 1’ Ospedale di Resta presso 1’ attuale passo della Bocchetta tra Pontedecimo e Voltaggio; l’altro sul confine di levante colla Lunigiana che fu 1’ Ospedale di Pietra Colice verso Velva o Castiglione di Sestri-Levante; colà appunto ove trovammo il termine dell’ Abbazia ed ora diocesi di Brugnato. Ma mi avvedo che mi allontano troppo dal mio soggetto ; onde raccolgo le vele congratulandomi col ch. P. Janauschek del regalo fattoci colla pubblicazione del primo volume dell 0-pera sua, ed auguro a lui e a me di veder compiuto il colossale lavoro che sarà, a non dubitarne, un monumento degno della grandezza dell’ Ordine Cisterciense. C. Desimoni. DUE SIGILLI GENOVESI Ho 1’ onore di sottoporre alla benevola attenzione dei lettori due antichi sigilli (1), i quali varranno ad aumentare alcun Il collega cav. Belgrano applicò felicemente questo mio criterio alla soluzione del consorzio e alla divisione delle Case Viscontili di Genova (li-lustrazione del Registro Arcivescovile negli Atti della Società, vol. II, parte I, specie nel fascicolo d’ Appendice). (1) Ved. 1’ annessa Tavola. GIORNALE LIGUSTICO poco la Sfragistica di cui il Giornale Ligustico offre tratto tratto un qualche saggio. Mi pose sulle tracce del più antico un articolo della Revue Historique, laddove si richiama questa nota del Bourquelot: « On a trouvé récemment dans la Seine près de Melun la matrice en cuivre d’un sceau du Consulat des Génois en hrance. Sur le champ on voit un griffon, et, autour, la légende: S. CONSVLLATVS: 1ANVENSIVM . IN . FRANCIA*. — C’est une pièce du XIII.' siècle (i). Segnalai codesta nota all’eruditissimo signor Conte Riant, e m'ebbi dalla sperimentata sua cortesia una diligentissima impronta in iscagliola, nonché un altra riproduzione meno pcrletta in cera di Spagna, sotto cui però leggesi quest’avvenenza che in parte rettifica il Bourquelot: a Trouvé dans la Seine près de Valvin, Seine et Marne, et déposé au Musée de Cluny depuis 1865 ». Intorno all’età cui si attribuisce il sigillo, non mi pare che possa elevarsi alcun dubbio ; e perciò Γ imagine del griio alato passante a sinistra, fatta ragione del tempo a cui appartiene, mi sembra doversi riguardare come un lavoro non ispregcvole sotto P aspetto artistico. Il primo Consolato genovese di cui ho notizia rispetto alla Francia è quello di Sant’Egidio, perocché nel trattato d’amicizia stipulato con codesta Comunità dai genovesi Γ r 1 giugno 1232 i rappresentanti di Sant’Egidio cosi promettono: Si aliquem ianuensem vel de districtu inori contingent in villa Sancii Egidii ve’, districtu, testatum vel intestatum, qui non disposuisseI vel ordinasse! aliquem qui res suas deberet deferre Januam vel in districtu,.... si Consules Janue ibi fuerint., (l) Boitrquelot , Etudes sur Us Foires Je la Champagne ; nelle Siémoires préirnüti par divers savant i a Γ Académie des inscriptions etc. Serie II: AmujuiUs de la Frante, tome V, partie I et II, a. 186$. — Ved. par. I, P*g. «68. GIORNALE LIGUSTICO 237 permittent ipsa bona defuncti capere et accipere Consuli vel Consulibus Janue (1). Ma qui si tratta più che altro di un rappresentante politico del nostro Comune, come ve ne aveva altrove, e come erano i Visconti nella Soria. Forse il sigillo appartiene invece al Consolato dei mercanti, il quale per privilegio del re Filippo III aveva sede in Nimes (2). Si fatto privilegio reca la data del 1277; e due anni appresso troviamo che i consoli Andrea Boccuccio e Oberto Dattilo acquistavano ivi da un Giuglielmo Burgundio a 'nome del Comune di Genova un edifizio, il quale non vi ha dubbio che doveva servire all’uopo di casa consolare (3). L’uffizio di Console de’ mercanti genovesi doveva poi essere di grande importanza, segnatamente per Γ attivissimo concorso de’ nostri alle celebri fiere della Sciampagna; si come lo attestano non pochi rogiti notarili dell’ Archivio genovese, per non dire di quella immensa raccolta delle pergamene Courtois, sulla cui genuinità pende ancora incerto il giudizio dei paleografi. Del resto l’imagine del grifo basterebbe di per sè a farci assegnare al secolo XIII l’età del sigillo, giacché sembra che questo fantastico animale sia stato assunto come divisa del Comune in un periodo di tempo che può press a poco determinarsi fra il 1216 e il 1222. Difatti siamo accertati per documenti, che nel primo di tali anni continuava ancora ad usarsi 1’ antico suggello coll’ effigie di san Siro da una parte e il castello dall’altra (4); e al 1222 appartiene un atto, il quale dichiara gli obblighi addossatisi dall Opera del Duomo verso un maestro Oberto , incaricato per 1 ap- (1) Lib. Jurium, I. 909. (2) Id., I. 1451. (?) Id., I. i SOS- (4) Id., I. 586; Chartarum, II. 157. 258 GIORNALE LIGUSTICO punto di gittare in bronzo un grifone da collocare nella Cattedrale (i). Allorché nel 1257 al governo del Podestà fu sostituito quello del Capitano del popolo in persona di Guglielmo Boccanegra, nel sigillo genovese al posto del grifo fu sostituito P agnello. Ma è mestieri credere che, caduto il Boccanegra, si tornasse alla prisca rappresentazione del simbolico animale. Lo argomento da quanto scrive Γ illustre Amari nella Guerra del Vespro Siciliano, laddove cita una lettera di Genova al Re di Francia, priva di' data, ma che per la natura de’ fatti onde vi si parla dee porsi indubbiamente tra gli anni 1282 e 1284. « È un lungo ruolo di pergamena (egli dice) scritto in carattere del secolo XIII, con suggello in cera verde, pendente da una stretta striscia di pergamena e impresso da un lato solamente. V’ ha un grifone alato, chiuso in un poligono ad angoli salienti e rientranti a forma di stella, e fuori il poligono la leggenda: Sigillum Cotnunis et Populi Jattue (2) ». La pergamena si custodisce nell’ Archivio Nazionale di Parigi; e il sigillo meriterebbe di venir riprodotto per la variante che presenta nella foggia del campo. Sarei per credere inoltre che tale suggello durasse in vigore sino al cadere del secolo XIV, allorquando fu sostituito dal-P altro colla croce nel centro e i simboli degli evangelisti all’intorno (3) ; ma se anche non si stimasse di ammetterne una cosi lunga esistenza, niuno potrebbe disconoscere che P effigie del grifo continuava ad esprimere l’insegna di Genova intorno al 1320 almeno, leggendo sotto quest’anno registrata da Giorgio Stella la coniazione delle monete di bassa lega (1) Vcd. Giornale Ligustico, 1874, pag. 475. (2) Amari, La Guerra del Vespro Siciliano, Firenze 1876; vol. I, p. 275. (}) Vcd. Belgrano, I sigilli del Comune di Genova ; nella Rivista della Numismatica antica e moderna, vol. I, pag. 74. GIORNALE LIGUSTICO 239 dette griffoni, appunto per ciò che sovr’ esse ab una parte crux erat et griffus ab alia (1). Dell’ altro sigillo possiede oggidì Γ originale in rame Γ e-gregio avv. cav. Antonio Samengo. Appartenne al Collegio dei Giudici, il quale tra noi fu antico assai; anzi l’Isnardi, trattandone ampiamente nella Storia della nostra Università, non crede soverchio il farne risalire le origini al comin-ciamento del secolo XIII. Un decreto emanato nel 1307 dal Capitano del popolo Opizzino Spinola, riconoscendo ai Giudici di matricola ed ai Collegio dei Giudici le immunità ed i privilegi que habent et habere consueverunt, accenna pure che il Collegio era numeroso e fiorente, e grandi servigi prestava alla Repubblica. Ora, conclude il citato storico, « per giungere a tanto e conseguire sì splendide rimunerazioni , ordinariamente è necessario un lungo periodo di onorate fatiche (2) ». I Giudici adunavansi annualmente il giorno di san Giovanni nel chiostro di san Domenico, per eleggere il Rettore e i consiglieri del Collegio. Del quale niuno poteva far parte se non era addottorato o licenziato in diritto civile, 0 se pure non si fosse sottoposto ad un esame avendo prima frequentato per cinque anni interi un qualche studio generale. Gli statuti del Collegio, che furono raccolti in una nuova redazione e riformati nel 1446, non fanno alcuna menzione del sigillo. Ma bene lo rammentano le Leggi genovesi del 1403, laddove stabiliscono : Collegium Judicum Janue habeat sigillum.... tu cuius circulo.... littere: Sigillvm Collegii Jvdicvm, et in ipso sigillo facta sit imago hominis veste et habitu ad modum indicis decorati sedentis in cathedra et ante se habentis librum (1) Annal. Gcnuen., apud Muratori, S. R. I·, H· 104°· (2) Isnardi, Storia della Università di Genova, I. 16, 302. 240 GIORNALE LIGUSTICO apertum; quo sigillo sigillari debeant omnia consilia que dantur per ipsum Collegium (1). Però questo sigillo venne più tardi sostituito da un altro, che ò quello appunto serbato dal cav. Samengo. Rappresenta una figura d uomo stante di fronte, vestito di tunica col mantello sovrapposto e la mozzetta, e in capo il cappuccio alla foggia antica de’ cardinali ; nella sinistra tiene un libro chiuso, ed è finto dentro una specie di nicchia sorretta da due colonne sulle quali è voltato un archetto a trifoglio, donde s innalzano due specie di guglie ed al centro il triregno. Nel campo si legge sanctvs jvo; ciòè sant* Ivone vescovo di Chartres, che fiori nella seconda metà del secolo XI, ed è considerato il patrono de’ giurisperiti, siccome quegli che avendo coltivato lo studio dei canoni ne compilò la famosa raccolta conosciuta col nome di Decreto. Ch’ ei fosse cardinale non è certo; ma sì vede che l’autore del sigillo, o più \eramente i Giudici committenti, erano di questa opinione, che in tondo in fondo non guastava nulla, ed innalzando il protettore cresceva lustro anche ai protetti. I.a leggenda poi che rinserra il campo, ed è circoscritta da due file di globetti o perline, dice: sigl. ven. collegy mm. ivris consvl. JVDICVM. genvæ. I caratteri dell’iscrizione accennano alla fine del secolo XVI, od anche ad epoca più tarda; ma la parte figurativa e ornativa mal risponde alla coltura artistica di codesto tempo. Accuserei senz’altro l’imperizia dcll’incisorc, se la foggia della nicchia con quell’archetto tanto usitato nelle decorazioni e nelle monete del secolo X\ non mi inducesse in sospetto, che all’artista potè essere imposto di riprodurre senza modificazioni sostanziali un vetusto esemplare. L. T. Belgrano. il) Poch, Miscellanee di storia genovese; Mss. della Civico-Bcriana, vol. IV, rcg. VI, pag. 22. Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO 24I IL MARCHESE BONIFACIO DI MONFERRATO E I TROVATORI PROVENZALI ALLA CORTE DI LUI per C. Desimoni Fra le case marchionali che a mezzo il decimo secolo sorsero nell’ alta Italia, durò più potente quella de’ Marchesi di Monferrato. Discesa da Aleramo, che da piccolo Conte venne stendendo le sue generazioni a signoreggiare dalle fonti del Po fino alla riviera ligustica, la casa di Monferrato si formò il nucleo sul centro della regione che tuttora ne porta il nome fra il Po e il Tanaro , e più su e più giù secondo i tempi e le vicende fortunose. I rami consanguinei ed alera-mici di Saluzzo e Busca, d’incisa, d’ Albenga, di Savona, tutti di stirpe salica ; e più a levante le case obertenghe i Marchesi Malaspina, di Massa, di Cavi e Parodi di stirpe longobarda, tutti vedeansi di mano in mano assorbiti dai Co- O 7 muni sorti al loro fianco e già loro vassalli ; ma il Marchese Guglielmo di 'Monferrato pene solus ex Italia Baronibus civitatum effugere potuit imperium, come scrive di lui il contemporaneo , zio di Federico I, Ottone vescovo di Frisinga (1). Ed in vero la condotta di questo Guglielmo, a giudicarne dai risultati, deve essere stata ardita non meno che destra, in diplomazia come nelle armi: far testa specialmente ad Asti allora assai potente e in genere alla lega lombarda; rawiare le"he contrarie con Pavia, Lodi, Como, coi Conti di Bian- *D , drate : e da tale lotta, che torno funesta all Impeio, uscirne con aumento di signorie confermategli da Federico Barbarossa. Nè la fama e la rilevanza di questa famiglia si ristrinse entro i confini d’Italia. I Re di Francia e la Casa imperiale di Svevia erano a lei consanguinei. Guglielmo eia partito nel (x) Rcr. Italicar. Scriptores, VI. 710. Giork. Ligustico , Anno V. 2^.2 GIORNALE LIGUSTICO 1147 per la seconda Crociata col fratello uterino di sua moglie il Re Corrado terzo di Germania; nel 1164 avea mandato il proprio figlio in Francia al Re Luigi Vili per trattare negozi di rilievo; era ritornato nel 1185 in Terra Santa : fattovi prigioniero alla battaglia d’ Hittim, che costò la perdita di Gerusalemme, fu lasciato libero da Saladino, il quale nemico sì ma di spiriti cavallereschi ammirò e volle ricompensare per tale guisa Γ eroismo del figlio di Guglielmo, il Marchese Corrado di Monferrato. Niuna meraviglia perciò se questo stesso Corrado e i fratelli di lui stamparono tanta orma di se nella storia momentosa di que’ secoli XII e XIII. Della numerosa prole del Marchese Guglielmo uno si diede alle dignità ecclesiastiche, Federico vescovo d’ Alba. Rainero il fratello più giovane invitato a Costantinopoli dall’Imperatore Manuele nel 1178, ebbe la costui figlia Maria in isposa coi titoli di Cesare e di Re di Tessalonica; presente al fausto evento la madre di Rainero Giuditta d’ Austria, la quale recò con se di ritorno preziose reliquie. Il Genero imperiale si mostrò degno dell’onore confertogli, combattendo valorosamente contro i nemici della sua seconda patria; senonchè la ribellione d’ Andronico nel 1183 rovesciando dal trono di Costantinopoli Alessio II diede anche fine lagrimevole alla vita di Maria e Rainero, la sorella e il cognato dell’ Imperatore. Già prima di questo figlio di Guglielmo era andato in Oriente il fratello suo primogenito, omonimo al Padre, ma distinto col sopranome di Guglielmo Lungaspada. Nel 1176 10 accoglie in Terra Santa il Re Balduino IV, languente di male incurabile', e gii affida le cure del Regno dandogli in moglie Sibilla, la sorella primogenita ed erede della Corona. 11 frutto di queste nozze sarà Re anch’ égli sotto il nome di Balduino V; ma Guglielmo Lungaspada muore nel 1177 prima di vederlo dato alla luce. GIORNAIE LIGUSTICO 243 Benché non sia scritto nella storia è facile il comprendere, come a tali infausti eventi possa in parte ascriversi la seconda partenza per Γ Oriente, che già accennammo, di Guglielmo il vecchio o il padre nel 1185; in compagnia del quale pare che partisse anche il secondogenito Corrado. Ma quest’ ultimo si fermò a Costantinopoli, ove una nuova sollevazione avea cacciato Andronico Γ usurpatore del trono e 1’ uccisore del Cesare Ramerò. Corrado vi fece prove di gran valore, salvò l’Impero da nuovi disastri colla sconfitta e la morte del ribelle Branas; ma o disgustato delle perfidie bizantine oppure chiamato dal Padre volò in Terra Santa; non giunse in tempo a partecipare alla battaglia fatale, ove il Marchese Guglielmo rimase prigione, ma, mentre potè ottenerne la liberazione, salvò alla Cristianità Tiro ormai disperata della difesa, fermò il corso delle vittorie di Saladino, spiegò insomma tali prove di senno e di guerra che gli attirarono 1’ ammirazione anche de’ nemici. Morta Sibilla la vedova del fratello Guglielmo Lungaspada, morto il figlio loro Balduino V, la corona di Gerusalemme pervenne ad Isabella la secondogenita del Re Balduino IV, e costei volle dividerla collo sposo Corrado di Monferrato; senonchè un fato inesorabile pareva aprire a tutta questa famiglia 1 entrata alle più alte dignità soltanto per farnela precipitare più profondo. Corrado porgendo la mano ad afferrare 1’ offertogli scettro, sentì un pugnale assassino ricercargli il cuore e una voce mormorargli all’ orecchio : tu non sarai più nè Re nè Marchese. Allontanati dunque e mancati alla vita tre figli del vecchio Guglielmo, il Lungaspada e Corrado e Rainero, l’avita Signoria del Monferrato rimase al terzogenito Bonifazio. E O .... anche questi ben sostenne l’onore della famiglia ; in casa con una splendida vittoria sugli Astigiani nel 1191 e con aumento di Signorie ; fuori accompagnando 1 Imperatore Enrico VI alla conquista di Sicilia nel 1194, quindi in Oriente 244 GIORNALE LIGUSTICO nella gloriosa carriera che tosto diremo , coronata aneli’ essa da un Regno, troncata aneli’essa troppo presto, ma almeno in battaglia guerreggiata contro i nemici. Nè mancò alle figlie dei Monferrato Γ onore di nozze imperiali o reali. Senza parlare di Giordana sorella dei sovra nominati, che si dice (non so con quale fondamento) passata agli amplessi di Alessio III di Costantinopoli, abbiamo Agnese che navi genovesi nel 1206 recarono al Padre, il Marchese Bonifazio in Tessalonica; donde passò coronata a Costantinopoli sposa d’Enrico, il secondo imperatore latino (1). Abbiamo Alice nipote di esso Bonifacio pel figlio di lui Guglielmo, la quale andò moglie ad Enrico Re di Cipro e Regina verso il 1228 (2). Abbiamo Violante o Iolanda pronipote di Alice e di nuovo da navi genovesi recata nel 1285 sposa all’ Impeci) Per chiarire o rettificare quanto accennai a tal proposito nel Giornale Ligustico (I Genovesi e i loro Quartieri in Costantinopoli, 1876, pag. 225 , 231) riferisco qui il sunto d’un atto che si trova nel Foglialo de’ Notai; ms. alla Civico-Beriana I. 61: 1206, 3 madii: Porcus fatetur habuisse mutuo al Ogerio Porco quond. Oberti libr. 100 \pro quibus promittit dare predicto Ogerio perperos 400 auri ad dies 1/ postquam Galea in qua vadit dictus Porcus applicuerit Salonichim vel alio loco quo mittetur in terra filia D.ni Bonifacii Marchionis Montisferrati quam portat in dicta galea. E a carte 58 verso di esso Fogliazzo: 1206, 17 martii: Paganus Ventus confitetur se portare in accomenda ab Oberto Castagna lib. 50 ad Salonichi in galeis que debent ire in Romania (sic). Qui come nel Caffaro (ed. Pertz, pag. 125 , ann. 1206) la sposa dell’imperatore si chiama semplicemente figlia del Marchese di Monferrato, ma il suo nome d’Agnese ci è dato fra altri storici dal Villehardouin; La conqueste de Constantinople, § 239; e vuol essere aggiunta questa figlia alla Tavola XI genealogica aleramica del Moriondo, Monumenta Aquensia, II. 830. (2) Queste nozze del Re Enrico con Alice di Monferrato , chiamata in Cipro la Regina Lombarda, furono ignote anch’ esse al Moriondo (ibidem) - e furono dimostrate dall’ illustre De Mas Latrie , Histoire de l’Ile de Chypre; Paris, 1861, I. 253-4, 292-3. GIORNALE LIGUSTICO 245 ratore Bisantino Andronico II (1). E la corona di Gerusalemme non fu strappata tanto presto a Corrado di Monferrato che non gli riascisse tramandarla a due delle discendenti di lui, Iole sua figlia unica che colle nozze fece Re Giovanni di Brienne, e Isabella figlia di Iole e di Giovanni che comunicò il Regno di Terrasanta al marito, Γ Imperatore Federico II. Ma tornando al Marchese Bonifazio a cui si ristringe ormai il nostro discorso, questi per la sua consanguinità coi Regnanti di Francia e di Germania, come per le qualità sue proprie, fu adoperato più volte come uno dei più abili diplomatici. Papa Innocenzo III lo inviò a Filippo di Svevia sul finire del 1199 per tentar la conciliazione fra esso ed Ottone IV contendentisi l’impero; acciò ridonata la pace alla Cristianità si potesse rivolgerne le forze unite alla Santa Crociata , che predicava Folco di Neuilly, ispiratore il grande Pontefice (2). Quando Tebaldo Conte di Sciampagna, già eletto Capo di questa quarta Crociata, dovette cedere alla natura, giovane ed universalmente lagrimato, i principali suoi commilitoni adunati a Soissons nell’aprile 1201 vi sostituirono come Capitano generale il nostro Marchese Bonifazio : ciò per con- (1) Caffaro (ed. Pertz, pag. 310). Guillielmus Ade (Arcivescovo di Sul-tanieh in Persia morto 1316) dice che questa Imperatrice di Costantinopoli fu costretta dal marito ad abbracciare lo scisma greco: De modo extirpandi Saracenos, ms. della Biblioteca di Basilea, A. 128; copia di cui mi fu gentilmente comunicata dal Conte Riant. (2) Per tutti questi particolari vedasi la Memoria dell’ora lodato Conte 4-86, 498; Choix, IV. 63, 126, 140; V. 11, 112, 147, 398. Galvani, Fiore della Storia letteraria dell’ Occitania, Milano, 1845, pag. 404. (3) Rayn., Lexique, I. 420-22, 513-4; Choix, III. 226, 230. Giorn. Ligustico, Anno V. GIORNALI-: LIGUSTICO Carretto, Agnese di Saluzzo nipote di Beatrice di Monferrato e l’altra Beatrice Fieschi cognata di lei che fu nipote d’Innocenzo IV e sposa a Tommaso II Conte di Savoja e di Fiandra. Sulla tomba della Contessa di Provenza scioglie un mesto canto colui che gii vedemmo piangere 1’ Estense e il Malaspina, il Trovatore Americo di Peguilain (i). Ravvicinandoci al Monferrato, incontriamo una delle così frequenti Beatrici, la nipote del Marchese Bonifacio, la quale, sposata al Delfino Viennese Andrea Guigo VI, vi recò fiore di gentilezza e ne ebbe lodi da Sor dello, da Bertrando d’ Ala-raanon, da Gauselmo Faidit, da Gauserano di Saint Didier (2). Accenno di volo a Beatrice Contessa d’ Urgel nella Marca di Spagna, cantata da Rambaldo d’Orange e che le vite dei Trovatori dicono figlia del Marchese Lancia di Busca, il noto Vicario ed affine di Federico II e di Re Manfredi (3). Codesto, direi quasi, pellegrinaggio di Trovatori alle più splendide Corti di quel tempo, codesti convegni di Dame che prestano orecchio, talora forse troppo fucile, ai versi d’ amore, se non giovavano gran fatto alla purezza del costume, è chiaro che dovean molto giovare alla diffusione del buon gusto e della cortesia, come all’ incremento dei commerci e della ricchezza pubblica. Ma, ciò che più monta, sono i rilievi storici di quelle et.\ che si riflettono come in ispecchio in quella poesia viva, mordente, appassionata, fortemente sentita. Il feroce e quasi nervoso richiamo all' odio e alle armi vi si Iterna col dolce ritrarre delle bellezze della natura. Le passioni e le gelosie nazionali si mischiano colla politica; si vede il Ghibellino che eccita l’Impero contro i Lombardi e (1) Rayx., Choix, II, pag. lvii, vol. IV. 68. V. 163. Galvani, op. cit., pag· 344-5· Sauli, op. cit., pag. 68. (2) Rayx., Choix, II, pag. vii, vol. V. 165. Sauli, pag. 60. Papon, Histoire de Provence , II. 381. f V) Nominata anche dal Monaco di Montaudon. Rayn. , Choix, IX. 371. GIORNALE LIGUSTICO 259 un altro che avverte i Lombardi di stare in guardia contro l’impero (1); chi si allegra coi Pisani che fiaccarono l’orgoglio di Genova e chi piange le discordie cittadine che vietano a Genova di sottomettere Venezia (2). I Francesi e i Lombardi sono motteggiati: En Lombardia podetz be si us platz morir de fam si deniers non portatz. E 1’ altro di rimpatto : e podetz ben en Peitau o en Fransa morir de fam s’ en convit vos fìatz ma ja perels non empiretz la pansa si estradas o romieus non rubatz (5). Con quale libera parola si scagliano 1’ un contro 1’ altro Pietro Vidai e Manfredo Lancia Marchese di Busca; Gau-selmo Faidit e Alberto Malaspina, con cui pure tenzona Rambaldo Vaqueiras ! Se a quest’ ultimo il Marchese rinfaccia i ristori recatigli quando comparve alla sua Corte in lacero arnese, il Trovatore lo rimbecca di litigioso nello impedire che fa la strada di Genova e lo motteggia sul conto de’ Piacentini, i quali ingoiano tutti i suoi feudi, non lasciandogli ornai nemmeno un castagneto, senza eh’ egli osi di farsi vivo (4). (1) Rayn., Choix, IV. 196, 202, 259; V. 236, 271, 248. (2) Rayn., Choix, IV. 214, V. 359, 344, IV. 226, 2Sj ; e sui Genovesi in genere, IV. 239; Lexique, I. 351, 358, 498. (3) Rayn., Choix., V. 71, 393; IV. 38. (4) Rayn., Choix, IV, 9, ove il Poeta continua a rinfacciargli Pciracorna (leggi corva) pcrdcl^-vos per folia. Infatti Poggiali, Memorie storiche di Piacenza, V. 25 al 1194, reca il brano d’ un atto con cui Alberto Malaspina col figlio promette ai Piacentini: et castrum Petrecorve destrui faciemus et illud ultra non reficiemus. Poggiali spiega per Pietracorva 1’ attuale Pregola in vai di Staffora (ove è pure l’altra terra Oramala dei Malaspina di cui sopra a pag. 257;, ma nell’ investitura di Federico I a Obizo Malaspina, padre di Alberto, del 1164 a6o GIORNALE LIGUSTICO Anche più amare e violente sono le Sirventesi di più Trovatori contro Bonifazio secondo di Monferrato, che non cura di passare in Oriente al riacquisto del Regno di Tessalonica già posseduto dall’ avo Bonifacio I e dal Zio Demetrio. Fol-chetto di Romans rimpiange la corte già cosi fiorente di Monferrato e maledice il Regno di Tessalonica che la rese un deserto. Si unisce a tali biasimi il Monaco di Montau-don, e sovratutto Hlìa di Cairels e il nostro Lanfranco Cicala. Elia chiede a se stesso, se il secondo Bonifazio non avrebbe fatto meglio a farsi frate, abbate di Cistello o di Cluni, dappoiché egli ama più due buoi e un aratro in Monferrato che una corona d’Imperatore o Re in Oriente. 11 figlio del Leopardo non è che una volpe; i Fiamminghi, i Borgognoni, i Lombardi, tutti vi dicono, o Marchese, che sembrate un bastardo. Sentiamo ora Lanfranco Cicala. Egli non sa il perchè quel Marchese si debba chiamar Bonifazio, non avendo mai fallo nulla di bene; si pretende nato del lignaggio di Monferrato, ma non può essere; è un vile e di piccolo cuore, che non pregia cavalleria poiché non si dà attorno a riacquistare il retaggio perduto. Giurò ai Milanesi e ai loro alleati la fede che in cuor non aveva, baciò il Papa e baciò anche me (continua Lanfranco), poi mentisce a tutti. Se mai mi tentasse di lar con lui pace o convegno, non lo crederei quand’anche mi baciasse in.... (un luogo innominabile, ma nominato dal poeta). Povero Monferrato! Battiti il fianco, perduto è l’onore che il mondo già ti consentiva (i). Di tal guisa i procaci Cantori mordeano spesso i contemporanei anche i posti più in alto; e morto un loro gran Mecenate il buon Blacas, lo piangono tutti ma con lagrime (Anlicb. cslens., I. 161), vi è compresa Petracorva in valle Trebie presso Montinolo, e Pelragroa in valle Stafuk che esiste tuttora sotto il nome di Fregola. Rayx. , Choix, V. 248; II. 195; IV. 9. (j) Rayx., Choix, li, pag. lx, vol. IV, 29}, 210-12. GIORNALE LIGUSTICO 261 miste all’ ironia : chi vuol dividerne il cuore tra il tale e il tale altro Re , che di cuore ha difetto e gran bisogno; chi propone distribuire il corpo a questa o a quell’ altra Nazione, per risanguarne la virtù languente (1). Ma, quando si leva il grido della Santa Crociata, si ridesta nel cuore di tutti i Trovatori la fede che era soffocata dalle passioni ; ed ecco i pietosi eccitamenti che fa Americo di Peguilain ai Marchesi Malaspina e di Monferrato e ai Cavalieri che voglian porsi sotto la guida del buon Papa Innocenzo. Ecco che quel grande ma feroce soffiatore di discordie Bertrando dal Bornio si fa mite, cantando le gesta di Corrado di Monferrato in Terra Santa. Ecco lo sdegno generoso onde Pietro Vidai flagella i Regnanti, che si consumano in eterne discordie invece di levarsi uniti contro i nemici di Cristo. Lanfranco Cicala, Gauselmo Faidit, Folchetto di Romans accordano i loro liuti in· servigio della Crociata. San Nicolò di Bari (intuona l’uno) guidi la flotta; già è spiegata la bandiera di Sciampagna; nobile Fiandra alla riscossa! Corriamo a riacquistare la croce rapitaci dai Turchi, cacciamo ςΐϊ impuri che calpestano la sacra terra; si leva il grido di Monferrato e del suo Leone (2). Così inneggia il Poeta a Bonifazio , al capo della spedizione che fiaccherà Γ orgoglio del Sultano, 1’ Uomo a cui distinguere basta ornai appellarlo il prode Marchese (3). Del quale le lodi non si leggono soltanto ne’ Trovatori; sono anzi tanto più credibili quelle che gli tributa un compagno d’ armi, straniero e francese, Guglielmo di λ illehar-douin , e il caldo compianto di lui sulla tomba immatura di Bonifazio (4). Eppure piace anche di attingere nei versi pro- (1) Op. cit., IV. 67, 68, 70. (2) Op. cit., IV. 78, 112, 118; IV. 94; V. 244. (5) Op. cit., IV. 96, 112; V. 344. (4) Come chiusa alla sua storia la Conquiste de Constantinoph. 202 GIORNALE LIGUSTICO ventali, che ci rivelano alcun poco di vita intima come d’un grand’ Uomo sorpreso in farsetto fra le mura o nel verziere della sua palazzina di campagna. Guglielmo Faidit, di ritorno da Terrasanta ove avea accompagnato Re Riccardo d’Inghilterra, si trattiene in Monferrato e si loda del liberale accoglimento che gli fecero il Marchese Bonitacio, chiamato da lui sito Tesoro, e la sorella Beatrice. Dopo aver fatto ivi rappresentare una sua Commedia satirica, quel Trovatore parti ma col proposito di tornarvi altra volta. Pietro Yidal, uno de’più gentili Cantori del suo tempo, muove di Tolosa intorno al 1194, viene a fare omaggio a Bonifazio e si piace sentirsi da lui salutare con un caldo benvenuto e col titolo ambito di caro Messere ( 1). Qui il Trovatore festeggia Γ alleanza del Marchese coi Pisani e la vittoria che ne riportarono sull’orgogliosa Genova; disama i Tedeschi e il loro linguaggio, die chiama un latrar di cani; canta la doussa terra del Canaves, ove il prode di Monferrato tiene si orrevole Corte ; infine e deciso a non più ritornare in Provenza. Già facemmo menzione del canto che Vidai compose nel 1202 per la Crociata capitanata da Bonifazio. In Monlerrato si trattennero pure e il Tolosano Aimerico di Peguilain sovra più volte ricordato ed il nobile Castellano Elia di Cadcnct di Provenza, il quale loda il Marchese per la libertà che lascia di palesargli a viso aperto i suoi difetti mentre la più parte de’ Signori non vuole che elogi. Anche Folchetto di Romans, di Vienna in delfinato, lo visitò e vi ebbe una mordente tenzone col Conte di Fiandra, allorché questi con Viliehardouin si presentarono al Marchese annuii- . ziandogli la sua elezione a capo della Crociata. Folchetto pianse più tardi la morte di Bonifacio, rinfacciando ai discendenti (1) Rayn., Choix, III. 297; IV. 112, 118; V. 1 $8, }59, 344; Lexique, I. 40t. GIORNALE LIGUSTICO 263 di lui la grettezza che è troppo brutto contrasto coll’ antica liberalità di quella casa. E Peirols d’ Alvernia ricorda con amarezza i tempi del buon Marchese di Monferrato col Re Riccardo e gli antichi valorosi, allorquando è serbato a vedere l’insipiente condotta della quinta Crociata: e dopo aver reso grazie a Dio dello aver potuto visitare i santi luoghi, se ne allontana sdegnoso. Probabilmente alla Corte medesima apprese a trovare e si accese di emulazione quel Pietro della Mula di Monferrato di cui poco si conosce (1). Ma uno fra i più segnalati Trovatori, e ad un tempo il più costante e fedele amico del Marchese Bonifazio, fu Ram-baldo di Vaqueiras. Povero Cavaliere di Provenza fece le sue prime prove poetiche alla Corte di Bertrando del Balzo d’Orange, indi a quella di Aimaro di Valentinais; e sofferti rifiuti d’ amore dà 1’ addio a Provenza e a Gapençais, inforca il fedele destriero e colla spada a fianco e il liuto al collo tragitta le Alpi. La prima ventura che incontrò a Genova con una donna del popolo non gli tornò bene, ed egli ingenuamente la descrive colle ingiurie da essa scagliategli nel patrio dialetto; canzone pubblicata con commenti dall’ illustre Galvani e riprodotta dall’ amico cav. Belgrano (2). Il disegno di Vaqueiras era, come dice ne’ suoi versi, di recarsi di colà a Tortona, ove crede 1’Hopf si trovasse la Corte del Marchese Bonifacio; ma per mio avviso, e giudicando dai distretti signorili di quel tempo, si dovea piuttosto trovare in Tortona 0 nelle vicini, campagne una delle Corti dei Malaspina. Checchenessia, 0 in questa città o in Pavia il primo incontro del Trovatore fu (1) Rato. , Lexique, I. 454; Choix, II, p. lxxii, vol. IV. 101 , 2Si , V. 114, 152 , 32°· (2) Galvani, Strenna Filologica Modenese pel 1863, pag. S4. Belgrano, Vita privata de’ Genovesi, Genova, Sordo-muti 1875, pag. 389. Rayn., Lexique, I. 564. 264 GIORNALE LIGUSTICO col Marchese Alberto Malaspina, il quale, come più tardi rinfacciò a Rarabaldo, a lui affamato e lacero diede pane, vesti e gentile accoglienza e lo raccomandò a Bonifacio di Monferrato. Nuovi disgusti di contegno mutato, forse anche di gelosia per la moglie del Marchese, ritrassero presto il poeta dall’ albergo del Malaspina ed ora egli si avvia al Monferrato (r). Grande fu la gioia che Rambaldo provò nel vedersi accolto tanto cortesemente dal Marchese Bonifazio e dalla sorella di lui Beatrice; vestito, regalato, fatto cavaliere. Egli allora fermò di non più dipartirsi dal suo Patrono : e quando suonò la tromba della Crociata non si peritò a risalire sul suo destriero ed accompagnare il Marchese a Costantinopoli e a Tessalonica, ne partecipò i rischi nelle battaglie, ne ricevette feudi e larghi profitti (2). Eppure il cuore del Poeta al punto della partenza era in angoscia, poiché amava perdutamente Beatrice la sorella di Bonifazio e ne avea cantato in tutti i toni le grazie squisite; come sa anche il Petrarca, che rammenta nel Trionfo d'amore quel Rambaldo (3). Che cantò pur Beatrice in Monferrato. Quella dama che avea gii riscosso lodi da tutti i Trovatori, Guglielmo Faidit, Aimerico di Peguilain, Folchetto di Romans, Elia di Cadenct, aveva ora affascinato Rambaldo; come la sorella di lei Alasia Marchesana di Salu/.zo aveva affascinato Pietro Vidai e Bertrando di Ventadour. Le antiche Vite ide Trovatori si dilungano su simili particolari, e riferiscono un curioso dialogo tra Beatrice e Rambaldo clic non crediamo opportuno di ripetere (4). (1) Ravs., Choix, II. 195; IV. 9. (2) Op. cit., II, p. vin, vol. II. i6t, 226, 260; IV. 112, 27$, 416; V. 419. (ì) Capitolo IV, versi 46 e 47. \) Ravx., Choix, II, p. vin ; V. 416-17. Ci piace più accennare alla GIORNALI; LIGUSTICO 265 Il Poeta foggiò alla sua Dama un nome sotto cui più sovente si piace cantarla, il nome di bel Cavaliere; dacché egli 1’ ha veduta di soppiatto nella stanza del fratello armeggiare di bei colpi colla spada dimenticata dal Marchese. Bellissima è la canzone di Rambaldo che dipinge Beatrice invidiata ed assalita dalle più celebrate Dame del suo tempo; le quali le si schierano di fronte col carroccio e sono capitanate dalla Podestà di loro scelta, la Contessa di Savoia, Mi Don de Savoya. Suona la campana e le trombe squillano, gli archi e i carcassi son pronti. Ecco che 1’ Oste si avanza; le Dame di Ventimiglia, di Ponzone, di Versiglia, di Toscana e Romagna, la Marchesa di Soragna e Maria la Sarda e la Dama di S. Giorgio... De Canavez ven molt gran compainha De Toscana e Domnas de Romainha Na Tomasina e il Domna de Surainha Y venon de totz latz E moven lor carros Gambais, arcs, carcais . . . Sona la campana Las trompas van e la Poestat cria Demandemli jovent e cortesia Pretz e valor, e todas cridan Sia! (1). Non è dunque a maravigliare se il Trovatore prosiegue in viaggio a portare profonda la ferita del cuore, e se non cessa di rammentare i tempi quando era felice di vedere ogni giorno la prima Dama che il mondo possedesse. E perpetua moralità (del resto insolita) della lezione che porge al Re di Francia la Marchesana di Monferrato nel Boccaccio (Decanteront, Giornata ι.·\ Novella s-a)- (1) Raynouard, Choix, III. 256 e segg. Sauli, op. cit., pag. 62, 64, 65, il quale aggiunge che di questa, come della canzone che segue, il March. Biondi fece due versioni, una letterale, 1 altra poetica con note storiche e filologiche. 266 GIORNALE LIGUSTICO nel canto le gelosie, i dissapori che per alcun tempo lo separarono da lei, egli volgendo ad Alessandria e Beatrice a Tortona (torse nel 1198 e presso i Malaspina). Ma essa ritornò e la gioia ispiro al Trovatore una delle sue più belle canzoni composta in gara con due Francesi. Di codeste vicende ragionando ne’ suoi versi vi mesce spesso le lodi del Marchese e si rivolge a lui, rimembrando le imprese guerresche che compierono Γ uno a costa dell’ altro in Italia e in Oriente. Cosi quando accompagnarono Enrico VI alla conquista di Sicilia (1194), il poeta si vanta che nel più caldo della mischia a Zaistrigo (?) non piegò di un dito dal fianco di Bonifazio e aiutò questo a salvar dalla morte il Marchese Malaspina. A Messina potè stornare in buon punto la lama della spada che minacciava il suo patrono e si vanta di essere sempre stato fra i primi nei fatti di Randazzo, Paterno, Pleza, Palermo e Caltagirone (2). Allorché venne il giorno di partire per oltre mare, Dio me lo perdoni (egli dice), ma io non ne avevo troppa voglia; non sapevo se era meglio morire di vergogna restando, o di dolore partendo; ma seguendo il Marchese mi confessai e presi la croce. Giunto a Venezia non credevo di ritornare più al dolce Monferrato e alla mia patria. Approdammo al porto di Corfù, prendemmo Modone d’assalto senza aver ‘molto sofferto dai Greci. Ma un grosso rischio mi toccò a Costantinopoli innanzi al Palazzo imperiale delle Blacherne: armato di elmo, collare ed altro come un perfetto guerriero, (i! Ravx., Choix, V. 419. Hopk, Boiiif(t\, pag. 25. (2) Muratori, Amuli al Π94 chiama Guglielmo questo Marchese di Monferrato, ma erra scambiando Bonifazio col padre di lui morto già da un ptuio al tempo della conquista di Sicilia. Hopf, pag. 8, cita anche Toeciie, HfiiirUh VI. pag. 341, ove si vede che all’ingresso dell’Imperatore in Palermo il 20 novembre 1194 vi era fra altri Duchi e Cavalieri anche il Marchese Bonifacio. Hopf, pag. 20. Rayn., Choix, V. 425. GIORNALE LIGUSTICO 267 mentre stavo all’ alto della torre di Pera fui ferito sotto l’armatura. Il traditore Alessio altra volta ci sorprese con cento de’ suoi, ma noi ci attestammo ad. un tratto in battaglia; i vili ci volsero il dorso e li inseguimmo come falchi contro gli aironi o come lupi contro pecore. L’imperatore sgusciò di notte come un ladro, abbandonando il suo palazzo di Bu-coleone colla sua bella figlia dagli occhi azzurri. Così io vi seguii, o Marchese, lungo la Grecia per acqua e per ponti, per torri e fossi, perdendo e vincendo, dando e ricevendo ferite, aiutandovi a conquistar Tessalonica, Morea ed Atene, a far prigionieri Re e Principi, a sbalzare dal trono l’ultimo Imperatore greco e coronare un latino. Alcurie delle azioni del Marchese rammentate dal Poeta fan prova di umani costumi, come la onestà e la ricca beneficenza usata da lui verso gli orfani e le donzelle meritevoli di speciale protezione. Ma altri suoi fatti, sebbene a dire il vero non disformi dal fare cavalleresco di que tempi, non son troppo edificanti. Vi rammenta (egli così scrive in una canzone a Bonifacio) come un giorno noi rapimmo Isoldina De Mari al Marchese Malaspina proprio nel castello di lui e la demmo a Boso d’ Anguillara che ne moriva d amore? E di Giacomina di Ventimiglia ricordate voi quando il Giullare Aimonino vi recò notizie al vostro castello di Montaldo, annunziando che il tutore di lei voleva suo malgrado sposai la in Sardegna ? Memore delle promesse a lei fatte di difenderla dallo zio se.minacciasse costringerla, faceste di tratto partire cinque de’ migliori della vostra masnada, e dietro ad essi cavalcammo dopo cena voi, Guidetto, Ugonetto di Aitai0, Bertaldo ed io. Portai Giacomina fuori del porto ove la si voleva imbarcare. Tosto si levò un grido pei terra e per mare; cavalli e pedoni c’ inseguirono, e quando ci credevamo giunti in sicuro, ci vennero di fronte uomini di Pisa (probabilmente coloro che dovean recar la sposa in Sardegna). 268 GIORNALE LIGUSTICO Vedendoci attraversata la via, tanti cavalli al trotto, tante armi, elmi lucenti e bandiere, non occorre chiedere se avemmo da tare. Ci nascondemmo tra Finale e il monte; da ogni parte non si udiva che suoni di clarini e corni e il grido di guerra. Passammo in tal guisa due giorni senza mangiare e bere; al terzo di inoltrandoci al monte, incontrammo dodici ladri al passo di Benestar (?). Non sapevamo più a che appigliarci, non si poteva colà manovrare i cavalli. Allora mi gittai a piedi a combattere, toccai un colpo di lancia nel collare, ma ferii tre o quattro di-loro; onde si smarrirono di coraggio e fuggirono. Cosi la schiera vincitrice giunse a Nizza, dove la mano di Giacomina fu data ad Anselmetto de’ Marchesi di Cova (i). In questo frattempo Beatrice era morta; e Rambaldo scioglie alla memoria di lei una ultima canzone, che il eh. Hopf ben appella il canto del cigno; dove il suo dolore che era rimasto lungamente muto si sfoga con tutta la piena del cuore (2). l'.gli aveva pure tentato, ma invano, di obbliare la sua Dama immergendosi nel frastuono degli avvenimenti grandiosi della Crociata. Il trotto, il galoppo, il salto ed il corso, il vegliare e la fatica, il ghiaccio e la nebbia sono ormai la sua sorte, il ferro e I' acciaio P unico suo ornamento, e suo albergo la nuda terra 0 la paglia; i suoi canti non sono più che amare sirventesi e la tenzone e il discordo. Sola sua consolazione il dovere cavalleresco del proteggere gli oppressi (3). (t) Raysouard, Choix, II. 260; IV. 27$; V. 42.4-7. Hopf, Ronifai etc., pag. 17-19 con maggiori schiarimenti, citando il Mahn e il Dicz che dottamente illustrarono i Trovatori. I sol da in fatti è un nome genovese: per es. in Briciifrio, Tabula/· Carrclenses, Isolda pronipote di Ottone I del Carretto e moglie di Domenico Spinola; Isotta d’Ilario Usodimare in Compera magna Rurgi, 1408; Isolda Peirano nel 1315 ecc. (i) Rays., Choix, IV. 275. Hopf, Bonifai, pag. 51-54, che ne riferisce una bella traduzione in versi tedeschi dal Dicz e dal Mahn. (?) Rayx., Choix, V. .419. Hopf, op. cit., pag. 19. GIORNALE LIGUSTICO 269 In tali esercizi faticosi sembra che durasse più anni; noi sappiamo soltanto che egli mori in Oriente, ma è assai probabile (conchiude Γ Hopf) che lo stesso monte di Rodope nel 1207 vedesse cadere a fianco di Bonifacio di Monferrato il fedele suo trovatore Rambaldo di Vaqueiras (1). (1) Le Vite dei Trovatori scritte dal Nostradamus e tradotte dal Crescimbeni, op. cit., non hanno mai o quasi mai note cronologiche che ci guidino a ravvicinare i fatti. Il Papon, op. cit., ha almeno indicato i tempi in cui fiorì ciascun Poeta; e per riguardo ad Azzo d’Este, a Beatrice di Monferrato in relazione al Vaqueiras e ad altri simili particolari ci si travagliarono fra i nostri le Novelle Letterarie (Firenze i/4i,pag. 275), e i lodati Conte Galvani, cav. Sauli. Assai notevole anche per questo capo è 1’ articolo sui Trovatori di Emerico David (nella Histoire littéraire de la France, XVII, Paris 1832, pag. 499-521). Il eli. Autore rileva acutamente da una canzone di Gauselmo Faidit il nesso di tempo ira la morte di Beatrice e la Crociata verso l’anno 1204. È strano che di questa Contessa tanto celebrata dai Γrovatori non si trovi alcun documento nelle Collezioni diplomatiche e Tavole genealogiche ; nè può aversi per tale la nota 3-a al documento XLIII, 1194-96, pag. 46 del Cartario Ulciense, a cui si volle riferire il Moriondo (Op. ut., Tav. XI, nota 27). Tale carta Ulciense non parla che di una Beatrice figlia di Guigo V e madre di Andrea Guigo VI, Delfini viennesi. È questo Guigo VI che verso il 1228 sposò una Beatrice di Monferrato sorella di Bonifezio II, per conseguenza nipote in secondo grado della nostra Beatrice, e quciLi moglie di Guigo VI è la Contessa di Vienna celebrata dai Trovatori. Del matrimonio della quale abbiamo un documento almeno, riassunto dal Moriondo (op. cit., II. 570); invececchè di nozze più antiche fra l’avo Guigo V e la nostra Beatrice non conosco traccia alcuna. Credo perciò che siansi confuse e scambiate 1’ una per 1’ altra le due Beatrici dal Gui-chenon, dall’Anselme ed altri ricercatori, benemeriti, bensì, ma di critica poco sicura. In ogni caso, anche fidandomi di loro, la sorella di Bonifazio I sarebbe dunque rimasta vedova di Guigo V nel 1162; sarebbe passata a seconde nozze con Enrico Guercio Marchese di Savona (di cui abbiamo notizie dal 1125 al 1184). E vedova di nuovo vivendo fino al 1204, quarantadue anni dopo la morte del primo marito, avrebbe continuato ad affascinare 27ο giornali-: ligustico APPENDICE Poesie e notizie. di Trovatori Genovesi che si trovano o sono loro attribuite nelle seguenti pubblicazioni. K Calvo Bonifazio — Raynouard, Choix de poésies ecc., III. 445'448ί V. 214, 226, 228, 376, 378, 380. Cicala Lanfranco — Raynouard, Choix, IV. 210, 438; V. 107, 207, 247, 443; Lexique, I. 508. tutti i Trovatori. Il eli. Sauli che ammette in parte tale ipotesi, si studia con molto ingegno, ma non so con quale riescita, a rinfrancarla con esempi. Ppr mio avviso una già vedova nel 1162 dovrebbe essere piuttosto zia che sorella del March. Bonifacio. Ma vi è un altro intoppo. I Trovatori non parlano di Enrico Guercio (come suppongono il Bricherio ed il Sauli), ma si di Enrico Del Carretto suo figlio, vivente 1181-1251. Il padre non assunse mai ne’suoi atti il titolo di Del Carretto che accennando a possesso rurale, mostra già con sè la dignità marchionale tanto diminuita sotto i figli di Enrico Guercio. Veramente Enrico Del Carretto sposò nel 1181 Simona figlia del nobile genovese Balduino Guercio (San Quintino , nell’ Accad. dette Sciente, Torino, 1855, XIII. 517), c nel 1216 si trova marito di Agata figlia del Conte di Ginevra i.Moriondo, op. cit., II. 597); ma potrebbe bene innestarsi tra questi due matrimoni quello di Beatrice di Monferrato. Io però ho un altro dubbio. Il documento del 22 luglio 1202, sulla vendita di Trino e Pontcstura ùnta ai Vercellesi da Bonifazio I prima della sua partenza per la Crociata (ved. sopra, pag. 247) ha una coda, cioè il patto di riscatto delle terre vendute, contratto lo stesso giorno. Tale coda non fu riferita insieme al documento principale dall’ Irico ('Rerum Patriae, pag. 56), e fu inesattamente riassunta da Benvenuto da San Giorgio e dietro lui dal Moriondo II. $8t); il quale ultimo ne fu traviato (ino a duplicare il nome di Alasia di Saluzzo e come sorella e come nipote ad un tempo del nostro Bonifazio. Andando io sulle traccic del Mandelli (op. cit., 1. 44), mi procurai per mezzo dei sovralodati Cav. Dionisotti e Aw Marrochino copia esatta del brano relativo; e qui Io riporto dal Cod. Acquisitionum dell'Archivio Vercellese, I. 188 Dopo esser detto ivi clic il Marchese Bonifacio riserva il diritto di riscatto entro cinque anni a sè, al proprio figlio e al nipote, aggiunge : Jtem si uxor Alberti de Malaspina tifili1 nusJem Domine aut Domina A dataria uxor Domini Manfredi de GIORNALE LIGUSTICO 27I Doria Simone — Raynouard, Choix, V. 235, 443-4, 508. Folchetto Aniosso Id. Id. II. 182; III. 148-162; IV. 51, iro, 394, 3Q9; V. 150. Folchetto Anfosso — Crescimbeni, Op. cit., II. 240-242. Grillo Iacopo — Raynouard, Choix, V. 35. Malaspina Alberto Id. Id. II. 160, 193; III. 163-64. Quaglia (Cailla) Alberto Id. Id. IV. 9, 11; V. 15. de Saluviis vel fi lins cius vd ‘Domina Agnes soror Domini Bonifacii voluerint emere predictas res infra ierminum predidum, tunc Comune Vercellarum teneatur eis facere venditionem ecc. Bonifazio pare chiami sorella Agnese solamente (forse perchè nubile non aveva altre qualità da distinguerla, oppure per distinguerla dalla propria figlia omonima), ma si sa di certo che· era sorella sua anche Adelasia moglie del Marchese di Saluzzo; per conseguenza lo sarà stata anche la moglie di Malaspina, che, come preposta alle altre, secondo il costume de’ Notai d’ allora, dovea essere la primogenita. I Genealogisti di fatti ammettono una sorella di Bonifazio moglie di un Malaspina, ma chi la confonde, chi la distingue da Giordana che altri vogliono 0 sposa o torse soltanto fidanzata ad un Imperatore di Costantinopoli. Ma di questa Giordana (tranne da cronisti senza critica) non si conosce nulla, nemmeno il nome. D’altra parte, se Bonifazio aveva ancora una quarta sorella Beatrice, e questa la prediletta ed abitante con lui, perché non fare anche ad essa un posto tra gli aventi diritto al riscatto nel-Γ atto del 1202? Io sospetto perciò che le sorelle non fossero più di tre e che la moglie di Malaspina non fosse Giordana ma Beatrice; e se ciò fosse, si spiegherebbero meglio le cause dei dissidii ed ingiurie fra il Malaspina e il Vaqueiras; ed un certo brutto titolo che questi gli scaglia darebbe ragione a Beatrice, se abbandonando il marito si recò ad abitare col fratello; cosi anche si capirebbe F andata a Tortona di lei, dopo essersi crucciata col Trovatore il quale parti per Alessandria, e finalmente i! suo ritorno in Monferrato. Giacché ho parlato qui anche dell'ultima sorella Agnese, aggiungerò che (oltre a questo documento del riscatto notato pure dal Moriondo) pare che a lei piuttostochè alla nipote omonima debba riferirsi l’atto del 26 marzo 1203 inserito nei Mon. Hist. Patr., Chartar. II, col. 12a;, non rilevato ancora da alcuno che io sappia per la genealogia. GIORNALE LIGUSTICO SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA (C«>l|fJNUU{iüfJ« da ρΛζ„ Ijs) IX. Sezione di Belle Arti. Tornata del 22 Marzo 1878. Presidenza del Presidi cav. prof. Giuseppe Isola. Il socio Belgrano legge una dissertazione del collega prof. Giovanni Franciosi : L’ αφιϋα nel pensiero e nell* arie cristiana dei tempi di illeso. Questa dissertazione fu poscia stampata fra gli Scritti dello stesso Franciosi, raccolti in un volume uscito in Firenze pei tipi de’ successori Le Monoier. X. Sezione di Storia. Tornata del 29 Mar/.o 1878. Presidenza del Preside cav. avv. Cornelio Desimoni. Il socio Staglieno legge la prima parte della sua memoria intitolata: I.< donne nell'antica società genovese. XI. XII. Sezione di Archeologia. Tornate del 26 Aprile c 3 Maggio 1878. Presidenza del Preside cav. abate Angelo Sanguineti. Si dà lettura della dissertazione dei signori Antonio e Giovanni Dc-Ncgri: Di una falsa porpora trovata in Roma (ved. a pag. 128-151). II socio Belgrano legge una sua Nota sopra due sigilli genovesi (ved. a pag. 235-40). GIORNALE LIGUSTICO Nella tornata del 3 maggio si dà lettura della illustrazione del cav. Vittorio Poggi di alcune iscrizioni gemmarie (ved. a pag. 177-207). Il socio Desimoni comunica diverse notizie riguardanti la storia genovese. Parla in primo luogo di due foglietti, de’ quali ebbe copia dalla Biblioteca Vaticana, mercè la cortesia del dottissimo nostro concittadino il P. Luigi Bruzza, e che contengono un frammento di statuti genovesi probabilmente della fine del secolo XIII, come si capisce dal vedervi nominato Marino Boccanegra operaio del porto e molo, e ricordati certi lavori di ponti o scali al porto medesimo affidati alla sorveglianza di lui. Accenna ad un codice membranaceo posseduto dal commendatore P. Ercole Visconti di Roma, di cui fu dato cenno dall’ illustre archeologo comm. G. B. De Rossi nel Bollettino d’Archeologia cristiana del 1867 (1). Si tratta di un calendario della seconda metà del secolo XIII, fatto per la chiesa patriarcale d’ Antiochia, essendone patriarca il genovese Obizzo Ottobono Fieschi nipote di Innoccipzo Ιλ . Rendono interessante questo codice non solo le feste e le consuetudini di quel patriarcato accennatevi, ma per noi in ispecie le note marginali riguardanti indicazioni domestiche della iamiglia du Conti di Lavagna. Un altro calendario ms. in pergamena si trova nella Biblioteca parigina di Santa Genoveffa, colla iscrizione Calendarium Ecclesia; Januensis. Senonchè il conte Riant, a cui se ne deve notizia, avendo esaminato il codice non vi trovò nulla di speciale in servigio della nostra storia. Lo stesso illustre signore ci avverte che presso il libraio Saint Gour di Francfort trovasi in vendita un magnifico esem- (1) Anno V, pag. 89. V 18 Giorn. Ligustico , .Inno V. 274 GIORNALE LIGUSTICO piare ms. del secolo XIV in pergamena della Cronaca del Varagine. Devesi pure al conte Riant la notizia della Cronaca di un TVilielmus de Janua, intitolata Flores historiarum, conservata nella Nazionale di Parigi. Aggiungendo alla notizia la copia della introduzione e delle ultime pagine, avverte però come da queste non risulti nulla affatto di nuovo per Genova o anche per Γ Italia. Pare che frate Guglielmo scrivesse o in Svizzera o in Germania. Più prezioso per noi sarebbe un altro codice, egualmente accennato dal Riant, intitolato Histoire de Gènes et de Jérusalem en français, degli anni 1110-1291, ma scritto nel secolo XIV. Si conservava già nella Biblioteca dell’ Istituto a Parigi; ma disgraziatamente imprestato nel 1821, non fu più restituito. Si sospetta che sia a Pietroburgo. Più a lungo il riferente si trattiene sovra un ms. scoperto recentemente nella Biblioteca pubblica di Nantes, e del quale potè avere una copia sott’ occhio anche per cortesia del sig. Riant. L’autore dello scritto è Guilielmus Adœ, domenicano e arcivescovo di Sultanieh in Persia nella prima metà del secolo XIV: lo compose nell’ anno 1316, e lo intitolò De modo extirpandi Sarracenos. È insomma uno fra più altri che furono fatti in que’ tempi per incarico de’ Papi, allo scopo di consigliare sui mezzi migliori a ripigliare la Terrasanta e ridurre al nulla la potenza de’ Saraceni. Ma oltre le ragioni e i mezzi consueti proposti dagli altri contemporanei, Guglielmo d’Adamo propone che si cominci dalla riconquista di Costantinopoli per assicurarsi le spalle e le provvigioni, avendo a fare con ere-tici_, amici infidi e piuttosto alleati coi Saraceni. Porge parecchie notizie de’ suoi viaggi all’ìndia, delle Potenze orientali che possono favorire 0 contrariare la spedizione; e a proposito di cose genovesi, loda molto i Zaccaria di Scio e GIORNALE LIGUSTICO 275 di Focea per la \^alida e costante cooperazione prestata alla buona causa; sdegna invece più volte e con particolari forse esagerati, ma interessanti, la condotta di Segurano Saivago e della sua famiglia, tutti dediti al Sultano d’Egitto, di cui fanno sventolare la bandiera nelle loro navi, ed a cui portano schiavi e schiave per nutrirne l’armata mamalucca e gli harem, e che lo rappresentano nelle ambasciate a Principi 0 Imperatori. Di questo scrittore nulla era conosciuto finora, non potendosi a lui assegnare un’ altra Memoria sull’ État du Grand Chaan che alcuni gli attribuivano, ma che deve essere stata composta dal successore di lui nell’arcivescovato, Giovanni di Core. XIII. XIV. XV. Sezione di Storia. Tornate del 10, 24 c 31 Maggio 1878. Presidenza del Preside cav. avv. Cornelio Desimoni. Nella prima di queste tornate il cav. Luigi Cambiaso, console d’ Italia a San Domingo, espone i fatti che si connettono alla recente scoperta delle sepolture dei Colombo in quella cattedrale, e le indagini che concernono i resti mortali dell’ insigne Scopritore dell’ America. Nella seduta del 24 il socio Staglieno legge la seconda parte della sua memoria: Le donne nell’ antica società genovese; e in quella del 3 1 dà lettura della terza ed ultima parte. Ecco l’intera memoria. I. Delle fancmlle, degli sponsali e dei matrimoni. La nascita d’una femmina non era generalmente presso i nostri antichi, come non è fra noi, motivo di alcuna alle- 2ηβ GIORNALE LIGUSTICO grezza in famiglia. Le fanciulle in essa consideravano come piante parassite da allevarsi per andar fuori, onde ai maschi tutte le preferenze; e mentre al nascere di uno di costoro, in ispecie se primogenito, usavansi solennità ed allegrie, conviti, e talora danze e festini, quasi mai ciò avveniva per una bambina, a meno che qualche circostanza straordinaria, quale per esempio la già avuta prole maschile od una lunga sterilità, la facessero desiderata e ben veduta. Qualche venti o trent’ anni fa, e meglio ancora più addietro, a quasi tutte le fanciulle si imponeva il nome di Maria, od almeno questo era il primo dei diversi nomi che si davano ad esse battezzandole; donde il proverbio, che a Genova tutte le donne fossero Marie come gli uomini Battisti. Ma anticamente non era così : negli atti anteriori al secolo XII questo nome non trovasi affatto. La prima volta che appaja è del 1162; e se in appresso qualche volta si legge, fino al secolo XV è poco comune. Nè ciò deve far meraviglia, ove si consideri che l’imposizione di tal nome si collega col culto della Madonna, e che questo cominciò ad estendersi fra noi con qualche particolarità soltanto nel secolo XV, dopo che venne innalzato un altare alla Vergine nella Cattedrale di S. Lorenzo. Ma quel che più vi contribuiva era la solenne dedicazione della Repubblica fatta nel 1637 a Maria Santissima, la quale era proclamata regina e sovrana di Genova e di tutto il dominio. Comuni invece erano a quei tempi, e specialmente sino al secolo XIII, le Adelasie, le Agnesi, le Anne, le Aide, le Drude, le Giulie, le Richelde, le Sibille, le Oficie, e cento altri nomi derivati dai Romani 0 dai Barbari, o cagionati da qualche particolare circostanza, come Bianca, Bruna, Beneincasa, Bo-nanata, Cesarea, Cara, Careta, Carabona, e simili. Sembra però che intorno a questi tempi le donne non continuassero sempre ad essere chiamate col nome loro dato da GIORNALE LIGUSTICO 277 bambine; chè quelli di Altadonna, Altafoja, Beaqua, Bonadonna, Domna Caprina, Domnesella, Donina da ben, Superbia, Bonafilia, Madrona, Leta, ed altri allusivi a qualità fìsiche 0 morali che non si potevano manifestare nella infanzia, come i soprannomi , sono certamente stati imposti in appresso. Anche nei secoli seguenti le donne talora cambiavano di nome. Di ciò abbiamo non pochi esempi negli atti dei notari, ove si nominano spesso col nome vecchio e col nuovo. A tacermi di ogni altra, accenerò ad una del casato Dall’Orto, moglie nel 1477 di un mio ascendente in linea retta, il David de Staliano notaro e nel 1500 cancelliere del Comune; la quale in molti atti è indicata come in prima chiamavasi Agnese e quindi Pellegrina : Agnesia nunc vocata Pellegrina. Di questi tempi e per qualche secolo appresso i nomi femminili più usitati, e che facevansi si può dir concorrenza l’uno coll’altro, eran quelli di Franceschetta, Brigidino,, Pellegrina, Battisfina , Margaritina,, Bénedittina , Sobranetta, Caterina, Mariola, ed alcuni ne appaiono piuttosto strani quali Bel-laflos, Lino, Alterisια, Speciosa, Novellina. Nè posso tacermi dall’ osservare, che negli atti dei notari i nomi delle donne sono quasi sempre scritti nei loto diminutivi o vezzeggiativi; per cui anche quelli che male suonerebbero all orecchio si presentano belli e graziosi. Presso i nostri antenati i bambini passavano gli anni del-Γ infanzia nella casa paterna. Nè a quei tempi, per quanto anguste fossero le vie della città, le abitazioni mancavano di aria e di luce; tanto più che non erano nè così spesse ed ammucchiate, nè poggiavano ad una straoidinaiia altezza come ora avviene; e tutte poi erano provviste 0 di giardini, o di cortili, o di logge, o di terrazzi. Le donne generalmente uscivano molto più di rado che non adesso, e dei bambini nessuno, finché non avessero almeno sette anni per andate alla messa, fatta eccezione per le straordinarie circostanze di 278 GIORNALE LIGUSTICO processioni o simili, e per quei del popolo che vivevano nelle piazze e nelle strade, la più parte delle quali non erano decorate da tante botteghe, nè frequentate da tanto popolo come oggigiorno. Verso i sette anni pertanto, le fanciulle uscivano di casa per andare alla chiesa o colle loro madri od accompagnate da servitrici e pedisseque.' A questa età si cominciava ad impartire loro qualche istruzione di lavoro d’ago, ed anco di leggere e scrivere; ciò s’intende per quelle di civile condizione, che le altre, non appena erano in grado di farlo, aiutavano le madri nei lavori procurando guadagnare anch’esse qualche cosa. Le istruzioni pei lavori e pel leggere e scrivere le ricevevano nelle case dalle madri o dai parenti, oppure in qualche monastero di femmine, ai quali nei secoli scorsi era ristretto , si può dire, il privilegio della educazione femminile. Pochissima però era la parte che si assegnava alla cultura letteraria; chè mentre le nostre fanciulle si curavano moltissimo onde riuscissero valenti, come infatti riuscivano, nei lavori d’ago, nei ricami, nei merletti e nelle trine, in quella erano invece trascuratissime. Sino alla fine del secolo scorso era cosa rara che una donzella, anche delle più ragguardevoli della città, fosse in grado di scrivere correttamente una lettera, in omaggio alla massima generale che bastava alle donne di saper tanto da poter tenere la lista del bucato. Nè a questo era estraneo il timore, che il maggiore sviluppo nell’ educazione delle fanciulle potesse porgere il destro di annodar relazioni capaci di osteggiare quanto a riguardo del loro collocamento avevano stabilito i genitori; chè essendo la sorte dei figli fissata, si può dire, irrevocabilmente da questi all’epoca del nascimento, difficilmente gli stessi ed in ispecie le figlie vi si poteano sottrarre. Se in famiglia non vi era che una fanciulla, anche fra mezzo GIORNALE LIGUSTICO 279 a diversi maschi, questa poteva benissimo nutrire speranza di essere condotta a marito ; ma se ve n’ erano più, quasi tutte venivano destinate al chiostro ne avessero 0 no la vocazione. Per ciò non appena uscivano dalla prima infanzia o si collocavano colà in educazione, onde abituarle a quella vita per poi rinchiudervele , o vi si mandavano a scuola, non tralasciando in famiglia, ne’ discorsi e nel trattamento, di considerarle come altrettante monachelle della stabilita religione e del designato convento. Tutti, specialmente negli ultimi tre secoli della Repubblica, avevano delle relazioni di parentela e di interesse con qualche monastero femminile. Di questi ve ne erano per qualsiasi classe sociale; per la nobiltà, per la borghesia, per il popolo, ed ognuno vi aveva delle zie, delle sorelle, delle cugine. Onde nei parlatori de’ monasteri era un continuo andate e venire di persone, e le fanciulle vi erano manda te come a divertimento per visitare le loro parenti colà rinchiuse; le quali poi con tutti i mezzi, cercavano di allettar le giovani alla vita monastica o per propria convinzione, o perchè indettate dai parenti, o se non altro per procurarsi il piacere dei dannati di essere tanti in compagnia. Onde le poverette, quando anche non \i si sentissero inclinate, a poco a poco si lasciavano indurre, ed una volta varcata quella soglia fatale la ferrea porta si chiudeva per sempre dietro le loro spalle. Entro le pareti domestiche le fanciulle passavano la loro vita in donneschi lavori, e nelle faccende di casa secondo la loro condizione, e ne’ momenti d’ozio, alla finestra 0 sulle loggie e sulle terrazze. Raramente intervenivano a spettacoli, a festini, a divertimenti, eccetto quelli che si proponevano pratiche di religione, come le processioni, 1 presepi, le similitudini ; e ciò può anche spiegare in parte perchè tanto appaiano devote le donne di quei tempi. Le leggi suntuarie del 1440, rinnovate diverse \olte e 28ο GIORNALE LIGUSTICO modificate negli anni successivi, che pretendevano frenare le spese immoderate e regolare gli abbigliamenti donneschi, pei mettevano alle donne dai sette ai dodici anni Γ adornarsi d oii e di gemme vietate alle donne ed alle piccole bambine. Ed una disposizione emanata nel 157r, lorse riferentesi ad antiche consuetudini, considerava come un privilegio delle fanciulle, di qualunque età si fossero, lo intrecciar nei capegli quei sottilissimi fili di argento che dal loro brillante lucicare chiamiamo in dialetto brille; donde io credo sia derivata la costumanza di cospargere di esse brille, a modo di rugiada, i iioii destinati ad ornamento delle vergini defunte, ed il mazzo funerale che si pone ancora adesso sul feretro delle medesime. L età nubile per le donne, secondo il dritto romano, era stabilita a dodici anni; e le citate leggi suntuarie del 1440 stabilivano che le fanciulle giunte a detta età, per ciò che ìiguarda i vestiti, fossero come donne considerate. Questa era 1 età valida per maritarsi anche a tenore delle leggi ecclesiastiche; e da allora, a quelle che erano destinate allo stato coniugale si concedeva un po’ più di svago, non certo quanto adesso, ma oltre l’usato e secondo il comportavano le condizioni dei tempi. Le fanciulle di civile ed anche di ben modesta condizione, andando fuori, erano sempre accompagnate dalle madri o da alti e parenti o donne di età matura che invigilavano sopra di loro. Alle schiave, alle fantesche, a quelle del più basso stato sociale soltanto era permesso andar sole. Ciò facendo, le donne tutte, e specialmente le giovani e le fanciulle, erano esposte a mille pericoli. I giovanotti galanti di quei tempi erano meno educati del di d’oggi; chè rapire una donna a solo scopo di abusarne era cosa comune anche fra i più ragguardevoli della città. Nei secoli XVI e XVII le fanciulle distinte per nascita e GIORNALE LIGUSTICO per ricchezze erano minacciate talora anche da un altro guaio; quello cioè di essere abbracciate e baciate di sorpresa in pubblica via, o di sentirsi metter le mani sul seno da giovani di inferiore condizione, che cercavano in questo modo di comprometterle , per obbligare i parenti a concederle loro in ispose ; onde le leggi dovettero sancire pene a frenare il malo costume. Per ciò se in quanto all’ uscir fuori, all’ andare a passeggio o ad altri divertimenti, piuttosto rare erano le volte in cui intervenissero le ragazze , queste se ne compensavano largamente ad ogni occasione che loro si presentasse, e giornalmente poi stando alla finestra ed alle loggie, ed intrecciando intrighetti amorosi e pettegolezzi donneschi, cosi comuni a chi vive una vita priva di occupazioni dello spirito. Ma dove aveano agio di divertirsi a loro talento era nelle villeggiature. Ivi campagnate, merende, cene, danze, festini; ai quali con tanta più di ansietà partecipavano le donne, e particolarmente le fanciulle, quanto maggiore la vita ritirata che erano costrette a vivere in città. Nei secoli XVII e XVIII, nei quali era grande la corruzione dei costumi ed artificiale di molto la vita che le signore dovevano condurre in città, legate come erano da mille conven-nienze, e sorvegliate dalle leggi suntuarie, è nelle ridenti colline di Albaro, di Sampierdarena, della Polcevera, delle due riviere, ed anco d’oltre l’Apennino, ove le donne immensamente si divertivano, godendo allora una libertà e sfoggiando un lusso che anche al dì d’ oggi sembrerebbero eccessivi. Profittando delle favorevoli circostanze, spesso le fanciulle in campagna si inoltravano con relazioni amorose non sempre coronate da esito felice; chè la più parte, contratte con inconsideratezza giovanile, erano cagione di tardo pentimento e di lagrime amare. Imperciocché avendo i genitori altrimenti disposto di esse, non appena se ne accorgevano, o le 282 GIORNALE LIGUSTICO chiudevano in monastero, o ad altre nozze, poco importa se riluttanti, le costringevano. In questa materia l’jus romano delle XII tavole era in tutta la sua crudezza usato, chè il padre disponeva a suo arbitrio della prole sia vivo che morto, avendosi dei testamenti ove è stabilito quale de'’ figli e delle figlie debba maritarsi, quale farsi monaca 0 frate; nè questi atti mancano talorà di costituire dei procuratori incaricati della esecuzione delle paterne volontà. Sino da tempi antichissimi occorrono atti di sponsali fatti da genitori di figli in età infantile; nè rari sono quelli dove è promessa la fanciulla bambina ed ancora lattante, come fece il 24 marzo del 1485, con atto del notaro Cristoforo Rollero, un Giovambattista De Ghirardi per sua figlia Ginevrina di appena un anno, con un Paolo Berardo giovanotto che avea già oltrepassato i venticinque anni, e che perciò all’epoca del matrimonio doveva essere relativamente già vecchio. In mancanza del padre gli ascendenti od i fratelli disponevano delle sorelle, assegnando, ben s’intende, alle stesse la minor dote possibile; chè le leggi essendo tutte a favore dei maschi, nessun diritto avevano esse di legittima sull’ asse paterno. Quanto si dava per dote ad una fanciulla consideravasi in certo modo come sottratto alla famiglia; e quando in progresso di tempo più equi principii, vincendo gli inveterati pregiudizi, fecero si che nella pratica le doti si accrescessero, le leggi informate alle antiche consuetudini venivano a moderarle, considerando questa tendenza come un abuso donde potea derivare la rovina delle famiglie. Nel 1542 al primo di ottobre era fatto un decreto appunto contro le doti eccessive, e si stabiliva che da chicchessia non potessero costituirsi in somma maggiore di tre mila scudi d’oro del sole da sessan-tanove soldi per scudo. Le promesse di matrimonio, ossiano gli sponsali, generai- GIORNALE LIGUSTICO 283 mente si facevano in modo privato. Se di queste trovansene nei rogiti notarili, ciò è per quelle ove il lungo intervallo che doveva correre fra essi ed il matrimonio, o qualche altra particolare circostanza, richiedeva ne constasse per atto pubblico. Quando erano contratti in tal modo vi si stabilivano pure le doti e si fissavano le arre o pene per i mancanti alla data parola. Abbiamo però esempi ove per questi si fecero due atti separati, come per la Giovannina figlia del Conte di Carmagnola qui fidanzata mentre egli era governatore di Genova pel Duca di Milano. Di essa, con atto del 24 luglio 1424 suo padre faceva promessa a Riccardino de Angosciolis figlio di Giuliano, piacentino, presente all’atto, e che l’accettava promettendo di sposarla. Poi con atto successivo del 14 agosto 10 spettabile Isnardo Guarco, che fu il combinatore di questo matrimonio, e che si dice amico comune delle parti al quale entrambe si rimisero, dichiara le doti della fanciulla in due mila cinquecento ducati d’oro, oltre le vesti, le gemme ed 11 corredo come le parti convennero. Piacemi di citare questi atti, perchè ci danno il nome di una figlia del Carmagnola e ci offrono contezza degli sponsali di lei: nome e sponsali rimasti ignoti finora a tutti i genealogisti. Per le promesse fatte individualmente dagli sposi bastava, secondo il diritto canonico, che essi avessero compita l’età di anni sette; ed alcune ne abbiamo registrate negli atti dei nostri notari contratte poco dopo di questa età. Fra le altre accenerò a quelle di Giorgio D Oria del quondam Gherardo e Pellegrina Dcria del quondam Domenico, latte nel 1478, ove lo sposo avea tredici anni e la sposa nove compiti, celebrate con Γ intervento dei rispettivi parenti, essendosi convenuto che si sarebbe effettuato il matrimonio giunti che fossero all’età legale, e fissante le arre in lire due mila, il tutto con l’approvazione del Governo. 284 GIORNALE LIGUSTICO Ma la più parte, come sopra dissi, si contraevano privatamente; e così pure quasi sempre privatamente si promettevano le doti, delle quali poi solo constava per Tatto di ricevuta fattane dallo sposo compite le nozze. Oppure, fatti gli sponsali in modo privato, si redigeva dal notaro l’atto di promessa o costituzione della dote. Di questi atti abbiamo un’infinità nei nostri archivi. A modo di curiosità, fra molti accennerò ad alcuni perchè riguardano illustri personaggi e ci possono somministrare qualche notizia finora sconosciuta sopra i medesimi. Primo sarà quello della nostra S. Caterina, sotto la data del 13 gennaio 1463 in rogito di Oberto Foglietta, concluso nelle vicinanze di S. Lorenzo e precisamente in una casa dei Fieschi posta nel vicoletto del Filo. Intervennero all’ atto lo sposo Giovanni Adorno, la madre della sposa, Francesca Di Negro vedova di Giacomo Fiesco, e Giacomo e Giovanni Fieschi fratelli di Caterina, oltre due mereiai vicini chiamati per testimoni. La dote è di un migliaio di lire, di cui l’Adorno promette far istrumento celebrato il matrimonio, assicurandola sopra una sua casa nella contrada di S. Agnese. In essa dote però sono comprese lire ottocento promesse dalla madre della sposa, quattrocento in luoghi di S. Giorgio ed abbigliamenti da soddisfarsi a richiesta, e le altre entro due anni, restando intanto assicurate sopra una casa in detto vico del Filo, dove essa Di Negro ha investito le proprie doti, e dove intanto Giuliano colla moglie e la famiglia potranno recarsi ad abitare per detto tempo. Come si vede la circonlocuzione dell’ atto è abbastanza intricata e confusa; ma chiaro appare che la dote data dalla madre e dai Fieschi era di sole lire ottocento e che 1’ Adorno prometteva accrescerla di altre dugento. Il secondo atto concerne Bianchinetta Terrile, sposa del- GIORNALE LIGUSTICO 285 1’ infelice Paolo da Novi, e si legge ne’ rogiti di Lorenzo De Costa sotto la data del 26 di marzo 1468, al suo banco notarile posto nel Palazzo del Comune. Da questo apprendiamo che i tre fratelli Luca, Marco e Giacomo Terrile del fu Marino assegnavano alla promessa sposa del doge futuro, allora tintore in seta, lire trecento novanta, computatevi duecento di un legato paterno, delle quali si obbligavano a pagar subito centosettanta in danari contanti, e centoventi in vesti ed ornamenti della fanciulla, e le rimanenti entro di un anno. L’ultimo atto che citerò è della moglie del rinomato pittore pavese Francesco Sacchi, della quale finora fu sconosciuto il nome ed il casato. Questo era dei Masenna ; ed essa chiamavasi Moisola 0 Moisetta, figlia di un Giacomo che alla data del contratto, 6 novembre 1510 in notaro Vincenzo de Reggio, già figura come morto, mentre ancor vivo appare il Giovanni Antonio padre del pittore. Ambrogio Masenna, fratello della Moisetta, a suo nome ed a nome di Agostino e di Geronima suoi fratello e sorella ancora minori, assegna le doti in lire seicento formate da una casa nella contrada di S. Ambrogio e da tanto corredo per lire cento. L’atto è conchiuso nella contrada degli Squarciafico, nello studio dello spettabile Giacomo Spinola il quale pure interviene come testimonio. In nessuno degli atti succitati è notato 1 intervento di_lla sposa. Lo stesso era affatto inutile, trattandosi di interessi nei quali essa non poteva interloquire. E per le obbligazioni che contraeva verso di lei il futuro marito accettavano il padie od i congiunti, ed a cautela il notaio come pubblica persona. E così è in tutte le assegnazioni 0 promesse di dote, eccetto quelle dove è costituita dalla sposa medesima o già maggiore di età e priva di genitori e con patrimonio a se, od in posizione insomma legale per poterlo fare. 286 GIORNALE LIGUSTICO Oltre la dote spesso nel contratto si stabiliva anche, come vedemmo, l’ammontare del corredo, delle gioie e dei gingilli, jocaìium, secondo la condizione degli sposi; nè qualche volta si ommette una cassettina ornata e pulita corredata più o meno di ori e d’altri adornamenti donneschi. In atto del notaro Parisola del 26 febbraio 1502, Teodo-rina vedova De Via promette di dare alla figlia sua capsietam unam a sponsis fulcitam condecenter secundum gradum ipsorum jugalium. Lo stesso è in altro del 1505, nello stesso notaro, pel contratto della figlia di un coltellinaio con un barbiere, ove nonostante la modesta condizione dei contraenti e la esiguità delle doti, lire 200 fra vesti robbe e denari, non si oblia capsietam unam sponsalem fulcitam. Oltre a questo poi vi si stabilivano tutti i patti e le condizioni che erano stati combinati, dei quali non farò cenno perchè poco differenziano da quelli dei nostri giorni. Di uno però, registrato in atti di Cristoforo Rollero sotto la data 10 aprile 1488, non posso tacermi perchè abbastanza stravagante ed in opposizione agli attuali costumi. Ivi un Domenico Deferrari, fabbro, promette a Giovanni Genzano, fabbro anch’esso, sposo di Teodorina sua figlia, le doti di costei in lire 400, compreso il corredo, le argenterie ed i gingilli da pagarsi dopo quattro anni, intervallo frapposto alla celebrazione del matrimonio. Fin qui nulla di strano; ma dove questo appare si è che il buon genitore si obbliga a tenere insieme con sè sotto lo stesso tetto ed alla stessa mensa i fidanzati per tutti i quattro anni, provvedendo la fanciulla dei necessari abbigliamenti, ed accogliendo anche in bottega il futuro genero, col patto espresso che questi non possa sposare definitivamente la Teodorina prima del termine convenuto, ma debba comportarsi con essa castamente ed onestamente, chè altrimenti, cioè traducendola a nozze od abusando di lei, poteva mandarli via entrambi di casa e bottega, GIORNALE LIGUSTICO 287 ed essere libero da ogni obbligo, meno la dote dopo gli anni citati. Forse la molto giovane età degli sposi, 0 qualche altro motivo, a noi ignoto, avrà consigliato quel padre ad una simile convenzione. È certo però che al dì d’oggi difficilmente troverebbe dei sottoscrittori. Nella combinazione dei maritaggi avevano gran parte gli amici comuni, e talora anche i sensali. Dei primi vedemmo un esempio nel contratto nuziale della figlia del Carmagnola, e moltissimi se ne trovano indicati o individualmente o in genere in altri atti. I sensali poi erano in Genova, perchè città commerciale, professione da tempi antichi estesa ad ogni genere di contrattazioni e lucrosissima ; onde non è da far meraviglia che ve ne fossero anche occupati particolarmente in combinare matrimoni, a fine di ricavarne la mediazione. Ed i nostri antenati, che in materia di tasse non la cedono a noi tardi nepoti, iscrivevano sui registri delle avarie questi sensali, perchè pagassero le contribuzioni sopra i loro guadagni. Compulsando le antiche carte si trovano i nomi di parecchi. A me basti accennare un Bartolomeo Lomellino, indicato nel 7 febbraio 1380 come sensale del matrimonio di un Matteo Cicogna colla figlia del fu Antonio Fiesco, e tassato per questo nella somma di lire quattro di quei tempi. In epoche a noi più vicine anche i preti ed i frati si occupavano grandemente dei matrimoni. Il lucchese Francesco Maria Fiorentini, che verso la metà del secolo scorso visitava Genova, segnala nei suoi scritti quali incaricati di tal faccenda i Chierici della Madre di Dio, e specialmente ancora i Gesuiti. E dalle stampe fatte in Roma, pure verso quell’epoca, per lo scioglimento del matrimonio celebratosi nel 1.726 fra il Principe Giovanni Andrea D’Oria, allora Conte di Loano, con Giovanna Maria Teresa D’ Oria figlia del Duca di 288 GIORNALE LIGUSTICO Tursi, si conosce che appunto un sacerdote si era adoperato grandemente in concludere quell’infelice maritaggio. Vittorio Alfieri poi, in altra delle sue poco note commedie, intitolata il Divorzio, dove intende stimmatizzare i costumi italiani ed in ispecie genovesi, essendone 1’ azione figurata in Genova sulla fine del secolo scorso, pone un prete a trattare il matrimonio della figlia del suo padrone, presso cui trovasi come precettore. Nè questo carattere ha alcun che di esagerato, chè negli ultimi due o tre secoli della Repubblica i membri del clero, come appare anche dai citati atti per lo scioglimento del matrimonio D’ Oria, avevano una grandissima parte negli intimi avvenimenti delle nostre famiglie ; e tanto più quanto erano ragguardevoli e doviziose, imitando costumi, certo non lodevoli, derivati dalla Spagna. Dal momento che una fanciulla era fidanzata, le leggi suntuarie le accordavano una maggiore larghezza ne’ suoi abbigliamenti, Un decreto della Signoria del 6 febbraio 1440 ingiungeva alla commissione preposta a dette leggi di stabilire che fosse permesso alle fanciulle fatte spose e non ancora condotte a marito, l’usar generi di vesti e gioielli proibiti alle altre donne. E questo diverso trattamento si vede accennato in tutte le disposizioni che si seguirono sopra detta materia. Dopo gli sponsali viene naturalmente il matrimonio. Parlando di questo, noi che generalmente siamo avvezzi ai ragionari dei moderni scrittori di cose religiose, i quali in questo atto solenne della vita riguardano soltanto il sacramento, e ce lo descrivono come circondato in ogni tempo da sacre cerimonie, difficilmente possiamo concepirlo valido e legale anche in faccia alla Chiesa, fatta astrazione da quelle e senza l’intervento di un sacerdote. Eppure la cosa è ben diversa. Presso i nostri avoli il matrimonio era privo affatto di cerimonie religiose, non vi as- GIORNALE LIGUSTICO 289 sistevano i sacerdoti, e ciò nonostante primeggiava il suo carattere di sacramento. Lo stesso compievasi generalmente in casa della sposa, alla presenza di amici e di parenti, ed in tale occasione avean luogo banchetti, festini ed altre allegrezze secondo la maggiore o minore agiatezza delle famiglie. Gli sposi erano vestiti di abiti nuovi, che quindi indossavano durante lor vita nelle più solenni circostanze. In molti bandi dei secoli XIV e XV, fatti per convocare i principali cittadini a processioni 0 ad altri pubblici festeggiamenti, è prescritto che debbano indossare le vesti nuziali, allo stesso modo che al dì d’oggi vediamo indicato Γ abito nero e la cravatta bianca. Talora quando qualche particolare interesse richiedeva che del matrimonio constasse per atto pubblico, vi interveniva un notaro, che lo registrava ne’ suoi rogiti. Ma di ciò non era bisogno alcuno per la validità del medesimo. Infatti, se moltissimi contratti colla presenza notarile si trovano nei fo-gliazzi, relativamente al numero dei matrimonii che devono essere stati fatti si vede però sempre che sono una minima minoranza. Il Cav. Belgrano nella sua Vita privata dei genovesi, sulla fede di uno di questi atti colla data del 30 dicembre 1304, emetteva il dubbio che fosse già allora fra noi conosciuto il matrimonio civile; e lo stesso pure dicono altri scrittori, essendosi di consimili atti trovati anche in diverse parti d’Italia. Ma il matrimonio civile, nel senso in cui lo ammettiamo noi di contratto dinanzi alla laica autorità, nulla ha che fare con questi atti; e se qualche somiglianza vi si trova, è solo dall’ esser dessi privi dell’ apparato religioso e della presenza del sacerdote. Invece nella loro essenza ne differenziano, non essendo l’attuale dalla Chiesa riconosciuto come sacramento, Giorn. Ligustico, Ah ho V. 19 290 GIORNALE LIGUSTICO mentre Γ altro lo era presso i nostri antenati. Ben inteso prima della pubblicazione del Concilio di Trento. Il matrimonio si contraeva esprimendo gli sposi la loro volontà o consenso. Quantunque non in tutti gli atti di matrimonio per verba de presenti redatti dai notari siano indicate le formalità che erano in uso, limitandosi i più ad accennarle in genere, pure alcune essendo ora in uno ora in un altro segnate, colla scorta dei medesimi si può stabilire quanto segue. Avanti tutto gli sposi erano interrogati da altro degli intervenuti, che pare non fosse mai il padre od altro parente da cui avessero immediata dipendenza. Se eravi un notaro, un qualche magistrato-, un sacerdote, un ragguardevole personaggio insomma, era compito suo. Prima ad interpellarsi era la fanciulla, la quale, come ancora adesso si costuma nelle campagne, per far pompa di pudore si faceva ripetere la domanda due o tre volte, pronunciando un timido sì. Le vedove che si rimaritavano, e quelle per le quali il matrimonio veniva a sanare una illegale posizione di stato, rispondevano alla prima, senza aspettare la seconda e la terza interrogazione. Lo stesso faceva lo sposo, più o meno francamente secondo la voglia che ne aveva. Espresso il consenso , gli sposi si davano la mano, si abbracciavano e si baciavano ; indi lo sposo poneva Γ anello in dito alla sposa, e Γ atto era compito secundum ritum Sancta Romana Ecclesia et consuetudinem civitatis Janua. Verso il principio del 1471, due giovani spagnuoli innamorati cotti l’uno dell’altro e contrariati dai parenti fuggirono dalla loro patria e fermarono stanza fra noi. Qui, passata la prima foga dell’amore, pensarono seriamente ai casi loro, e considerando che se e umana cosa peccare 'e angelica Vemendarsi, a tranquillar la coscienza risolsero di regolare la loro posizione e di diventare legittimi marito e moglie, secundum quod institutum fuit a Sacrosancta Romana Ecclesia ac ipsius fidem et legem. GIORNALE LIGUSTICO 291 Credete voi che perciò ricorressero al vescovo, al parroco, ad un sacerdote, ad alcuno insomma rivestito di religiosa autorità? Tutt’altro. Chiamati a convegno alcuni amici che erano dei principali della città, in casa loro posta nella contrada del Campo contrassero il matrimonio secondo il sopra accennato formolario, interrogandoli Paride Fiesco ed essendo testimoni Borruele Saivago e Giovanni Pinelli. Perchè poi del fatto potesse in ogni tempo constare da pubblico documento, vollero presente il notaro Lorenzo Costa, che lo registrò ne suoi fogliazzi colla data del 7 marzo 147x, giorno in cui fu celebrato. Un altro esempio. Certo Giovanni di Val di Stura conviveva con una Caterina, già schiava presso distinte famiglie, la quale lo regalava di parecchi figliuoli. Egli le aveva promesso di sposarla, e tenevasi vincolato in coscienza, anzi in certo modo con lei segretamente ammogliato. Ma vero e legittimo matrimonio non aveva mai con essa contratto Cosi trascorsero parecchi anni, finché volendo mettersi in regola et matrimonium in faciem Ecclesia palam et publice contrahere, fece venire in sua casa in via da S. Siro il notaro Domenico Conforto, ed alla di lui presenza, sulle interogazioni di certo Picembono speziale loro vicino, chiamati per testi due sarti, anch’essi loro vicini, addì 4 settembre del 1546 compivano 1’ atto secundum morem et consuetudinem Sancta Romanis Ecclesia con tutte le richieste formalità. Potrei moltiplicare gli esempi, chè molti di tali atti abbiamo nei rogiti; ma me ne astengo essendo più che bastanti i due succitati. Presso il volgo poi vigeva la consuetudine che espresso il consenso gli sposi fossero aspersi di vino, del quale, ben inteso, facevansi ampie libagioni: uso derivato da vecchi riti, che prescrivevano gli sposi bevessero alla stessa coppa, e dei quali resta ancor traccia nel contado ove ogni negozio o 292 GIORNALE LIGUSTICO contratto si suole sanzionare con tracannare di molti bicchieri. E la benedizione degli sponsali fatta col vino insieme alla credenza di considerarli per questo come validi matrimonii, si mantenne ancora fra il popolo per molto tempo, nonostante le prescrizioni del Concilio di Trento pubblicato fra noi nel 15 67 dal Sinodo Pallavicini, come lo prova quello di monsignor Sauli del settembre 1588, ove si accenna a tale abuso e si insiste perchè venga estirpato. Anche il matrimonio contraevasi talora per procura, special-mente da parte dello sposo. Di questo doveva però constare per atto pubblico o per lettera, che si inseriva neli’istrumento notarile. Le formalità erano le stesse come se fatto di presenza: ugualmente avevan luogo le interrogazioni ptr due o tre volte alla fanciulla ed al delegato dello sposo, ugualmente ■si stringevano le destre, come pure costui le poneva in dito l’anello, e talora anche l’abbracciava, ma certo non la baciava come il vero sposo faceva. Non rari poi sono i casi in cui lo sposo incaricava più d’uno di questa faccenda, come avvenne nelle nozze di Teodorina figlia di Simone Negrone con Giorgio dei Vivaldi, il quale per trovarsi a Palermo, faceva procura in due suoi amici, Oberto Spinola del fu Luciano ed Agostino Cattaneo pure del fu Luciano. Costoro addì 28 febbraio del 1522, in atto del notaro Giovanni Costa, sposavano a nome del commi-tente la fanciulla, le davano l’anello e l’abbracciavano ac se dicti contrahentes mutuo amplexi sunt. Altro caso di due procuratori, vediamo nello stesso notaro sotto la data del 12 maggio 1522. Ivi Geronima figlia del fu A^incenzo Fiesco si marita con Gerolamo Grimaldi rappresentato da Giovanni Battista ed Ambrogio suoi fratelli, i quali abbracciarono la ragazza per di lui conto : in signum etiam contracti matrimonii se mutuo amplexi sunt. Quantunque il matrimonio per procura fosse e sia tuttora GIORNALE LIGUSTICO 293 riconosciuto ed ammesso dalle leggi canoniche, agli occhi dei nostri antichi non aveva tutto il desiderabile g/ado di validità e di legalità; chè in quanti furono da me trovati, vedesi segnato in calce l’atto di ratifica, od a meglio dire la rinnovazione del matrimonio coll’ istesso e completo formulario d’uso. Talora anche il procuratore air atto prometteva a nome dello sposo che questi lo avrebbe ratificato o rinnovato, come se si trattasse di semplici sponsali e non di vero » matrimonio per verbo, de presenti. Come esempio di matrimonio per procura, rinnovato personalmente dallo sposo, indicherò quello del 16 luglio 1579 in atto del notaro Andrea Rossano, di due fratelli De Castello con due sorelle De Vivaldi. Nel quale per 1’ assenza del Giacomo, altro degli sposi, supplì come procuratore il Giovan Battista suo fratello, che prima sposò la Maddalena per costui, e poscia Γ Annetta per sè. Ma venuto in Genova il vero sposo dopo poco tempo, ai 5 del mese seguente ratifi-cavasi il matrimonio, procedendosi a nuove interrogazioni ed espressioni di reciproco consenso. Ed è a notarsi che chi fece le interrogazioni in entrambi gli atti fu il reverendo Matteo De Fabris, del quale si tace la qualità, se cioè le facesse come amico di casa 0 parroco. Eppure era da dodici anni dacché il Sinodo Pallavicini aveva dichiarato in vigore il Concilio di Trento. Compito il matrimonio, dopo i conviti, le feste e gli altri divertimenti aveva luogo la traductio, cioè l’andata della sposa alla casa del marito. Solennità importantissima che dava sanzione al matrimonio, non sembrando questo inappuntabile finche la sposa non era entrata sotto il tetto coniugale. D’altronde contraendosi privatamente le nozze in casa della sposa, era solo per mezzo della traductio che la cittadinanza veniva ad esserne fatta partecipe, e così in grado di potere in ogni tempo testimoniare delle medesime. Onde, come già GIORNALE LIGUSTICO avvertivo poco innanzi, a quei matrimoni nei quali, per essere gli sposi già assieme conviventi o per altro motivo, la traductio non poteva aver luogo od era differita, interveniva il notaro per constatare il fatto con atto pubblico, ed occorrendo darne la prova. La traductio pertanto compendiava in sè tutta la solennità delle nozze, ed il matrimonio istesso; ed è ai festeggiamenti di essa che si volle alludere nella proibizione di nozze solenni fatta dal Concilio di Trento per alcuni tempi dell’anno. Nella circostanza della traductio, specialmente se trattavasi di famiglie illustri e doviziose, il popolo faceva calca per ammirare la sposa, il vicinato accorreva alle finestre; ed essa si partiva in mezzo agli addii, agli augurii di felicità ed alle acclamazioni, ed a concerti di musicali strumenti dai quali spesso era accompagnata la comitiva. A tutto questo naturalmente si univa l’inconsiderato e gaio brulicare dei fanciulli, pronti a cogliere ogni occasione di far gazzarra e confusione. E ad essi nei tempi antichi, seguendo un vecchio costume romano, distribuivansi nocciole, onde ancora adesso la locuzione quando mi darai le. nocciole, detta ad una fanciulla, equivale a chiederle: quando sarai sposa? Di che pure è nato il proverbio: pane e noci, mangiar da sposi. L’uso di distribuir nocciole nelle nozze vige ancora in qualche luogo del contado; ma fra noi a poco a poco fu sostituito dalle nocciole confetturate e quindi da ogni genere di confetti, che attualmente si mandano ai parenti ed amici in eleganti cartocci ed in ricche bomboniere. Prima dell’uso delle lettighe e delle portantine, cioè anteriormente al secolo XVII, la sposa andava a casa del marito a piedi od a cavallo, con grande accompagnamento di parenti e d’amici, e col corteo di paggi e servitori. Di questo le leggi suntuarie del secolo XVI si occuparono; chè del 1571 trovo vietato che le spose fossero accompagnate da più di dodici cittadini, e da quattro servi compreso il paggetto. GIORNALE LIGUSTICO 295 Così pure intorno a questi tempi costumava che le vesti che doveva portare la sposa in detta occasione si mandassero alla di lei casa qualche giorno prima , non già in una cesta piegate e coperte, ma con grande apparato di nastri ed altri adornamenti sostenute da certe assicelle , onde apparissero diritte e distese come se fossero indossate, presso a poco quali le vediamo ora nelle vetrine dei magazzini di mode, ed affatto scoperte perchè ognuno potesse ammirarne la bellezza e lo sfarzo. Ciò pure fu vietato dalle leggi nel 1571; ma queste come le precedenti dell’ accompagnamento e moltissime altre proibizioni di simil genere vediamo pubblicate replicatamente per diversi anni successivi ; segno evidente che non erano mai osservate. In molte parti d’ Italia era costume che nell’ andata della sposa a casa del marito, da amici e parenti di essa si fingesse impedirla facendo il così detto serraglio, ridottosi in ultimo alla formalità di far cerchio intorno alla stessa; dal quale solo poteva liberarsi dando in pegno uno smaniglio, un anello od altro gingillo, che poscia portato a casa del marito veniva da questi riscattato con una somma che la brigata spendeva in una cena od in altra allegria. Rifiutandosi la sposa di dare il pegno, o cercando il corteggio di sforzare il passo, nasceva una collutazione nella quale la persona della fanciulla era presa di mira, allo scopo di portarla vu e d’obbligare lo sposo ad andarla a riprendere per così venire a patti. Com’è facile immaginare, talora da questa usanza nascevano inconvenienti grandissimi; onde le leggi vennero a frenare siffatti giuochi, i quali a poco a poco andarono m disuso o limitaronsi a. simboliche formalità. Di questa costumanza del serraglio non trovansi notizie positive fra di noi; ma l’essere nelle più volte citate leggi 296 GIORNALE LIGUSTICO del 1440 proibito a chicchessia, uomo o donna, da serio o per gioco, di nascosto 0 palesemente, il condur via la nuova sposa dalla casa del marito, mi fa sospettare che anche in Genova qualche cosa di consimile si usasse anteriomente al secolo XV. Generalmete la traductio si faceva il giorno stesso del matrimonio , o dopo due o tre giorni. Qualche rara volta si differiva ancora di più per particolari ragioni. In tali casi però se urgeva che il matrimonio non offrisse alcun appiglio per essere disfatto, era costume nei secoli XV e XVI che immediatamente dopo la celebrazione gli sposi si ìitirasseio e rinchiudessero da soli in qualche camera, ritornando dopo un po’ di tempo ; e con ciò il matrimonio si considerava come consumato. Nè mancano esempi di matrimonio della cui contrattazione si fece rogito da notaio, ove dopo la redazione dell’atto è notata la circostanza che gli sposi si ritirarono o furono lasciati soli per qualche tempo, e quindi tornarono alla presenza del notaro e de’ testimonii che tramandarono ai , posteri la notizia del fatto. Che questo poi fosse una semplice.formalità od un’allegoria come l’abbracciarsi degli sposi, il por l’anello in dito alla fidanzata, che si ritengono quali simboli dell’atto materiale di piesa di possesso, non puossi ammettere; almeno in tutti i casi, che da qualche occorso risulta chiaro che era o poteva essere una vera consumazione di matrimonio. Ne citerò uno in appoggio. Nel 1510 i parenti allontanarono dalla casa di Geronima \ edova di Antonio de’ Sale (forse della famiglia che in tempi a noi più vicini si estinse in quella dei Brignole) una costei %Ha a nome Minetta, di non ancora tredici anni, collocandola coll’ autorità del Senato presso Battista dei Gropallo; e ciò perchè la madre passata a seconde nozze con Lodisio GIORNALE LIGUSTICO 297 dei Magnasco aveva in animo di sposarla, contrariamente ai loro desideri, con un giovane di diciotto anni figlio del suo secondo marito. Mentre la fanciulla era nella villeggiatura del Gropallo in Castelletto, al dopo pranzo del 14 settembre la madre con un’altra donna andò a trovarla, e trattenendola con discorsi bel bello la fece allontanare di colà, conducendola nella strada del Campo in casa sua e di suo marito, ove alla presenza del notaro Cristoforo Rollero le lece contrarre il matrimonio col giovine prescelto. E perchè il tutto fosse compito in modo che non ammettesse scioglimento, chiuse i due giovani assieme in una camera lasciandoveli soli un buon quarto d’ora, il tutto come appare dall’atto notarile che fu redatto. Se restassero sorpresi i parenti saputa la cosa ognuno lo può immaginare. Ma o perchè li fanciulla non era creduta libera nel suo consenso presa così di sorpresa, 0 perchè l’atto porgeva qualche appiglio da essere dichiarato nullo, come tale si volle impugnato. Quel che però ad essi cuoceva per l’onore della Minetta, era l’essersi trattenuta chiusa nella camera collo sposo quel quarticello d’ora, onde prima di andare oltre volevano conoscere positivamente come era andata la cosa. In affare di tanta delicatezza ricorsero al confessore di essa, e gli si diede incarico di destramente interrogarla e di ricavarne la verità. Addì 20 settembre pertanto costui, che era il Padre Urbano da Savona dei Predicatori di S. Maria di Castello, andò co-lassù dove pure trovossi il notaio Vincenzo De Franchi-Reggio, e dopo aver interrogata per bene da solo a solala Minetta, faceva in atto di detto notaro il suo rapporto corroborato dalla di lei attestazione. Da questo i parenti, e certo con loro soddisfazione, poterono conoscere come ad eccezione di qualche piccola liberta presasi dallo sposo, nuli’altro era avvenuto. In qual modo 298 GIORNALE LIGUSTICO sia poi andata a finir la facenda finora non ho trovato. Ma quanto già si conosce è bastante a provare come la indicata circostanza non poteva essere sempre una semplice formalità. II. Delle maritate, delle vedove e delle seconde no%%e. Entrata la novella sposa nella casa del marito, altri banchetti si apprestavano a festeggiare la di lei venuta. Era la volta dello sposo e della costui famiglia, i quali dovevano far grata accoglienza a lei che entrava allora a farne parte. E questa costumanza dei banchetti in occasione di nozze, che noi vediamo usata in ogni tempo e presso tutti i popoli, doveva aver preso presso di noi, nel secolo XV, proprio il carattere di un eccesso, sia pel replicarsi dei medesimi, sia pel gran numero dei convitati, vedendo le leggi affaticarsi in moderarla. Colle stesse infatti si stabiliva che non più di due conviti avessero luogo in casa del padre della fanciulla, nel primo dei quali lo sposo potesse condurre sino a due amici, e nel secondo non più di otto. Per quelli poi in casa del marito, era vietato che avessero luogo fuorché ne’ primi tre giorni, cioè domenica, lunedi e martedì: la qual cosa conferma quanto si conosce da diversi altri riscontri, che cioè la traductio generalmente si facesse di sabato o di domenica; dopo avessero da cessare, assieme ad ogni altro festeggiamento nuziale. Dalle stesse leggi poi conosciamo che in occasione dei ma*· ritaggi era uso regalarsi la sposa dai parenti e dagli amici, e contraccambiarsi costoro di gingilli, di manicaretti o di vini e d’altre bevande: usanza che nonostante le leggi fatte a frenarla, sopravvisse sino ai dì nostri. Non sempre però le leggi erano fatte per moderare le spese GIORNALE LIGUSTICO 299 delle nozze, chè qualche volta trovansene di quelle deliberate apposta in senso contrario. Infatti a’ 15 maggio del 1408 la Signoria concedeva che per le feste nuziali del nobil uomo Lorenzo De Albertis di Firenze, da farsi nei successivi giorni di domenica, lunedì e martedì, 20, 21 e 22 di maggio, fosse permesso alle donne adornarsi di perle a loro talento, ed a tutti, uomini e donne, portar vesti di panni e stoffe d’ogni qualità e taglio, senza essere molestati dai collettori delle gabelle. Oltre a ciò, concedevasi che potessero esser chiusi da appositi tavolati i vicoli conducenti alla piazza dei Banchi, dovendosi dare in questa non so quale spettacolo di giuochi e solazzi; con che però il tutto fosse rimesso nello stato primitivo a spese degli ordinatori della festa, liberando per detti giorni i banchieri dall’ obbligo di tenere aperti i loro banchi. Cotesti festeggiamenti fatti in maggio, mi rammentano un proverbio che sconsiglierebbe gli sposalizi in tal mese dicendo : di maggio si maritano gli asinij dettato certo derivato da antichissimi pregiudizi, leggendosi in Ovidio: Mense majo, malas nuhere vulgus ait. Al quale però non si bada oggidì più molto, sembrando alle nostre fanciulle ancor pochi per maritarsi i dodici mesi che abbiamo. Nè pare che diversamente la intendessero le antiche, chè oltre i precitati esempi del matrimonio del De Albertis, e della Geronima Fieschi con Gerolamo Grimaldi fatto per procura, altri ne abbiamo contrattatisi in maggio, fra i quali pur quello del già nominato Paolo da Novi, come dirò fra breve. La prima notte che la sposa doveva passare assieme col marito fu sempre oggetto di particolari cerimonie presso tutte le nazioni. Tralascerò di parlare di ciò che altrove praticarsi, quantunque vi siano delle costumanze abbastanza cuiiose, ne 300 GIORNALE LIGUSTICO talora prive dell’intervento religioso come si può vedere in qualche antico rituale ; e per quel che praticavasi da noi, dirò soltanto che nel secolo XV era uso che lo sposo non giacesse colla sposa finché non fossero compiti i festeggiamenti ed eseguita la traduzione, e che spesso, come sopra ho accennato, usavasi anche sottrarre la stessa alle ricerche del marito facendola uscire e dormir fuori del tetto coniugale. La qual cosa forse è reliquia di più antica costumanza, che le leggi vietarono, e di cui non hassi più memoria in appresso. Nel secolo ΧΛλΙ poi e nei seguenti a cura di amici e di parenti usavasi ad alta notte fare la serenata, suonando concerti di musicali instrumenti sotto alle finestre degli sposi, o più comunemente ancora la mattinata, cioè eseguendo gli stessi concerti nelle prime ore del mattino, accompagnati talora da salve di archibugi e moschetti, le quali se hanno che fare colla musica e col diletto, Giovanni Andrea Spinola scrittore di quei tempi, se ne rimetteva al ridere di Democrito. Non mi tratterrò perciò sulla costumanza la quale voleva che la suocera od altra vecchia parente andasse al mattino per tempo, e prima che gli sposi fossero alzati, a bussare alla porta della loro camera, portando ad essi non so che brodo o cordiale; come tacerommi di altre bizzarre e spesso indecenti usanze, delle quali trovasi ancora qualche traccia presso i nostri contadini e nella parte più bassa della popolazione. Al domani della traductio, cominciavano le visite che le amiche e le parenti si affrettavano a fare alla sposa : visite per cui fuggivano di casa, come dice il citato Spinola, i suoceri ed i mariti, e così continuavasi per parecchi giorni finché essa usciva per restituirle. Questa prima uscita della sposa era anch’ essa aspettata con particolare curiosità dal vicinato e dai conoscenti, sia per ammirare la donna negli abiti da maritata, come per altre GIORNALE LIGUSTICO 301 femminili indagini; per cui i primi passi che muoveva fuori di casa costituivano un’ altra specie di solennità. Tali noiose costumanze e formalità si mantennero fra noi si può dire sino a dì nostri, non avendo cominciato a cessare che nei primordi del presente secolo, in cui gli sposi che erano in grado di farlo, per liberarsene, cominciarono dall’ e-spediente di passare i primi giorni della loro unione in campagna, e quindi, come si costuma adesso, facendo un viaggetto di diporto. Oggidì, da tutti coloro un po’ agiati che contraggono maritaggio se ne spedisce la partecipazione stampata ai parenti ed agli amici delle due famiglie. Questa usanza fra noi è recentissima , nè risale di molto oltre la fine del secolo scorso, e sino alla metà del presente era, si può dire, esclusiva della nobiltà e delle altre famiglie che le andavano di paro. A poco a poco si diffuse a tutte le classi, ed attualmente prese un estensione, specialmente relativa alle persone alle quali si distribuisce, che quasi diventa üna ridicolezza. Nei tempi antichi la solenne andata della sposa alla casa del marito suppliva alla partecipazione. Poscia si faceva a voce; e nel secolo XVII i novelli mariti appartenenti alle famiglie che si volevano distinguere e sulle altre primeggiare, andavano di persona a dar parte del contratto matrimonio al Doge, all’ Arcivescovo, all’ Ambasciatore di Spagna e ad altri personaggi ; e dalla importanza che annettevano alcuni a questi atti, lo Spinola già citato prende occasione di dar loro la baia. Colla traductio spesso lo sposo portava seco a casa anche la dote. Talora invece gli veniva pagata effettuata la solennità ; ed il marito ne faceva la debita ricevuta, che negli ultimi tempi chiamavasi controcarta. Innumerevoli sono questi atti di ricevute di doti che si trovano nei rogiti notarili, ed in molto maggior numero che quelli delle costituzioni dotali. La ragione ne è ovvia; chè 302 GIORNALE LIGUSTICO mentre per le promesse di dote spesso suppliva la semplice parola o la scritta privata, appodixia, dovendo in regola generale passare poco tempo dalle promesse al matrimonio, nella ricevuta si preferiva Γ atto pubblico, per tutte le possibili conseguenze, che spesso non potevano verificarsi prima della morte di altro dei coniugi, e perciò in epoca presumibilmente remota. D’altronde pagandosi la dote, quasi sempre, quando il matrimonio era completo, e colla traduzione della sposa non poteva più patire eccezione, l’atto di ricevuta serviva in ogni tempo, in mancanza di altro documento, a far fede del contratto matrimonio. Nemmeno a quest’ atto era necessario che fossero presenti la sposa o i di lei parenti. Il marito faceva la dichiarazione della dote ricevuta, e per la moglie e gli altri aventi diritto accettava il notaro. Coll’ atto istesso, quando non era stato fatto in quello degli sponsali od in altro precedente, lo sposo dichiarava pure 1’ ammontare dell’ antefatto o donazione che era stata pattuita, o che voleva largire alla moglie. Circa questo nome di antefatto (,antefactum), osserverò che il P. Spotorno fu d’opinione doversi leggere piuttosto antefatum, cioè avanti la morte, quasi fosse una donazione fra vivi, e non antefactum che nulla secondo lui vorrebbe significare ; e questa interpetrazione da molti fu adottata. Ma dessa a me non soddisfa, sembrandomi impossibile che in tutti gli atti dove è scritta, dal 1130 sino agli ultimi tempi della Repubblica, quanti notari e legulei che si successero, abbiano potuto commetter 1’ errore di scriver antefactum invece di antefatum. Per cui sarei d’avviso che almeno fra noi questo donativo, che in certo modo potevasi considerare come una donatio propter nuptias, si chiamasse antefactum, perchè come questa, in regola generale non poteva farsi che prima del contratto matrimonio. GIORNALE LIGUSTICO SOS Nei rogiti di Giovanni Scriba stampati fra i Monumenta Historice Patria, si possono leggere moltissimi atti di ricevuta di doti ed altri ov’ è stabilito Γ antefatto sia prima come dopo delle nozze, e così formarsi un'idea della loro varietà. 10 ne citerò solo due più recenti, cioè del secolo XV. Il primo è nei fogliazzi del notaro Lorenzo Di Costa, e con questo il già citato Paolo da Novi, al quale nel marzo del 1468 fu, come vedemmo, promessa la dote della sposa Bianca Terrile, dichiara di averla ricevuta da’ suoi cognati il dì 13 maggio successivo, per cui è a ritenersi che il matrimonio siasi effettuato a’ primi di maggio. Ed egli era già, come dichiara nell’ atto, maggiore di 25 anni e separato di interessi da Giacomo suo padre. L’ altro è del pittore Francesco Deferrari di Pavia, per le doti di Tobietta figlia del fu Urbano da Tortona, moglie sua iarn traducta, le quali ebbe da un Giovanni Maria fratello della sposa, in lire 200, facendo alla stessa antefactim seu donationem propter nuptias de libris centum januinorum secundum consuetudinem seu formam ordinamentorum civitatis Januœ. Anche il pittore è maggiore di venticinque anni, e faciente i fatti suoi indipendentemente dal proprio padre Bartolomeo, 11 tutto come appare dall’istrumento del 18 aprile 1471 ne* rogiti del citato Lorenzo Di Costa. Come ognuno può aver rimarcato, nel primo di questi atti non si parla di antéfatto, mentre nell ultimo e stabilito secondo le leggi. Il risultato però era il medesimo, come vedremo più avanti parlando dei diritti delle vedove sui beni del marito. Secondo l’antico diritto romano la donna, maiitandosi, cadeva tanto nella podestà maritale che più non consei va\ a alcuna personalità: conveniebat in inanimi viri. In progresso questo principio cosi assoluto ebbe qualche maggioie laighezza nella sua applicazione, ma non tanto che la donna non 3 04 GIORNALE LIGUSTICO fosse sempre, durante tutta la sua vita, sotto una continua tutela. A questa massima erano informate le nostre leggi, le quali se permettevano che la donna potesse obbligarsi e contrattare , richiedevano per la validità dell’ atto l’intervento del padre o degli ascendenti e tutori se fanciulla, del marito se maritata, de’ congiunti se vedova, ed in mancanza di essi dei vicini, i quali dovevano giurare come erano nella convinzione che 1’ atto era fatto a di lei vantaggio e non ne avrebbe potuto aver danno. Le donne per le loro doti godevano di ipoteca privilegiata sopra i beni del marito, per cui erano pagate prima degli altri creditori. Siccome però se da tempo antico, conoscevasi la ipoteca che obbligava i beni, era ignota la pubblica registrazione della stessa, mediante la quale resta in modo certo stabilito 1’ ordine progressivo dei creditori sopra gli stabili ipotecati, allorquando il marito era sulla via di andare in rovina, le donne dovevano ricorrere alla Signoria per avere il permesso di conseguir 1’ estimo sopra i di lui beni, cioè di averne assegnata una parte per le loro doti ed antefatto ; la qual cosa facilmente ottenevano. E queste disposizioni tutte si mantennero sino alla fine del secolo, e caddero col cadere della Repubblica. Nei tempi antichi quando la società era di costumi più semplici e patriarcali, l’aver molti figliuoli costituiva una ricchezza per i genitori. Ma cresciuti il lusso e le sociali esigenze, il gran numero di essi si andò considerando come causa di depauperamento delle famiglie. E ciò tanto più fra noi, quando collo stabilimento delle primogeniture si voleva far ricco un solo a perpetuare il nome del casato, e gli altri erano destinati a miseramente vegetare. Onde, come dice chiaramente lo Spinola già citato, che viveva nel secolo XVII, alle grandi famiglie rincresceva l’aver molti figliuoli. GIORNALE LIGUSTICO 305 A sollievo però de’ genitori ricchi di figliolanza, le leggi accordavano franchigie dalle gabelle; e questo privilegio ridotto negli ultimi tempi ad una sovvenzione pecuniaria, si mantenne sino a’ principii del secolo corrente. Il curioso poi si è che ne’ secoli XIV e XV nel computo de’ figli per essere esenti dalle gabelle, i padri annoveravano anche quelli che potevano aver procreati fuori del matrimonio. Su questo riguardo i tempi trascorsi erano meno schifiltosi dei presenti, ne’ quali spesso genitori agiati, per un male inteso decoro, abbandonano alla sorte la prole illegittima, aiutati in ciò dalle leggi che sembrano fatte per favorire simili atti. Ben sovente accadeva allora, che assieme ai figli legittimi il padre allevasse i naturali ; nè era cosa strana che a costoro pubblicamente provvedesse e li chiamasse del suo cognome. I privilegi poi onde erano dotati dagli imperatori e dai pontefici i numerosi conti palatini o del sacro romano impero, aprivano facile via alla legittimazione di ogni figlio, nato dal più dannato congiungimento; e numerosissimi sono gli atti dove persone di ogni ceto sociale, dall’ infimo alle più alte dignità civili ed ecclesiastiche, riconoscono e fanno legittimare i loro bastardi. Altra particolarità di quei tempi era che le donne quando si avvicinavano al tempo di partorire, e specialmente se per la prima volta, facevano il loro testamento. E ciò spiega perchè siano molto più numerosi i testamenti fatti dalle donne che quelli degli uomini. II motivo di questo atto era per disporre delle loro sostanze a favore delle proprie famiglie pel caso che esse morissero, e che ai loro parti toccasse pure tal sorte, prima di superare l’età infantile, 0 senza avei discendenza. Difatti in tali testamenti, dopo le consuete disposizióni per i funerali ed i legati per opere pie 0 per ricorùo ai parenti, Giorn. Ligustico, Anno V. 3o6 GIORNALE LIGUSTICO υ di benemerenza alle persone di servizio, disposto spesso dell’ usufrutto a .favore del marito, sono chiamati eredi o in genere il ventre pregnante, o i figli nascituri maschi e femmine, in quella proporzione che la donna meglio desiderava. Ma eravi sempre la condizione che morendo costoro in età infantile, o prima di accasarsi, o senza figli, dovesse l’eredità passare a qualche parente della testatrice. Spesso accadeva che non pensando la giovane sposa in istato di gravidanza a far testamento, e per motivi di delicatezza o pel timore che si spaventasse ed avesse ad incoglierne male, non volendo alcuno sollecitarla a tale atto, fra i parenti della moglie ed il marito si concordavano speciali convegni relativamente alle doti ed ai beni di essa, verificandosi le sopra dette circostanze della morte di lei e de’ suoi figli. Ben inteso che tali testamenti e convenzioni non avevano più effetto, od erano rivocati in progresso di tempo, vivendo la donna nel consorzio maritale ed avendo figliolanza già inoltrata in età. Una delle principali cure dei nostri antenati fu mai sempre quella di farsi ricchi, ed al più presto possibile. Appassionatissimi perciò furon sempre di tentar la fortuna, giuocando ad ogni genere di giuoco d’azzardo; e se non andavano in Borsa era per la sola ragione che la Borsa anticamente non esisteva. Usavano invece le scommesse, le quali ne’ secoli XVII e XVIII si facevano sopra gli avvenimenti politici, sulla morte dei papi, imperatori, re, ed altri illustri personaggi, sull’esito delle guerre e d’ ogni impresa guerresca, per cui giornalmente ognuno andava a far la sua passeggiatola a Banchi e per i ponti del mare, onde raccogliere le notizie e così regolarsi. Più specialmente davano motivo a, scommesse le elezioni dei nostri dogi e degli altri magistrati della Repubblica. Anzi da queste ripete origine il giuoco del lotto, cagione di tante GIORNALE LIGUSTICO 3°7 diatribe de’ moderni economisti, ma che intanto è una tassa bella e buona pagata da volontari contribuenti : invenzione tutta nostra, nata all’ ombra della torre di Palazzo e del campanile di S. Lorenzo, d’ onde poi si sparse in altri luoghi. Oggetto poi di scommesse generali, alle quali potevano prender parte anche coloro che non sì occupavano di politica, erano le donne , sia per i matrimonii che avrebbero potuto contrarre più con uno che con un altro, e dentro un termine fissato, come per la loro fecondità, scommettendosi se avrebbe la tale fatto o no figli in un dato tempo, o se, essendo gravide, il parto si sarebbe verificato più maschio che femmina. Anzi le scommesse fatte sulle donne gravide, chiamate col nome particolare di redoglio, erano, specialmente nel secolo XVI, diffuse presso ogni classe di persone, e causa di riprovevoli inconvenienti, tanto che la religiosa autorità venne colla sua sanzione a riprovarle. Un editto infatti del Vicario Arcivescovile stampato in data del 7 gennaio 1588, dichiarandole cagione di morti e di rovine, le proibisce sotto pena di peccato mortale. Quale intromissione del Vicario in simil faccenda, non puossi altrimenti spiegare che come una lodevole condiscendenza del— 1’ Arcivescovo alla richiesta del Governo, per frenare gli eccessi di un giuoco, che invero dovevano essere deplorabili. Ma nonstante queste ed altre proibizioni, e 1 essere espi essamente vietate dagli statuti, consimili scommesse si mantennero per molto tempo, cessando a poco a poco, col diffondersi del giuoco del lotto, che divenne la passione generale del popolo e delle donne, di quelle del volgo in ispecie. Le nobili però in giuocare non erano da meno delle altre, chè le relazioni dei viaggiatori, che furono in Genova, e molti biglietti di calice conservati nelle filze Secretorum e dei Collegi, ed altri documenti accennano a questa passione delle 3o8 GIORNALE LIGUSTICO signore le più ragguardevoli, nella quale spendevano delle egregie somme. Il giuoco più diffuso fra tutti e da esse preferito, era quello del lotto reale o biribissi, che continuò, quantunque dalle leggi vietato, a formare Γ occupazione delle nostre serali società sino alla metà del secolo presente. Nò sono ignoti ai raccoglitori di artistiche curiosità le bellissime tele che per farlo si spiegavano sul tavolo attorno a cui sedeva la compagnia, ove nelle rispettive caselle assieme ai corrispondenti numeri sono dipinti, da qualcuno dei nostri primari pit-tori, gli oggetti voluti dal giuoco, come figure, stemmi, animali ed altro, il tutto in vivi colori, con finissimi ornamenti, riquadri ed arabeschi, qualche volta persino lumeggiati ad oro, come richiedevasi in oggetto su cui si dovevano posar le mani eleganti delle donne e dei cavalieri. Usanza pure di quei tempi era che le donne avessero un bracciere, detto anche cicisbeo, la qual cosa è comune a diverse città d’Italia e venne tanto derisa dagli stranieri. Non è mia intenzione di qui addentrarmi su tale soggetto, per esser notissimo e da molti trattato. Osserverò soltanto circa la sua origine, che probabilmente ciò avvenne dal principio che le donne non dovessero mai andar sole; per cui essendo invalsa la moda di spesseggiare nell’uscir di casa, nè potendo sempre il marito prestarsi ad accompagnarle, trattenuto o da pubblici o privati affari, si incaricava alcuno che lo supplisse. La era pertanto una carica che davasi a persona di condizione inferiore, e che accettava per questo un salario. Infatti nelle spese per i nostri ambasciatori all* estero è notata questa del bracciere, pagata co’ denari del pubblico. In progresso la si volle circondare coll’ aureola della galanteria; e certo deve aver dato luogo a gravi inconvenienti, quando a’ braccieri pagati sottentrarono i cicisbei eleganti. GIORNALE LIGUSTICO 309 Ma io credo che tale aureola sia stata di molto accresciuta dalle moderne apprezziazioni. In un libro stampato a Colonia nel 1769, col titolo UEspion Chinois, si riportano otto articoli che formano il codice del cicisbeismo fra noi; e contengono tali condizioni che non rendono molto onorifico, per un cavaliere che si rispetti, l’esercitare la professione di cicisbeo. E la stessa cosa confermavasi dal già citato lucchese Francesco Maria Fiorentini, che diceva: il mestiere di servire dame a Genova è « mestiere da lacchè vestito in mantelletta. Relativamente al costume del secolo XVIII, osserverò ancora come l’abate Richard, che stampò una descrizione dell’Italia nel 1766, dice che a Genova erano molto comuni i processi di scioglimento di matrimonio per impotenza. E lo dice in modo da lasciar credere che il tribunale ecclesiastico, al quale spettò sempre decidere sopra questa faccenda, si lasciasse indurre con danari a pronunziare la insussistenza del vincolo. Io non ho dati sufficienti per definire se tale imputazione abbia o 110 fondamento. Quel che però già mi occorse di segnalare, è che invero intorno a quei tempi furonvi diversi matrimonii della più alta aristocrazia dichiarati nulli per tale motivo. Fra tutti menò gran rumore il processo del Principe Giovanni Andrea D’Oria colla principessa Teresa D’Oria, figlia del Duca di Tursi, la quale dopo dieci anni di coabitazione col marito impugnò il matrimonio dichiarandosi ancora vergine; onde nonostante le affermazioni del Principe e le molte prove recate in contrario, si chiuse con una sentenza di nullità pronunciata addi 3 marzo 1741 da Benedetto XIV, basata sul fatto della non consumazione per impotenza del marito. Dalla qual taccia volendo egli purgarsi ed insieme provvedere alla continuazione della famiglia, nel 1743 sposavasi colla nobil donna Eleonora Carafa figlia di Fabrizio duca d' Andria, la 310 GIORNALE LIGUSTICO quale dopo un anno, ai 2 dicembre del 1744, lo fece padre di un figlio distinto col nome di Andrea IV. E questi è il grand’avolo dell’attuale principe e della principessa Olimpia, della quale in questi giorni appunto celebrossi in Roma il matrimonio con don Fabrizio Colonna. Per tale questione di scioglimento si pubblicarono dalle parti molti atti e documenti, che riuniti assieme formano ben quattro volumi in quarto, ove discendesi a molti intimi particolari sopra la vita dei litiganti, in relazione al punto della controversia, e costituiscono una indecentissima pubblicazione, tanto che al suo confronto i più osceni racconti dei novellieri sembrerebbero trattati di morale. I olto ciò, sono di molto interesse per farci conoscere infinite particolarità sulla vita ed i costumi delle ricche famiglie nobili genovesi, e sull’ ibrida educazione che davasi alla gioventù maschile di quei tempi. Per quel che riguarda poi le donne e le cose femminili, ci apprendono come la Principessa era usa andare spesso a Pegli da Genova a cavallo in abito maschile, comprovando con ciò quanto si sa anche da altri riscontri che le donne allora spesso si compiacevano di cambiare abito indossando quello del sesso forte, per cui diversi anni prima avevano trovato molto dilettevole in carnovale travestirsi da abatini, e così andare galantemente a trovare le loro amiche per la città. Apprendesi pure dai detti atti che il Principe e la Principessa nei reciproci discorsi davansi sempre del voi, come costumossi ancora dai nostri nonni, che nelle lettere scritte quando non era in rotta con lui, la Principessa si sottoscriveva sempre devotissima serva od usava altra dichiarazione consimile, donde appare che nelle intime relazioni avevano gran parte le convenienze a pregiudizio dell’affetto. E ciò oltre molti altri dettagli, che presi isolatamente possono sembrare inutil cosa, ma nel loro assieme servono a darci GIORNALE LIGUSTICO 211 la fisonomia di quei tempi, e che io ommetto per non dilungarmi di troppo dall’ argomento. Le donne restando vedove oltre al ricupero delle doti ereditavano, in forza delle antiche consuetudini di Genova, il terzo sui beni del marito, avessero o no figliuoli. Questa disposizione, secondo scrive il Varagine, fu abolita nel 1143 , onde le donne acerbamente se ne dolsero come di cosa ad esse pregiudizievole, per cui a compensarle del danno, fu stabilito che le dotate in meno di dugento lire dovessero ereditare sull’asse del marito quanto corrispondeva alla metà della dote, e avessero cento lire senza più le altre che erano dotate in somma maggiore. La qual disposizione si chiamò legge dell’ antefatto : parola di cui, come dissi più sopra, si ha già notizia da atti del 1130, e che fu adoperata al caso presente in cui si regolarono sopra nuove basi i diritti della moglie all’eredità del marito, mentre prima non indicava che le donazioni fatte dal medesimo a cagione delle nozze, le quali pure rimasero in vigore, non dovendo la legge dell’antefatto legale essere applicata che in mancanza del convenzionale. Oltre a ciò, le donne avevano diritto sulla eredità del marito ad una somma per procurarsi le vesti λ edo-vili; la quale somma, secondo lo Statuto, non poteva eccedere in Genova lire venticinque e nel resto del dominio lire cinque. Ma la vedova colla restituzione delle doti e dell antefatto non acquistava la piena libertà di disporne; chè ad ogni atto, anche di semplice procura, occorreva, come già dissi, la presenza di due parenti giuranti che l’atto non era a lei di pregiudizio ma di vantaggio. In manianza di parenti, perchè lontani dalla città e da un dato raggio di miglia all’intorno, 0 perchè essendo essa bastarda o liberta non ne avesse, erano chiamati 1 vicini. I quali pure potevano intervenire con autorizzazione del giudice, GIORNALE LIGUSTICO ove i parenti per qualche ingiusto motivo si fossero rifiutati. In somma, il solo atto che le donne potevano fare durance tutta la loro vita, senza tale controllo, era il testamento, giunte che fossero all’età legale, e ciò sino che fu in vigore lo Statuto genovese. Come a tutti è noto, il passare a seconde nozze, disciolti dalla morte i primi legami, non era nei primi tempi guardato dalla Chiesa con occhio benevolo, sembrando contrario all’ideale del perfetto cristiano. E questo tanto più per le donne, le quali particolarmente lodavansi se perservavano in istato vedovile conservando fede al defunto marito. Di ciò porge testimonianza Tertulliano, il quale a dissuadere sua moglie dal rimaritarsi rimanendo vedova, dice che la disciplina della Chiesa ed il precetto dell’Apostolo che proibisce di sollevare i bigami alle dignità della Chiesa e che vieta sia ordinata una femmina maritata due volte, fanno vedere quanto le seconde none pregiudichino alla fede e facciano ingiuria alla santità. Se a questa ragione religiosa si aggiungano quelle di interesse, pei figli od i parenti del primo letto, i quali dalle seconde nozze dei genitori possono trovar motivo d’ essere pregiudicati, non fa meraviglia che i secondi matrimonii, in regola generale, fossero fatti senza le consuete solennità dei primi, ma il più spesso quasi cosa rea, di soppiatto, onde togliersi in certo modo alla vergogna inerente ad una mala azione, ed alle risa ed ai motteggi degli interessati e dei curiosi. Da ciò è facile comprendere come sia nato, e quanto sia antico il costume, tuttora vivo fra noi nel volgo e nelle campagne, di fare una serata di chiasso, o, come dicesi, di suonar le tenebre con pentole, caldaie, ed altri arnesi di metallo o di cotto, sotto alle case dei vedovi passati a seconde nozze, imponendo loro talvolta una taglia se volevano liberarsene. GIORNALE LIGUSTICO Di parecchie di tali serate abbiamo memoria, per Γ occasione che diedero di far rinnovare i decreti che le proibivano, o di punire gli eccessi che ne scaturivano; ma l’essere sopravissute sino a noi, mostra che 1’ uso era antico, radicato nel popolo, ed ispirato da principii religiosi e da interessi materiali. Fra tutte è notevole quella fatta nelle vicinanze di Banchi nell’aprile del 1498, al dottor Francesco Marchese sposo di Marietta Zaba, vedova di Abramo da Campofregoso, avendo la grande popolarità di cui godeva questo insigne giureconsulto, il quale serviva il Comune ed i privati coi suoi consigli e colle sue opere, grandemente contribuito a fare più solenni il chiasso ed il tumulto. Le carte criminali poi segnano molti processi che dalle tenebre avevano origine, perchè spesso o i tumultuanti trasmodavano, od i mariti irosi scendevano a vie di fatto contro i medesimi, onde nascevano violenze, risse ed uccisioni. Nè solo per una sera durava l’infernale concerto, chè spesso si ripigliava per alcune altre di seguito, con quanto maggioi apparato di ridicolo vi si poteva aggiungere. Ed ove ciò non bastasse, talora i rimaritati, passando per la città o soli od assieme, erano trattenuti da tristacci che volevano far loro pagare una multa 0 pedaggio, colla minaccia di impegnarli in qualche ridicola burla. Cosi avvenne nel 1690 ad una donna, rimaritatasi con un vedovo, la quale nelle vicinanze di Soziglia, fu da quei facchini fermata colla intimazione di sborsare lire cinquanta se non voleva esporsi ai loro dileggi. E poiché ìifiutossi di pagare la taglia, nonostante che gridasse e si dibattesse, venne posta a forza sopra di un asino, tolto ad un erbaiuolo del Bisagno che di là a caso passava, e condotta per la citta in mezzo ad un gran concerto di corni, paiuoli, caldaie ed altri diabolici istrumenti. Per questo si fe’ d’ordine della Signoria un processo; e, 314 GIORNALE LIGUSTICO come segnano le carte criminali del tempo, ben sedici imputati comparirono innanzi ai giudici, i quali condannarono i rei a varie pene, ed alcuni persino alla galera. Altro fatto gravissimo furono pure le tenebre suonate nel gennaio 1699 per le nozze del magnifico Giovan Luca Pinelli, nelle quali oltre il solito tumulto, si passò a vie di fatto contro la costui persona, che fu tolta di portantina, furono strappazzati e battuti i facchini di questa, e commessi altri eccessi, sotto gli occhi di molto popolo e di non poca nobiltà. Pare anzi che alcuni di questa vi avessero una mano, onde il Governo nella tema che ne nascessero odii ed inimicizie fra le famiglie, capaci di danneggiare la cosa pubblica, si diede gran premura di calmare gli animi eccitati, e mettere come si suol dire una pietra sopra 1’ occorso. I discorsi però ed i pareri espressi nei consigli della Signoria in occasione di questo fatto furono moltissimi; e nelle varie opinioni emesse sulle deliberazioni a prendersi in proposito, non mancano coloro che mentre biasimano gli eccessi ed i trasmodamenti, approvano in massima la costumanza delle tenebre e vogliono permesso un po’ di chiasso, ritenendolo come freno al rimaritarsi, considerato da essi nel senso primitivo della Chiesa quale azione non lodevole. Ma le tenebre, cagione quasi sempre di gravi disordini, non furono mai d’impedimento alle seconde nozze di quelli che vi trovavano il loro tornaconto; delle vedove specialmente le quali, se ancora giovani-, sono esposte a mille pericoli ed in genere hanno molto maggior voglia di maritarsi che non le fanciulle, per cui, come trovo segnato nelle pagine del già citato Gio. Andrea Spinola, a quei tempi formavano la disperazione dei confessori. Nè è da ommettersi che spesso per molte il rimaritarsi era necessità, onde avere un appoggio a far valere i loro diritti pel ricupero delle doti e dell’antefatto, contro la ingor- GIORNALE LIGUSTICO 3*5 digia dei parenti del defunto marito che ne le volevano privare, specialmente se non eranvi figliuoli, aiutati in ciò dalle sottigliezze dei legulei, giacché se è antica la massima della giustizia che i legali debbano proteggere e difendere gli orfani e le vedove, più antico ancora è il costume fra i legali ed i non legali di mangiarsene le sostanze. III. Delle donne nelle chiese, nelle processioni, nei monasteri. La donna in tutte le religioni occupa un posto prima del-Γ uomo. Essere debole com’ è naturalmente deve attingere dalle pratiche religiose quella forza nelle sventure, quei conforti nei dolori, quella ispirazione nelle incertezze della vita che talora non può altrove procurarsi. D’ altra parte essendo per natura e per educazione molto più impressionabile dell uomo, trova presso di lei facile accoglimento ogni pratica devota. La Chiesa dà al sesso femminile Γ epiteto di devoto, leggendosi nell’ ufficio della Madonna preghiera prò devoto femineo sexu, e se noi entriamo nelle chiese vediamo che la maggioianza dei frequentatori si compone di femmine. Non è a credere però che il solo principio religioso attragga le donne alle sacre funzioni; chè queste specialmente, in antico, procacciavano loro anche un po di svago. Imperocché quando le donne erano tenute più schiav e, che di rado uscivano, e facendolo lo dovevano con mille riguardi, ogni occasione che loro permettesse con una scusa onesta e lodevole un po’ di divertimento, l’abbigliarsi oltre il consueto, andare a vedere ed a farsi vedere, rompere ìn-somma, come suol dirsi la monotonia della vita, era da esse colta e graditissima. Sino alla fine del secolo scorso le porte delle case si chiudevano sull’imbrunire, cioè all’ave maria, e fra questa e 3ï6 GIORNALE LIGUSTICO Γ una di notte tutti i galantuomini rientravano alla loro abitazione. Genova era completamente al buio, ed i soli lanternini che ardevano innanzi alle sacre imagini illuminavano di fioca e rara luce i tortuosi vicoli della nostra città. A quell’ora le donne in attesa del padre, del marito, del fratello, dell’amante, erano tutte alla finestra, o chiacche-rando colle vicine, o recitando il rosario, o facendo dir le orazioni ai bambini. Spesso laddove sorgeva una sacra immagine, si faceva o la novena od il triduo, dando cosi occasione alle donne, particolarmente del popolo, di soffermarsi sulla porta o di scendere assieme alle altre del vicinato nel trivio, a recitare le litanie od altre preci, mentre le più riservate, potevano loro far coro, dimorando oltre il solito alla finestra. Cadendo poi i titolari delle imagini, quelle che le avevano in cura si affaccendavano in andar di porta in porta ad accattar olio ed elemosine per convenientemente ornarle ed illuminarle : incombenza tanto più gradita in quanto che dava loro Γ opportunità di gironzare attorno, di ciarlare con questa e quella, e di saper qualche fatterello sul conto dei vicini e delle vicine. Onde non dee far meraviglia il gran numero delle Madonnine e dei santi che conservossi lungo le vie di Genova, sino ai dì nostri, innanzi ai quali brillava una lampada mantenuta a spese dei vicini, ispirati dal religioso sentimento, ed anche dal vantaggio reale che in una città priva di illuminazione arrecavano quei lucignoli accesi, spargendo un po’ di chiarore ne’ dintorni. Di tal guisa erano difese le porte dai ladri, e si provvedeva alla sicurezza dei cittadini che per quache occorrenza avessero dovuto uscire di notte. Altra occasione poi alle donne per farsi alle finestre o per andar fuori, offrivano il passaggio del viatico, e specialmente le processioni. Pel primo, se di giorno, quelle che lo potevano, GIORNALE LIGUSTICO lasciata ogni altra faccenda, andavano ad accompagnarlo; se di notte correre alle finestre e collocarvi le accese lumiere era Γ uso generale. Intanto le donne si toglievano alquanto dal-l’usato lavoro, e trattenendosi ai davanzali per attendere il ritorno della pia comitiva potevano far quattro chiacchere colle vicine. Per le processioni poi la era una vera festa. Nelle case sotto le cui finestre dovevano passare, radunavansi parenti ed amici, le vie erano gremite di popolo d’ ogni condizione e d’ogni sesso; una o più file di seggiole si apprestavano lungo le stesse a chi di casa non poteva godere della festa, ed a mille altri incidenti desiderati spesso dalla gioventù; le sacre immagini brillavano per molti ceri accesi e per istraordinarii ornamenti; per le piazze, ove si ergevano ricchi altari, ai quali soffermavasi talora il clero a dare la benedizione, suonavano musicali concerti; l’atmosfera era impregnata da un olezzo inebbriante di fiori, che le venditrici distribuivano attorno a mazzetti e spiccati, sia per adornamento della persona, come per spargerli sulla processione; e nella maggiore libeità che nasce dalla generale confusione e dalla comune allegria, le donne, i fanciulli e gli innamorati erano quelli che più profittavano. Era invero un attraente spettacolo quella confusione di popolo brulicante, quella miriade di teste affacciatesi dalle finestre, dai poggioli, dai tetti, adorni di arazzi, di damaschi e d’altre ricchissime stoffe, ove fra tutto distinguevansi in grandissima maggioranza le femminili sembianze nelle più vaghe acconciature, sparger manate del tradizionale fiore di finestra, di rose, e di margherite sul sacro corteo, non dimenticando i profani dai quali volevano essere osservate. Le fanciulle anticamente prendevano gran parte nelle prò- cessioni e nelle ccisciccic. Nelle diverse processioni fatte in aprile del 1507 d oidine GIORNALE LIGUSTICO di Paolo da Novi, a fine di ottenere da Dio aiuto in quoi politici trambusti, intervenivano numerose le fanciulle. I bandi fatti per invitarle prescrivevano che vi dovevano andare quelle da dieci anni in giìi ed avere il capo coperto. Ma a nulla valsero le loro preci, che Luigi XII poco tempo dopo prese Genova, ed un numeroso stuolo di esse attendeva piangendo il vincitore sovrano nella chiesa di S. Lorenzo per supplicarlo ad usare misericordia alla conquistata città. Da quest’ ultimo fatto altri volle che avesse principio fra noi 1 uso di mandar le fanciulle vestite da pellegrine nelle casaccie. Ma da diversi indizi sembrerebbe più antico di questa epoca, e forse derivato da vetusti riti delle processioni pagane. Le casacce in origine, come a tutti è noto, processioni di penitenza, si ridussero negli ultimi tempi a spettacolose rappresentazioni, ove si faceva gran sfarzo di sontuosi apparati e di ricchi vestiarii. Ancora nel secolo XVII vi intervenivano le donne e le fanciulle vestite di sacco, le quali così travestite andavano a visitar le chiese nella città e nel contado. L’anno 1688 ebbero luogo molte di tali processioni, e nacquero disordini offensivi pel buon costume ; onde la Signoria dovette tenerle d’occhio, tanto più che si temeva volessero alcune uscire dalla città per andare nei vicini villaggi, attrattevi dalle prediche del padre Segneri, causa di non pochi tumulti, specialmente a Nervi, per cui fuvvi nei consigli del Governo chi proponeva di imbarcare e trasportar senz’ altro fuori Stato il popolare predicatore. Le fanciulle nelle processioni e particolarmente nelle casaccie in abito da pellegrine, cantando adatte canzoni, si mantennero in Genova sino ai primordi di questo secolo, e continuano tuttora nel contado, specialmente nei grossi borghi, ove vanno pure le donne d’ogni età, e veggonsi non solo in tal foggia travestite, ma figurano ancora da Madonne GIORNALE LIGUSTICO e da sante nelle diverse attitudini in cui le rappresentano più comunemente i pittori. Nei secoli scorsi si soleva ancora mandarle in qualche modo più o meno sacro travestite, a raccogliere elemosine per straordinarie funzioni religiose. E ciò fecesi per quelle della Madonna della Fortuna l’anno 1636, in cui andarono attorno due fanciullette vestite da angioli, come scrisse il buon priore della chiesa di S. Vitto. Oltre le processioni, anche le altre feste religiose erano gradite occasioni per le donne di godere una maggiore libertà, e di uscire oltre il consueto. Fra tutte solenne ne’ secoli scorsi era quella di S. Giovanni Battista; chè allora luminarie, fuochi artificiali, falò, ed in'tempi più antichi in Campo dei fabbri, 1’ attuale Campetto, straordinari giuochi e sollazzi. Inoltre, ciò che meglio importava, era conceduta permissione alle donne di portar monili e collane, vestir sete .ed altre stoffe usualmente vietate dalle leggi suntuarie. La chiesa pertanto e le funzioni religiose erano ne’ tempi scorsi il luogo di convegno generale: chi voleva vedere una donna od una fanciulla, anche delle più riservate, era sicuro che alle sacre funzioni aveva occasione di vederla. Da ciò l’uso degli uomini di fermarsi sul piazzale per veder le donne accorrere alle chiese, riservandosi essi ad entrare all’ ultimo scampanellìo, come oggi ancora possiamo osservare nelle campagne. Le donne nelle chiese, come ogni volta che uscivano fuori andavano velate, 0 col capo in qualche modo coperto. Questo è un uso antichissimo fra i cristiani, e che molto bene si confà alla naturale timidezza ed al pudore che sono il più bello ornamento delle femmine. Ciò non tolse però che la moda qualche volta fosse più potente, se e veto che nel 1407 andata in disuso cotesta costumanza, fu poi ripigliata per le esortazioni e le prediche di S. Vincenzo Ferreri. 320 GIORNALE LIGUSTICO Da questa epoca vogliono alcuni che abbiano avuto origine quei veli bianchi trasparenti detti pe^jotti, e quelli altri più fitti chiamati melari, che portavano tanto bene le donne genovesi, dei quali non possiamo che lamentare la decadenza, e per la città la quasi totale disparizione. Che però cominciassero allora non sembrerebbe conforme al vero, avendosi memorie di veli per capo, di mezzari e d’ altri tessuti consimili molto prima dell’ epoca succennata. Neppure è a credere che da S. Vincenzo Ferreri in appresso le donne siano andate in chiesa sempre col capo coperto dal mezzaro o dal pezzotto. Nel secolo XVI e specialmente nel XVII, epoca di grande decadimento morale, le dame portavano il capo così straordinariamente acconcio con fiori d’ogni foggia, da superare al paragone la moda d’oggigiorno ; e adorne in tal guisa, e talora col seno e le braccia scoperte, recavansi alle sacre funzioni. La Signoria dovette spesso occuparsi di questo abuso; e le carte di quei tempi deplorano come le chiese, più che case di orazione e di raccoglimento, avevano aspetto di Jeste da ballo. Un’altra costumanza generalmente biasimata, e che fu causa di molti ragionari nei consigli di allora ed anco lungo tempo appresso, si era quella di far sedere le donne a’ banchi nelle chiese per raccogliere le offerte dei fedeli. Questa ha origine dai raccoglitori o questori delle indulgenze, cagione di tante perturbazioni in Europa nel secolo XV, e eh’ ebbero nel successivo quelle funeste conseguenze che tutti sanno. Essi ponevano i loro banchi nelle chiese e vi facevano assistere alcune giovani e belle donne, le quali chiamavano i fedeli e li invitavano a deporre le loro offerte in vassoi innanzi ad essi collocati, presso a poco come ora si usa dagli amministratori di qualche opera pia, alle porte dei teatri o dei pubblici stabilimenti in occasione di qualche straordinario spettacolo destinato a beneficenza. GIORNALE LIGUSTICO 321 Il sinodo del 1567 vieta con acerbe parole questa costumanza, proibendo alle donne che avessero meno di cinquan-tacinque anni lo assistervi. Ma quello del 1609 è più largo concedendolo a quelle di quaranta. Tali provvedimenti però o per poco furono osservati, o rimasero senza frutto, chè spesso negli anni seguenti i Collegi si dovettero occupare di questa faccenda, ove le donne della nobiltà erano quelle che davano il pessimo esempio. Da molti biglietti di calice, che chiamavano l’attenzione del Governo sopra tal fatto, si conosce come veramente doveva essere uno scandalo vedere giovanette spiritose con attorno una corona di giovinotti simili ad esse, elegantemente e spesso ancora poco modestamente vestite, sollecitare le elemosine da questo e da quello, chiaccherare, far chiasso ed amoreggiare come se fossero state ad un festino. Il più curioso dovea essere nel secolo XVI, se, come lo tanno supporre diversi indizii ed alcune espressioni della lettera pastorale di monsignor Bosio, le donne ai banchi con una verga in mano battevano gli offerenti, come ancora usano a Roma i penitenzieri nella basilica di S. Pietro, aiutando così il collettore delle indulgenze nella rimessione del peccati. Ma usassero o no della verga sulle spalle dei fedeli, è certo che le donne furono di grande aiuto ai questori delle indulgenze, i quali raccolsero somme enormi in prò’ della fabbrica della Basilica vaticana. I Collegi, a’ 16 di settembre del 1681, sulla relazione degli Inquisitori di Stato proibivano alle donne minori di cinquanta anni di assistere ai bacili in alcuna chiesa, escluse però la cattedrale e quella delle Vigne, per le quali volevasi una speciale licenza ; e vietavano che intorno ad esse potessero stare altre donne, se non erano di simile età. Imperocché, ad eludere le proibizioni, accadeva spesso che le donne di età matura vi andassero contorniate dalle figlie, dalle nipoti e da altre giovani. ©!ork. Ligustico, Anno V. 21 GIORNALE LIGUSTICO L’ uso però ο Γ abuso di far assistere le donne ai vassoi nelle chiese, specialmente in quelle delle monache, continuò sino al cadere del secolo scorso ; ed una reliquia ne abbiamo nelle chiese di campagna, ove in certe solennità vi seggono ancora, ed ove vanno attorno durante la messa a raccogliere con un piattellino in mano le offerte. L’ antica disciplina cristiana voleva che le donne in chiesa restassero separate dagli uomini, e ciò praticavasi in Genova e nella Liguria; anzi nelle nostre campagne tuttora si osserva. Le donne quasi sempre sono alla sinistra degli uomini; in qualche chiesa però veggonsi a destra. A Genova le fanciulle andavano in particolari logge o tribune che sorgevano nelle chiese principali, e che furono demolite d’ordine di Monsignor Bossio nel 1582, perchè sulle pareti delle stesse, aveva trovato scritti versi amorosi e motti indecenti. Ma la separazione degli uomini dalle donne già più non si usava, ed immense sono le lamentazioni che per la promiscuità degli uomini e delle donne nelle chiese si trovano registrate fra le carte di quei tempi. Le cose infine giunsero a tal punto, che il Governo dovette mantenere delle spie in tutte le chiese coll’ incarico speciale di sorvegliare questo e quella, di badare ai convegni che vi si davano, onde ammonire in prima, e poscia punire di relegazione chi dava occasione di scandali. Curiosissimi sono questi rapporti che impinguano parecchie filze del nostro Archivio di Stato, ove vengono indicate signore nobili e cittadine, patrizi e mercanti, preti, frati ed artigiani, persone insomma d’ogni classe sociale. Ma poco o nulla giovavano i provvedimenti del Governo, chè gli scandali continuavano. E nel 1684, quando la Repubblica si trovava in cattive condizioni per la prepotenza del re Luigi XIV, qualche anima pia volle appunto vedervi una punizione di Dio per i peccati de’ genovesi, ed in ispecie per giornale ligustico quelli derivanti dalla miscela degli uomini e delle donne nelle chiese, onde fu fatta proposta di collocare in esse una sbarra che corresse da cima a tondo, affinchè, dice la relazione, assolutamente restassero separati gli uomini dalle donne, come usasi in molte citta d’Italia, in qualche luogo del dominio, ed anche in Genova ne’ tempi andati. La proposta fu presa in considerazione ed approvata dai Collegi addi 13 settembre di quell’anno, con riserva di parlarne all Arcivescovo per porla ad effetto. Ma non pare che lo fosse, perchè in novembre dell’anno seguente trovansi nuove disposizioni ed ordini per tal pratica. E credo che anche allora i nostri governanti preoccupati dalle politiche faccende poco curassero tal pratica, 0 che posta in esecuzione durasse poco tempo. Oltre a ciò verso questi anni e nei seguenti trovo segnato che vi erano donne, le quali ammantate di falsa devozione usavano frequentare le chiese per avvicinare e sedurre le fanciulle inesperte lasciatevi talora sole, come in luogo sicuro, dai parenti; onde più volte il Governo ammoniva i rettori delle chiese a non permetterne l’apertura prima della suonata a giorno della campana della cattedrale, e di vigilare perchè le sacre funzioni non si protraessero a notte avanzata. Ma furono quasi sempre parole al vento. Le dame della nobiltà nel secolo XVII cominciavano a volere nelle chiese delle sedie speciali, sia in cappelle particolari come altrove, ed all’inverno cuscinetti e tappeti a difendersi dal freddo. In ciò furono presto imitate dalle non nobili, onde le chiese erano ingombre, ed il Governo non tardò a proibire le sedie nelle chiese. Ma 1’ abuso continuò; e la Signoria ad orni istante interveniva con i suoi decreti. O & Di questi indicherò quello del ifa aprile 1660, con cui si ordina ai Padri di S. Siro di togliere il tappeto e le sedie poste in altra delle capelle di quella chiesa per la principessa 324 GIORNALE LIGUSTICO D’Oria; e l’altro del 18 agosto 1716 che tollera provvisoriamente lo strato di velluto, i cuscini e Γinginocchiatoio posti in S. Francesco di Castelletto per la principessa Orsini, con l’avvertenza di vigilare affinchè non si estendesse tal uso alle altre chiese. Ma le donne trovaron modo di eludere le disposizioni della Signoria, e se non potevano aver sedie fisse e particolari, ogni volta che andavano in chiesa ne erano provviste dai sacristani e dai chierici mercè una tenue moneta; cosicché l’uso delle sedie, nonostante le reiterate proibizioni governative col finire del secolo XVII divenne generale, ed O · ora entrato nelle abitudini comuni, costituisce una fonte di reddito non indifferente per le chiese, che lo fruiscono talora dandolo in appalto e talora in economia. Sulle donne nelle chiese osserverò ancora due cose. Primo, che verso il 1660 molte delle classi elevate in occasione della morte del padre, del marito o d’altro loro stretto parente, stavano qualche settimana rinchiuse in .casa, non uscendo nemmeno per ascoltar la messa alle feste, quantunque T autorità religiosa segnalasse questa trascuranza come un grave abuso. Secondo, che intorno ai tempi medesimi le signore della nobiltà volevano che le non nobili loro cedesseio il posto migliore nelle chiese. Tale pretesa pero fu causa di qualche inconveniente; chè molte signore del secondo oidine, pei ricchezza, fasto ed alterigia procedenti di pari passo colle patrizie, non volevano a queste mostrarsi inferiori ed apertamente si rifiutavano. Il quale spirito di resistenza, unitamente ad altre tendenze a liberarsi dalla supremazia della nobiltà che chiaramente si palesano nel secolo X\ II, menti e appunto questa voleva in tutto essere contraddistinta e separata, vanno notate fra i sintomi precursori della rivoluzione che la detio-nizzava nel secolo seguente. Ora alcunché delle donne ne’ monasteri, cioè delle monache. La prima notizia che di esse si abbia in Genova, si rite- GIORNALE LIGUSTICO risce al 969 , ed è di certa Sarra 0 Serra abbadessa nel monastero di S. Stefano. Altre scritture ce ne indicano alcune che, versoli 1109, abitavano in case particolari presso gli orti di S. Andrea. Ma sia fossero in queste come nei monasteri, non essendo soggette a clausura, le monache uscivano e rientravano a loro talento, ricevendo le visite di chi meglio volevano. E poiché, rispetto a molte, il loro stato era una conseguenza delle condizioni sociali dei tempi, più che di una vera ispirazione religiosa, non devono far meraviglia gli scandali gravissimi cagionati dalle monache. A questi accennano innumerevoli documenti dei nostri archivi , e la sollecitudine dei governanti in porvi riparo, ricorrendo anche all’ autorità dei Pontefici perchè provvedesse. Infatti molte disposizioni furono emanate dalla Santa Sede, e sulla fine del secolo XV si decretava che tutte le monache fossero ristrette in clausura. Le opposizioni fatte dalle monache a tali saggi provvedimenti furono moltissime, sostenute anche qualche volta dai religiosi degli istituti maschili da cui esse dipendevano, onde scorse gran tempo prima che le cose procedessero a dovere. E certo non erano ancora sulla buona via nella prima decina del secolo XVI. In una predica fatta verso il 1506 nella chiesa di S. Maria di Castello, il Padre Silvestro Prierio, allora priore di quel convento, e che fu poi tra i teologi consultori del Concilio di Trento, dopo aver detto che le fanciulle erano molto facili a darsi a turpi amori, mentre per coprire la loro vergogna uccidevano i parti gettandoli nelle cloache, accusa dello stesso peccato le monache, e chiamai monasteri: monasteria diabuli, qua sunt turpissima lupanana, digna milies igne. Anche da un breve di Papa Clemente VII, in data del 25 novembre 1529, emanato sulle istanze della Signoria, ap- 326 GIORNALE LIGUSTICO parisce come allora le monache lasciassero molto a desiderare per la troppa frequenza e famigliarità con estranei, per cui si provvede onde vi sia posto riparo. Dalla iniziativa presa dal Governo ne’ secoli scorsi per la riforma dei monasteri femminili, ebbe origine uno speciale magistrato cittadino intitolato delle monache, al quale nel secolo XVII fu addossato Γ incarico di provvedere a quanto ad esse si riferiva, e che continuò sino al cadere della Repubblica. Lo stesso invigilava anche per mezzo di spie, altre delle quali, come già dissi per le chiese, incessantemente soggiornavano attorno ai monasteri, onde male usanze non vi si introducessero e le cattive si estirpassero. E per questo ebbe moltissimo a fare; imperocché se a poco a poco le monache si ridussero a clausura ed i più gravi scandali cessarono, non è a credere che finissero del tutto. Molti sono gli incidenti ai quali anche dopo la clausura diedero causa le monache, e di cui il magistrato si dovette occupare. Ma di questi eccessi, giova ripeterlo, non devono incolparsi tanto le povere monache quanto le istituzioni ed i tempi. Esse erano le vittime di questi, chè la maggior parte prendevano il velo prive di vocazione, e poi nei monasteri conservavano troppe relazioni col mondo esteriore. Già dissi nella prima parte di questi appunti della molta gente che accorreva ai parlatorii delle monache: fratelli, parenti, amici vi erano giornalmente. A ciò si aggiunga che i conventi accoglievano fanciulle in educazione, alcune delle quali destinate a marito, per cui spesso e pretendenti e fidanzati erano chiamati a visitarle. E tutto sugli occhi delle povere recluse! La più parte poi, lo ripeto, eransi fatte monache senza averne la yocazione, e se non veniva adoperata un’aperta violenza per far loro prendere il velo, i mezzi morali erano stati largamente usati per questo. Da bambine frequentavano i mona- giornale ligustico steii ov et ano messe in educazione; aggiungansi i consigli di taluni confessori, le carezze e lusinghe delle monache, ed una ignoranza completa di tutto che s’appartenese al mondo. Tutti gli autori ed i documenti sono concordi su questo, e gli atti pubblicati in Roma nel 1740 per la causa di nullità della professione di suor Paolina Franzoni ci chiariscono del come. Questa povera fanciulla era stata da bambina destinata dal padie al monastero , perchè egli voleva lasciar ricca la pi imogenita maritata in Durazzo. Ma finché visse la madre la cosa non ebbe effetto, opponendovisi essa la quale conosceva come la ragazza non avesse vocazione pel chiostro. Morta però la genitrice, il padre col pretesto di porvela in educazione ve la fece entrare, ed il modo va segnato. Il Franzone mandò la figlia a visitare la madre abbadessa ed altre suore del monastero di S. Leonardo, dove egli aveva qualche ingerenza, per esserne dei protettori, e mentre essa chiaccherava a quella porta avendo in braccio una sua ca-gnuola che mai l’abbandonava, le monache a modo di scherzo gliela presero, fingendo volerla tener secoloro; onde la fanciulla congedandosi per andar via, invitata dalle monache che le dicevano : se volete la cagnolina venitela a prendere, per riavere la sua bestiuola varcò di qualche passo quella soglia fatale, di cui le suore si affrettarono a chiuderle la porta dietro le spalle. Pianse, supplicò, ma fu invano; e solo cal-mossi alquanto alla promessa che eravi posta per starvi in educazione. Aveva allora poco più di tredici anni. Entrata in monastero, tutte le arti furono messe in opera per indurla a monacarsi. Essa non ebbe abbastanza di forza per resistere: a diciasette anni faceva rinunzia dei beni, a diciotto solennemente professava; e gli arcadi poeti che non mancano mai nelle solennità nuziali e religiose, belarono sonetti ed anacreontiche, applaudendo alla forte giovinetta 328 GIORNALE LIGUSTICO che fuggiva le insidie e gli errori del mondo. Ma la disgraziata di mondo e d’ altro sapeva proprio nulla affatto. Quel che fa più pena poi e disgusto, e segnala la nequizia dei tempi, si è che quando morto il genitore, essa intraprese la causa per veder dichiarata nulla da Roma la sua professione, chi più di tutti le appariva nemica, e sorgeva con tutti i mezzi a contrastarla, era la propria sorella Paola Durazzo madre di Marcello il doge futuro. Io ho accennato la storia di questa monaca, perchè è storia di molte altre per le quali la vita fu una serie continua di dolori, di sacrifici, di martirii. Ma ad onore del vero e per debito di giustizia,, è da avvertire che non in tutti i monasteri si manifestavano gli scandali che di sopra ho accennato. Essi erano, si può dire, comuni agli antichi e rarissimi nei nuovi. Fondati questi da donne che avevano acquistato molta esperienza col vivere nel secolo, erano dotati di costituzioni intese a prevenire ogni occasione alle monache di farle fuorviare. Infatti severissime nella interna disciplina, non ammettevano se non donne di provata vocazione, non volevano fanciulle in educandato, non contatti o relazioni col di fuori. Le Turchine fondate dalla nobil donna Vittoria De Fornari-Strata, le Cappuccine ed altre, .si mantennero sempre in buona fama per regolarità di condotta E la storia imparziale non può a meno di serbare onorevole ricordanza e di tener nota della loro fondazione, come di una protesta contro la corruzione che serpeggiava negli altri monasteri. Negli ultimi due secoli della Repubblica, le cerimonie e le solennità della vestizione e della professione delle monache formavano un largo reddito per Γ Arcivescovo e per la sua Curia, dovendosi erogare di grosse somme in largizioni e diritti. E siccome nel secolo 'XVII, specialmente essendo arcivescovo Giovanni Battista Spinola, tutti questi diritti erano GIORNALE LIGUSTICO stati aumentati, il Governo volle intervenire per moderarli. Per cui fra le istruzioni date nel 1678 a Francesco Maria Lercaro , gentiluomo inviato a Roma per trattare di molte differenze sorte colla S. Sede sia per la sedia arcivescovile in duomo, sia per la inquisizione, se gli raccomanda questa pratica, la quale va posta assieme alle altre che contribuirono a far sì dopo poco Γ Arcivescovo rinunziasse. Dalle suddette istruzioni apprendo che in prima le monache alla vestizione ed alla professione presentavano il vicario di una doppia, d’una fiaccola e d’un vassoio di confetti, e che invece richiedevansi allora lire cento in contanti per monsignor Arcivescovo benché assente, e scudi quattro di argento al suo Vicario, oltre le mercedi delle rinunzie, degli esami, e quelle ai ministri inferiori. Di più si conosce che non poche altre ricognizioni pagavano annualmente in Curia le monache nelle elezioni dell’ abbadessa e delle altre ufficiali, in certe feste solenni e per la nomina dei loro confessori. I numerosi monasteri femminili pertanto fornivano un buon cespite di reddito, e tali si mantennero dappertutto finché le civili autorità non vennero a colpirli colle leggi di soppressione. XVI. XVII. Sezione di Archeologia. Tornate del 14 e 21 Giugno 1878. ‘Presidenza del Preside cciv. abate Angelo Sanguineti. Si dà lettura della prima parte di un ‘Ragionamento del socio Teodoro Wiistenfeld, intorno alcuni documenti Tignai -danti la storia della Sardegna nel secolo XIII. 330 GIORNALE LIGUSTICO XVIII. Sezione di Storia. Tornata del 5 Luglio jS78. Tresiden\a del Preside cav. avv. Cornelio Desimoni. Il socio Giambattista Brignardello comincia a leggere una sua monografia: ‘Delle vicende dell3America meridionale, e specialmente di Montevideo. XIX. Sezione di Archeologia. Tornata del 12 Luglio 1878. 'Presidenza del Preside cav. alate Angelo Sanguineti. Si termina la lettura del Ragionamento del socio Wustenfeld. La miglior parte degli atti sui quali poggia cotesto Ragionamento è fin qui inedita; e venne raccolta dal disserente nelle sue peregrinazioni agli archivi d’ Italia e di Vienna d’ Austria. Ne risulta meglio chiarita, e determinata pel tempo, la ribellione del conte Guelfo di Donoratico, capitano generale in Cagliari per la repubblica di Pisa, contro il suo stesso comune, e vie più si disegna il moto che davansi le città guelfe contro cotesto nido di ghibellini, e 1’ agitarsi dei genovesi per abbassare la potenza rivale in Sardegna. Richia-mansi a novello esame le vicende della regina Adelasia, e il suo ristabilimento nel giudicato di Torres; si dimostra incessante la vigilanza della Sede apostolica su gli affari dell’isola; si discutono la trattative del matrimonio di Guido di Donoratico con Elena figlia del re Enzo ; e si ragiona delle signorie acquistate in Sardegna da varie famiglie genovesi e pisane, fra le quali emergono quelle dei Malaspina e dei D’ Oria. E a proposito di questi ultimi il prof. Wustenfeld si addentra gioxnale ligustico in molte sottili ricerche, volte a rintracciare chi possa veramente essere quel Branca, che l’anima sdegnosa del grande Alighieri flagella a sangue sì come uccisore di Michele Zanche. Le conclusioni del Wiistenfeld lo identificano con Brancaleone figliuolo primogenito di Mariano, capo dei signori D’ Oria neU’isola. Del resto 1’ assassinio dovette avere uno scopo politico, da cui forse tutti costoro si ripromettevano qualche vantaggio; ed ecco perchè, nel compiere il misfatto, non fallirono a Branca gli aiuti d’un suo possimano. L’ uccisione precorre al certo la peregrinazione di Dante ai tre regni, stabilita, come ognuno sa, al 1300, ma non di molt’ anni : il poeta ne ragiona come di avvenimento notissimo a’ contemporanei ; e d’ altra parte Branca era tuttora in vita non solo nel 1300, in cui mangia e beve- e dorme e veste panni, ma nel 1321 come risulta per documenti. Similmente circa il vero essere dello Zanche la tradizione è molto confusa. Le indagini del Wüstenfeld, alle quali però egli dichiara di non voler dare altro peso che quello di una semplice proposta meritevole di svolgimento e di studio, condurrebbero a identificarlo con Michele Lanzavecchia disceso dall’ antichissima casa de’ Lancia di Monferrato ; stimando egli l’aggettivo di vecchia una designazione speciale adoperata per distinguere gli omonimi della stessa famiglia, tra i quali è pure un Lancia nigra. Checché ne sia, Michele Lanzavecchia comparisce in un documento del 1266 come capo di una delle fazioni che si contendevano il predominio nella città d’Alessandria; ed è certo, per molti atti rammentati dal Wüstenfeld, che il suo casato si trovava in frequenti relazioni coi D’ Oria. Altri documenti dimostiano ancoia che per que’ tempi non pochi nobili alessandrini solevano entrare a stipendio nelle milizie dei genovesi, e appunto in sì fatta condizione ci additano il Lanzavecchia in Sardegna. Do\e le baratterie e i raggiri politici, gli avrebbero acquistato quel 33 2 GIORNALE LIGUSTICO posto eminente di cui Dante e i commentatori fanno ricordo, provocandone in ultimo la tragica fine. XX. Sezione di Storia. Tornata del 19 Luglio 1878. ‘Presidenza del Preside cav. avv. Cornelio Desimoni. Il socio Brignardello compie ia sua lettura : ‘Delle vicende dell’ America meridionale. XXI. Assemblea Generale. Tornata del 21 Luglio 1878. Presidenza del Presidente connu. Antonio Crocco. L’assemblea dopo di avere approvate alcune deliberazioni prese dalla Presidenza, ascolta la relazione del Segretario Generale, Belgrano, sulla scoperta delle ossa di Cristoforo Colombo in San Domingo, e sulle comunicazioni state fatte in proposito alla Sezione di Storia dal cav. Luigi Cambiaso, nella tornata del 10 maggio p. p. Per evitare le ripetizioni, rimandiamo il lettore alla Relazione stessa ed al verbale della seduta, pubblicati or ora nel volume IX degli Atti della Società, pag. 583-617. XXII. Sezione di Archeologia. Tornata del 26 Luglio 1878. Presidenza del Preside cav. abate Angelo Sanguineti. Il socio Belgrano legge una sua rassegna del Codex Diplo-maticus Ecclcsiensis, raccolto dall’illustre Carlo Baudi di Vesme, GIORNALE LIGUSTICO 333 e pubblicato dopo la costui morte nel tomo XVII dei Monumenta Historiae Patriae. — La rassegna comparve poscia a stampa nell’ Archivio Storico Italiano per Γ anno corrente, vol. II, pag. 139-53. XXIII. Assemblea Generale. Tornata del 4 Agosto 1878. Presidenza del Presidente comm. Antonio Crocco. Si procede alla nomina d’alcuni soci effettivi. Il Segretario comunica Γ elenco delle opere pervenute in dono alla Società nel primo semestre dell’armata 1878. Il Presidente legge il discorso di conclusione del ventunesimo anno accademico. Constata, rallegrandosene, che non fu infecondo di buoni frutti per la Società, e sopra tuttodì autorevoli e sommamente onorifiche testimonianze di plauso; augurandosi che queste giovino d’impulso a vieppiù mostrare la buona voce che corre dell’ Istituto e il favore ond’ esso è riguardato. Esorta tutti perchè si adoperino a questo scopo, ed in ispecial guisa coloro cui sorride l’età fiorente, i quali forse o per indole peritosa, o perchè disanimati dalla severità di uno studio che vuole longanimi e pazienti ricerche, si astengono dal produrre alcun saggio di loro meditazioni. « Consideriamo (soggiunge) che agli studi storici non arrise mai forse un’ epoca più preparata della presente, perchè (a dirla colla scorta di un illustre contemporaneo) la geografia soccorsa dalle diligenti perlustrazioni dei cultori della scienza alla quale votarono i domestici agi, la domestica pace e la vita, appurò, corresse ogni ragione fisica e topica, allargando senza posa il campo delle ricerche, e accostandoci alla comprensione di tutta l’aiuola che ci fa tanto supeibi ». Dicasi lo stesso dell’incessante progredimento delle altre 334 Gl DRNALF. LIGUSTIDO discipline: la geologia, l’archeologia, la giurisprudenza, rispetto alle quali F oratore si sofferma in peculiar modo a discorrere ora il primato e ora le singolari benemerenze degli italiani. Così Giambattista Vico precorre alle sapienti induzioni di Giorgio Cuvier; così da Ennio Quirino Visconti, Angelo Mai e Bartolomeo Borghesi, avranno pur sempre da imparare gli archeologi e storici della Germania oggidì più celebrati, « ai quali molti degli italiani, dimentichi o non curanti del ricco patrimonio nazionale, prestano ossequio di esagerata ammirazione Rammentando le disquisizioni relative alla scoperta dei mortali avanzi di Cristoforo Colombo in San Domingo, commenda i fratelli Giambattista e Luigi Cambiaso che sovra questo argomento richiamarono l’attenzione della Società; e dice che i medesimi, sorretti e animati dalla solennità del voto emesso nella precedente adunanza dell’assemblea, posero in atto il delicato pensiero di offerire, come figli.affettuosi, alla città di Genova loro patria diletta un pugnello delle ceneri venerate, raccolte nel procedersi all’ esame di quel frale sì combattuto ed esagitato in vita ed in morte; e appunto vollero, con pensiero egualmente cortese, conferire al Presidente della Società Ligure di Storia Patria 1’ onore di accompagnarli al cospetto della Giunta Municipale. Rileva che nell’ atto formale, in cui fu dalla Giunta medesima deliberato che si tenesse memoria della patriottica offerta, venne consegnata espressa menzione della Relazione letta dal Segretario della Società nella più volte citata adunanza; e dice che il dono de’ fratelli Cambiaso rimarrà unito al Codice Diplomatico. Colombiano , religiosamente custodito da molt’ anni sotto il Busto del grande scopritore in una delle aule municipali. Conclude rinnovando la speranza consolatrice, che quel pugnello di sacra polve abbia ad essere foriero di più prezioso tesoro; e confida che, propizio ed auspice il Municipio, alla cittadina per- GIORNALE LIGUSTICO 335 tiliacia del chiedere sia forse preparato il guiderdone dell’ottenere. Legge alcuni versi di un suo componimento pubblicato fino dal 1838, Le ultime ore di Cristoforo Colombo, in cui 1’Eroe tanto glorioso e tanto martoriato dalla sventura esclama: Faccia alcun pio che la mortai mia veste Ove sortì la culla abbia ricetto. E dice: « La patria rinnoverà quel grido, ripeterà quel lamento , finché le ceneri del più grande tra’ suoi figliuoli, del portatore della cristiana civiltà al nuovo mondo, presso le ceneri del Precursore di Cristo riposino in pace ». DUE DOCUMENTI DI UN MARCHESE ARDUINO CROCIATO NEL 1184-5 Ci sono comunicati dal nostro amico e valente metrolo^o il cav. Pietro Rocca, e furono desunti dal foglio 22 del primo Libro a catena tra i preziosi membranacei dell’ Archivio Municipale di Savona. L’ Arduino a cui si riferiscono appartiene alla casa dei Marchesi del Bosco non lungi da Alessandria, dei quali parla anche Ottone di Frisinga, e dove fu ospite Federico Barbarossa. Ma que’ marchesi inoltre per ragioni di consorzio stendevano la loro signoria anche di qua dall’ Appennino a Varazze sul mare e al Castello di Stella che sovrasta sul monte, seguitati a ponente dai consanguinei Marchesi di Savona e d’ Albenga. Di Arduino e del fratello Anseimo soprannominato il Pi-scialora abbiamo notizie già dal 1173 nello stesso Archivio Savonese, con tracce del loro condominio sull’antico Rovereto dove era sorta Alessandria. Seguitano ivi stesso altre carte relative a Varazze e alla Stella de’ due predetti Marchesi con GIORNALE LIGUSTICO altri 'fratelli Azone e Delfino negli anni 1179 , 1180, 1181, 1182, fino alla partenza d’Arduino nel 1184 e alla sua presenza in Acri di Terra Santa nel 1185. D’allora in poi scompare ogni memoria di lui; donde è da credere che morì colà, mentre del fratello Azone continuano gli atti sino al 1191, di Anseimo fino al 1199 e di Delfino abbondano fino al 1216. Un documento senza data, ma importante, nel Liber Jurium (I. 551) ci mostra questi Marchesi ridotti a due: Anseimo detto Bisaccia e Delfino, aventi una eguale parte a certa pensione dalla Repubblica genovese, insieme all’altro ramo residente al Bosco e composto aneli’esso di due fratelli, Guglielmo ed Ottone. La sorella d’Arduino, Sibilla, ebbe dal marito Enrico Malocello un figlio Guglielmo, per cui passò in questa famiglia genovese parte della consignoria di Varazze. Tutti insieme poi questi Marchesi di Varazze colla madre Maria, e a gara coi consanguinei del Bosco e di Ponzone, furono liberali di donazioni ai Cisterciensi tanto della Badia di Tiglieto quanto delle Monache di Latronorio od Areneto (ora Invrea fra Varazze e Cogoleto). Non raramente importa alle storie, come si vogliono ora approfondire nei particolari, il saper distinguere Γ una dal— Γ altra queste ed altre tanto numerose famiglie di Marchesi spesso omonimi e contemporanei, che recano una confusione da non dirsi, ma che per la legge professata, per ripetizioni degli stessi nomi in famiglia e più per traccie d’antico compossesso si mostrano provenienti da pochissimi stipiti. Niuno è che non vegga di quanto gioverebbe, ove manchino notizie più positive, la conoscenza almeno della consanguineità .più 0 meno stretta fra le diverse case, i loro modi di divisione fra se e coi signori di secondo ordine; donde un qualche barlume sulle parti politiche, sugli interessi e sullo stato sociale di quei secoli confortati poco 0 nulla da cronache contemporanee. GIORNALE LIGUSTICO 337 Dello sfasciamento della Marca aleramica ho parlato nelle mie cinque lettere al Comm. Promis Sulle Marche dell’ alta Italia (Rivista Universale, Genova 1868-9) ; e più brevemente nell’altra lettera all’illustre Amari Sulla discendenza aleramica (Nuova Antologia, Firenze 1866), aggiungendo a quest’ultima un alberetto genealogico, che dallo storico ma quasi leggendario Aleramo giunge fino ai primi e certi stipiti dei Marchesi di Savona, del Bosco, di Monferrato ecc. Una serie compiuta e documentata di tutti questi Aleramici e dei loro vicini di destra e sinistra (gli Obertenghi e gli Arduinici) ci sarà data (speriamo presto) dal nostro amico, il dotto quanto acuto professor Teodoro Wüstenfeld di Gottinga. Egli avendo percorso, oltre gli Archivi e le pubblicazioni tedesche, gli Archivi d’Italia anche i municipali e minori, ha raccolto con rara tenacità un numero stragrande di documenti fino a Ludovico il Bavaro, e, mentre sta ordinandoli, con non meno rara larghezza ne fa parte agli studiosi dei paesi rispettivi; come si può vederè negli Statuti Bresciani dell Odorici (Mon. Hist. Patr., XVI), nei documenti cremonesi pubblicati .da quel Municipio per cura del eh. Robolotti, e in pubblicazioni anche germaniche, per esempio nel Kaiser Heinrich VI del Toeche (1). Scontratici anche noi in più modesta cerchia, ma nello stesso studio genealogico, abbiamo avuto la fortuna di trovarci d’ accordo con lui nelle fila principali del lavoro ; abbiamo amichevolmente discusso sui nostri dissensi a riguardo degli attacchi di qualche linea. Il più delle volte io deferiva (1) Il Prof. Wüstenfeld anche a noi fu cortese della serie dei Podestà che ressero Genova e di quelli che da Genova si recarono fuori (ved. Giornale Ligustico, 1875, pag. 375)· I documenti inediti di altri Archivi, specie i Registri Angioini, le danno un valore di cui profitteremo per la serie da pubblicarsi insieme agli Statuti Genovesi nei Monumenta Hist. Patria in società col cav. Belgrano. Giorn. Ligustico, Anno V. 338 GIORNALE LIGUSTICO al suo avviso, ma talora aach’ egli al mio ; convenendo entrambi del resto che certi attacchi sebbene non rigorosamente dimostrabili, si poteano dedurre con bastante probabilità dai compossessi, dalle eredità, dai nomi rispettivi e da altri indizi. Qualche scoperta importante dopo d’allora (come la moglie Arduinica del padre di Bonifazio del Vasto (ij e la imminente pubblicazione del Cartario d’Asti per Γ illustre Sella) hanno cagionato qualche variazione negli anelli subordinati; ma staranno inconcusse Γ unità della Marca d’ origine invano oppugnata dal Conte di San Quintino, staranno le membrature sue principali che divennero Marchesati, come erano già state recate a buon segno dal Moriondo per la parte alera-mica; come Terraneo e Carena aveano poste le basi per l’unità della Marca Arduinica: come, maggiore di tutti, il Muratori avea nonché iniziato ma condotta quasi a perfezione la prova dalla unità originaria della Marca Obertenga. Avendo noi pubblicato recentemente e quivi stesso un articolo su Bonifazio di Monferrato e un altro sui Cisterciensi in Liguria che richiamano simili notizie (2), credemmo' non inutile sottoporre al presente terzo articolo un nuovo alberetto aleramico il quale fosse, direi quasi, piuttosto topografico che genealogico: vale a dire che colla possibile brevità, omettendo nomi non necessarii strettamente, disegnasse il graduale distacco dei Marchesati sul campo generale della Marca e giungesse fino ai Marchesi nominati nei tre articoli predetti. Di qui potrassi comprendere a volo d’uccello, che la Signoria aleramica era distesa da Lucedio e Trino oltre Po fino alla (1) Ved. il Giornale Ligustico, ibid., pag. 368-75; e ci è di soddisfazione il vedere ammesso definitivamente questo punto nelle due pubblicazioni recentissime dell’illustre Carutti (Umberto I, nell 'Archivio Storico Italiano, 1878, II. 43) e del eh. Barone Claretta (Sui Signori di Rivalta, Torino, 1878 , pag. 183). (2) Ved. a pag. 220, 230, 24.1-69. GIORNALE LIGUSTICO 339 Riviera di ponente e al mare, attraverso il Po, il Tanaro, la Bormida, 1’ Orba e P Appenino ; essendo stretta a levante (ma strappandone qualche brandello) dalla Marca Obertenga o della Liguria (i); a ponente, invece riuscitole per nozze fortnnate di allargarsi ampiamente sulla Marca Arduinica o di Torino; dall’Astigiano alle Langhe, a Saluzzo e Busca, a Ceva e Clavesana, e oltre Appennino ad, Albenga e suo Comitato. La prima e durevolmente mantenutasi divisione della Marca Aleramica può stabilirsi al fiume/Tanaro, e può tuttora riconoscersi in certo modo nelle denominazioni usuali di Alto e Basso Monferrato. Quest’ ultimo, o il proprio Monferrato a tramontana del Tanaro, ebbe i suoi celebri Marchesi discendenti da Oddone figlio d’ Aleramo che ne genero altri meno celebri e più presto caduti di potere, i Marchesi d Occimiano e di Montechiaro. Da Anseimo altro figlio di Aleramo discendono le Case Marchionali, che ebbero signoria a mezzodi del Tanaro e fino al mare. E queste si suddivisero.: i.° nel ramo presto estinto di Sezzè fra Alessandria e Acqui; 2.° nel ramo che generò i Marchesi del Bosco e di Ponzone, con sottoramificazioni a Pareto, a Uxecio (Beiforte) sulla Bormida e 1 Orba, a Λ a-razze e Albissola fin presso a Savona sul mare, 3· nel ramo del Vasto o di Savona il quale, pur conservando parte del-1’ Acquese col sottoramo dei Marchesi d’incisa, fu più illustre col titolo di Savona degenerato poi in Del Carretto ; inoltre col mentovato ampliamento sui dominii arduinici genero i Marchesi d’ Albenga divenuti poi di Ceva e di Clavesana, e i (1) Rovereto (Alessandria), prima di passare nei Marchesi del Bosco , come appartenente al Comitato Tortonese era sotto la signoria degli Obertenghi (discendenti da Oberto Marchese della Liguria), cioè i Malaspina, i d’Este, i Pallavicini, i Marchesi di Massa, di Gavi e di Parodi. 340 GIORNALE LIGUSTICO Marchesi di Saluzzo e di Busca; questi ultimi con un sottoramo a Cossano sul Belbo, e col soprannome di Lancia divenuti illustri per la loro affinità con Federico II (i). Tali Marchesi, moltiplicati in si gran numero e forzati perciò a separarsi dal consorzio primitivo, colà dove non seppero stabilire la primogenitura salica (come seppero quei di Saluzzo), o dove non ebbero largo sfogo in Oriente (come ebbero i Monferrato), furono ridotti a piccoli e sprezzati feu-datarii, sospinti sempre più dall’ invadente Comune ai monti e alla campagna; presero quindi per distinguersi tra se un nuovo titolo dalla residenza rurale rispettiva; si estinsero, o durando perdettero più o meno la memoria dell’ antica origine comune. Donde parvero ai tardi ricercatori tali Marchesi sorti come per incanto dal suolo tutti insieme e negli stessi secoli XII e XIII. Si noterà infine che nell’ alberetto figurano tre Vescovi d’Acqui, San Guido, Azzone e Adalberto, appartenenti alla gran famiglia Aleramica; il che è conforme a quanto si vede nei vescovi di Savona Ambrogio e Bonifacio fratelli dei primi Marchesi Del Carretto; e a quanto si può vedere negli Ar-duinici, nei Conti di Savoia e in generale nelle famiglie signorili che a que’ tempi solevano occupare con uno di loro la diocesi rispettiva. C. Desimoni. (i) Il eh. Barone Manuel, benemerito anch’ egli di questi studi pel suo libro I Marchesi del Vasto (Torino, 1858), ebbe da me l’omaggio d’un esemplare della mia pubblicazione. Egli pur facendo alcune obbiezioni su punti oscuri e subordinati, a cui ho procurato rispondere con una lettera (la settima, ma inedita), ebbe la compiacenza di scrivermi il 25 luglio 1869: Posso ben dirle che non mi era fatto ancora un’ idea cosi chiara intorno alla formazione e costituzione di queste Marche, del loro digradamento in Marchesati, delle condizioni e vicende dei loro Marçhcsi, come dopo quella lettura (del mio lavoro). GIORNALE LIGUSTICO 34I I. Testamentum Arduini Marchionis de Bosco. Ego Arduinus filius qm. domini Willielmi Marchionis de Bosco, cum ultra mare ire debeam, de omnibus rebus meis, ne lis aliqua vel controversia inde inter fratres meos oriri possit, talem facio dispositionem. Volo in primis et est mea voluntas sic : quod ego’ relinquo fratri meo Delfino omnem partem loci qui dicitur Stella ante partem, et dono. De aliis vero omnibus bonis meis ipsum Delfinum et Azonem fratres meos mihi eredes instituo, excepto de parte mea Varazinis quam relinquo domine Marie matri mee. Res meas dimitto in potestate et guardia fratris mei Delfini dum venero. Hec est ultima mea voluntas, que si aliqua iuris solemnitate careat vim saltem codicilli vel alicuius ultime voluntatis volo quod obtineat. Actum apud Albuzolam, in pontili ecclesie sancti Benedicti, testibus ad hoc convocatis et rogatis presbitero Oberto de Stella, Jonata de Saona, Trucho eius fratre, Balduino Bavoso, Willielmo de Stella, Wilelmo Pe-debò, Simone de Bosco, Ogerio de Stella. Anno Dominice Nativitatis millesimo centesimo octuagesimo quarto, indictione I, die XII Augusti. Ego .... de Donato notarius Sacri Palatii rogatus scripsi. II. In nomine Domini Dei et Salvatoris nostri Jesu Christi, amen. Anno ab Incarnatione eiusdem MCLXXXV, indictione II, mensis intrantis marcii die XV. Notum sit omnibus hominibus tam futuris quam presentibus quod e°O Arduinus Marchisus tibi sorori mee Sibilie qm. uxori Enrici Malocelli O facio chartam donacionis, quod tibi dono castellum de Stella cum pertinendis suis et dominium sicut teneo et possideo, ad faciendum quid quid volueris et in perpetuum. Et Wilielmo monacho et ceteris meis hominibus mando et precipio ut tibi respondeant et tuo precepto sicuti mihi responderent. Actum in Accon in ecclesia sancti Laurentii feliciter. Testes Alardus Conpel, Rolandus de Carmaino, Bellemustus Lercarius, Rusignolus. Et ego Wilielmus phisicus et noarius ianuensis rogatus scripsi (1). (1) La chiesa e 1» strada di San Lorenzo in Acri era nel Quartiere dei Genovesi (ifi. Jurium , I. 412); e i presenti all’atto sono genovesi tutti 0 quasi. 342 GIORNALE LIGUSTICO Ansei.mo 991-6 -J- 99 Ugo Chierico 1014 Anselmo 1014-47 + i°55 Guido vescovo d’Acqui 1039.70 Ottone o Teto' 1062 -j- 1065 con Berta di Odorico Manfredi Arduinico, sorella della di contro celebre contessa Adelaide 1065 Bonifazio del Vasto o di Loreto 1*79-1120 (v. pag. seg.) Λ Manfredo + ”79 Enrico 1097 Adelaide con Ruggero conte di Sicilia Anselmo del Bosco iii6-1i36 Ugo 1055 Α20 vescovo d’Acqui 1106-113? Guglielmo detto Piscialora Manfredo 1131-1152 1131-73 con Maria 1192 Anselmo Arduino Azo Delfino Sibilla Bisaccia 1173 1180 U79 1184-5 1173-99 1185 1191 1216 con Enrico con Malocello Giovanna T ”8S Ugo 1178-1180 1 Guglielmino 1204 con Silombra 1210-3 Guglielmo Malocello 1186-88 a Varazze Enrico di PAreto e d’ Uxecio 120523 Bonifacio di Pareto 1206-23 I Enrico 1152 1180 Ottone del Bosco 1183 1224 Enrico Ponzio 1183 1186 1299 1202 B Marchesi del Bosco, Belforts, Pareto, Varazze, Ponzone, v- GIORNALE LIGUSTICO 343 ALERAMO Conte 934 Marchese 950 + 991- GuGLIELMO 4 961 Oddone 961 -}- 991 Oberto 1014-1034 Riprando 991-99 Guglielmo 991-1031 in Savona 1004 Guido detto di Sezzò 1030-1100 -J- 1106 Oberto 1030-1061 in Savona 1061 Adalberto vescovo d’Acqui 1065-79 Oddone Marchio et Comes Monferratensis 1040 Enrico con Adelaide Arduinica 1042-4 Alberto Adelaide Alemanno di Sezzè -J- 1106 no 6 Aleramo dL Ponzone n31-3S ! 1 Guelfo i 122-35 d’Albissola Ferraria Pietro 1152 1180 Giacomo 1180-6 Guglielmo detto di Ravenna 1059-84 in Savona 1059 Ardizzone nominato nei figli Ponzio Pietro 1209 1209 di Monferrato. Rainero di Monferrato 1101-SS I Guglielmo il vecchio i131-1187 Beatrice + 1204? con Enrico del Carretto ? con Alberto Malaspina ? Alasia con Manfredo March, di Saluzzo I17S"I23° Guglielmo Lungaspada 1171-79 con Sibilla di Balduino III Balduino V Re di Gerusal.me Corrado 1171-92 con Isabella di Balduino III Isabella con Gio. di Brienne Re di Gerusal.me 1208 Jole con Federico 11 1225 Enrico Balbo Bernardo 1135 Ardizzino U35 Guglielmo U3S Marchesi di Occimiano. Federico Bonifacio I vescovo d’ Alba 1179 1207 Re di Tessalonica con Margherita vedova di Alessio III di Costant.11 Rainero 1177-83 Re di Tessaloniea con Maria di Emm. Imperatore di Costant.11 Agnese 1204 (v Guglielmo il Giovine 1194-1225 Ρ“ΐ· s'g·) n Demetrio Re di Tessalonica 1207-22 Agnese con Enrico Imperatore di Costant.1* 1206 344 GIORNALE LIGUSTICO \ Bonifazio del Vasto o di Loreto 1079-1130 Bonifazio Marchese d’Incisa 1225-59 Ugo del Manfredo Marchese di Saluzzo Vasto 1125-75 U42 con Alasia di Monf.to Guglielmo Marchese di Busca 1125-55 Ottone Boverio o di Loreto i125-40 Anselmo di Albenga i125-40 I Enrico Bonifazio il di Guercio Cortemiglia o di 1125-1188 Savona 1125-1184 Guglielmo Bonifazio di Ceva di Clavesana 1170-1214 1194-1221 Enrico del Carretto i181-1231 con Simona di Balduino Guercio U91 con Agata del conte di Ginevra 1216 Oddone del Carretto 1181-1227 con Alda Embriaco Ambrogio vescovo di Savona 1189-1192 Bonipacio vescovo di Savona 1193 Marchesi d’incisa, Saluzzo, Busca, Ceva, Clavesana, Savona. B Guglielmo il Giovane i104-1225 Alice Bonifacio II Beatrice Regina di Cipro 1225-1255 con Guigo VI 1229-30 Delfino di Vienna 1228 Marchesi di Monferrato. GIORNALE LIGUSTICO 345 DOCUMENTI RIGUARDANTI ALCUNI DINASTI DELL’ ARCIPELAGO PUBBLICATI PER SAGGIO DI STUDI PALEOGRAFICI DA. -ALFREDO LUXORO GIUSEPPE VINELLI-GENTILE E CARLO ^ASTENGO (Continuazione della pag, 316 del vol. III) Ripigliamo ora questa pubblicazione rimasta per lungo tempo interrotta, a causa della sovrabbondanza dei lavori, e la riduciamo a compimento mercè la cooperazione dell’ egregio signor Carlo Astengo, il quale ha cortesemente eseguita la trascrizione di non pochi atti che tuttavia ci mancavano. I due primi documenti che qui si danno avrebbero dovuto precedere il num. 31 ; ma furono trovati soltanto dopo la stampa del medesimo. La Direzione. N. 32. II doge Giano Fregoso notifica a Palamede signore di Eno e Dorino signore di Metellino, le vittorie riportate su Galeotto Del Carretto, e il tranquillo stato della Repubblica. 1448, 11 aprile. (Arch. Gov. Reg. Litterarum num. 14) Magnifico concivi et affini nostro carissimo domino Palamedi de Gat-taluxiis Henii etc. Magnifice concivis et affinis noster carissime. Arbitramur decere satis in benivolentia et affinitate nostra cum présentes loqui mutuoque visere nos non possimus quinque litteris inter vos caritatem excitare ; nam et si antequam affinitate coniuncti essemus multa tenere nos viderentur singulari benevolentia coniunctos, nunc eo magis quam comunia omnia esse debent qualiacunique sint vel prospera vel adversa , indicare vobis duximus nos et statum nostrum ac totam civitatem stabili quiete et in tuto esse repositam. Nam fere ab annis centum citra nulla fuit etas ubi civitas membra sua omnia in manu sua ac potestate habuerit nisi tempore nostro de quo 346 GIORNALE LIGUSTICO vobiscum congratulamur ; Deo semper gratias habentes a quo omnia bona procedunt. Et cum superesset hostis unicus ianuensis patrie vetustissimus, Galeotus de Carreto, posteaquam non solum non parere civitati vellet sed esse superior , bello ei prius indicto arma contra eum movimus, et expugnato Castro Franco in quo spem omnem suam posuerat, moxque altero oppido Justina capto, undique tandem obsesso brevi confidimus superare. Q.uo facto nihil erit a dextris sinistrisque quod quieti et otio nostro civitatisque possit obesse. Que omnia ut futura vobis grata nun-ciamus. Filius vester et germanus noster dominus Ludovicus et Genevria ceterique omnes de domo nostra nobiscum bene valent. Quod quidem cum de vobis cognoverimus habebimus gratum vehementer, parati semper in animo in omnia Magnificentie vestre grata ut pro affine optimo et carissimo. Data die XI Aprilis (1448). Janus dux etc. Similis domino Dorino domino Mitileni. N. 33. A Nicolò e Guglielmo Crispi, in favore di Domenico D’ Oria. 1448, 13 aprile. (Arch. Gov. Reg. num. cit.) Magnificis ac potentibus amicis nostris carissimis dominis Nicolao et Gulielmo Crispis gubernatoribus ducatus Egiopelaghi (dell' Arcipelago), j Magnifici ac potentes domini amici nostri carissimi. Nobilis ac generosus civis noster Dominicus de Auria videtur esse creditor quondam domini nepotis vestri de certa pecunie quantitate pro residuo precii cuiusdam triremis sibi vendite, de quo adhuc nondum satisfactionem ut equum est habere potuit. Quare Magnificentias vestras hortamur ac rogamus, ut providere velitis quod ipsi Dominico satisfactio fiat talis ut queri non possit alioquin facere; aliter non possemus quam indemnitati sue remediis iuris providere. Parati semper in omnia Magnificentiis vestris grata. Data die XIII aprilis (1448). Janus dux et Consilium Antianorum. N- 34· Lodovico Fregoso al Papa, perchè impedisca il matrimonio progettato fra le case di Eno e Metellino. 1449, 22 maggio. (Arch. Gov. Reg. num. 17) Sanctissimo Domino nostro Pape. — Beatissime m Christo pater et GIORNALE LIGUSTICO 347 domine. Magnificus dominus Palamedes de Gataluxiis dominus Enii et alter magnificus dominus Dorinus dominus Mitileni sunt germani, et ego uxorem habeo filiam domini Palamedis. Agitur per manus quorundam quod primogenitus domini Mitileni uxorem accipiat filiam unam domini Enii suam consobrinam: quod universis qui audiunt absurdum videtur. Nam sunt in secundo gradu, et nulla causa legitima est inter eos cur hac affinitate nova coniungi debeant. Nihil est profecto, Sanctissime Pater, quod me moveat ad disuadendum ne hoc fiat nisi abhorrens coniunctio , quam in secundo gradu vel raro vel nunquam nisi maxima causa concessam nunquam audivimus, et profecto iam habet exemplum huiuscemodi obtenta licentia domino Deo nostro esse permolestam. Nam aliter primogenitus ipsius domini Mitileni cum alteram consobrinam suam filiam domini Enii duxisset uxorem, semestrem unum non excessit. Puto dominum Episcopum Mitilenensem rem hanc apud Beatitudinem vestram tractaturum. Quam devotissime oro ut supplicationem illam a se reiciat tanquam absurdam minimeque honestam. Quod etsi non dubitem domino Deo nostro posse placere, ego tamen habebo ad gratiam singularem. Cum hec scriberem nunciatum michi est reverendum dominum Episcopum Mitilenensem ad Sanctitatem vestram venire et iam in Siciliam pervenisse. Quare Beatitudinem vestram quo maiore animo possum devote oro, ut in re ipsa diligenter advertat nec assentiri velit his que cum nullam honestatem continent Deo et . mundo indigna viderentur. Solita semper devotione paratus. Data Janue et fuit die XXII maij (1449)· Devotus filius Ludovicus dux etc. N. 35. Il medesimo al segretario Pietro da Noceto, sullo stesso argomento. 1449, 22 maggio. (Arch. Gov. Reg. num. cit.) Spectabili ac nobili amico nostro carissimo domino Petro de Noxeto primo cubiculario et apostolico secretario. Spectabilis ac nobilis amice noster carissime. Videbitis quid Sanctissimo domino nostro scribimus pro quadam dispefisatione in secundo gradu inter natum magnifici patrui nostri domini Dorini de Gataluxiis domini Mitileni et filiam cognatam nostram magnifici domini Enii, quam ut absurdam abhorrendamque Deo et mundo improbamus; neque ad id movemur nisi conscientia tante libidinis. Ex qua etsi iam exemplum noster Dei manifeste prospectum sit, propterea quod eodem matrimonio inter alium fratrem 348 GIORNALE LIGUSTICO aliamque sororem ante menses sex mors viri subsecuta sit, timore cogimur ne etiam novo acrioreque furore dominus Deus in eos irascatur. Rogamus amicitiam vestram ut litteras quas Sanctissimo domino nostro pro re hac scribimus reddere velitis, et operam adhibere ut in re hac tam honesta tam grata Deo, Dominus noster petitioni nostre consentiat. Quod in singularem gratiam habebimus, et hoc erit inter innumerabilia vestra in nos offitia non posthabendum. Set quoniam nuperrime scribentibus hoc, nun-ciatum nobis est dominum Episcopum Mitilenensem in Sicilia adventasse ad vos venientem pro re supraseripta, gratissimum nobis erit si ante adventum eius Sanctissimus Dominus noster hoc desiderium nostrum cognoverit, et quid in re illa statuat intellexerimus. Ob quam causam hunc tabellarium misimus ut a Sanctitate Sua et a vobis de ea re certi reddamur. Parati in omnia vobis grata. Data Janue die XXII maii (1449). Ludovicus dux etc. N. 36. A Nicolò Crispo e al Marchese di Caristo, raccomandandogli Bartolomeo dell’ Isola. 1449, 21 agosto. (Arch. Gov. Reg. num. 13) Magnifico amico nostro carissimo domino Nicolao Crispo domino Sancti Urini (dell’isola di Santorino) etc. Narravit nobis, magnifice amice noster carissime, dilectus noster Bar-tholomeus de Insula esse sibi negotium coram Magnificentia Vestra; et ab ea ius sibi reddendum fore; ad nos oravit velimus eam operam dare quod magnifica amicitia vestra in iure sibi non desit. Nos cum probe sciamus vix unquam eos posse reprehendi qui iustitie favent, eamdem rogandam duximus, velit huic Bartholomeo servitori nostro ius summarium dicere: ita quidem ut liqueat veritati et iustitie locum fuisse. Quod etsi etiam sine ullis precibus integritatem vestram facturam fuisse certo confidamus, accipiemus tamen loco beneficii. Parati semper in omnem amplitudinem vestram. Data XXI augusti (1449). Similes littere fiant magnifico amico nostro carissimo domino Marchioni Caristi (Antonio signor di Caristo in Negroponte, Marchese titolare di Bodonit^a) etc. Ludovicus dux. GIORNALE LIGUSTICO 349 N. 37. A Tobia de Lazario, per notificargli essersi il Papa ricusato di concedere le dispense occorrenti alla conclusione del divisato matrimonio, e per dargli istruzioni relative a questo particolare. 1449, 23 settembre. (Arch. Gov. Reg. num. 17) Ludovicus etc. — Thobie da Lazario in partibus Orientis. Dominus Archiepiscopus Mitileni, qui ad Dominum nostrum Papam missus fuerat pro impetranda dispensatione affinitatis contrahende inter magnificum dominum Dominicum Mitileni etc. et cugnatam nostram, vacuus reversus est. Nam dominus noster Papa ut rem minus quam honestam improbavit. Hoc dicimus ut possitis instare pro re vobis commissa. Que etsi multis rationibus fienda nobis videatur, posteaquam ab hac spe deciderunt facilior etiam factu nobis videtur. Et quoniam de hoc desiderio nostro colloquium habuimus cum ipso domino Archiepiscopo, poteritis cum illuc redierit secum omnia comunicare, quoniam non dubitamus eum consilio et desiderio nostro debere favere. Suadete magnifico domino socero nostro posteaquam ea res quam querebat effectum habere non potuit ut animum convertat ad consilia nostra: quando quidem talia sunt ut sibi nobisque omnibus honeste satisfaciatis ; et curate tandem quid fieri possit intelligere, scribendo nobis frequenter quid ageritis. Cetera negotia omnia et presertirri Mahone Chii curate diligenter, et omnia agiteut effectum iurium nostrorum consequamur ; ita ut ante discessum vestrum omnia ea negotia recte sint composita. Scribiteque nobis sepissime ut intelligamus si quid a nobis agendum supereat. Omnia apud nos in tuto sunt et quiete. Data Janue die XXIII septembris (1449)· N. 38. Condoglianza per la morte di Giorgio figlio del signore di Eno. 1449, 21 novembre. (Arch. Gov. Reg. num. 17) Domino Enii. Magnifice ac potens tamquam pater carissime. Nuntiatus nobis fuit his diebus obitus magnifici nati vestre dominationis cognati nostri domini Georgii, quem vehementer ut equum est doluimus ; nam is erat nobis non solum cognatus sed frater, in quo et pro vobis et pro nobis multa sperare posse videbamur. Quid enim dominus Deus noster voluit et nos non 350 GIORNALE LIGUSTIOC velle non debemus, in re presertim de qua nemini umquam pepercit. Erimus in memoria de casu hoc et debito nostro breviores, ne Magnificentie Vestre dolorem ac molestiam renovemus. Nonnulli sepe fuere qui cum alios in huiuscemodi casibus consolare niterentur, ipsi consolatione egentes in medio cursu deficere, et ubi sanare alterius dolorem arbitrarentur angere et excitare visi sunt graviorem molestiam. Non credimus apud Magnificentiam Vestram opus esse magna ad ferendum equo animo casum exhortatione. Quando quidem ad multa eiusmodi aliaque adversa ad patientiam animum vestrum sapientia caluistis. Hoc boni tandem mors habet. Quod cum nullo umquam remedio sanari potuerit, sapientes illam voluerint equo animo debere perferri. Nunc igitur illustris consors nostra his rationibus consolat Magnificentiam Vestram ut ita faciat et rogamus et hortamur. Scribit filia vestra et illustris consors nostra Dominationi vestre aliquid pro eo nato vestro et cugnato qui superest quod quidem cum . . . ......tum seculari animo probemus. Magnificentiam Vestram hortamur ut a sua sententia non discedat. Data Janue die XXI novembris (1449). Ludovicus etc. N. 39. Consiglio circa i soccorsi chiesti da Dorino Gatilusio contro il Turco e 1’ Imperatore di Trebisonda. 1451, 19 luglio e 28 settembre. (Arch. Gov. Cod. Diversorum ami. 1450-51. X. 982) Cum ad conspectum illustris ac excelsi domini Petri de Campofregoso Dei gratia ianuensium ducis ac magnifici consilii dominorum antianorum comunis Janue vocata fuissent spectabilia officia Monete, Romanie et Sancti Georgii, ac preter ea cives fere sexaginta, ibique recitate fuissent littere quarum tenor hoc est: Illustri et excelso principi et domino domino Petro de Campofregoso Dei gratia ianuensium duci etc., ac magnificis dominis antianis et venerando officio Romanie civitatis Janue uti patribus honorandis. Illustris et excelse princeps et domine domine, ac magnifici cives et consiliarii uti patres et fratres honorandi. Angit nos et reiterando causa instat ut ee nostre littere non tantum ascultentur, sed celerius executioni mandentur, nec obliviscimur nos originem ab illa inclita urbe vestra trahere; et una et pluribus vicibus pro posse nostris hominibus triremibus ac pecuniis Reipublice vestre subvenisse, et prout ultro paratos semper se offerimus. Decet tamen vice mutua ut nostris in opportunitatibus a vobis auxiliemur. GIORNALE LIGUSTICO Quocirca anno proxime exacto Theucrorum dominus ex Galipoli adversus nos emisit triremes et fustas numero CXX; et insulam nostram invaserunt, ac interceperunt animas ultra tria millia mactaruntque quadrupedes multos et demum damnum nobis intulerunt de ducatis centusi quinquagiuta millia et ultra ; et licet pro parte nostra ipsis Theucris semper fuerit servata fides ipsis per nos data prout et de presenti servatur , tamen malignitate ipsorum nos offendunt et destruunt; ex quo remedio et protectione opus est ne in dies anichilent dominationem nostram. Quapropter presentibus vobis nunciamus nostre intentionis esse totis viribus eam dominationem nostram defensare velle auxilio potissime vestro interveniente, quoniam filios et servos vestre comunitatis se reputamus: quod auxilium in dictam defensionem nostram si a vobis non verbis sed opere et cum effectu habere possumus vel non, cum primo scribendi modo litteris vestris ac provisionibus opportunis intelligere nos expectamus; aliter opus erit rei nostre consulere et aliorum implorare auxilium, quod esset contra mentem nostram quia dulcedine patrie desideramur vobiscum fraternaliter et amorose perpetuo vivere, et se vobis intime recommendamus. Ceterum ex imminentibus causis nonnullis adversus serenissimum imperatorem Tra-pesundarum et subditos eius forte continget et oportebit nos triremes et fustas parare pro iure nostro consequendo et obtinendo. Ex quo excellentiam et dominationes vestras exoramus, ut a vobis litteras apertas et patentes habeamus, quibus in Capha et aliis locis vobis subditis ipsis galeis et fustis nostris detur receptum et refrescamentum. Valete. Data Mitileni die XIX Junii MCCCCLI. Dorinus Gatilusius Mitileni etc. dominus. Et multi sententiam dicere rogati fuissent, tandem collectis vocibus compertum est sententiam viri nobilis Antonii Lomellini in quam triginta et octo voces convenere ceteris pravaluisse. Is enim in hunc modum locutus est. Se non esse bene peritum orientalium rerum affirmavit, sed per sententias sapientum qui profati sunt videri ubi ut in tota hac materia nisi in uno tantum dissentiatur; iudiciumque suurti esse quod imperator ille Teucrorum et magnificus dominus Mitileni pluries facient legationes quas hinc quam a Chio et Pera transmittantur. Et sii. faciendo non propterea videtur sibi quod inferri possit damnum a domino Bartolomeo memoratum, quoniam fingi possit quod eiusmodi legatis mitteretur ad visitationem huius Teucri novi domini. Tamen ne in eriorem incidatur, laudavit totam hanc materiam committendam esse spectato officio Romanie cui directe devolvitur. Quod ad se vocet octo vel decem cives 352 GIORNALE LIGUSTICO orientalium negotiorum bene doctos, et omnes ipsi simul consulant ac decernant transmissionem huius legatie Janua, Chio vel Pere prout illis melius videbitur, et similiter decernant impensam eius quanta futura sit et jinde hauriri debeat. Ad partem vero auxliorum contra Trapesuntas prestandorum, laudat omne genus auxilii prestari debere prout ab omnibus laudatur. H. 40. A Giuliano Gattilusio, per conoscere le condizioni alle quali consentirebbe di mettere qualche nave a servizio di Genova. Si parla dei grani presi al signore di Piombino, e delle robe tolte a Gregorio Stella. 1452, 28 aprile. (Arch. Gov. Reg. Litterarum num. 18) Dux Januensium etc. et populi defensor. — Nobili ac generoso viro Juliano Gatalusio affini nostro carissimo. Noi non ve conoscemo per presentia, ma per fama odiamo tale reporto de voi, che oltre lo grado che aveti con li nostri coxini per le virtù vestre ve amiamo singularmente et desideriamo per presente cognoscere et in tutte quelle cose che per noi se podesseno ex.....are et farve honore et piaxere. Quello de che se semo qualche volta dolsudi de voi est per repporto de quelli grani del Signore de Piombino cum lo quale avemo strecto parentado, per modo che ne pare nostro mancamento non poterlo aiutare in simile caxo, maxime avendovelo requesto assai a tempo. Almeno se presente la neccessità ve strinze, date tale forma et promissioni al Signore de Piombino che quam primum possiate voi ghe satisfarete et questo verà parte de . .. per deschargo vestro et nostro da 1’ altra parte. Essendo noi per intraprendere le coxe de Portofino cum queste nostre galee.......de aveighe qualche nave et.....che voi ne possiate servire per qualche dì cum vestro..... et menor spexa che non serea armare nave de nuovo, savreressimo volentieri de voi corno voi voressi esser tractado et se voi voressi attendere a queste coxe cum p......In primis ve faressimo largo salvacumducto e si ve tracteressimo per modo che averesti caxum remanere contento ; et in reliquis da noi podresi expectare sempre ogni piaxere chi se posse. Data Januae die XXVII aprilis (1452). Ceterum Grigoro Stella nostro caro citadino, portadore de la presente, vene lì per certe soe coxe le quale sono state preixe da voi chi spedano GIORNALE LIGUSTICO 353 a lui corno de ciò ve farà chiaro. Ve preghemo che per nostro amore vogiati tractarlo per forma che de voi resti contento. Il che averemo sin-gularmente grato. N. 41. A Dorino Gattilusio, perchè non dia ricetto alle navi de’ ribelli anconitani. 1455, 2 dicembre. (Arch. Gov. Reg. num. 12) Magnifico civi et amico nostro carissimo dòmino Dorino Gatilusio Mitileni domino. Magnifice civis et amice noster carissime. Magnificentiam vestram ita semper animo constituit, ut amicos hostesque nostros vestrosque esse duxeritis ; quo effectum est ut omni tempore omnique rerum eventu satis fuerit voluntatem nostram vobis indicasse. Nunc igitur cum ea quoque superveniant, que Magnificentiam vestram non ignorare cupimus; dignum arbitrati sumus ut hec ipsa nostris potius literis quam aliorum cognoscatis. Cives quidam anchonenses , sive avaricia sive elatione exagitati, in patriam civesque impia arma sumpsisse videntur, nactique navigia quedam mari latrocinari ceperunt; idque non tam in alienos quam in suos. Eius rei cum Anconensis Respublica noticiam ad nos detulisset, favo-resque nostros ut amicos decuit poposcisset: permisimus illi navem, arma, tela et quid petierit in hac urbe mercari, viros conducere, demum nihil illis negavimus quod eiusmodi rebellibus suis delendis accomodatum putaverimus. Inter que scripsimus non ad subditos tantum, sed etiam ad dominos apud quos preces nostras prodesse credidimus : rogantes ut hos rebelles patrie sue hostes nostros esse censeant, neve portubus suis illos accipiant; opem, commeatus, favores illis negent; naves autem quas anchonenses contra illos parant, portu, commeatu ac favoribus iuvent non secus quam si nostro stipendio parate fuissent. Cum igitur intelligatur plurimum momenti ad eam rem Magnificentia vestra situm esse, cum specialibus literis rogandam duximus ut hos rebelles portubus ac terris suis arceat cunctaque illis neget que negari hostibus solent; classi vero ancho-nensi portum commeatum......(1). (1) Nel registro manca un foglio. Giorv. Ligustico , Anno V. 25 354 GIORNALE LIGUSTICO N. 42. Nuovo consiglio circa gli aiuti chiesti dal signore di Metellino. 1456, 10 marzo. (Arch. Gov. Foliat. Diversorum ann. 1399-1465) MCCCCLVI, die mercurii X martii. Cum nuper allate fuissent littere magnifici viri domini Dominici Gati-lusii Mitilenarum et Lemni domino, date Mitilenis XXVIII die decembris superioris, in quibus diffuse narrantur pericula eius et magna instantia petitur ut ei cicius succurratur, vocata fuerunt ad conspectum illustris et excelsi domini Petri de Campofregoso Dei gratia ianuensium Ducis etc., et Magnifici Consilii dominorum antianorum Communis Janue, magnifica officia sedecim rerum chyensium et legatorum, Monete ac Sancti Georgii, et preter ea cives centum ; recitatisque litteris ipsis, admoniti sunt quicumque aderant suam quisque sententiam in medium proferre. Cumque plerique variis sententiis disseruissent, collectis tandem vocibus, compertum est sententiam viri nobilis Antonii Lomellini, in quam voces due ac nonaginta convenerunt, potiorem habitam fuisse. Is assurgens initio dixit multa prudenter fuisse memorata ab iis qui ante se elocuti sunt, que faciunt ut sibi videatur perpauca superesse dicendo. Verum quoniam dominus Johannes Cicer inter ea que prudenter ab eo dicta fuere memoravit, ut quidam ex iis magnificis dominis officialibus chyensi provisioni et legationi romane mittende prepositi sedeant singulis diebus cum reverendo domino Episcopo, audiantque et videant eos qui voluerint huic necessitati auxilium ferre, respondit quod quicumque hoc memoret, videatur parum doctus earum rerum, nam quisquis propter indulgentiam impetrandam conferre auxilium velit, eio'gare non potest nisi in auxilium rerum caphensium. Quam ob rem velle ea via succurrere periculis domini Mitilenarum nihil aliud est quam frustra laborare et nihil agere. Adiecit preterea utile sibi nequaquam ideri cives aliquot ad eum dominum mittere, qui cum eo maneant eumque cohortentur bono esse animo ut quidam suaserunt, quoniam ex eo excitaretur Tureorum dominus novasque conciperet suspiciones. Se potius suadere ut ad eum scribatur, omnique possibili via certior fiat bone voluntatis'nostre et provisionum faciendarum, propter que consideratis omnibus sibi videri dixit non posse rebus aliter bene consuli quam ut totius huius materie cura commitatur his magnificis XVI officialibus, qui toti rei provideant pro ut eis melius videbitur. Sed quoniam eorum qui ante se disseruerant in pecunia invenienda quidam viam partitionis excluserunt, quidam eam inclu- GIORNALE LIGUSTICO 355 seiunt, suasit ac consuluit, nec includendo nec excludendo partitionis viam, quod hi domini XVI officiales scrutent animos civium et quidem mul-toium et omnis generis ac conditionis, quodque id quod in his scrutiniis decerni continget, quisque seposito commodo et incommodo proprio servet; mandeturque executioni id quod ibi melius atque utilius visum fuerit. Et adiecit tandem provisionem faciendam celeriter ac liberaliter fieri debere. In eam sententiam cum voces due supra nonaginta ut dictum est convenissent, pro lege ac valido decreto accepta est. N. 43. Acquisto di bombarde e polvere pel signore di Metellino. 1456, 6 settembre. (Fogliazzo citato). MCCCLVI, die VI septembris. Parte illustris et. excelsi domini Ducis ianuensium etc., vos spectatum Officium rerum chyensium et mitilenensium.....solvite prestantibus viris Baptiste Lomellino, Bartolomeo Imperiali et collegis deputatis ad emendas bombardas cum pulvere pro magnifico domino Mitilenarum, libras sexcentas vigintiquinque convertendas in precio earum rerum etc. N. 44. A Giuliano Gattilusio, per certi grani rubati al Signor di Piombino. 1457, 7 maggio. (Arch. Gov. Reg. num. 18) Dux Januensium etc. Nobili viro Juliano Gataluxio. Per la vostra risposta non intendiamo ne abiate satisfacto al facto de quelli grani dei magnifico nostro parente Signore de Piombino, perchè non avete risposto salvo parole generale. Voi dovei intendere quanto mancha-mento saria lo nostro soportare che lo nostro parente, de chi faciamo siugular capitale, sia rubado da persona chi venga in la nostra terra et abia refrescamenjo et recepto. E se bene voi sete venudo a Saona per rubore del magnifico nostro cuxino Jhoanni Galiacio, noi se credemo più che lui et in quella cita non se usano alienare da li nostri comandamenti. Ni credete avei salvaconducto lì, lo quale da questa ve possa salvare. La iusticia nostra est facere tutto perchè lo parente nostro sia sactisfacto ; de che a tale tempo ve scripsimo, che avendolo voi volsudo fare lo avereste potuto lare; et se pure cosi totalmente al presente voi non potessi satisfarlo se non in qualche parte, se voi ne facessi sì cauti che fra qualche tempo 356 GIORNALE LIGUSTICO honesto questa cosa avesse effecto, altramente intenderete che per honor nostro cerchereno de fare cosa per contra de voi perchè intendiate che iustamente de voi se senio dolsudi. E questo ve sia dicto per schuxa nostra. Data Janue die VII Maij (1457). N. 45. Ancora sullo stesso argomento. 1457 » 10 maggio. (Arch. Gov. Reg. num. 18) Dux Januensium etc. et popul, :defensor. Nobili ac generoso viro Juliano Gataluxio patrono navis. Accepimus litteras vestras nostris respondentes in facto illorum frumentorum magnifici domini Piombini in quibus bona verba dicitis, sed tamen non talia que satisfacere ei possint. Primum enim frumenti non esse nisi minas octuagintaquinque. Hic qui pro magnifico illo domino agit affirmat esse centumquinquaginta : in quo esset magna differentia. Secundo ubi dicitis tertiam partem pervenisse in potestatem nautarum: nec hoc etiam satisfacit, ubi primum partiri nequivistis quod retinere iuste non poteratis et eo minus quo ante partituram si vera essent. Scripsimus vobis in hac re quantum expediebat. Verum vos qui auctor rei extitistis, ad omnem satisfactionem estis iure obligatus. Abstulistis etiam ipsi domino multa alia' bona, sed de frumentis precipuus est sermo, in quo nisi aliter facere non possemus pro ea necessitudine qua est inter nos et illum magnificum dominum quam omnia remedia illi prestare, per que satisfactionem et restaurationem consequatur ; et quamquam prime littere nostre quas vobis pro re hac scripsimus satisfacere possent, voluimus has rursus vobis scribere, ut intelligatis demum quantum hec res sit nobis cordi, ita ut amodo ad remedia perveniri necesse sit nisi aliter provideatis. Persuasimus huic factori suo ut istuc veniat expersurus etiam semel si in his vobiscum aliquo modo convenire posset ; ad quod vos hortamur. Data Janue die X Maij (1457). N. 46. Seguita 1’ affare dei grani ; e si complica con un furto d’olio e di pece. 1457, 23 maggio. (Arch. Gov. Reg. num. 18) Dux Januensium etc. et populi defensor. Nobili viro Juliano Gataluxio patrono navis. Ea que vos prostremo scribitis in facto illorum frumentorum magnifici GIORNALE LIGUSTICO 357 domini Plumbini non omnino satisfaciunt factori suo neque nobis. Affirmat enim sibi abreptas fuisse minas centum quinquaginta frumenti; vos vero nisi satisfacere vultis per minas centum. Si igitur fidem vobis facit abreptas ei fuisse minas centum quinquaginta, intelligere nescimus qua ratione non debeatis de integro numero illi satisfacere ut qui auctor damni sui exti-tistis. Ceterum nihil respondetis de certa quantitate picis et olei que in vestras manus pervenisse affirmat. Si igitur demum, ut scribitis, facere nobis rem gratam vultis, ita satisfacite ei in omnibus ut de vobis queri non possit; et nos ulterius scribendi pro re hac causam non habeamus. Data die XXIII Maij (1457). N. 47. Altra lettera della Signoria a Giuliano Gattilusio, con cui si continua ad insistere per la restituzione delle cose tolte al Signor di Piombino. 1457, 8 giugno. (Arch. Gov. Reg. num. 18). N. 48. Credenziale d’ Antoniotto D’ Oria spedita al Gattilusio. 1457» 6 luglio. (Arch. Gov. Reg. num. 18) Dux Januensium etc. et populi defensor, et consilium antianorum. Nobili viro Juliano Gataluxio patrono navis. Mittimus ad vos nobilem civem nostrum Antoniotum de Auria qui nonnulla nostra parte vobis refferet. Quare dictis eius fidem tamquam nostris adhibete. Data Janue die VI Julii (1457). N. 49. Querele dei mercanti genovesi residenti a Siviglia, per altre piraterie del Gattilusio. 1457, 20 settembre. (Arch. Gov. Reg. num. 18) Dux Januensium etc. et populi defensor, ac Officium Balie. Nobili viro Juliapo Gataluxio patrono navis. Nobilis vir nobis carissime. Ex Hispali a nostris mercatoribus litteras accepimus, qui vehementer conqueruntur captas a vobis fuisse quasdam, toninas et pelliparias et capita duo et balas octo gomarum in illa navi Johannis Ferandes de Stigaribia quas mercatorum et nobilium illius civi- 358 GIORNALE LIGUSTICO tatis esse affirmant; pro quo nisi serenissimi domini illius regis modestia animum eorum ad quo merces illee pertinent repressisset, prefati mercatores nostri non sine ingenti periculo fuissent, ut in eos et eorum bona manus iniicerentur, et ad uberrimam satisfactionem cogerentur. Nec tamen valuissent nostrorum verba, nisi demum obtulissent se cum effectu facturos quod bona sua ipsis illesa restituerentur. Ob hanc igitur causam mittimus istuc hos duos nobiles cives nostros, Thomam Gentilem et Paulum de Serra, qui eam restitutionem a vobis deposcant: faciantque fidem ex qua dubitare non possitis eas merces illorum castellanorum esse et non hostium. Volumus igitur quatenus facta de predictis vobis fide, ea omnia ut equum est prefatis Thome et Paulo qui procuratores illorum nobilium sunt restituatis. In quo si aliquo casu dubitabitis vel dilationes frustratorias afferetis, scitote nos constituturos statim hic eis magistratum, coram quo contra vos de iure suo nominibus predictis agere possint et vobis ipsisque superinde iusticia ministrari possit. Non enim oblivisci debetis fideius-sorem optimum apud nos dimisisse, qui pro vobis stare iuri et iudicatum solvere obligetur ubi amicis iniuriam intulisse videamini. Data Janue die XX Septembris (1457). N. 50. Commendatizia di Bartolomeo Lomellino presso il Gattilusio. 1457, 28 settembre. (Arch. Gov. Reg. num. i&) Petrus dux. Nobili Juliano Gataluxio. Nobilis Bartholomeus Lomellinus presentium lator ex illorum numero est quos auctoritati et fide caros apud nos habemus. Commendamus eum vobis in omni eius negotio; propter quod, quid quid in eum facietis in nos ipsos factum accipiemus. Data Janue die XXVIII Septembris (1457). N. 51. Al Re d’Inghilterra, perchè non faccia sconta alla Repubblica i mali diportamenti del Gattilusio, 1459, 1 gennaio. (Arch. Gov. Reg. num. 22) Sacre Regie Majestati Anglie etc. Serenissime rex et precellentissime princeps.... Duximus ceterum quo maiore studio possumus benignitatem vestram 1 GIORNALE LIGUSTICO 359 orare, ut considerare primum velit eum Gatalusium non esse ianuensem, nec ullis mandatis nostris obnoxium, nulloque ordine nulloque consilio nostro aut voluntate subditos Maiestatis vestre damnifkasse, nullosque veros testes adhiberi posse qui contrarium probent. Verum et meminisse velit pacis nostre ea documenta extare per que pro huiusmodi scelere, etiam si civis noster fuisset qui damnum fecisset, mercatores nostri nec in personis nec in rebus possent impediri quia pacem omni studio semper servavimus et servare etiam intendimus. Quibus demum pro sua sapientia sincere discussis, dignetur ita rei huic providere, ne nos qui vestre Maiestatis gloriam ac decus optamus, qui iusticie singularem semper quandam de eo regno religionem predicavimus, ab his lesi videamur quorum opera et auxilio defendi speravimus Data Janue die primo Januarii (1459). Cultores Maiestatis vestre observantissimi Consilium antianorum Communis Janue. N. 52. Lettere della Signoria ai seguenti: Episcopo Vintoniensi cancellario Anglie ; Archiepiscopo Conturberiensi ; Episcopo Durene custodi privati sigilli Anglie ; Episcopo Eboracensi ; illustri domino Johanni' Vicemoti (sic) de Belmonte et illustri domino Unfredo duci de Bochimcham. Si interessano tutti acciò interpongano i loro buoni uffici presso il Re d’Inghilterra a proposito delle piraterie del Gattilusio. 1459, r·0 gennaio. (Arch. Gov. Reg. num. 22) N. 53. Appello alle Potenze cristiane, perchè soccorrano a Metellino minacciata dal Turco. 1459, 27 febbraio. (Arch. Gov. Reg. cit.) Serenissimis ac precellentissimis regibus et principibus, illustrissimis ac magnificis dominis et nobilibus quibuscumque viris ad quos présentes pervenerint, Johannes dux Calabrie et Lothoringie etc. pro christianissima regia maiestate francorum in Janua locum tenens, et Consilium antianorum communis Janue commendationem dignam exibent ac salutem dicunt. Nemini ignotam esse arbitramur tureorum Regis potentiam, quotque iam clades GIORNALE LIGUSTICO populis orientalibus post adeptum Constantinopolis imperium terra marique intulit, quibus victoriis elatus prope diem maiora etiam tentare dicitur. Ex quo qui nomen Christi colunt, quive tanti Regis potentiam atrocitatemque formidant, decet omni studio viribusque adniti, ne ulterius efferatum desiderium suum 'assequatur. Et quo regum, principum aliorumque dominorum imperia latiora sunt, ad eorum dignitatem pertinet magis vires ma-numque uberius ad remedia conferre. Cum nuperrime igitur audiamus eum regem post iam semel, licet frustra, tentatam oppugnationem civitatis et insule Mitileni, que nostris auxiliis defensa est, rursus et maiore odio animum adversus eam insulam concitasse dubitarique satis posse ne, cum semper ipse paratus sit, eam insulam improvisam offendat, nisi assidua istic presidia teneantur. Considerantes loci situm et naturam, et illius magnifici domini exiguas ac pene nullas adversus tantum regem vires , nosque solos etiam post tot clades- ab eo terra marique et nonnullis adversis aliis casibus acceptas, tante rei providere non posse , duximus non indignum fore si periculum quod etiam pro dignitate fidei sancte ad universos christianos pertinet his omnibus denuntiemus, quorum consilia auxiliaque putamus hunc tanti omnium hostis impetum posse sistere, illos orantes exhortantesque quatenus cum amore domini nostri Jesu Christi, cuius nomen tot cladibus obruitur, cuius beneficia longe maiora sunt, dignentur animum auresque ad huiusmodi pericula necessitatesque convertere, et ita providere ut locus ille Mitileni, qui solus pene in eo mari tanti hostis impetum sustinet, servari possit; propterea quod illo expugnato, quod Deus avertat, tanto Regi totque victoriis elato facilis in Italiam cursus esset. Que quidem et si ex suo legato reverendo in Christo patre domino Archiepiscopo Mitileni, viro sapientia et religione probato, quem ob hanc causam ad diversas mundi partes mittit, intelligi latius poterint, non pudebit nos nec pigebit unquam quod ad communem Christianorum utilitatem pertinet, nostris etiam consiliis ac persuasionibus iuvisse. In quorum fidem testimoniumque has litteras nostras fieri iussimus et nostri sigilli consueti impressione muniri. Data Janue die XXVII Februarii (1459). N. 54- Altro appello, speciale al Re di Francia. 1459, 1 marzo. (Arch. Gov. Reg. cit.). Sacre regie maiestati francorum. Serenissime ac christianissime rex et domine noster metuendissime. GIORNALE LIGUSTICO 361 Progressus regis turchorum maiestas vestra audivisse iamdiu debuit, qui elatus victoriis, maiora prope diem dicitur cogitare; ita ut concitare Christianorum omnium animos possit ad prestanda remedia per que eius furor comprimatur. Nam et si ad omnes christianos iure huiusmodi cura pertineat, ad preclarissimos certe reges, potentissimos dominos eo magis attinet, quo imperia eorum latiora sunt et christiani nominis decus ex illis pendet. Insula Mitileni illi hosti proxima est, quam frustra iam magna oppugnatione tentatam illius domini virtus et nostra etiam auxilia defen-sarunt. Sed cum dicatur ardentior adversus eam prope diem fieri, ita ut satis dubitari possit ne cum ipse semper paratus sit, eam imparatam ac improvisam offendat, quippe que per se solam assidua presidia habere non potest, nec nos multis iam cladibus percussi ac variis casibus afflicti adversus tanti hostis vires sufficere ullo modo possimus; et ob hanc causam prefatus dominus nuperrime legatum suum reverendum in Christo patrem dominum Archiepiscopum Mitilenensem ad principes mundi mittat, auxilia in tanto casu petiturus ; nos quibus necessitates ac pericula illius loci longe forsitan magis quam aliis nota sunt, non indignum fore iudicavimus si litteris nostris ac persuasionibus eos excitemus ut animum pietatemque ad rem illam convertant. Et quemadmodum christianissima maiestas vestra inter ceteros Christianorum reges est que magnitudine animi ac potentia et omni bonitatis genere floreat; illam orare duximus ut aliquid cogitet aliquidque provideat, ex quo ceteri principes exemplo suo ad defensionem loci illius et christiani nominis excitentur. Data Janue die primo Martii (1459). Johannes dux Calabrie et Lothoringie etc. regius in Janua locumtenens, et Consilium antianorum comunis Janue. Similes littere factce fuerunt sacre regie maiestati Hierusalem et Sicilie. N. 55. Commendatizia a Pio II, in favore di Centurione Zaccaria, già princ pt di Morea. 1459, 17 giugno. (Arch. Gov. Reg. cit.) Domino Pio pape secundo. Beatissime in Christo pater. Hic magnificus vir nunc fortuna et adversis casibus pene miserabilis, dominus Centurionus Jacharias paulo ante princeps Morrearum, a .teucris sede sua expulsus, accedit ad conspectum Beatitudinis 362 GIORNALE LIGUSTICO vestre aliquid petiturus quod casibus eius et vite satisfaciat : cui satis compatimur propter suam et christiani nominis gravem iacturam. Sanctitatem vestram devotissime oro (sic), ut pro sua clementia dignetur suscipere eum commendatum; nam quicquid a Beatitudine vestra pro suo voto fuerit assecutus apostolice sedis non modo gratia fuerit, sed apud multos exemplum quod pro catolica fide ad omnia pericula ceteri sunt constantiores. Et ego tamen sui et sortis sue gratia ad singulare munus accipiam quodcumque vestra Sanctitas in eum contulisse videbitur. Paratus in omnia iussu vestre Sanctitatis. Data Janue die XVII Junii (1459). Sanctitatis vestre devotus. Dux Calabrie etc. regius in Janua locumtenens. N. 56. Altra simile al Patriarca d’ Aquileia. 1459, 17 giugno. (Arch. Gov. Reg. cit.) Reverendissimo in Christo patri domino L. (1) cardinali et patriarce Aquilegiensi ac sanctissimi domini nostri Pape camerario. Reverendissime in Christo pater. Compatimur calamitati magnifici istius viri domini Centurioni Jacharie paulo ante principis Morearum, qui a teucris sua sede pulsus fortune vires expertus humanarum rerum exemplum esse potest. Sed eo magis quo non modo suam sed christiani nominis sortem ostendat, accedit ad conspectum summi pontificis aliquid petiturus quod casibus suis ac fortune temperamentum afferre possit, ex quo reverendissimam paternitatem vestram rogamus ut eum amore etiam patri (sic) suscipiat commendatum, et adiuvet in sua petitione ; quod si in tali casu non indignum apostolica sede et humanitate vestra fuerit, verum apud multos exemplum qui pro catolice fidei defensione costantiores reddentur, nos etiam accipiemus in complacentiam singularem ut qui calamitati eius miseremur. Parati ad omnia reverendissime paternitati vestre grata.. Data Janue die XVII Junii (1459). Dux Calabrie et Lothoringie etc. regius in Janua locumtenens. 1) Ludovico Scarampi. GIORNALE LIGUSTICO 363 N. 57. In conseguenza delle prede commesse da Giuliano Gattilusio ai danni dei mercanti di Bristol, il Re d’Ighilterra fece arrestare tutti i genovesi dimoranti ne’ suoi stati e confiscare le loro merci. Il Doge di Genova, adoperandosi perchè il decreto fosse rivocato, allegava essere il Gattilusio non genovese, ma greco. Però l’eccezione non fu ammessa, e così in Genova fu costituito V Officium rerum Anglie, coll’incarico di provvedere al componimento della vertenza. — L’ Officium notifica ai mercanti genovesi in Bruggia la sua costituzione, e nomina colà i propri coadiutori. 1460, £5 ottobre. (Arch. Gov. Reg. Litt. num. 23 ; Atti della Società Ligure di Storia Patria, vol. V, pag. 429, Giorn. Ligusico, 1876, p. 380-1, in nota). N. 58. A Nicolò Gattilusio, perchè componga onorevolmente le questioni con Paride Giustiniani. 1461, 22 aprile. (Arch. Gov. Reg. num. 24) Magnifico amico nostro carissimo domino Nicolao Gattilusio Lesbi etc. domino. Gravis admodum querela, magnifice amice noster carissime, ad nos pre-lata est nomine spectati civis nostri Paridis Justiniani, in qua narratum nobis est Magnificentiam vestram sibi debere grandes pecunie summas, partim propter dotes domine Marie filie sue uxoris quondam celebris memorie domini Dominici fratris vestri^ partim propter alia debita quibus idem dominus Dominicus tenebatur ei; factaque debita petitionis instantia Magnificentiam vestram rationes et excusationes afferre, ex quibus videtur neque dotem neque alias velle pecunias solvere. Propter quod enixe nobis supplicatum est ut velimus civi nostro qualicumque iuris remedio subvenire, prout Magnificentia vestra late cognoscere poterit ex lectione supplicationis quam idem Paris ad nos deferri voluit: cuius exemplum his litteris includi iussimus. Nobis admodum molestum est, magnifice vir, novas consurgere lites inter vos et eundem Paridem; sed longe molestius foret si aliqua honesti iudicii via eas non dirimeretis, Decet enim utrumque vestrum se se iuri summittere , et tantum velle quantum ius et fas petunt. Namque iniquum admodum foret si vel Magnificentia vestra vel ipse 364 GIORNALE LIGUSTICO vellet proprie cause iudex fieri, et sibi ipsi ius dicere: quod nec regibus quidem ant Cesaribus permissum est. Cum autem magna petatur instantia ut eidem ci vi nostro in suo iure succurramus, Magnificentia vestram deposcimus et iterum iterumque pro iure requirimus velit ipsi Paridi plene sine controversia satisfacere, vel si causa eiusmodi est ut iudicium exigat, ei se iudicio subiicere: quod equum sit, ne cogamur civi nostro iuris auxilium petenti ea vel inviti remedia prebere que contra vim et iniusticiam a sapientibus excogitata sunt. Que quanquam illi conferre molestissimum nobis foret, presertim contra Magnificentiam vestram negare tamen nequeremus si ad ea nos iura compellerent. Est tamen nobis fiducia quod ambo vos, memores quid deceat et fame vestre conducat, ea que fuerint equa non aspernabimini. Et hac ratione eam sarcinam que nobis admodum onerosa est cum vestro honore nobis detrahetis. Sumus semper in omne decus et dignitatem vestram cupidi et parati (1). Data XXII Aprilis (1461). Prosper Adurnus Dei gratia dux ianuensium et populi defensor, et consilium ancianorum comunis Janue. N. 59. Il doge Lodovico Fregoso risponde alle congratulazioni mandategli da Nicolò Gattilusio pel riacquistato potere in patria, e gli dà buone parole in vece dei soccorsi domandati contro de’ turchi. 1462, 27 aprile. (Arch. Gov. Reg. num. 22.) Magnifico affini nostro carissimo domino Nicolao Gatilusio Mitileni etc. Magnifice affinis noster carissime. Gratissime fuerunt nobis littere vestre que incolumitatem vestram et status vestri nobis nuntiarunt veteremque inter nos amorem renovarunt. Quem et si nos omni tempore custodivimus, placuit plurimum nobis id in animo vestro situm semper extitisse. ■ Temporum quidem varietas et rerum nostrarum descrimina aliquando fecerunt ut non possemus mutuo quod inter nos deceret, ostendere. Placuit Deo cuius est omnis et plena potestas, ut in patriam redierimus et ad hos honores, quos appellare verius labores possumus; sed non dedignamur et que ad virtutem pertineant experiri et que fortuna in humanis rebus velit (1) Questa lettera si legge al seguito di altra che porta la data del 28 luglio 1460, e vi è quindi la seguente annotazione: Suprascripte littere retardate postea fuerunt. GIORNALE LIGUSTICO 365 nos despicere. Quodcumque enim in nobis est eritque Magnificentia vestra sibi persuadeat affinem habere, qui amoris affinitatisque vestre omni casu rationem sit semper habiturus. Intelleximus ex vestris terrorem quem ille rex turchorum sepenumero vobis prebet, quidque a nobis et ista excellenti civitate fieri pro salute vestra optatis. Post acceptas litteras vestras spatio parvo ad discessum nuntii istius commode quod opporteat in huiusmodi re deliberari non potuit, sed omnium civium una sententia est: salutis vestre curam in his que fieri possint semper habendi, cum propter sanguinis ortum, tum vestrum et vestre domus in hanc civitatem amorem communemque etiam periculum quod postponi non debet. Et nos ubi opportebit et ubi necesse fuerit illa curabimus, que ad commoda vestra pertineant eo animo quo nostra essent. De mahonensibus Chii vero satis intelleximus. Scribitur eis opportune et monentur quantum opus est ut cum vestra Magnificentia humane et amice vivant, nihilque agant quod sit a veteri benevolentia et bona inter vos ipsosque consuetudine alienum, nec vestram utilitatem de-spiciant, privati negotii alicuius ea sicque facturos vos confidimus ubi et ipsa ratio monere ad id illos potest et id animi nostri et civitatis esse intelligunt. Parati enim quandocumque sumus ad omnia, que Magnifi-centie vestre grata sint. Genebra ducissa consors nostra plurimas salutationes Magnificentie vestre mittit. Data die 27 Aprilis (1462). ' Ludovicus dux etc. N. 60. Replica sullo stesso argomento dei soccorsi. 1462, 27 aprile. (Arch. Gov. Reg. num. 22) Magnifico amico nostro carissimo domino Nicolao Gatilusio Mitileni etc. Magnifice amice noster carissime. Accepimus hodie litteras vestras dierum 14 decembris anni superioris, que sero tamen nobis reddite sunt, commemorantes nobis rerum vestrarum curam et commune periculum. Non possumus ad presens particularius magis respondere, quia hic nuntius oblatus nobis cum celeritate discessum maturabat. Hoc tamen interea duximus respondere, et hortari Magnificentiam vestram apud nos memoriam curamque salutis vestre excubare, tum propter vestrum in nos amorem et sanguinis caritatem, tum commune periculum quo res vestra cum nostris coniuncta est. Sicque, suadete vobis in his que fieri a nobis poterunt nos amore 366 GIORNALE LIGUSTICO in nos vestro et periculo semper consulturos. Tureorum enim illum regem audimus hoc anno plura terrestri itinere quam mari tentaturum. Scribimus tamen potestati et mahonensibus Chii ut vobiscum consueto amore ac amicitia vivant, prospiciantque semper quantum vestra salus cum sua coniuncta sit: nec publicam communemque utilitatem privato casu despiciant. Sicque eos facturos fore confidimus, tum quia moniti a nobis sunt, tum quia non insipientes quantum ea res in se momenti habeat non ignorant. Nosque interea aliquid cogitamus quod illarum orientalium rerum saluti conveniat. Valete. Data die 27 Aprilis (1462). Dux Januensium et Consilium Autianorum. N. 61. A Dorino Gattilusio, per raccomandargli giustizia in favore di An-dreolo D’ Oria. 1462, 28 aprile. (Arch. Gov. Reg. num. 18) Magnifico domino Dorino Gatalusio Mitilleni etc. affini nostro carissimo. Magnifice domine affinis noster carissime. Etsi credamus sine litteris nostris apud Magnificentiam vestram quantumcumque ex hac generosa et clara familia de Auria commendatum fore, ubi presertim de iustitia agatur que universis reddenda est; quia et nos ut scitis illi familie omni affectu dediti sumus; rogamus et hortamur Magnificentiam vestram ut providere velit quod nobili Andreolo de Auria quondam Celestreri, sive Dominico eius fratri, iustitia expedita et favorabilis ministretur contra quendam Ducam Cappelletum subditum vestrum; nam etsi nihil dictus Andreolus petat preterquam iustitiam, pergratum nobis erit quod ad cetera inter Magnificentiam vestram et illam claram familiam offitia nostra et intercessio accesserit, ex quo dictus Andreolus non solum iustitiam sed expeditionem fuerit assecutus ;„offerentes nos in omnia que Magnificentie vestre grata sint. Data Janue die XXVIII Aprilis (1462), Petrus etc. dux. N. 62. In un Consiglio della Signoria sono lette « copie quarumdam litterarum e Chaio allatarum calamitatem Mitileni referentium ». Dietro proposta di Giambattista di Goano, il Consiglio dà agli Otto costituiti sopra le GIORNALE LIGUSTICO cose di Scio « latissimam potestatem et arbitrium in cognoscendo iuqui-rendo et faciendo quecumque sibi facienda videbuntur super rebus Chii et quoniam parum prodesse videretur pedites illuc transmittere, nisi quispiam peritus rei militaris destinaretur, laudavit studendum et enitendum fore ab ipsis Octo omni cura et diligentia ut cum iis peditibus persona vel persone transmittantur que docte sint in militari disciplina. Ultra hec non pro sententia, sed memorationis gratia, dixit (Baptista de Goano), quod fama est locum illum fore plenum auro, que fama causa est impellendi tureum ad illam cupiditatem. 1462, 10 dicembre. (Arch. Gov. Cod. Diversorum Francisci de Vernatia cancellarii, ann. 1461-62) N. 63. A Giuliano Gattilusio, perchè non scarichi sale a Savona. 1463, 28 gennaio. (Arch. Gov. Reg. num. 22) Paulus archiepiscopus et dux. Nobili viro Juliano Gataluxio nobis carissimo. Nobilis vir nobis carissime. Noi avemo inteixo che voi sete per venire a queste parti cum la nave vostra, et menate cum voi una navetta de sale per Saona. La qual cosa, corno voi devei intendere, non solum a noi ma a tuta questa terra è grandemente molesta. Perchè ve preghemo et con-fortemo a voler andare o cum la nave sovra Votri, onde daremo modo che de quello sale voi porei farne uscida et lo fatto vostro cum nostro contentamento et vestra utilitate ; et ogni altro piaxere che per noi ve se posse fare lo faremo de bona volgia così corno ve scriverà etiam lo magnifico nostro cuxino Jangaleaccio. Data Janue die 28 Januarii (1463). N. 64. Allo stesso, per rimproverargli che il sale apparteneva a mercanti genovesi, e che la nave su cui era caricato spettava al Re di Portogallo. 1463, 2 dicembre. ' (Arch. Gov. Reg. cit.) Paulus archiepiscopus et dux etc. Nobili viro Juliano Gataluxio nobis carissimo. Nobilis vir nobis carissime. Intendemo che voi avei preso quella nave .......che portava sale de nostri mercadanti etiam de nostri 368 GIORNALE LIGUSTICO parenti ala Speza; la qual cosa in questa città à dato grande mormura-tioni et renoveado la memoria del caso de Inghilterra, de lo quale questa cittè à recevudo extremissimo dano como voi devei avere bene intexo : de che ve ne segue lo carego che voi podei estimare. A noi despiaxe assè questo caso, sia per respetto che simile cose ne sono de carego che in tempo nostro li nostri mercadanti recevano iacture, et specialmente da voi cum chi ghe pare presertim che noi abbiamo qualche particolare amicitia, como est vero non volendola voi perdere. Semo certi che voi debiate considerare che tegniando questi modi, questa cità non lo comportera, et noi male poressemo contradire a quelle provisioni che fossino a ciò necessarie. Ve confortemo et strenziamo per bene vostro et piaxere nostro a volerla relassare, et non voler fare dano ali citadini più corno abbiati per lo passado, aciochè abbiamo nostro podere fare degli piaxeri et.....corno nostra dispositione et se per voi non mancherà. Et per voi non de’ mancare considerando bene tuto; avisandove che lo corpo dela nave pertene alo fratelo de re de Portogallo, de che ne pò seguire quello desordine che voi potei estimare se voi non la rendeti. Data Janue die 2 decembris (1463). N. 65. Allo stesso perchè non dia la caccia a due caravelle marsigliesi, caricate di frumento da’ mercanti di Genova. 1464, 2 agosto. (Arch. Gov. Reg. num. 9) Nobili dilecto nostro Juliano Gatilusio navium duarum prefecto. Spectate vir nobilis dilecte noster. Ne forte inadvertenter damnum civibus nostris infereretis existimando damnum inferri masiliensibus, significamus luisse diebus superioribus oneratam certam quantitatem tritici in Masilia per negociorum gestores Nicolai de Furnariis et Bartolomei Sauli civium nostrorum ac aliorum quorumdam: quod vehi Januam faciebant in duabus caravellis Johannis de Crapi et Johannis Beltrandi habitatorum Masilie in illo portu Saone aplicatis. Cum ergo cives ipsi nostri intendant ut triticum predictum in portu Janue conducatur sive in caravellis predictis sive in lembis ut facilius portari poterit; volumus vos hortantes ut predictis caravellis et oneri seu lembis triticum predictum conducentibus impedimentum aut molestiam aliquam non inferatis, sed pocius auxilium vestrum si conductores tritici requisiverint porrigatis, ita quod tute ac celeriter predictum triticum ad urbem Janue, que eo eget, conducatur; et quibus quidem GIORNALE LIGUSTICO 369 caravellis et nautis intelligatur concessus salvusconductus a nobis genera-i ssimus ita ut omnia suprascripta salva omnino fiant. Data die. secunda Augusti (1464). Gaspar etc (1). N. 66. Provvedimenti contro le piraterie del Gattilusio. 1466, 18 aprile. (Arch. Gov. Cod. Diversorum ann. 1466-68) Pro provvisione contra Gataluxium. Magnificus et illustris dominus ducalis in Janua locumtenens et gubernator, et magnificum consilium dominorum Antianorum in sufficienti et legitimo numero congregatum; in presentia spectabilium officiorum Balie, Monete et Sancti Georgii, aliorumque civium numero fere sexaginta. Cum post auditos legatos ex Mediolano redeuntes, narrantesque quid quid in sua legatione egissent, et illis collaudatis ; surrexit vir nobilis Marchus Lercarius, unus ex Officio Maris, dicens ex Florentia litteras huc allatas esse, nun-ciantes Julianum Gataluxium cum una navi sua armata cepisse quamdam navem anchonitanorum novam, portate vegetum octingentarum, cum notabili mercium summa ad valorem ducatorum quadragintaquinque millium, quarum maior pars florentinorum esse dicebatur, dubitarique posse ne naves nostre que nunc Chium et alie in regnum Sicilie navigature sunt cum periculo eant, ob idque laudare rei huic fore providendum; virque nobilis Baptista Spinula quondam Georgii interrogatus quid super hoc consilii esse ei videretur, in hunc modum locutus est : Gataluxium iam diu hostem esse nominis ianuensis, nec contentum his que iam fecit pro rebus Anglie iudicio suo facturum quantum mali poterit, nisi illi aliquo modo occurratur. Quod satis laudabat. Et ob id dandam esse super his magnifico consilio dominorum antianorum et spectato Officio Maris omnimodam potestatem id omne faciendi atque providendi quod eis tam adversus ipsum Gataluxium quam pro securitate navium ad illa maria iturarum ne-cesse videbitur. Collectis omnium qui aderant vocibus, sententiam ipsius Baptiste affirmantibus ita fieri prout ab ipso Basptista memoratum fuerat statuerunt atque decreverunt. Die XVIII Aprilis (1466). (1) Gaspare di Vimercate, condottiere al soldo del Duca di Milano ch’ erasi allora insigno-rito di Genova. Giorn. Ligustico, Anno V. 24 370 GIORNALE LIGUSTICO N. 67. Nuove provvidenze contro i mali diportamenti del Gattilusio. 1466, 16 luglio. (Arch. Gov. Cod. Diversorum ann. 1466-68) Contra Gataluxium. Magnificus dominus Baldassar de Curte vicegerens magnifici et illustris domini ducalis in Janua locumtenentis et gubernatoris, et magnificun; consilium dominornm antianorum in sufficienti et legitimo numero congregati. Cum illis significatum esset in Chio multa quotidie discrimina perpetrari, maxime pro facto Juliani Gataluxii, qui istic sine ullo magistratus metu licentiam vivendi pro suo libito habere dicitur, isticque receptus post commissam ab eo predam rhodiorum ; verumque insuper alios istic esse quorum favoribus hec et pleraque alia agunt, non sine illius urbis ingenti periculo atque iactura. Considerantes loci conditionem, quod inter cetera ianuensis imperii loca primum fere momentum representat ; auditisque pluribus ex mahonensibus Chii Janue existentibus, non negantibus istic male agi et omnino remedio opus esse affirmantibus ; aliisque nonnullis civibus qui paulo ante ex Chio venere hec omnia amplioribus insuper verbis referentibus ; elegerunt quatuor infrascriptos prestantes cives, quibus curam attribuerunt inquirendi diligenter tam apud mahonenses quam alios quoscumque voluerint quecumque istic male agantur tam ex causa Gataluxii quam aliorum quorumcumque occurri ac provvideri tot malis possit, ac saluti illius urbis consuli ne in periculum interitumque trahatur. Quod omni'diligentia perquisito referant ipsis magnifico domino vicegerenti et consilio quid in predictis invenerint quidve in ea re fieri posse cognoverint. Et quorum nomina sunt hec : Meliadux Salvaghus , Brancaleo de Auria, Nicolaus de Furnariis et Antonius de Casana. Die XIV Julii (1466). N. 68. La Signoria concede all’ Uffizio di San Giorgio la facoltà di appaltare e raccogliere « drictum Anglie Gataluxii, prout et quemadmodum ipsi Officio publice utilitati conducere magis existimaverit ». 1471, 28 settembre. (Arch. Gov. Cod. Div. ann. 1481 e sopra η.» 57). N. 69. « Marcus de Auria qm. domini Francisci, tanquam procurator ... domini Dorini Gataluxii domini Enii heredis qm. domini Nicolai Gataluxii heredis giornale ligustico 371 qm. alterius domini Dorini Gataluxii, sciens egregium legum doctorem dominum Vicarium Sale prime . .. esse hodie laturum sententiam in causa peticionis deposite per ipsum Marcum dicto nomine coram prefato domino Vicario.....contra Blaxium Justinianum nominibus in actis », fa una dichiaiazione relativa alia causa, « Actum Janue » etc. 1479, settembre. (Arch. Not. Atti di Fraucesco da Camogli, ann. 1477-80, num. 292) N. 70. Dorino Gattilusio figlio ed erede di Palamede, fa cessione condizionata degli aviti dominii a Marco D’ Oria, pel caso in cui venissero liberati dall’ occupazione dei turchi. 1488, 3 dicembre. (Arch. Not. Atti di Lorenzo Costa, ann. 1488, num. 322) In nomine Domini amen. Magnificus et generosus dominus Dorinus Ga-teluxius unicus filius et heres qm. magnifici domini Palamedis Gataluxii domini Enei, Samotracie insule etc., ac etiam unicus heres tanquam proximior agnatus magnificorum qm. dominorum Dominici et Nicolai de Gataluxiis qui fuerunt filii et successores ac heredes qm. magnifici domini Dorini domini insule Mitileni, Foliarum veterum et insule Taxii etc., que omnia dominia licet ad ipsum dominum Dorinum modernum de iure spectant et pertineant, de facto tamen et propter demerita Christianorum proh dolor! occupantur a tureis, que tamen sperari possunt aliquando per Dei misericordiam recuperari debere a christianis vel aliquo principe cristiano, quod concedat Altissimus; sciens spectabilem et generosum dominum Marcum de Auria qm. domini Oberti civem Janue in predictorum et aliorum concernentium cultum et augumentum christiane religionis esse bene animatum, et cupere ad id opus pro sua virili studium et operam impendere et si poterit curare ut insula Mitileni ad ipsum perveniat; volens eius bonum animum sanctumque propositum quantum in se est adiuvare ut iustiori titulo ad suum desiderium pervenire possit ; omni modo via iure et forma quibus melius et validius potuit et potest......cessit, donavit etc. per se et heredes ac sucessores suos quoscumque.....dicto nobili et generoso domino Marco de Auria qm. domini Oberti presenti, et pro se et heredibus suis .... recipienti et acceptanti, omnia et singula iura et actiones .... quas hebet et que sibi competunt.... in dominio et insula Mitileni et pertinendis et Foliis et toto dominio quod erat dominorum 372 GIORNALE LIGUSTICO Mitileni et Foliarum; declarato tamen quod quandocumque a christianis re-* cuperari dominium vel possessio dicte insule contingeret, quod speratur medio christianissimi domini regis francorum cuius bonam gratiam dictus nobilis Marcus habere videtur, et casu quo dicta insula ad manus et potestatem dicti nobilis Marci perveniat, eo casu non obstantibus contentis in presenti instrumento liceat et licitum sit ipsi domino Dorino habere.....quascumque possessiones et terras quas in dicta insula Mitileni habebat et tenebat quondam dominus Palamedes Gataluxius pater ipsius domini Dorini; salvo et specialiter reservato si dominium Enei Foliarum Tasii et Samotracie medio dicti domini Marci recuperaretur eo casu, pervenire debeant dicta /oca videlicet Enei Tasii et Samotracie tantum et restitui dicto domino Dorino ; et eo casu dicte possessiones reservate in insula Mitileni nullo iure spectent dicto domino Dorino, sed pleno iure spectare debeant dicto Marco et eius heredibus ac successoribus. Actum Janue in palatio solito magnifici domini potestatis civitatis, Janue in sala de medio Serravallis videlicet ad cameram solitam in dicta sala prefati magnifici domini vicarii, anno millesimo CCCC octuagesimo octavo, indictione sexta secundum Janue cursum, die mercurii tercia decembris in vesperis. FINE DEI DOCUMENTI. ISCRIZIONI GEMMARIE Seconda Serie Le nuove iscrizioni gemmarie che presento ai cultori di questo ramo d’ archeologia, son destinate a far seguito alla serie da me pubblicata nello scorso giugno, dalla quale, anzi, non vanno disgiunte che per effetto della necessaria scompartizione dello spazio fra le diverse materie nel modo più consentaneo all’ indole ed alla peculiare economia del volume di cui fanno parte: epperò ho dato alle iscrizioni di questa seconda serie una numerazione continuativa a quelle della prima; e per la stessa ragione eviterò studiosamente di qui ripetere cose dette o accennate colà, riferendomi onninamente a quanto GIORNALE LIGUSTICO 373 già esposi così intorno alla utilità in genere d’ una silloge di iscrizioni gemmarie, come sulla ragione speciale del lavoro da me iniziato ; nonché circa il metodo, per quanto difettoso, che mi è forza di seguire in relazione al modesto intento che mi propongo, che è non già di compilare una silloge sistematica, ma di porre a disposizione di quanti si interessano all’ incremento delle epigrafiche discipline un contributo di materiali non del tutto greggi ed informi, bensì in parte già elaborati e resi suscettibili di un trattamento scientifico. Per quanto risguarda in particolare la provenienza delle iscrizioni della presente serie, mi corre l’obbligo di qui esternare la più sentita gratitudine verso i signori Carlo Kunz direttore del Museo civico di Trieste, conte Gio. Battista Rossi Scotti direttore onorario del Museo di antichità di Perugia e comm. Santo Varai, l’illustre scultore genovese, per la squisita cortesia onde si compiacquero comunicarmi, i due primi le impronte delle gemme inscritte dei rispettivi musei e 1’ ultimo quelle della ricca ed interessante sua collezione privata. 35. M-VEL Cavallo al galoppo; sotto il cavallo, scudo ovale. Intaglio in calcedonia nel Museo civico di Trieste. Il simbolo del cavallo corrente consiglia di riferir l’anello-sigillo ad un M(arcus) vel(ox) , anziché ad un individuo della gente Velia: tanto più avendo riguardo alla paleografia del titolo, la quale accusa un’epoca abbastanza alta, mentre le memorie che ci rimangono del casato dei Velii sembra non rimontino guari al di là del II secolo (i). (i) Il più insigne personaggio conosciuto di questo casato è il Velio Fido della Gruteriana 607, 1 (Orelli, 4370). ü quale era membro del collegio dei Pontefici in Roma, e però vir senatorius, nel 155 dell’èra volgare. 374 GIORNALE LIGUSTICO Antico, invero, è il costume di enunciare su certi titolili cognome congiunto al prenome senza il gentilizio, special-mente trattandosi di individui di qualche nascita, il cui terzo appellativo fosse talmente proprio e conosciuto da non poter dar luogo a dubbiezza circa Γ identità personale del titolare. Cosi leggiamo su monete della Repubblica Ti Augurinus, M. Metellus, 0. Molo, M. Carbo, C. Cato, C. Pulcher, P. Laeca, L. Torquatus, P. Sabinus, C. Malleolus, L. Censorinus, P. Galba, Cn. Magnus, L. Buca, C. Pausa ecc. (i); così su monumenti epigrafici d’altre classi M. Lucullus, Cn. Lentulus, C. Piso, M. Messalla, L. Philippus, M. A grippa, M. Crassus, C. Caesar, L. Paullus, L. Lamia, Cn. Cinna ecc. (2): dove l'aggiunta del prenome significa che il cognome ο Γ agnome diacritico dei personaggi così designati, se potea dirsi proprio, o quasi, della loro rispettiva famiglia, era però in pari tempo comune ad altri membri della stessa; onde facea gran mestieri, per distinguere i singoli individui, citare, oltre il cognome od agnome diacritico, anche Γ appellativo personale o prenome che dir si voglia. Or non trovandosi guari in uso il cognome di Velox nè sotto la Repubblica nè sotto i primi Cesari (3) ; la sua singolarità renderebbe appunto ragione del fatto di trovarsi adoperato senz’ altra indicazione che quella del prenome a designare il titolare. Lo stesso stile onomastico trovasi in uso su altri titoli gemmari; infra i quali mi limiterò a ricordare il C · METE LI di erudito intaglio col tipo della chimera, edito dal ch. P. Gar- (1) Garrucci, Syll. inscr. lat. aevi rorn. reip., 173, 196, 205, 207, 209, 241, 237, 234, 248, 235, 287, 326, 386, 399, 407. V. anche quelli citati nei miei Sigilli antichi romani, pag. 54, num. 106. (2) Orelli-Henzen, 1483, 3673, 5355,6160,2561,2565,7137,7300, 7368, 644. (3) Più tardi, sembra che questo cognome sia stato diacritico di un ramo della famiglia Stazia di Sentino (Wilmmans, Exx., 135, 2857). GIORNALE LIGUSTICO 375 rucci nel Bollettino archeologico Napoletano (i), e da lui riferito con molta probabilità a Metello Caprario console del-Γ anno 639 di Roma, a causa della Κίμαφαν = lat. capra, postavi a simbolo dell’ agnome Caprarius. Chi poi preferisca leggere m(arcus) vel(lius), potrà supporre che la rappresentanza del cavallo corrente stia quale emblema del cognome; nel qual caso, sul riflesso che ugual tipo figura sul rovescio di monete di Calazia con all’ esergo la leggenda osca ΙΤΝΊΝΜ (2) , non apparirà inverosimile la congettura che sotto quel simbolo possa celarsi 1’ appellativo Calatinus, derivato per avventura al titolare dalla sua origine da quella città della Campania, e non ignoto d’ altronde nel-1’ onomastico romano, per essere stato portato dal console M. Attilio contemporaneo della prima guerra punica (3). 36. ..EVIA Entro un rettangolo ansato a coda di rondine. Diaspro rosso frammentato, nel Museo civico di Trieste come 1 antecedente. Tenuto conto dello spazio mancante per la frattura della pietra, apparisce plausibile il supplemento hzìzevia , o îzæevia. 37. ....UDI··· ... IDROI · · Corniola frammentata, nello stesso museo. Tralasciando di occuparci della prima linea, di cui il frammento superstite è invero si esiguo da prestarsi a troppe combinazioni, per quanto rimane della seconda riga si potrebbe proporre il restauro denOROph(orits), sia che si tratti dell 0- (1) N. S. I, pag. 179, tv. XI, 7. Cf., Syll., 2284. (2) Friedlaender, Osk. Mùn\en, tf. I\ , 3. (3) Cicer. , prò Sext., 83 ; De senect., 17. T. Liv. Epit. XIX. L. Flor., Epit. rer. Roman., II, 2. 376 GIORNALE LIGUSTICO monimo sodalizio, 0 collegium di cui è menzione su numerose lapidi, sia che trattisi invece d’un cognome, raro non essendo il caso di titoli di cariche adoperati in tale funzione. Così in sigillo in bronzo da me illustrato, con TI · .VLI 11 LVPERC quest’ ultima voce nulla ha che vedere coll’ onomimo sacerdozio (1). E dicasi lo stesso di una lapide inscritta T · VETTIO AVGVSTALI, la quale porse argomento al Roulez (2), di svolgere una serie di dotte considerazioni sull’ Augustalità, quando sta in fatto che F Augustali di detto titolo non enuncia altrimenti il sacerdozio, ma bensì semplicemente il cognome di T. Vezzio: come non diverso è il caso del cippo di Savigliano con NVMINI DIA || NAE AVG || VALERIA EPI II THVSA MAG (3); dove il prof. Vallauri interpretò le due ultime parole Epithusa Magna, ravvisandovi l’indicazione del sacerdozio della titolare Valeria mediante la derivazione della voce Epithusa dal greco έπιθ-υε^ν (4); mentre invece MAG è puramente la nota di Magistra (sacrorum), indicante che Valeria era a capo delle sacerdotesse di Diana, ed Epithusa altro non è che il cognome della stessa liberta Valeria (5). 38. φAl ΔΡΟΥ Smeraldo, nello stesso museo. (1) Sigilli ant. rom., tv. V, 68, pag. 33, num. 40. (2) Mélanges de pbil., d’bist. et d’antiq. II, 10. Anche ΓAugustalis del num. 3092 dell’ Orelli è cognome. (3) Orelli-Henzen, 6094. C. Promis, St. dell’ant. Torino, num. 225. (4) Episi. de ara lapidea, 1855. (5) Si potrebbe tessere un lungo catalogo degli errori a cui diedero luogo le voci Augur, Apollinaris, Flaminalis, Mercurialis, Minervalis Sacerdos e simili ricorrenti talvolta in epigrafi in funzione di cognomi, e da altri interpretate come titoli delle omonime cariche. Ho parlato in altro scritto del congenere equivoco a cui si prestò il cognome Censor nella Muratoriana 27, 4. giornale ligustico 377 Il possessore dell’anello, Fedro, ha voluto prendere a simbolo del suo nome la gemma stessa su cui questo è inscritto al genitivo, che è il caso più proprio per indicare il possesso. Se, infatti, φαιδρός suona splendido e lieto, niun simbolo potea sembrargli più atto ad esprimere queste qualità che lo smeraldo, tenuto in grandissimo pregio presso gli antichi appunto pel suo splendore (i), e il cui color verde era emblema della primavera e della giovinezza, che è quanto dire delle due fasi più liete nella vita della natura e dell’ uomo. 39- IVNDO---- Al di sopra della leggenda, un ramo di palma ; sotto, corona lemniscata. Niccolo frammentato a due strati, ceruleo e nero, nello stesso museo. Il titolare si manifesta dal frammento superstite un ivn(zzìì), del cui cognome non resta che la sillaba don inizio probabile di donatus. Il pensiero ricorre involontariamente al Giunio Donato console per la seconda volta nell’anno 260, il cui nome segna la data della nota tavola di patronato di Corezio Fusco (2). In questo caso i simboli della palma e della corona lemniscata avrebbero una plausibile spiegazione, il primo nei fasti trionfali del casato, e il secondo nel bisticcio a cui si presta il cognome stesso per allusione alla forinola corona donatus ovvia sui titoli onorari dei personaggi illustri pei gesta militari. (1) Rammenterò la leggenda relativa al mausoleo di Ermia nell isola di Cipro, sul quale era scolpito un leone di marmo con occhi di smeraldo , il cui splendore avea per effetto di allontanare i tonni dalla ri\ a dove sorgea il monumento; tanto che i pescatori fecero instanza perchè venissero a quel leone cambiati gli occhi. (2) Muratori, Nov. Thes. vet. inscr.,pag. 565,1. Wilmmans, Exx., 2857. 378 GIORNALE LIGUSTICO 40. 3Λ Nil Globo, i cui punti cardinali sono segnati da quattro raggi, portanti ognuno all’ estremità una lunula falcata. La leggenda è disposta negli spazi fra i raggi, in guisa che in ogni intervallo è inscritta una lettera. Intaglio in corniola, nello stesso museo. Sembra doversi leggere AEilN, senonchè, avendo riguardo ai simboli astronomici, direi che siffatta voce, anziché il nome od una allusione a questo, possa significare un titolo sacerdotale del possessore dell’anello; niuno ignorando, infatti, come gli iniziati al quarto grado dei misteri di Mitra venissero appunto insigniti della denominazione di Leoni, cui veg-giamo ostentata dai titolari non pure in monumenti votivi, ma eziandio in titoli sepolcrali (1), e come Leonliche, fossero appellate le cerimonie religiose proprie di un tal grado d’iniziazione (2). Può anche alludere alla λεοντούχω πηγή, di cui parla Psello come d’ una superstizione ancora vigente a’ suoi tempi (3). Questa sorgente leonina era la sorgente d’ ogni vita, una specie del Brama degli Indiani, e veniva rappresentata presso gli Gnostici dallo Cnéphas o Cnouphis a testa di leone che ricorre su tanti dei così detti abraxas (4). Da essa derivano il primo padre, 0 principio generatore, quindi il secondo padre, ambedue menzionati nello stesso passo di Psello. (1) C. Ramelli, Monum. mitriaci di Sentino, Fermo, 1853, Pao· 20· Mommsen, C. I. L., III, 3415. Orelli-Henzen, 6042 b. (2) C. I. L., VI, 749-754. (3) Pselli Miscellanea, nella Bibliotheca Graeca medii aevi di G. N. Sathas, Venezia, 1876, V, pag. 57. (4) Matter, Hist. du Gnosticisme, atlante. GIORNALE LIGUSTICO 379 41· ----HONOI/' Due mani congiunte. Cammeo in niccolo a due strati; tipo e leggenda in rilievo bianco su fondo nero; nello stesso museo. Il simbolo delle due mani congiunte, e più ancora il riscontro di iscrizione sottostante ad analoga rappresentazione su agatonice del Museo di Pietroburgo (i), non lasciano dubbio che questo frammento epigrafico abbia a restituirsi ΟΜΟΝΟΙΑ· Trattasi molto probabilmente d’ un anello nuziale, su cui la rappresentanza e Γ iscrizione stanno perfettamente all’ unissono : la voce δμόνοιχ, infatti, significa concordia, come di questa son notissimo e significantissimo emblema le mani congiunte. Ancora potrebbe riferirsi al culto della dea Concordia, popolarissima in Roma e nelle provincie siccome quella che presiedeva tanto alle riconciliazioni ed agli accordi fra individui o famiglie, quanto ai componimenti ed alle transazioni fra i diversi ordini dello Stato si sovente divisi e in lotta, nonché alle alleanze e trattati fra città o popoli; di che molte memorie ci tramandarono i monumenti, special-mente le medaglie e le gemme. Nè improbabile, finalmente, apparirà la congettura che il possessore dell anello portasse il cognome Concordius, di cui ricorrono parecchi esempi su lapidi (2), 0 Concordia, congenere a Spes, Felicitas, Fides, Veritas, Pietas, Aequitas e simili, desunti dalle dee Virtutes e di uso sì frequente nella romana nomenclatura. 42. €AAB€0 Lepre inseguita da un cane. Cammeo in niccolo a tre strati ; (1) Panofka, Gemmen mit Inschrìften negli Ahhandlungen der Voniglì-chen Aiademie der IVissenschaften %u Berlin, 1851, tf. I\ , 30· (2) Wilmmans, Exx., 1887, 2280, 2715. 380 GIORNALE LIGUSTICO animali e leggenda in bianco; campo nero; sotto, altro strato turchino. Nello stesso museo. Elabeo è qui probabilmente un cognome che sta all’ ovvio Labeo-onis, come Ecarpus a Carpus, Erullus a Rullus, Epityn-chanus a Pitynchanus, Ebdinus a Belinus e via discorrendo. Il che essendo, si capisce come il possessore dell anello abbia adottato per suo sigillo il tipo della lepre che fugge incalzata da un cane, giuocando sull’ analogia fonetica del proprio cognome col verbo elabor, io sfuggo : e ciò forse per allusione a qualche critico avvenimento di. sua vita ; nel qual caso il tipo costituirebbe un emblema parlante, il cui significato verrebbe ad essere: me la son cavata, come si dice, a buon prezzo. Non v’ ha dubbio che ove tale fosse stato il cognome di Orazio, diffìcilmente avrebbe questi potuto escogitare una impresa più appropriata ad emblemeggiare quel sì caratteristico episodio della sua giovinezza che egli ricorda nella famosa ode a Pompeo : Tecum Philippos et celerem jugam Sensi relicla non bene parmula; Quum fracta Virtus et minaces Turpe solum tetigere metito. 43· AFF Due galli, di cui 1’uno pettoruto e colla testa alta; 1’ altro colla cresta abbattuta e con andar cascante. Intaglio in diaspro rosso, nello stesso museo. Qualunque possa essere il nome o il motto che si nasconde sotto le lettere incise nel campo, non v’ ha dubbio doversi il tipo riferire agli άλεκτρυόνων άγώνες, contuttoché non vi figuri il solito simbolo della palma o corona. Questa rappresentanza di cui con taluna variante ricorrono GIORNALE LIGUSTICO 38i moltissimi esempi nell’ antichità figurata, specie su gemme (1), veniva adoperata, vuoi in senso proprio, che è quanto dire a particolare ricordo d’un divertimento pel quale i Greci segnatamente erano appassionatissimi, vuoi in senso lato come emblema delle lotte del circo, della palestra e dell’ anfiteatro, vuoi finalmente in senso allegorico, al che variamente prestavasi, figurando essa, infatti, persino qual motivo di simbolica funeraria su bassorilievi di cippi e di sarcofagi (2). 44· mAl LLI AA Entro un serto, 0 torque, sulla parte àntica di diaspro nero opistografo frammentato, nello stesso museo. La prima linea, letta da destra a sinistra, dà il nome di IACO, caratterizzando così la pietra per un amuleto gnostico. Le tre lettere della linea susseguente suonano AACO = in~ tuisco, intendo, bramo, voglio; riferendosi a ΙΑίΟ col nome del quale costituiscono una forinola di divozione e forsanche di esorcismo. 45· ^A Sulla parte postica del diaspro antecedente. (1) Winckelmann, Pierres gravées de Stosch, pag. 33 sgg., num. 696-701 ; pag. 538, num. 193-95. Tòlken, Geschn. Steine, pag. 144, num. 490-92; pag. 352, num. 82, 81; pag. 418 sg., num. 234-40. Pierres grav.du due d'Orléans, I, pl. XXXIX. O. Jahn, Arch. Beitrâge, tf. Ili, 4, 5,6. Pa-nofka, Bilder antiken Lebens, X, 5, '6, Gemm. mit Inschr., tf. IV, 45. Anche presso di me sono alcune rappresentanze gemmarie relative al-1’ άλεκτρυονομαχία, e altre non poche ne vidi in collezioni pubbliche e private. (2) Zoëga, Bassirii. ant., II, pag. 194· Clarac, Mus. desculpt., 191, 392, 200. Gerhard, Beschreib. Roms., II, 2, pag. 73. Panofka, Veihge-schenke, pag. 1$. Benndorf e Schône, Laterali. Mus., num. 189. Gar-rucci, Mus. Later., tv. XXXV, pag· 59. 382 GIORNALE LIGUSTICO Senza meno son queste le iniziali del basilidiano AB(>ïU'a5), il cui nome giustifica e conferma la proposta lezione dell’ e-pigrafe inscritta sul lato anteriore. 46· MA XIMV Z Niccolo bruciato, nello stesso museo. L’ enunciazione del solo cognome dee tanto meno stupirci nel presente titolo, in quanto che il cognome stesso è uno di quelli che costituiscono da per se stessi un contrassegno di nobiltà. Maximus, infatti, come Avitus, Bassus, Capito, Celsus, Clemens, Dexter, Festus, Firmus, Fronto, Gallus, Honoratus, Marcellus, Niger, Paternus, Postumus, Probus, Proculus, Rufus etc., appartiene ad una categoria di cognomi, i quali senza potersi dire propri d’una particolare famiglia, quali sarebbero, per figura, Caesar, Cinna, Lamia, Lentulus, Lepidus, Piso etc., non appariscono tuttavolta, per quanto molto comuni, mai o quasi mai usurpati da libertini, di guisa che si mantennero per più secoli, come dice Tacito, equestri (1). Di vero, sotto il rapporto onomastico, non era il gentilizio ma il cognome che contrassegnava la condizione sociale, e sopratutto i natali d’un individuo, potendo benissimo questi ostentare un illustre gentilizio, però per clientela, manumissione 0 arrogazione, mentre in virtù di questi o d’ altri effetti giuridici non gli era lecito assumere un cognome proprio d’ una classe sociale più elevata. Il liberto che per effetto della manumissione avea assunto il prenome e il gentilizio del patrono, riteneva peraltro a cognome l’antico nome proprio servile; intorno a che son notigli editti dell’imperatore (1) Cf. Mommsen, C. I. L., V. pag. iioo, il quale a ragione soggiunge in proposito: sed haec quaestiones expectant adhuc qui eas pertractet. GIORNALE LIGUSTICO 383 Claudio per impedire che libertini 0 forestieri potessero usurpare cognomi propri a cittadini romani (r). Vero è bensì che i libertini trovavano modo di eludere il divieto imperiale trasformando il proprio nome peregrino, sia mediante la traduzione di esso in latino, come apparisce da molte lapidi, dove troviamo p. es. il nome grecanico Eurostus latinizzato in Vegetus, e così Moschus in Vitulus, Thalassus in Marinus (2) e via dicendo; sia con altri sotterfugi; come quello a cui allude il brioso epigramma di Marziale sul conto di un tal Cinnamis, il quale nell’ intento, appunto, di dissimulare la sua bassa origine, messa in troppa evidenza dalla grecità del proprio nome, avea pensato di sopprimere 1’ultima sillaba di questo, mutandolo così in Cinna, notissimo cognome di uno dei più illustri rami della casa Cornelia: Cinnam, Cimarne, te iubes vocari: Non est hic, rogo, Cinna, barbarismus? Tu si Furius ante dictus esses, Fur ista ratione dicereris (3). Coi criteri paleografici a cui dà luogo in specie la forma della Z che sulla gemma ha l’asta obliqua da sinistra a destra, (1) Libertinos, qui se pro Equitibus romanis agerent, publicavit. Sueton. , Cìaud. XXV. Peregrinae conditionis homines vetuit usurpare romana nomina, duntaxat gentilicia. Id., ibid.; dove ben s’appone il Burmann, in ciò a torto contraddetto dall’Ernest e dall’Oudendorp, giudicando le ultime due parole come una interpolazione di qualche annotatore: essendo infatti incontestabile che i forestieri poteano assumere un gentilizio romano vuoi per manumissione , del che non occorre arrecare esempi, vuoi per clientela come ’ per citarne uno fra i tanti, il Ti. Claudius Atticus Herodes console dell’ anno 145 ; laonde è chiaro che il divieto dell’ imperatore Claudio di cui parla Suetonio non potea riguardare che i cognomi propri di cittadini romani. (2) C. Promis, St. dell’ ant. Torino, pag. 162, 241. (3) fyigr. VI, 17. 334 GIORNALE LIGUSTICO collimano gli ortografici per riportare il titolo ad impero inoltrato, essendo usitata nei primordi di questo a preferenza la forma ortografica Maxumus. Diaspro rosso circolare, frammentato, nello stesso museo. Allo stato in'Cui si trova, il frammento non è suscettivo di plausibile restituzione. Ametista, nello stesso museo. La forma generale dei caratteri, e in particolare il P col riccio aperto, Γ O perfettamente tondo, l’A senza la traversa orizzontale e altri indizi riportano questa iscrizione ai tempi repubblicani. A quell’epoca, appunto, era usitato l’appellativo di Postila in qualità di prenome femminile, di che si può citare un esempio in titolo aletrino (i), e altro in lapide di Trebula Mutuesca (2) ; motivo per cui proporrei come abbastanza attendibile Γ interpretazione pos(z7/a) avf(idia). A chi per altro preferisca leggere pos(illus) in funzione di cognome maschile, potrà fare ostacolo la mancanza di esempi, non però P ordine inverso della nomenclatura, cioè la preposizione del cognome stesso al gentilizio ; essendo questa d’ uso costante in Roma nel VI secolo, ogniqualvolta si ommettesse il prenome (3). Arrogi che secondo ho altrove spiegato (4), (1) Garrucci, Syll., 1519. (2) Id., ibid., 1874. (3 )____Si praenomen omittitur, cognomen hac aetate praeponi gentilicio solet. Garrucci, ibid., il quale cita come rarissima eccezione alla regola la leggenda av(relius) rvf(us) sul rovescio di noto denario famigliare col tipo di Giove in quadriga, 122. (4) Sigilli ant. rom., num. 47, pag. 35. 47· • 9 Al 48 POS·AVF GIORNALE LIGUSTICO 385 fuvvi più tardi un’ epoca durante la quale codesta usanza forse non mai pienamente dismessa, ebbe un nuovo periodo di voga nel mondo romano: imperocché, senza parlar qui dei cognomi · adoperati a guisa di prenomi, come Volusus Vale-rius Messalla, Cossus Cornelius Lentulus, Taurus Statilius Corvinus, Paulus Aemilius Regillus, Paulus Fabius Maximus, Faustus Cornelius Sulla, Galeo Tethienus Petronianus etc., intorno alla ragion dei quali fia colla solita dottrina discorso il Mommsen (1), son notissimi esempi negli ultimi anni della republica Pulcher Claudius, Rex Marcius, Pansa Vibius etc. (2), sotto i primi Cesari Camillus Arruntius console dell’anno 32, Planta Julius intimo dell’ imperatore Claudio etc. (3), nonché Gallus Asinius, Varus Quinctilius e altri cosi nominati da Tacito, nel quale il Borghesi ha giustamente avvertito la particolarità dell’anteporre, enunciando la nomenclatura di alcuni personaggi, non di rado il cognome al gentilizio (4), indizio d’ una pratica vigente ai suoi tempi. 49. AQFM Niccolo ovale a due strati, nello stesso museo. È il titolo d’una donna, a(....m) qQuinti) f(ilia) M(axima?'), con nomenclatura propria dei buoni tempi. 50. K L · h A Entro un clipeo. Corniola frammentata nello stesso museo. La prima lettera è forse sigla dell’ arcaico rarissimo prenome (1) Rômiscbe Forschmgen, I, pag. 34 e seg. (2) Garrucci, Syll. 1062, Wilmanns, Exx., 2781 a. (3) Mommsen, Hermes, III, 133; IV, 99· (4) Fasti capitolini, l, p. 49· Giorn. Ligustico, Amo V. 386 GIORNALE LIGUSTICO Kaeso o Kaiso, a ragione del quale opina il Garrucci che i Latini ricevessero primamente nel toro alfabeto Γ elemento K, allorquando invalso essendo F uso di segnare i prenomi per mezzo di sigle, era d’ uopo trovar modo di distinguere il prenome Kaeso dall’ altro Caius, che prima si scrivevano ambedue col (. Si- VIVAZ FELIZ a lettere bianche in corniola bruciata, rettangolare, nello stesso museo. Sarebbe utile istituire diligenti raffronti paleografici e stilistici fra le gemme con iscrizioni congeneri alla presente, quali vivas , bene vivas , feliciter , ave , vale , zeses , xaipe, vtere felix etc., di cui non vi ha penuria nelle collezioni pubbliche e private. Probabile risultato di tale esame comparativo sarebbe, per quel che io ne penso, di porre in sodo che tutte quante le gemme di questa categoria appartengono ad uno stesso periodo cronologico, al quale sarebbero pari-menti a riferirsi i sigilli in bronzo inscritti con simili acclamazioni. Questo risultato avrebbe evidentemente per effetto di infirmare la teoria dei dattiliologi dello scorso secolo, vigente in parte anche nel nostro, giusta la quale tutti, o quasi, i tipi che presiedono alle diverse categorie in cui si divide la classe gemmaria avrebbero avuto una esplicazione più o meno sincrona, e i singoli utenti avrebbero adottato l’uno piuttosto che l’altro di essi a seconda delle circostanze anziché dei tempi. Stando a questa teoria, erano le eventualità di un lutto, di una festa, di un ufficio ecc., che determinavano presso la stessa persona 1’ uso di questa anziché di quella fra le rappresentanze gemmarie, delle quali eranvene di correla- giornale ligustico 387 tive a tutte le circostanze ordinarie della vita (1). Sembra invece più conforme alla ragione ed alla esperienza che ciò che si è fin qui creduto sincrono nello spazio abbia a ritenersi successivo nel tempo; in altri termini, che un processo di logica evoluzione abbia determinato successivamente Γ apparita storica nel campo dell’arte dei principali tipi gemmari, e che perciò ad ognuno di questi, che rappresenta uno sviluppo peculiare nel giro delle idee, corrisponda uno speciale periodo nella storia dell’ arte. In base a siffatti principi apparisce al tutto verosimile che in un primo periodo le rappresentazioni figurate degli anelli segnatori avessero un carattere quasi esclusivamente religioso, ed esprimessero deità tutelari del paese, della gente 0 famiglia di coloro che le aveano adottate per proprio sigillo 0 contrassegno. A questo successe il periodo delle rappresentanze riferibili a personaggi ed avvenimenti dei cicli eroici; a cui tenne dietro quello delle illustrazioni gentilizie e nazionali, consistenti nelle imagini degli insigni antenati e nella riproduzione di soggetti relativi alle gloriose gesta dei medesimi, e cosi via via secondo un processo da me esposto e dichiarato in un lavoro speciale, dove ho cercato di determinare P ordine successivo e la cronologia della principali categorie della classe gemmaria, con criteri desunti in particolare dai tipi dei coni adoperati dai magistrati monetali della Republica, i quali tipi ebbero di necessità una singolare strettissima convenienza con quelli degli anelli segnatori in uso alla stessa epoca, rispondendo sì gli uni che gli altri all’ identico scopo di esprimere un peti) Il Gori nel suo Novus Thesaurus geminarum, Roma 1781, divide le rappresentanze gemmarie nelle seguenti 24 categorie : Tutelares , Votivae, Misticae, Ojjiciosae, Amatoriae, Gameliae, Natalitiae, Horoscopae, Didasca-licae, Litterariae, Mechanicae, Militares, Historicae, Provinciales, Circenses, Jocosae, Gryphi, Funebres, Prophylaticae, Amphibiepticae, Encolpiae, Scarabei, Magicae, Christianae. 388 GIORNALE LIGUSTICO cullare contrassegno, quasi a dire la armonìe· dei singoli utenti e titolari. Sulla gemma la grafia della Z è identica a quella del n. 46. 52. MAA ZNF X Entro un circolo formato da un serpente che si morde la coda. Agata dello stesso museo. Il serpe con in bocca la coda, noto simbolo dell’ immortalità, e Γ astro che brilla nel campo, indicano abbastanza che Γ iscrizione appartiene alla categoria dei così detti segni o caratteri magici, di cui è menzione fra le superstizioni citate da Pselìo (1), e che credevansi atti a scongiurare i malefizi e a preservare dai morbi. Un apprezzabile criterio circa la cronologia della gemma potrà desumersi dal fatto che Γ identico tipo del serpe che si morde la coda ricorre sul rovescio di monete battute da Caracalla (2) e da Elagabalo (3) : sapendosi che gli artisti litoglifi riproducevano non di rado, più o men fedelmente e talvolta in modo servile, tipi copiati su quelli delle monete imperiali contemporanee (4). 53· ΡΓ Testa muliebre coi cappelli raccolti in nodo all’ occipite. Intaglio in corniola nello stesso museo. (1) Miscellanea, nella citata Bibliotli. Graeca med. aevi del Sat’nas, V, pag· 57· (2) Revue numismatique, 1861, pl. IV. 9. (3) Mionnet, Descript, des médailles ant., V, p. 355, η. 133. (4) Il tipo del serpe che morde la coda è frequente sulle pietre gnostiche. Cf. Chabouillet, Catalogue, 2170, 2176, 2177, 2178, 2180, 2199, 2202, 2204, 2205, 2206, 2250. GIORNALE LIGUSTICO 389 S’egli è vero, come è verissimo, che uno dei più sicuri criteri per la determinazione cronologica delle antiche opere d’arte possa desumersi dalla foggia di acconciatura della chioma nelle rappresentanze femminili, sarà il caso di riferire colla maggiore probabilità quest’ intaglio alla seconda metà del VII secolo di Roma, offrendo esso, infatti, un ritratto muliebre con pettinatura identica a quella della protome della Vittoria sul dritto dei noti denari di L. Valerio Fiacco, fra il 640 e il 660, e di C. Valerio Fiacco dell’anno 672 (1). Tale plausibile congettura, a cui punto non disdicono i particolari stilistici del lavoro, vien poi singolarmente corroborata dalla paleografìa del P col riccio aperto, propria dell’età anteagustea; alla quale, del pari, non è alieno l’uso del gamma greco in vece della G· 54. ΜΞ NZEWCIE A Il dio solare Abraxas colla testa di gallo e le gambe serpentine, loricato, lo scudo nella sinistra e la sferza nella destra. Intaglio in diaspro sanguigno nello stesso museo. Circa la natura e il carattere di questa leggenda e delle parecchie altre seguenti, mi riferisco in tutto a quanto ho esposto e dichiarato riguardo alle iscrizioni delle pietre gnostiche in genere al num. 29. 55. ΝΠ ΤΙΞΧΜ N Simulacro di divinità astata, in lungo chitone, stante sulla groppa di leone ruggente che tiene distesa bocconi sotto le (1) Cohen, Descript, gen. des monti, de la Rep. Rotti., pl. XL, 3, 4. Anche il quinario della stessa famiglia, ma di età posteriore, id. ibid., 13, offre lo stesso tipo tradizionale. Garrucci, Syll., 239, 297, 397 c. 390 GIORNALE LIGUSTICO quattro zampe una figura umana. Parte postica del diaspro descritto al num. antecedente. La rappresentanza è riferibile ad uno dei cosmagi, o meglio cosmagogi, ai quali era assegnata una parte importantissima nella teogonia gnostica. 56. ΞΜΔΣ AHAXIM 3ΊΤΝΛ83ΘΔΖΑΔ -i/\ìKQo nome che i Basilidiani davano al Demiurgo, dal quale reputavano emanati i sei geni Iao, Sabaoth, Adonai, Ehi, Oraios, Asfaphaios. Il caduceo appella all’ Hermes psicopompo. 65. L · FAI Apollo-Sole, stante, radiato, la sferza in mano. Intaglio in diaspro frammentato da me osservato presso il signor Pacini negoziante di anticaglie in Firenze. Se si trattasse di un l(ucius) fa(enius), al quale presupposto non sembra, del resto, contrastare il misero avanzo della terza lettera, si avrebbe in questo monumento una nuova conferma della dottrina esposta da un insigne critico nostrano, che tutti, cioè, i Famii ricordati nelle sillogi epigrafiche hanno il solo prenome di Lucio, e ciò forse a cagione dell’identità di significato fra Lucius derivato dal latino lux e Faenius dal greco φαίνομαι (2). Il tipo del sole darebbe nella fattispecie un gran peso a tale sensatissima congettura. (1) Fabretti, Terzo suppl. alla raccolta delle antichiss. iscr. ital., p. 51-56. Noto è che il Corssen (Ueber die Sprache der Etrusker , I, 623, 624, 626, 627, 629, 630, 634, 638, 460, 640, 641, 642, 793), spiega il turce o turuce per έτόρεοσε {caelavit), interpretazione, peraltro, che sembra contraddetta anche dal fatto che la stessa forinola trovasi inscritta eziandio su di un vaso dipinto. (2) Bull, archeol. Napol., 1844, p. 68. GIORNALE LIGUSTICO 395 66. ev (in nesso) Mercurio stante col caduceo nella destra. Intaglio in diaspro giallo già presso il signor Barone antiquario in Napoli. È razionale supposizione che questo monogramma sia nota, o compendio che dir si voglia, del nome servile di EMphro-sinus derivato dal noto epiteto di Mercurio, allusivo all* allegria conviviale di cui questo dio reputavasi inspiratore nella sua qualità di preside delle mense. 67. MMM Marte gradivo, quale sui rovesci di molte monete imperiali. Intaglio in diaspro rosso da me veduto nel 1869 presso lo stesso antiquario. La nomenclatura del titolare può credersi foggiata sul tipo di Marcus Martius Martialis, al quale più 0 meno si accostano quelle di Spenius Speratus, di Caius Caius, di Martinia Martina ecc. (1), e di cui, fra parentesi, alcune varietà sono vive anche oggidì, specialmente in Toscana; 0 sul tipo di Marcus Marcius Marcianus, secondo lo stile, per non breve tempo in gran voga a Roma, di formare i cognomi allungando in — anus il rispettivo gentilizio, siccome consta da mille esempi, quali Aelius Aelianus, Atilius Atilianus, Caicilius Caicilianus, Claudius Claudianus, Cornelius Cornelianus, Fabius Fabianus, Flavius Flavianus, Gains Gaianus, Julius Julianus, Manlius Manlianus, Marius Marianus, Mucius Mucianus, Numerius Numerianus etc. (2). (1) Bull, archeol. Napol., II, p· 66; \, p. 55· Mommsen, C. I. L., I, 1189. Brambach, C. I. Rhen., 1130. (2) Hübner, C. I. L. II, 4993· Wilmanns, Exx., 1644, 2039, 1267, 1602, 2443, i84> 2o84) 2444, 2475, 301. 2476 a, 981, 1880 etc. 396 GIORNALE LIGUSTICO 68. 31 Mercurio stante, con borsa nella destra e caduceo nella sinistra: ai suoi piedi, ariete; nel campo, da un lato scorpione , dall’ altro un gallo. La prima lettera è incerta. Intaglio in diaspro sanguigno nella Collezione del eh. scultore comm. Santo Varni in Genova. La lettera incerta, o è un digamma, nel qual caso potrebbe significare un nome che avesse relazione col Mercurius Vi-sucius di conosciute lapidi renane (i); o sta invece per un c, e l’appellativo di Censualis dato a Mercurio in epigrafe di Reginum (Ratisbona) sul Danubio (2), potrebbe porgere la chiave d’ una plausibile interpretazione della leggenda. La borsa, l’ariete e il gallo sono notissimi attributi di Mercurio. Non così lo scorpione; il quale era più comunemente ritenuto simbolo della disgrazia in genere, come quello di cui gli antichi asserivano trovarsi sotto ogni pietra, ondechè in molti amuleti figura in antitesi col gallo, emblema della vigilanza, la quale previene e delude gli effetti della disgrazia. Del resto, sebbene i mitografi in generale non l’abbiano avvertito, sta in fatto che su non pochi monumenti, specie gemmari, lo scorpione ricorre quale attributo di Mercurio, e io stesso possiedo alcune pietre incise e parecchie altre ricordo averne vedute in diverse collezioni, sulle quali lo scorpione è figurato in rapporto col nume anzidetto. 69. ΦΙΛ0νΤ6 Diaspro nero, della stessa collezione. L’uso di questa pietra, come di altre della presente silloge, si presumeva aver per risultato di scongiurare i sortilegi e preservare dai funesti effetti del fascino e del malocchio. (1) Orelli-Henzen , 5923, 5924. (2) Oretli, 1414. GIORNALE LIGUSTICO 397 70. a Giove nudo, stante, con fulmine nella destra e scettro nella sinistra; ai suoi piedi l’aquila; tipo ovvio su monete imperiali. Intaglio in diaspro nero, nella stessa collezione. 71· AERTHA Sulla parte postica del num. antecedente. 72· VA Om)cn Ramo di palma. Intaglio in agata bianca trovato a Libarna, della stessa collezione. Il tipo della palma indica abbastanza come per virtù della magica iscrizione il latore dell’ amuleto confidasse uscir vittorioso dalle battaglie della vita. 73· VC Apollo-Sole radiato, stante, con sferza nella destra e globo nella sinistra; ai suoi piedi piccola ara accesa. Intaglio in diaspro sanguigno trovato a Libarna, della stessa collezione. Nulla osta a credere che anche nell’ epigrafia gemmaria le sigle VC abbiano il solito significato di v(/V) cQarissimus). Se altri porta oggidì incisa sullo scudo del proprio anello la corona di conte 0 di marchese, non dee far meraviglia che un Senatore ostentasse sul suo sigillo le sigle indicative dell’ amplissimo suo titolo. 74. LV · HER Nicchio marino spiraliforme da cui esce fuori a metà corpo un asino. Intaglio in corniola rossa, nella stessa collezione. Questo curioso tipo non è insolito nella serie gemmaria, ma non mi disdiranno gli archeologi s’io affermo che il suo 398 GIORMALE LIGUSTICO significato è tuttora problemàtico. Il eh. Panofka nelle sue Gemmen mit Inschriften pubblicate negli atti dell’ Accademia delle Scienze di Berlino (i), illustrava bensì due gemme con simile rappresentanza; nella prima delle quali, del Museo berlinese (2), coll’iscrizione ME in monogramma, egli intravide un’ allusione del tipo dell’ asino , detto in greco μέμνων, al nome inscritto del possessore me(mnoit) ; e così in ordine all’altra inscritta ROYCDIÌIN della regia Collezione olandese all’ Aja (3), si sforzò coll’erudizione che gli era propria di mettere in rilievo 1’ analogia di detto nome col color rosso del nicchio, e perfino col minio di cui, per testimonianza di Ovidio, erano tinti i simulacri di Priapo al quale, appunto, l’asino era sacro: ma in fin dei conti, per quanto concerne la spiegazione del tipo in se stesso, il Panofka lasciava il problema al punto in cui si trovava prima che egli ne facesse oggetto delle sue dotte disquisizioni. Il bizzarro accozzamento nel regno dell’ arte di due soggetti così disparati in quello della natura dovette certamente la sua origine a qualche fatto oggi ignorato; ed è forse allusivo ad una scena di quelle antiche commedie, di cui 1’ arte ci ha lasciato più d’un ricordo, in specie su monumenti ceramo-grafici: ma qualunque sia stato il suo significato originario, è indubitato che il tipo stesso venne più tardi adoperato ad esprimere in genere la situazione creata da un risultato impreveduto, e contrario, almeno in apparenza, all’ordine logico e naturale delle cose. Supponiamo, a cagion d’ esempio, un (1) Abhandlungen der Kòniglichen Akademie der ìVissenchaftcn χιι Berlin, 1851. (2) Tf. I, 48. Winckelmann, Descript, des pierr. grav. de la collect. dii Baron de Stosch, cl. VII, 14. Tôlken, Erklürendes Verpichi ss der antiken verliest geschnittenen Steine der kgl. Preuss. Gemmensammlung, Berlin 1835, VIII kl., 300. (3) Tf. I, 49. giornale ligustico 399 individuo il quale avendo riposto, come accade, le sue speranze sulla pingue eredità d’ uno stretto congiunto, all’ apertura delle tavole testamentarie sentisse nominato in sua vece un tale non legato al testatore da alcun rapporto di parentela e nettampoco di amicizia, anzi di conoscenza, costui, dico, potè trovare un simbolo abbastanza appropriato al suo caso in una rappresentazione come questa, di cui l’essenza consiste nell’ accoppiamento fantastico, in rapporto di contenente a contenuto, di due termini che in realtà non hanno fra loro la menoma attinenza. Così un niccolo del Principe Ponia-towski col tipo d’uno scoiattolo che da un guscio di lumaca si scaglia contro d’un gallo, fu spiegato dal Visconti (i) come una impresa esprimente : resistenza dove non si aspettava. In quest’ ordine di idee sarà per avventura a ricercarsi una correlazione fra il nome del possessore l\{cius) her(h^) o her (ennius) inscritto sulla gemma e la rappresentanza in discorso. I nomi di Herius ed Herennius, appartenenti in origine ambedue all’ antico onomastico dei popoli derivati dal graq ceppo Sabino e giusta 1’ usanza comune a tutti i detti popoli adoperati dapprima ugualmente come personali o prenomi e come gentili, sono infatti parenti colla voce heres per via della comune radice her che ricorre in latino non altrimenti che in osco, in umbro ed in etrusco, col nativo significato di appetire, volere (2). Nè è da tacersi che identica parentela esiste fra i suddetti nomi e quello di Here Martea dea del dolce disio (3) e oggetto in pari tempo di peculiare devozione per parte degli eredi. Arrogi il fatto che dalla radice stessa deriva la voce Η3ΤΜΤΝ303Β (herentatei) = concupiti) Calai, delle, gemme del Pr. Poniatowski, n. 118. (2) Fabretti, Gloss. Hai, col. 572. Corssen, Ueber die Sprache der Etr., II, p. 23. (3) Preller, Les Dieux de l’ancienne Rome, trad. di L. Dietz, Paris 1866, p. 220. 400 GIORNALE LIGUSTICO scientiae (i), nome osco al dativo (genit. herentateìs) di Venere così appellata sull’ ara Ercolanese (2), e si avrà un altro punto di contatto fra il nome espresso dalla leggenda e il tipo del nicchio, attributo essenzialmente afroditico, dal quale erompe l’asino, noto emblema della potenza fecondatrice , e come tale, sacro alla divinità della generazione. Vuol essere registrata come rarissima (3) la forma LV, invece della solita L a sigla del prenome Lucio. Le stesse ragioni che determinarono, come già esposi, i confini della prima, mi impongono di dar qui termine a questa seconda parte del mio lavoro : non senza tuttavia lasciar Γ addentellato per una nuova serie ; essendo sopratutto dal-Γ incremento apportato al materiale epigrafico che si misura l’importanza delle pubblicazioni di questo genere ; delle quali tanto maggiori sono F utilità che presentano e Γ interesse che inspirano, quanto più si va allargando il campo per esse aperto alla manovra dei riscontri. Vittorio Poggi. VARIETÀ Transunti di lettere, e memoriali presentati da Liguri al Papa, al Governatore di Roma e ad altre autorità pontificie, raccolti nell Archivio di Stato romano da A. Bertolotti. 1594 4 Aprile. — Luca Fiesco Vescovo di Albenga scrive al Tesoriere Generale del Papa in Roma, che gli presenta la nota del reddito del suo vescovado e di tutti i benefizi della diocesi tanto con cura quanto semplici, e delle abbazie, con li pesi sopra di essi, pensioni e decime riscosse, il tutto estratto dal vero registro che si fece sin dal tempo di Papa (1) Mommsen (Die unterit. dial., s. 262) traduce voluntati. (2) Fabretti, C. 1. ital., 2784. (3) Mommsen, C. I. L., III, 3654. GIORNALE LIGUSTICO 4OI Pio V, cui portò qualche aggiunta. Il reddito del vescovado era di scudi 296·4>17· Sta annesso 1’ elenco di quello di ciascun benefizio. 1594 2 Maggio. — Francesco (Galbiati) Vescovo di Ventimiglia fu la stessa spedizione, notando la povertà del suo vescovado e del clero ; e dice che egli, esserido stato creatura di Papa Gregorio, aveva ottenuto verbalmente di unire insieme alcuni benefizi : ma la morte del Pontefice interruppe la pratica maneggiata dal Cardinale di S. Prassede (1). Ricorda di più al Tesoriere la lunga servitù, che gli prestò il proprio cugino Gasparo Galbiate. 1608. — Guglielmo De Rossi confettiere della Liguria si rivolge direttamente al Beatissimo Padre, esponendogli che da 14 anni esercita in Roma il suo mestiere, introdottovi dalla buona memoria del signor Duca di Sessa. Si è diportato in tale maniera, che tutti gli Ambasi^atori di Spagna e la maggior parte de’ Principi e signori Cardinali, e specialmente il Cardinale Borghese, si sono serviti sempre da lui. Oltre di essi, potrebbe attestare la sua diligenza e lealtà il Patriarca Biondo, che pure ai tempi di Papa Clemente si era servito da lui. Il suo buon successo attirogli l’invidia specialmente di alcuni speziali, che facevano confetti indebitamente. Pervenuti questi al Consolato dell’ arte, macchinarono di portargli danno nelle feste di Natale, tempo in cui maggiormente ferveva lo spaccio: si portarono d’officio alla sua bottega e con minaccie di farlo carcerare lo fecero fuggire; indi intimarono alla consorte, gravida di otto mesi, di far loro vedere tutta la casa «per verificare se vi erano droghe nocive ; e la spaventarono ed affaticarono in tal modo, che ella poco dopo abortiva e con la sua creatura moriva. Nulla trovarono in quella ispezione, e forse erano già prima certi di nulla rinvenire ; ma loro scopo era quello di promuovere molto concorso di curiosi per screditare il negozio in quell’occasione. Il povero confettiere, vedovo con cinque bambini, chiama giustizia contro i detti Consoli e rifacimento de’ danni. Il Papa passò al Governatore il memoriale senz’ alcuna nota ; ma dopo qualche tempo il ligure non vedendo alcun provvedimento, presentò al Santo Padre un più lungo memoriale rendendo evidente la malignità degli speziali, pronto a bocca di smascherarli affatto. Su questo memoriale il Papa fece scrivere: « A Monsignor Governatore che faccia la giustizia ». La quale è a sperare che sia stata fatta. 1622 17 Novembre.— Editto stampato, pel quale il Governatore di Roma promette taglia di 12,000 scudi a chi consegnerà vivo o morto alla Corte (1) S. Carlo Borromeo, del quale il Galbiati era grande ammiratore. Giorn. Ligustico, Anno V. 402 GIORNALE LIGUSTICO il marchese Paris Piuelli genovese, mandante principale di moschettata tirata il di 21 Settembre p. p. contro la persona e cocchio del Principe di Gerace ; pel quale colpo restarono alcuni nel cocchio feriti, uno in terra morto ed alcune donne pure ferite. Il tempo per consegnarlo è fissato a tutto Gennaio p. v., con riserva di prorogarlo e di aumentare la taglia. 1623. — Giacinto Tasso, chierico genovese, espone al Cardinale Sauli che due anni prima trovandosi a Pozzuoli in compagnia del sig. Nicolò Doria per loro diporto, furono fatti carcerare per ordine del Viceré di Napoli ad istanza del signor Filippo Spinola, per sospetto che ivi si trattenessero per ammazzarlo. Il Doria in pochi giorni fu messo in libertà; ma egli, come chierico, fu rimesso al Nunzio, indi mandato a Roma, ove da due anni si trova chiuso nel Castel Sant’ Angelo senza mai esser stato esaminato. Si raccomanda pertanto affinchè si inciti il giudice Marescotto a liberarlo assicurando che da Genova si procurerà la fede di pace fatta tra lui e lo Spinola. Il Cardinale Sauli passò la supplica al Governatore di Roma affinchè provvedesse. 1629 27 Settembre. — Angelo Gavotto da Savona scrive a G. B. De Sirii a Roma: « La mia mala fortuna mi fa sentire quando manco lo pensava li frutti di questo mondo, con aver perso mio figlio Gio. Agostino che serviva alla Corte di S. Maestà Cesarea, e per maggior mio dolore favorito tutto quello si poteva desiderare, e con perdita di quelli denari tenevo in sua vita ». Segue pregando l’amico di far dir le messe in suffragio del figlio nel sabato di S. Gregorio, e più di farne celebrare cento altre. 1644. — Onorato Gilli soldato da Nizza di Provenza venuto a militare al servizio della sede apostolica, ripartiva dal campo di Perugia per Roma, Ove sotto pretesto di aver abbandonato la bandiera fu mandato in galera. Nota al Papa, cui ricorre, che egli non si trova in colpa, perchè erasi presentato al Collaterale e s’ era di poi giustificato col Cardinale Barbe-tino, ottenendo grazia se bene poi non fosse spedita. Ricorda di più che fu raccomandato a S. S. dal Principe Maurizio di ^avoja allora Cardinale, e perciò domanda l’adempimento della grazia, poiché si trova condannato dal 19 Febbraio 1644 a cinque anni di remi. Nell’anno dopo di bel nuovo presentò altro memoriale al Papa, esponendogli che se parti dal campo fu perchè, non essendo stato pagato, non aveva con che vivere; e che giunto a Roma si era presentato al collaterale Bartolozzi, da cui fu munito di bollettino per presentarsi a Monsignor Tesoriere. Nulla avendo ottenuto mandò un terzo memoriale, insieme con Michele GIORNALE LIGUSTICO 403 Giacobi pure di Nizza condannato a 10 anni di galera come soldato fuggitivo e per aver speso moneta falsa. Questi faceva conoscere per sua parte aver tre sorelle da marito, al cui sostentamento doveva pensare. Il Gilli ottenne a dì 20 Gennaio 1645 grazia, non il compagno. 1695 8 Ottobre. — Monsignor G. B. (Spinola) Arcivescovo di Genova scrive al Governatore di Roma che, secondo gli ordini ricevuti dal Papa, ha fatto carcerare frate Antonio dalla Parificazione portoghese, che tiene a disposizione di S. S. nelle carceri dell’ arcivescovado. Intanto gliene manda le scritture e poche robe trovate indosso al medesimo e levategli in presenza dal Padre Guardiano del convento della Pace da frate G. B. di Genova laico, ove era stato carcerato prima che fosse tradotto nelle suddette prigioni. Non gli furono trovati denari, .salvo pochi quattrini. In quanto al miglior modo di spedirlo a Roma, preferisce la via di terra quantunque più difficile e spendiosa, a meno che S. S. potesse mandare una feluca speciale con birri a Genova. In qualunque caso consiglia di avvisare la Repubblica di Genova, la quale se non informata potrebbe far delle opposizioni per la estradizione. Anzi sa da un segretario della Repubblica che si ebbe già molto a ridire, per aver avuto luogo 1’ imprigionamento senza che ne fosse stata data preventiva partecipazione al Governo. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Elenco dei Documenti orientali e delle Carte nautiche e geografiche negli Archivi di Stato di Firenze e di Pisa. Firenze, Celimi, 1878, pag. 32. La Sovrintendenza degli Archivi di Stato Toscani, secondo il lodevole suo costume di mettere in mostra i documenti, conservati in quei preziosi depositi, non volle lasciar passare il recente Congresso orientale di Firenze senza apprestargli un facile modo per riconoscere ciò che a ciascuno degli illustri visitatori poteva riuscire di speciale rilevanza. L’Opuscolo onde diamo qui notizia, pubblicato a tale scopo, fu compilato dal prof. Cesare Paoli chiaro per dottrina sto- 404 GIORNALE LIGUSTICO rica ed archeologica. Esso consta di due parti: Documenti orientali, Carte nautiche e geografiche. Per la parte orientale il primato spetta naturalmente all’ Archivio di Pisa. Le relazioni di quella celebre Repubblica con Tunisi, e Africa in genere, coll’Egitto e colle Baleari sono in numero di 35 e vanno dal 1157 al 1414. Firenze in ragione di tempo succede con 29 documenti che corrono dal 1421 al 1447. Ma 1’ Archivio fiorentino ha copia di altri documenti arabi e turchi che riguardano specialmente le relazioni diplomatiche de’ Granduchi Medicei con Tunisi, Marocco, la Tur-chia ecc. Ha pure carte e filze relative agli ebrei e agli armeni cattolici di Livorno ; ma sovratutto è notevole dal lato filologico la collezione dei documenti sullo stabilimento, tentativi, amministrazione, studi preparatorii della celebre stamperia orientale medicea (1584-1614). L’Opuscolo non fa che accennare alle carte bisantine, perchè note da più anni agli studiosi, ai quali ne fa copia l’illustre Cesare Guasti, degnamente succeduto nella sovrintendenza al compianto Bonaini. Noi ci permetteremo qui d’ interpretare il comune desiderio che possa correre presto nelle mani del pubblico tale collezione che è ancora in corso di stampa. Facendoci alla parte seconda, 1’Archivio di Firenze c’invita a studiare 14 carte tra nautiche e geografiche; Pisa due soltanto. Fra le fiorentine diamo il benvenuto a tre operate in Genova, cioè una di Prete Giovanni rettore del nostro San Marco sui primordii dal secolo XIV e due del bravo anconitano cartografo Grazioso Benincasa, che i documenti genovesi appunto riscontrano dimorante fra noi nel 1461, data di quei lavori. Ciò era già stato avvertito in questo stesso giornale, come 1’ Opuscolo stesso si piace di ricordare, ma il suo autore ci snebbia pel primo un equivoco durato fin qui, che faceva credere ad una sola carta del Benincasa in quel-l’Archivio con date molto variamente interpretate ; laddove GIORNALE LIGUSTICO 405 le carte sono due ma entrambe in data dell’ anno medesimo. A noi, come genovesi, piace aggiungere che Grazioso ha una altra carta conservata al Museo Britannico, la quale fece nel 1468 per un genovese dilettante di tali studi; come si rileva dalla seguente leggenda ivi inscritta: Gratiosus Benincasa An-conitanus Magnifico Viro Prospero Camulio Medico Genuensi fccit (1). Le carte nautiche descritte nell’Opuscolo aggiungono qualche spiga alla messe raccolta nel noto Catalogo degli Studi Bibliografici della Società Geografica italiana. Così troviamo un terzo lavoro della famiglia Prunes di Majorca; la famiglia Oliva parimente major china, ma che operò a Messina quasi sempre, era già nota a noi per 34 carte (cinque più che non ha il catalogo prelodato); ora sono 36 per le due riscontrate nell’ Opuscolo. Anche ai Cavallini di Livorno ne avevamo aggiunto tre, ora l’Archivio Pisano ne porge un di più che farebbe la somma di sette. Senonchè qui sorge un dubbio. I Cavallini Pietro e Giambattista lavorarono dal 1639 al 1688, il Giovanni Oliva invece dal 1599 se non anche già dal 1587 fino al 1614 che si sappia. Come adunque poterono incontrarsi questi due a comporre insieme una carta che Guglielmo Libri descrive e che fu citata nell’ Elenco delle carte genovesi in questo stesso Giornale? (1875, pag. 67, num. 80). Il fatto si potrebbe spiegare , supponendo in uno dei due un avo o un nipote omo- (1) Ved. Bòttger, Mittelmeer, pag. 395. Dei due Prosperi (Schiaffino) da Camogli parlò il Giornale Ligustico, 1876, pag. 88, 125. È una figura curiosa e degna di studio maggiore questa famiglia di due 0 tre persone al più che nel secolo XV ci appaiono nei documenti colle qualità diverse di cancelliere della Repubblica, di lodato archeologo e dotto universale, di medico, di felice.astrologo, di segretario del Duca di Milano al Concilio di Mantova, di corrispondente con Sagramoro da Rimini, di console della nazione tedesca in Genova, di consigliere dell’imperatore Federico III e di vescovo. 40 6 GIORNALE LIGUSTICO nimo; ma un altro lavoro messo fuori dal Libri, come fatto da Marin Sanuto e da Pizigani ed ora dai conoscitori giudicato apocrifo, induce un grave sospetto anche su questo problema, come in generale sulle troppo famose collezioni di quel grande Ingegno italiano (i). L’Archivio di Firenze ha altre carte notevoli, p. es. quella del Soleri di Majorca del 1384, ma forse gioverà di studiare più di proposito, benché non tanto antico, Γ Atlante di 24 carte descritto al num. 12. Fin qui si erano consultati di preferenza i cartografi dei secoli XIV e XV per seguire il progresso delle cognizioni nautiche dalle Canarie alle isole di Capoverde e giù lungo le coste occidentali dell’ Africa. Ora acquistano importanza le Carte ed Atlanti del secolo XVI per 1’ esame del progresso lungo le coste indiane e 1’ America. Di questa nuova fase diedero dotti saggi il Kunstmann -e il Kohl, giovandosi dei Genovesi cinquecentisti Visconte Maggiolo e G. B. Agnese; ed ora il eh. De Costa di Nuova-Iorch ne fa una felice am-pliazione sulla questione e a benefizio del fiorentino Giovanni Verazzano. L’ ordine delle idee ci reca ad un’ altra pubblicazione : Del Planisfero di Bartolomeo Pareto del 145$ e di altre Carte nautiche. Roma 1878 (Estratto dalle Memorie della Società Geografica italiana) pagg. 10. Eureka! avrà con ragione esclamato il eh. cav. Amat, svolgendo uno dei cinque rotoli membranacei che felice scoperta trasse da un ripostiglio del già Collegio romano, ora Biblioteca Vittorio Emanuele. Ecco il Planisfero del genovese Pareto già illustrato dall’ Andres e decantato da molti, ma di cui si erano smarrite le tracce da più di mezzo secolo. (1) Ved. Intorno ai Cartografi italiani e ai lavori manoscritti specialmente nautici, appunti e questioni di C. Desimoni; negli Atti dell' Accad. Pontificia dei nuovi Lincei-, Roma, 1877, pag. 276. GIORNALE LIGUSTICO 407 Il dotto Autore si affrettò tosto a comunicare la lieta notizia a noi Genovesi, del che intendiamo qui porgergli le più sentite grazie. Indi ne pubblicò il cenno presente, ove racconta i particolari della scoperta, descrive sommariamente il lavoro del Pareto e vi aggiunge l’indicazione delle altre quattro Carte trovate ivi stesso e delle leggende relative. Noi rileviamo con piacere che altre due di queste carte sono genovesi del 1561 e 1567 e son lavoro di Giacomo Mag-giolo figlio del Visconte sopra lodato, e anch’egli già noto a noi per altre cinque carte. Della famiglia di tal cognome che lavorò in cartografia, dal 1511 al 1644 almeno di padre in figlio, si occupò più volte questo Giornale Ligustico (ved. 1875, pag. 41-81 e 215-18; e 1877 pag. 81-88). Delle rimanenti due Carte ivi scoperte sono autori gli Oliva Giacomo e Placido Caloiro della famiglia pure sovraccennata. Concordiamo col eh. Amat che Giacomo e Jaume (credo anche il Janne del Catalogo degli Studi Bibliografici, num. 110-211) non sieno che forme bene o male lette dello stesso nome spagnuolo Jaime. Ma Γ Isaume dell Ambrosiana (non della Braidense come scrive Γ Autore al num. 222) per quanto potemmo fidarci ai nostri occhi è proprio scritto così; non cerchiamo se anch’ esso sia una forma di Jaime. Per noi sono parimenti di una stessa famiglia gli Olives e il Lives del 1555 , considerandoli come resisi più italiani in Oliva col passaggio dì quei Cartografi da Majorca a Messina. C. D. Su la data degli sponsali di Arrigo "VI con la Costanza di Sicilia e sui divani dell’ Azienda normanna in Palermo, Lettera del dottor O. Hartwig e Memoria di M. Amari. — Letture alla R. Accademia de’Lincei, aprile 1878. Ecco una lotta di buon esempio dotta e nobile a un tempo tra due illustri, un tedesco e un italiano. Comincia colla qui- 4o8 GIORNALE LIGUSTICO stione sulla vera data degli sponsali d’ Arrigo VI colla Costanza erede del trono di Sicilia, donde si grave rivolgimento allo stato politico d’Italia. Ma presto trapassa e si arresta a un soggetto più importante per noi. Del quale perciò amiamo porgere un cenno siccome quello che può eccitare altri studiosi a farne applicazione alla storia del proprio paese. Si tratta delle più antiche tracce dell’ amministrazione finanziaria in Sicilia, del suo distacco dagli altri principali rami di Governo, delle guarentigie e cautele colle quali, come e da chi tu circondata. Il dott. O. Hartwig di Halle, sia benemerito della storia O > O italiana per studi profondi sù Firenze e Sicilia scopre ora un Tommaso Bruno o Brown inglese il quale sotto il re Roggero aveva le prime parti nella finanza di Sicilia, nel 115 9 era già tornato in patria, dove re Arrigo II lo avea preposto a simile alto uffizio in quella amministrazione che già allora, come ancora oggidì, si denominava dello scacchiere. Il eh. dottore pone quindi la domanda se il Brown abbia recata fuori l’istituzione patria, o viceversa se, trovatala già in uso in Sicilia, l’abbia proposta ritornando all’ imitazione degli inglesi. Pare al disserente di scorgere più punti di medesimezza 0 somiglianza nell’ ordinamento finanziario tra le due isole a quel tempo; per esempio questo: che in entrambi un Capo supremo (il Capitalis Iustitia degli Inglesi) abbia presieduto non solo agli istituti giudiziarii ma e alla finanza. Gli pare che a tale Corte- suprema inglese corrisponda quel Divan al maialivi cioè Corte dei soprusi che re Roggero introdusse in Sicilia, ad imitazione senza dubbio di più antichi istituti musulmani. Egli riferisce un bel passo del Dialogus de Scaccario che si sa composto nel 1178-9 ove è chiaramente distinto l’ufficio di semplice Tesoreria da quello superiore o centrale di revisione ed approvazione de’ conti. Scaccarium inferius quod et recepta dicitur ubi pecunia numeranda traditur GIORNALE LIGUSTICO et scriptis et taleis commitiitur ut de eisdem postmodum in superiori computus reddatur. Il Dialogus distingue ancora nettamente tra le altre parti della finanza 1’ uffizio di riscontro (controllo), perchè Tommaso Brown aveva clericum (scrivano) suum in inferiore scaccario qui juxta clericum thesaurarii residens habet facultatem scribendi quae recipiuntur et expenduntur in thesauro. Or bene è d’avviso Γ Hartwig che anche tali divisioni di uffici fossero in Sicilia ; e così alla subordinazione dello scacchiere inferiore verso il superiore corrispondessero le due Dogane che in un documento sono distinte come Dohana Baronum dipendente dalla Regia Dohana de secretis. Parimente al-1’ ufficio particolare di riscontro nello scacchiere corrisponderebbe in Sicilia il Magnum Secretum che nel nome arabo del medesimo uffizio si chiamava Divan-at-tahkik-al-mamur. Nel Dialogus si trova già espressa la disposizione che il Thesaurarius inglese non faccia pagamento nisi Regis expresso mandato (il Writ inglese, il nostro Mandato)·, a cui .1 eh. Disserente non trova la parola latina corrispondente in Sicilia ma vi trova l’equivalente in un diploma scritto in grecoprostaxis (ordine, decreto). Continua a muovere dubbi in altri punti; sull affinità o no dei Catasti Siculo-musulmani col celebre Domesdaybook inglese, come pure sulla dipendenza dal Catasto dei quaderni delle entrate regie i quali quaderni dall arabico diftai, onde eran prima chiamati, si dissero cola poi anche defetarii. All’ invito del Dottor Hartwig rispose degnamente il nostro Michele Amari, dapprima toccando anch’egli della data degli sponsali d’ Arrigo e Costanza ma arrestandosi più di proposito sulla seconda quistione. Egli porge lodi meritate al contraddittore sul giusto concetto di lui a riguardo degli influssi moltiplici e svariati che fecero di Sicilia una regione singolare. Donde e difficile a ι intracciare le origini delle istituzioni, dappoiché vi dessero il proprio nome romani, greci 410 GIORNALE LIGUSTICO e bisantini, normani di Puglia, di Francia e d’Inghilterra, e gli arabi specialmente i quali dalle loro precedenti conquiste in Persia, Siria, Africa avean già redati parecchi instituti. Ma facendosi alle opinioni particolari del dotto Tedesco gli rifiuta uno dei punti fondamentali quale si è quello della riunione della giustizia e della finanza sotto un solo Capo supremo. La Giustizia negli ordini musulmani fa parte integrale dei loro instituti religiosi; la finanza ne è afflitto separata. Il Divan al ma^alim o Corte dei soprusi non era un magistrato permanente con forme regolari e stabili di procedura, si piuttosto una specie (come ben la chiama 1’ Amari col moderno proverbio) di giustizia alla Turca; dove il Re o il suo primo Ministro, sentite le lagnanze, le risposte e i testimoni su due piedi sentenziava. Un altro punto non meno importante di differenze tra i due sistemi inglese e siciliano Γ illustre italiano lo trova in questo: che la Corte dello scacchiere decideva a più voti a guisa di Collegio laddove i divani musulmani non ebbero mai che un ufficiale o preposto per ciascun ufficio servito da scrivani. La quale differenza mi pare derivi naturalmente dalla natura dei due Governi; i musulmani come già i bisantini e i sassanidi loro predecessori erano e vo-lean mantenersi signori assoluti: in Occidente al contrario il feudo colla sua Corte de’ Pari conservava un certo contrappeso di libertà o di regime comune. Tanto più ciò si avverò nei comuni Italiani, i governi de’quali si amministravano appunto per Collegi e per Commissioni più o meno ristrette secondo i casi. Nemmeno ammette Amari Γ interpretazione che Hartwig dà alla Dohana Baromm, come se rimpetto alla regia Dohana de secretis questa facesse Γ ufficio che lo scac-cariim inferius fa rimpetto al suferius. I testi bilingui dei diplomi dimostrano che la Dohaia Baronum è 1’ ufficio di concessione di fondi e risponde nel senso come nel voca- GIORNALE LIGUSTICO 4II bolo tanto al bisantino apocopon quanto all' arabo ikta : cioè tagli, parti ritagliate dal Demanio generale e concesse per privilegio ai baroni. Ma dato anche che alcuni instituti, guarentigie o altre norme di finanza si trovassero comuni alle due Isole, Amari pensa che Tommaso Brown venuto assai giovane, come pare, in Sicilia non abbia potuto trapiantare tra noi quelle norme, sì piuttosto di quà le abbia recate in patria. Secondo le lodi che a Ruggero tributano generalmente i cronisti, in ispecie interpretando certe frasi del geografo Edrisi, se ne può dedurre che quel re colla sua gran mente e col suo genio eclettico ha non solo profittato di tutto che di buono trovava nei governi forestieri ma ha inventato egli stesso e introdotto grandi migliorie nell’ ordinamento della sua finanza. Dalla discussione tra i due lodati professori veniamo a persuaderci che l’italiano Dogana (nel medio evo Dohana, Aduana ecc.) ha la sua fonte nel Divan musulmano che noi ora conosciamo soltanto come una sala capace ed elegante per fumarvi o centellare il caffè fra leggere e gradite conversazioni. Ma questo stesso nome di divano non è punto arabo, lo si credeva dapprima di conio persiano ora fu rintracciato nel linguaggio aramaico (di Siria). Sia però persiano o ara-maico il vocabolo, ciò dimostra che gli arabi trovarono già stabilita la cosa designata sotto tal nome nelle loro conquiste dell’ una o dell’ altra regione, sotto i bisantini 0 sotto i sassanidi successori dei romani. La Persia e la Siria erano già provincie ubertose e civili e certamente Omar, il forte Califo successore di Maometto fu quegli che, trovati nella conquista quegli instituti, se gli appropriò peli’ordinamento della finanza da lui fatto e li generalizzò nell’Impero. I signori normanni sottentrati agli arabi in Sicilia si appropriarono quegli stessi instituti ritenendone perfin le parole, come ne ebbimo esempio nei defetarii 0 quaderni delle entrate I 412 GIORNALE LIGUSTICO delle concessioni. Ed altri esempi riferisce Amari di diplomi, in cui si vede che i primi conti normanni erano scritti saracenice; le concessioni di feudi, di terre e simili più recenti si vedono attinte ad antiche descrizioni di confini e catasti in arabo; di guisa che tale procedimento documentato fa comprendere quel procedimento simile ancora più antico, per cui gli Arabi aveano adottato ed usufruttuato i catasti preesistenti. Difatti il celebre storico Ibn-Kaldun ci apprende che nel primo secolo dell’Egira, la ragioneria musulmana era in mano di O s O cristiani od ebrei. Per chiarire gli ordini della finanza musulmana trovata in Sicilia dai normanni, Amari entra nell’ esame delle fonti arabe con quella pienezza di cognizioni che ognuno volentieri gli consente. Egli si rivolge mano mano a quegli autori di diritto pubblico, ai loro storici, ai fatti e documenti sparsi, alle descrizioni de’ paesi, specialmente dell’ Africa e del-1’ Egitto come quelli che furono più stretti alla Sicilia per vicinanza e comunità di regione ; specialissimamente adopera la descrizione dell’ Egitto del Macrizi, scrittore del secolo XV ma diligentissimo ed eruditissimo. Con tali aiuti egli spiega le divisioni dei divani od uffizii secondo i varii periodi teoretici o pratici, e la loro nomenclatura araba e tradotta. Notevole fra questi è il Divan attabkik già nominato dall’ Hartwig, che è appunto un uffizio di riscontro (controllo) e di cui Amari vede un esempio nell’ antico Divan alliniam (della Regola), sussistente già nell’anno dell’era volgare 778 ed ancora nell’861 presso il Califo di Bagdad. Più notevole ancora la subordinazione di quest’ ufficio di riscontro a quello aulico o supremo (Divan aìma-glis), e il contrassegnare che quest’ ultimo fa i fogli de'i diftar o quaderni e il carico che ha di raccogliere tutti gli elementi per costituire un bilancio preventivo (Istimar) ; il quale messo in pulito e involto in seta muschiata si presenta il decimo GIORNALE LIGUSTICO 413 mese d’ ogni anno al Sultano e lo si pubblica approvato al primo dell’ anno nuovo. Dopo ciò Γ Amari dà una rapida occhia agli uomini che sotto il re Roggero esercitarono gli uffizi primarii fra i quali Giorgio d'Antiochia, chiamato ammiraglio, non secondo il concetto più tardi rimasto di generale di mare, ma secondo il suo senso originale di Amir ossia primo Ministro del Re. Continua a ben distiguere altri nomi di uffizi in Sicilia, secondo le varie lingue ivi usate, ma confessa che molto rimane ancora ,di oscuro per poter ben apprezzare quegli ordinamenti di finanza. Sullo scacchiere di Normandia e d’Inghilterra abbiamo dati più precisi e per antichi scritti e per la più recente memoria del ch. Delisle i cui risultamenti furono ancora nel presente anno compendiati dal eh. Vuitry dell’ Instituto (1). Più sopra si sono notate nel Dialogus de Scaccario alcune prescrizioni che mostrano già un grande perfezionamento nella finanza. Qui vogliamo rilevare dai Delisle e Vuitry una lucida esposizione dello scacchiere originario che ci porge anche 1’ etimologia del nome. La tavola a cui sedevano i revisori dei conti era ricoperta da un tappeto a righe orizontali e verticali incrocian-tesi e così formanti uno scacco della larghezza d’un piede (cent. 30). Uno scrivano (Clerk) accanto al tappeto aveva pronta alla mano una quantità di gettoni e sentendo pronunziare dal contabile una somma qualunque di carico 0 scarico poneva sugli scacchi il numero di gettoni equivalente alla somma pronunziata; tante unità sul quadrato più a destra, tante decine sul quadrato che succedeva a sinistra, tante centinaia sul sequente e così di mano in mano. Pronunziata una seconda partita dal contabile, lo scrivano la riproduceva sui quadrati e (1) Vuitry, Études sur le Regime financier de la France, Paris, Guil-laumin 1878, pag. 503-7. Delisle, Sur les revenus publics en Normandie (.Bibliothèque de l’école des Chartes) 2.e série, vol. V. 414 GIORNALE LIGUSTICO riesciva così facile materialmente eseguire la somma delle due partite o la sottrazione secondo i casi, e così continuando avere la stimma summarum del carico o parte attiva, la summa summarum dello scarico del contabile o parte passiva e il finale risultato dall’ eccedente o del deficit. Il Sig. Vuitry testé lodato occupandosi del regime finanziario della Francia fino a Filippo il Bello vi ha trovato scarse tracce d’ordinamenti anteriori al secolo XIV. Tuttavia ci pare che, pur citando egli i lavori dell’illustre Wailly, non ne abbia fatto abbastanza suo prò. I conti regii del secolo XIII che ci furono conservati, porgono veramente un concetto generale di contabilità assai semplice e di guarentigie insufficienti (mancanza di indicazione di mandati e di quitanze, citandosi spesso un teste presente al fatto pagamento). Tuttavia le tavole in cera di Giovanni Saraceno cassiere di San Luigi, interpretate come furono con rara acutezza e direi indovinate dal de Wailly, mostrano già gli elementi di una scrittura doppia e il conseguente riscontro fra i proprii conti come non si sarebbe sospettato per un tempo così antico (i). D'altra parte come ben avverte il Vuitry, il eh. Boutaric ha illustrato con diligenti studi e documenti, l’amministrazione nei propri stati di Alfonso conte di Tolosa (2), e facendo vedere come questa amministrazione non potea essere diversa da quella di S. Luigi fratello di esso conte, ha con ciò rischiarata anche la storia contemporanea del regime finanziario della Francia. Non sarebbe forse stato inutile che Vuitry cercasse sussidi nella storia finanziaria della Savoia, regione, (1) De Wailly, Mémoire sur les tablettes de cire et Mémoire additionnel (Mém. de l’Academie des Inscriptions XVIII, 2.c 392, XIX, 489. Lo stesso col testo delle Tal·ulte cerata Recueil des Historiens de France XXI, pag. 284-392). (2) Vuitry, loc. cit. pag. 498-9. Boutaric, Saint Louis et Alphonse de Poitiers, pag. 344. GIORNALE LIGUSTICO 415 come ognun sa, tanto somigliante specie a que’ tempi per tradizione, per interessi, per istituti e perfino nei nomi degli uffizi od uffiziali. Ora per tale confronto era alla mano la memoria dell’ illustre conte Cibrario, a mio giudizio uno de’ suoi, se non maggiori, più lucidi e più istruttivi lavori. Spogliando i conti de’ Ballivi e Castellani de’ secoli XIII e XIV per la Savoia e Piemonte il Cibrario ci apprende da chi, come con quali mezzi di gride o di pene si compilassero i quaderni (extenta) delle rendite dovute al signore; come poi queste rendite si esigessero dal Castellano o da altri; come questi le versassero nel tesoro; come ne rendessero i conti; come i deputati a ricever questi conti assistiti dal loro chierico li approvassero o no, facendovi registrare le loro ordinanze ; come infine tali revisori di conti fossero dapprima ordinati per ogni volta e girassero il paese, ma poscia si rendessero stabili e fermi costituendo la Corte o Camera de’ conti (1). Nè lo spazio concessoci, nè i nostri studi ci consentono di parlare nemmeno per ombra intorno alle pubblicazioni sulla storia finanziaria d’Italia. Accennando appena a Genova, disgraziatamente fra le frequenti rivoluzioni che dispersero tanti documenti, quella del 1339 quando fu instituito il dogato fu occasione dell’ incendio dei libri di finanze della Repubblica. Questo ci apprendono, oltre la storia, le più antiche date dei registri dell’ archivio di San Giorgio che sono del 1340, da alcune poche ma preziose eccezioni in fuori. Tuttavia l’archivio notarile che risale alla seconda metà del secolo XII ci conserva preziose notizie anche di finanza, di monete, di debito e di qualche conto preventivo della Repubblica, di uffizi ed uffiziali, di cambiali e protesti ecc; delle quali cose, oltre i già noti studi del Richeri e del Canale, un bel gruzzolo (1) Cibrario, Delle. Finanze della Monarchia di Savoia nei. secoli XIII, XIV e XV, (Memorie dell’Accad. delle Scienze di Torino vol. XXXVI). GIORNALE LIGUSTICO attinto sui documenti originali del secolo XIII, diviso per materie e per anni, compose in un volume e donò alla Società nostra Γ egregio e più volte da noi lodato amico, il prof. Alessandro Wolf. Altre fonti ci sono somministrate dalle pergamene e carte della sezione diplomatica, ma una delle più importanti ci sembra il codice membranaceo Regularum Capituli nell’ Archivio di San Giorgio; il quale sebbene scritto al tempo del regime di re Roberto in Genova (1318-35) pure si riferisce esplicitamente a parecchie date anteriori; e nei trapassi di uffizi antichi in nuovi, nella varietà delle forme e delle diciture accusa un fondo di origine, risalente forse anche al consolato, per conseguenza al secolo XII. Questo codice che è preparato alla pubblicazione nei Monumenta Historiae Patriae ci lascia intravvedere lo studio di migliorar la finanza, sostituendo gli inquisitores j urium cotnu-nis ai Clavigeri (nome questo già comune pressoché a tutta Italia), poi agli inquisitori sono sostituti i Duo de ratione; finché col secolo XIV troviamo le polize (appodisie) o mandati dei maestri ragionali trascritte in registro apposito, e senza le quali polizze il massaro della Repubblica non poteva far pagamenti. Il codice contiene parecchie disposizioni gabellarie, e pei banchieri, fra le quali alcuna cautele e guarentigie che si vogliono considerare dai più come frutto della civiltà e sagacia tnoderna; quella per esempio che i libri si tengano senza cancellature rimediando in altro modo agli errori o variazioni. Notevole é poi la disposizione che i libri del Comune si debbano tenere nel modo come i banchieri tengono i proprii. Difatti la Massaria (entrata ed uscita) della Repubblica per l’anno 1348 (il più antico di questa serie che abbiamo) è appunto tenuto in siffatto modo. Non è una semplice registrazione di debiti e pagamenti per ordine e qualità d’ impo- GIORNALE LIGUSTICO 417 sta, come 1 antico metodo tradizionale ; ma è un vero libro di cassa all uso de’ negozianti, dove ciascun articolo ha il suo proprio attivo e passivo che riscontra col passivo ed attivo inverso di un articolo corrispondente : costituendosi cosi la scrittura doppia e ciò non solo per vere persone ma per enti morali e fittizii come la cassa del Comune, gli uffizi, più tardi anche certe spese e provvigioni ecc. per guisa che si possa ad ogni istante riconoscere i benefizi o i danni di ogni singola parte della masseria. La cassa del Comune inoltre per mezzo delle Assignationes che se le attribuiscono su tante gabelle e imposte quanti sono gli oneri previsti per l’anno, forma quello che oggi si direbbe bilancio preventivo, come il trapasso approvato dei residui nella masseria seguente forma il conto consuntivo, e le polizze dei maestri razionali sono la guarentigia dello speso regolarmente. C. D. Vittorio Bersezio. Il Regno di Vittorio Emanuele, Libro primo, Torino 1878. In questo volume, del gran Re italiano, che incardina il ricordo del più fausto avvenimento, Γ unità e l’indipendenza d’ Italia, non si discorre, ed il suo nome soltanto si mostra nel frontispizio. Tutto il libro è destinato a rappresentarci il Regno subalpino nella sua vita civile e letteraria, innanzi che le sventure del 1849 levassero al trono Vittorio Emanuele. Non è nostro intendimento dire della disposizione e della economia del lavoro, del concetto ond’ è informato e dello spirito che vi predomina, e neppure rilevare certi peculiari giudizi in quanto tocca il Piemonte, i quali forse non sono accettati neanche dagli stessi piemontesi; ben ci avvisammo non dover lasciare senza qualche osservazione il suo sentenziare delle cose di Genova. Lasciamo volentieri da banda alcuni accenni intorno ad uomini liguri di qualche fama vis- Giorn. Ligustico , Anno V. 27 4i8 GIORNALE LIGUSTICO suti a Torino, ma non possiamo ristarci dal notare come, secondo nostro parere, abbia dato l’autore una importanza soverchia al nostro Romani, facendolo addirittura antesignano d’ una scuola critica contraria a quella dell’ acuto ed argutissimo Brofferio ; mentre il merito del Romani non riposa veramente sulle prose, si nelle sue poesie. Ond’ è che noi pure consentiamo a bandirlo « poeta gentile ed affettuoso » ; ma siamo ben lungi dal reputarlo « superiore al troppo celebrato Chiabrera » nelle liriche, ed al Metastasio nei drammi. E il perchè glielo diciamo colle sue stesse parole : perchè « al Romani oltre la bontà della causa e la potenza superiore del pensiero , . . . mancarono il dono dell’ inventiva, Γ operosa volontà e la forza d’ una convinzione. D’ una fantasia limitata, essenzialmente pigro d’animo e d’ingegno, scettico e indifferente in fondo in fondo di tutto, fu poeta e scrittore superficiale ». Come poi il signor Bersezio ponga d’ accordo questo giudizio con le premesse gran lodi, noi non intendiamo Per la contraddizion che noi consente. Ci siamo poi molto meravigliati che il noto Giovanni Antonio Maria Baratta, scrittore di lodate prose ed arguti epigrammi, ce lo cambi in un Giuseppe, e mostri di non conoscere le importanti notizie aneddottiche, che scrisse di lui il eh. barone Antonio Manno nel 1875, in parte riassunte e in parte riprodotte in questo giornale (1). Ed ora veniamo al capitolo consacrato interamente a Genova. Un lungo paralello delle condizioni politiche e dell’indole dei due popoli piemontese e genovese, viene a risuscitare le memorie di quell’ infausto antagonismo, felicemente scomparso coll’ attuazione del gran concetto unitario. E tutto (ij Curiosità e ricerche ài Storia Subalpina, Puntata IV. — Giorn. Lig. Anno II (1875), pag. 319. GIORNALE LIGUSTICO 419 questo per conseguirne che ai genovesi tornò amaro « il modo col quale la repubblica iu tratta a morte, e il suo territorio unito al Piemonte sotto allo scettro di una dinastia, che quei popoli avevano sempre temuto e odiato e finto di disprezzare », e che non devesi far le meraviglie « se le tradizioni del passato, il malessere del presente, i pregiudizi e gli odii municipali crearono in Genova un focolare di malcontento, che facilmente aveva da diventare sistematico, procurarono un ambiente antimonarchico, in cui aveva da prepararsi, afforzarsi, sorgere, trovare aderenze, seguaci ed entusiasmo devoto un apostolo della repubblica », cioè Giuseppe Mazzini. Nelle quali conclusioni sembraci che l’autore molto s’ allontani da quella rettitudine di criterio storico, che consiste, come notava anche Γ illustre Carutti, nel giudicare dei fatti secondo le cagioni onde derivarono ed i tempi in cui avvennero , non già secondo le opinioni e le passioni moderne. Per il che non può approvarsi la sua sentenza in quanto tocca gli antichi conflitti del Piemonte e di Genova, tanto più vedendosi quasi giustificate le aggressioni e le congiure contro Genova, collo specioso pretesto che la casa di Savoia tendeva « ad allargare il suo dominio dalla cerchia delle Alpi all’A-pennino, obbedendo fatalmente, colla nobile ambizione de’ suoi principi, alla spinta provvidenziale della sua missione ». L’ autore ha sprovvedutamente dimenticato che la rivoluzione francese non era allora avvenuta, e che il moto unitario e veramente nazionale è incominciato dopo il 1815, nel quale anno e nella condizione della povera Italia, la restaurata repubblica avea ben ragione di protestare e di lagnarsi dei trafficatoti di popoli raccolti al celebre congresso (1). Le storie (1) Si vegga La restaurazione della Rep. Ligure nel 1S14 saggio storico di Massimiliano Spinola. Genova 1863. Libro corredato di numerosi documenti. 420 GIORNALE LIGUSTICO nostre particolari, chi ben le legge, porgono la più luminosa prova di quanto affermiamo, e mostrano altresì in qual guisa i genovesi abbiano, ne’ secoli passati, temuto e odiato e finto di dispreizare la dinastia piemontese. Non è poi chi non vegga come nell’altra conclusione che riguarda il Mazzini, si venga a rimpicciolire Γ alto e novissimo suo concetto della unità italiana, riducendolo ad una meschina gara di campanile o ad un basso odio di persona e di casta. Del che si è dovuto accorgere lo stesso signor Bersezio, poiché dopo un buon tratto in cui parla del grande agitatore, ha inteso il bisogno di assicurarci, che il primo merito di lui fu quello di svilupparsi dal concetto di municipio, e cercare la libertà della sua città nella indipendenza della nazione; e non sembrandogli forse questo bastevole a togliere la mala impressione delle sue premesse, esce più innanzi in queste, nè in tutto esatte, parole: « Sì, convien ripeterlo a lode di quel grande ingegno, Giuseppe Mazzini, benché tutto avesse intorno a se a consigliargli di restringersi al municipalismo, di far voti, di addottrinar proseliti di tentar congiure per la libertà di una repubblica genovese , ruppe la stretta cerchia delle tradizioni e degli orgogli campanileschi, seppe abbracciare con vasta sintesi di pensiero Γ unità della patria, sognò, vagheggiò, predicò la costituzione dell’ Italia in una sola famiglia di popolo, sotto una sola legge ». È ben lungi da noi il solo pensiero di menomare il giusto merito politico e letterario del Mazzini e di Giovanni Ruffini, il simpatico, onesto ed affettuoso scrittore del Lorenzo Benoni e del Dottor Antonio, ma nessun discreto vorrà notarci d’arditezza, se proclameremo altamente ingiusta la sentenza del signor Bersezio laddove dice : « scrittori di merito uguale, credo poter dire che la Genova d’ allora non possa vantarne altri ». Bensì appresso a questi ci fa grazia d’un Lorenzo Isnardi, d’un G. B. Spotorno e finalmente d’un Girolamo GIORNALE LIGUSTICO 42I Serra, ma per gittargli in faccia Carlo Varese (1), dal quale « fu agevolmente superato » , ripetendoci, a proposito di questo storico-romanziere, la taccia già data ai genovesi dall’autore d’ una sua biografia nella Enciclopedia, d’ averlo cioè ingiustamente giudicato, anzi calunniato e ridotto più presto alla tomba. Non è nostro divisamento accettare una discussione su questo soggetto, schivi come noi siamo dal rimugginare dolorose controversie, e ci terrem paghi soltanto di riferirci al consenso e giudizio dei dotti non genovesi ; i quali unanimi commendarono l’opera del Serra, mentre tacquero prudentemente di quella del Varese. Sembra che il signor Ber-sezio non abbia avuto tempo di consultare i giornali letterari di quel tempo, e che ignori come alla pubblicazione di quella storia fatta in Torino abbia presieduto Prospero Balbo; le quali cose con più altre poteva poi vedere raccolte e discusse nella Vita del Serra scritta dal nostro Belgrano (2). Neppure ci vogliamo lagnare di molte dimenticanze in fatto di pubblica istruzione, alle quali poteva facilmente supplire quando si fosse ricordato che quell’ Isnardi cui accenna, aveva dettata una bella storia della nostra Università, compiuta poi con larghi accenni alla educazione in genere da quel Celesia, ch’egli si permette giudicare con un epigramma. Ove si fosse rifatto a quel libro, non avrebbe per fermo toccato nel primo capitolo, del nostro Ateneo, in modo affatto irrisorio. Nè più fortunato egli è laddove giudica degli artisti, chè senza nemmanco ricordare quell’ Accademia, che è pur sempre onore di Liguria e che possiede tre istorie, una dell’amico nostro Marcello Staglieno, l’altra di Antonio Merli, e la (1) Si vegga una sua lettera al revisore ecclesiastico (Gior. Ligustico, 1876, pag. 190-91), e qualche altra notizia ch’ivi seguita. (2) Genova, Sordo-muti 1859. 422 GIORNALE LIGUSTICO terza del eh. cav. Federigo Alizeri, a gran mercè nomina appena Ignazio Peschiera e Giuseppe Gaggini, per scendere senza sussidio di ragione a criticare il Cevasco ed il Varni. Lasciando stare il consenso universale della scuola artistica italiana, se la ben nota modestia dei due egregi amici nostri non cel vietasse, potremmo lungamente mostrare al signor Bersezio, in qual guisa un poco diversa giudica di essi e come artisti e come scrittori il marchese Selvatico, la cui magistrale autorità, cel perdoni, noi, e non siamo soli, preferiamo alla sua. E perchè ci afferma senza ombra di incertezza come le statue del Varni « sieno tozze, impacciate, non sempre equilibrate » , noi lo consigliamo, passando di piazza Castello, fermarsi un tratto sullo scalone del palazzo reale ed ammirare, è il vocabolo proprio, la statua di Emanuele Filiberto, opera del nostro scultore, eppoi saperci dire se così bene e con maggior verità, potevasi riprodurre la bella e grandiosa maniera dei migliori artefici del rinascimento. Noi mettiamo pegno che il senso estetico del signor Bersezio troverà in quella figura vestita di ferro, adeguata sveltezza, posa maestosa, equilibrio di movenze e di insieme, tanto da modificare il suo giudizio. Le osservazioni che abbiamo creduto nostro debito esporre fino a qui, sono dettate dal grande amore che portiamo alla verità storica, dalla quale non vorremmo che altri si allontanasse giammai. I molti e benevoli ed eruditi amici che contiamo nella metropoli del Piemonte, ci sono luminosa guarantigia e ponno farci onorevole testimonianza, che sentimenti d’altra ragione non albergarono mai nell’ animo no- GIORNALE LIGUSTICO 423 APPENDICE ALL’ARTICOLO I CISTERCIENSI IN LIGURIA (Giornale Ligustico 1878, pag. 216). Nella Rassegna alle Origines Circestencienses del P. Janau-scek parlando dell’ abbazia di S. Maria del Zerbino di Genova e delle sue oscure origini adottammo come più probabile l’opinione dell’Autore; che cioè essa sia stata trapiantata fra noi dalla Montagna nera di Armenia, verso il cadere del XIII secolo, quando i sultani d’Egitto con frequenti irruzioni finirono con disertare al tutto quelle regioni. Ci pare di aver anche resa più probabile tale opinione con due indizi; uno fu 1’ esempio di altro trapiantamento simile dalla Montagna nera che fecero i monaci armeni verso il principio del XIV, venendosi a stanziare al nostro San Bartolomeo presso all’ab-badia di Iubino e alla presenza di questo abbate; il secondo indizio è un atto notarile del 1400, per cui si vede S. Maria di Iubino di Genova possedere in Nicosia di Cipro un priorato e una rendita annua di 200 bisanti. Ora i due documenti che seguono, giungono opportuni a fornire di ciò una prova compiuta. Battista di Carignano, 1’Abbate di S. Maria di Iubino di Genova nel 1456, fa trascrivere nel fogliazzo del notaro Andrea de Cario, previa autenticazione, una donazione del re Guido di Cipro e Gerusalemme del 1194, e un Breve del papa Innocenzo III in data del 1215 in favore dell’abbazia di S. Maria de Iubino in Montanea nigra. Siccome la donazione del Re riguarda appunto quella rendita di 200 bisanti, che vedemmo nel 1400 doversi riscuotere in Cipro dal procuratore della nostra abbazia del Zerbino, siccome le due carte si trovavano a mani del nostro Abbate che le fa trascrivere a perpetua memoria 424 GIORNALE LIGUSTICO negli atti notarili, non vi può esser dubbio che le due abbazie omonime derivino l’una dall’altra, la più recente di Genova da quella orientale già posta sulla Montagna nera. Resterebbe a sapersi ad ogni modo se quella della Montagna nera fosse o no identica con 1’ altra Cisterciense, posta ivi pure e nominata col titolo di San Giorgio; ma noi lasceremo la quistione al eh. Autore, solo avvertendo col signor di Saint-Martin che tutta quella Regione era piena d’ Instituti monastici. Dei due documenti che pubblichiamo, si deve la scoperta al signor marchese Marcello Staglieno e la trascrizione per la stampa al signor Carlo Astengo, due egregi amici, ai quali per ciò e per più altri titoli intendiamo qui esprimere la nostra gratitudine. Archivio Notarile di Genova; Atti di Andrea de Cario, 14)6 Fil^a 13, N. 279. In nomine domini, amen, Hoc est exemplum sive transumptum cujus-dam privilegii apostolici antiqui felicis recordacionis sanctissimi in christo patris domini innocentii pape tercii venerabilibus religiosis abbati de jubino in montana nigra ejusque fratribus tam presentibus tunc quam futuris gratiose concessi, sive infrascripte particule ex dicto privilegio sumpte, in pergameno scripti subscripti manibus propriis et signis prefati domini innocentii pape et duodecim cardinalium sancte romane ecclesie in eo nominatorum ut in eo apparebat dati anagnie per manum tliome subdiaconi et notarii electi neapolitani vim kalendis septembris indictione tcrcia in-carnacionis dominice anno mccxv, pontificatus vero domini innocentii tercii prelati anno octavo decimo, cuius vera bulla plumbea cum (illis sericis crocei.....quo colore more romane curie impendenti bullati sani et integri non viciati non cancellati nec in aliqua sui parte suspecti ut prima facie apparebat ab una parte cuius bulle sculpta erant duo capita apostolorum cum cruce in medio et literis desuper sic dicentibus. S .PA.SPE. et ab alia parte Innocentius papa III. Item hoc est exemplum sive transumptum cuiusdam sumpti sive exempli in forma vidimus cuiusdam privilegii regalis et seu quondam serenissimi principis domini guidoni;, dei gratia in sancta civitate Jherusalem latinorum regis octavi et cipri GIORNALE LIGIÎSTICO 425 domini concessi ecclesie marie de iubino facti per quondam bone memorie dominum fratrem petrum miseracione divina archiepiscopum appamiensetn in pergameno scripti et sui sigilli in cera impressi in carta pendenti muniti sani et integri ut supra et prima facie apparebat in quo sigillo sculpta est imago episcopi et littere legibiles sic dicentes, S. Petri archiepiscopi appamiensis quod quidem privilegium apostolicum et sumptum, sive vidimus dicti privilegii regalis coram egregio legum doctore domino iacobo de grimeriis de plumbino vicario sale superioris magnifici domini presidentis potestacie civitatis Janue et districtus originaliter presentata et insinuata exhibita et producta presentibus nobis notariis publicis et testibus infrascriptis per reverendum patrem dominum fratrem baptistam de calignano abbatem monasterii beate marie de iubino extra muros ianuenses ordinis cister-ciensium petentem et requirentem hujusmodi particulam ex dicto privilegio apostolico exhibentem . . . , ac dictum sumptum dicti privilegii regalis transumi seu transcribi et in actis curie dicti domini vicarii registrari et autenticari ac auctorizari per dictum dominum vicarium et eius auctoritate et mandato cum sua intersit dicto transumpto in diversis mondi partibus uti pro cautela iuris sui et dicti sui monasterii et timeat amissionem dictorum originalium privilegiorum, et cuius quidem privilegii apostolici tenor sic incipit et successive dicta particula ex eo exhibita de verbo ad verbum sequitur un infra. Innocentius episcopus servus servorum dei dilectis filiis abbati de jubino in montana nigra eiusque fratribus tam presentibus quam futuris regularem vitam professis in perpetuum, religiosam vitam eligentibus apostolicum convenit adesse présidium, ne forte cuiuslibet temeritatis incursus aut eos a proposito removeat aut robur quod absit sacre religionis infringatur, ea propter dilecti in domino filii vestris iustis postulacionibus clementer annuimus. et prefatum monasterium sancte dei genitricis et virginis marie de iubino in montana nigra in quo divino mancipati estis obsequio sub beati petri et nostra protectione suscipimus et presentis scripti privilegio communivimus, in primis siquidem statuentes ut ordo monasticus qui se-cumdum dei (?) et beati benedicti regulam atque institutionem cistercensium fratrum in eodem monasterio institutus esse dignoscitur perpetuis ibidem temporibus inviolabiliter observetur, preterea quascumque possessiones quecumque bona idem monasterium in presentiarum iuste et canonice possidet aut in futurum concessione pontificum largitione regum vel prin-cipuum. oblatione fidelium seu aliis iustis modis prestante domino poteritis adipisci firma vobis vestrisque successoribus et illibata permaneant, in quibus hec propriis duximus exprimenda vocabulis, locum ipsum in 426 GIORNALE LIGUSTICO quo prefatum monasterium situm est cuna omnibus pertinentiis suis, capellam sancti thome de antiochia cum cellario et ceteris pertinentiis suis etc. et sic sequitur post multa inter cetera ut infra, in cipro in funda nicosie ducentos bisantios et in casale genit (?) vigintiquinque in laodicia iardinum unum, et postea sequitur post multa ut infra, decernimus ergo ut nulli omnino hominum liceat prefatum monasterium temere perturbare aut eius possessiones aufferre vel abbates retinere seu quibuslibet vexationibus fatigare sed omnia integra conserventur eorum pro quorum gubernationi ac sustentacioni concesse sunt usibus omnimodis profuttura. salva sedis apostolice auctoritate et in predictis capellis diocesani episcopi canonica justicia. Si qua igitur in futurum ecclesiastica secularisve persona hanc nostre constitucionis paginam sciens contra eam temere venire temptaverit secundo terciove commonita nisi reatutn suum congrua satisfactione correxerit potestatis honorisque sui dignitate careat reumque se divino iudicio existere de perpetrata iniquitate cognoscat et a sacratissimo corpore et sanguine dei et domini redemptoris nostri yhesu christi aliena fiat atque in extremo ex animo districte ultionis subiaceat. cunctis autem eidem loco sua jura seruantibus sit pax domini nostri yhesu christi. quatenus et hic fructum bone actionis percipiant et apud districtum iudicem premia eterne pacis inveniant, amen amen amen. Et successive post signa et subscriptiones domini innoceutii pape et cardinalium predictorum sic finit, datum anagnie per manum thome subdiaconi et notarii nostri electi neapoli-tanensi. vuu kalendis septembres indictione 111 incarnationis dominice anno Μ . cc. χν pontificatus vero domini innocentii pape 111 anno octavodccimo Alexander. Alterius vero sumpti sive transcripti dicti privilegii regalis tenor de verbo ad verbum sequitur et est talis. In nomine sancte et individue trinitatis patris et filii et spiritus sancti, amen. Notum sit omnibus posteris et presentibus quod ego guido per dei gratiam in sancta civitate Jherusalem latinorum rex vili et cipri dominus dono concedo atque confirmo ecclesie beate marie de iubino pro anime mee remedio et patris matrisque mee atque domine sibille venerabilis regine uxoris mee ducentos bisantios in assilia in comertio nicossie per quatuor anni terminos annuatini recipiendos concedo etiam ut eosdem bisancios in ipsa terra cypri vendendo et emendo libere valeant commutare et a predicta arra sine impedimento sine exactione aliqua vel dric-tura extrahere, et ut hoc meum firmum et stabile donum permaneat, presentem paginam scribi et sigilli mei impressione plumbei signari et virorum subscriptorum testimonio corroborari precepi. Quorum hec sunt GIORNALE LIGUSTICO nomina: aymericus constabularius. henfredus toroni. hugo martini ma-rescalcus. aymericus de rivçr. raynerius de gibelet. galterius lebel. odo de mayri. Actum in Nicossia. anno dominice incarnationis Mcxcnn. indictione xii epacta xxvn. xvm kalendis septembris. Nos frater petrus miseratione divina archiepiscopus appamiensis notum facimus universis christifidelidus quod nos presens scriptum sicut superius expressum vidimus et inspeximus diligenter de verbo ad verbum sine aliqua diminutione in autentico contineri quod ut ratum habeatur et firmum ipsum scriptum duximus presentis bulle nostre municione roborandum. Nos frater G. miseratione divina archiepiscopus manustanus (?) autenticum huius exempli vidimus et legimus de verbo ad verbum sine aliqua diminutione auscultavimus et ad majorem securitatem nostram bullam apposuimus. Qui siquidem egregius dominus vicarius sale superioris visis et diligenter inspectis supradictis originalibus privilegio apostolico et sumpto seu vidimus dicti privilegii regalis ac presenti suprascripto transumpto cum ipsis originalibus in presentia et de mandato dicti domini vicarii de verbo ad verbum fideliter auscultatis et debite collationatis per nos infrascriptos notarios, mandavit et decrevit hujusmodi privilegium apostolicum sive particula suprascripta ex eo sumptu ac transumptu dicti privilegii regalis transumi seu transcribi et registrari et in actis curie sue autenticari et in hanc publicam formam redigi per me andream de cario notarium publicum et scribam curie dicti domini vicarii infrascriptum volens et mandans quod hujusmodi transumpto pubblico de cetero adhibeatur plena fides ubique locorum in iudicio et extra ac talis et tanta qualis et quanta dictis originalibus privilegio et sumpto data sunt et adhibita seu de iure datur et adhibetur ubiquibet et quotiens originaliter producerentur premissisque universis et singulis suam et comunis ianue auctoritatem interposuit pariter et decretum, mandans discretis viris dominico de bargono et petro de facio notariis et etiam scribis curie dicti domini vicarii ut huic transumpto una cum dicto notario suprascripto hic se subscribant in fidem et testimonium premissorum. Actum janue in sala superiori palacii causarum comunis ad bancum juris solitum dicti domini vicarii sale superioris ipso ibidem pro tribunali sedente, anno a nativitate dominica mcccclvi indictione quarta secundum janue cursum die vero sabbati quarta mensis decembris post vesperas, presentibus ibidem honorabilibus et discretis viris dominis thoma de recho de levanto et oddo de ceva lunensis et albensis diocesis presbiteris ac 428 GIORNALE LIGUSTICO augustino de ripalta cive januense testibus ad premissa vocatis specialiter et rogatis. (Seguono le autenticazioni dei notari: Andreas de Cario q. Nicolai, dominicus de bargono q. Raflael, petrus de facio q. philippi). DUE LETTERE INEDITE DI ANTONIO CESARI Antonio Cesari stanziò in Genova dal 5 al 9 ottobre 1827. Già sul cadere del settembre aveva manifestato il suo vivo desiderio di visitare questa città, all’ amicissimo Antonio Chersa, chiaro latinista raguseo, il quale da tempo era legato in consuetudine amichevole col Gagliuffi e col marchese Gian Carlo Di Negro, ch’egli avea conosciuti di persona quando più anni innanzi erasi recato a Genova ad incontrare il fratello Tomaso, reduce da Roma, pur egli valente letterato. Il quale « in Genova non fu testimonianza, osservanza ed onore di che non fosse largamente colmato : conciossiache quivi (essendovi egli assai raccomandato dalla gentilezza e dottrina sua), ebbe 1’ onore della dimestichezza ed amicizia di tutti coloro, che in opera di scienze e di lettere aveano voce di sommi: tra’ quali fu de’ primi Giuseppe Solari; uomo che in fatto di erudizione, 0 di poesia, 0 di filosofia, o di matematica, entrava senza contraddizione innanzi a tutti di quella città » (1). E devesi forse ascrivere al Chersa, se il Cesari già contava in quella città amici, eh’ ei non conosceva se non per via di lettera (2). In qual guisa venisse accolto e festeggiato dai suoi Filippini non è dire; e vago come egli era di osservare i monumenti, le chiese, gli edifici onde s’abbella la città, fu una (1) Cesari, Elogio di T. Chersa. (2) Cesari, Lettere racc. dal Manuzi, I. 153, 155. GIORNALE LIGUSTICO gara fra que’ religiosi nel porgergli ogni maniera d’ uffizi. E ben sapendo quanto onorevole fosse noverare nel lor sodalizio tanto uomo, vollero che i letterati tutti genovesi conoscessero di persona, chi già cotanto onoravano per fama. Ed incontanente condussero il Cesari appo il Di Negro, in quella bella villetta dove convenivano i più fioriti e colti ingegni della città, e dove ospitavano gli illustri d’ altronde : luogo al tutto sacro alle muse e che vivo manteneva l’amore agli studi, procacciando non lieve onoranza alla patria. Oltra ogni dire egli rimase ammirato e della nostra Genova e delle gentili maniere onde fu accolto dal Di Negro; quindi è che scrivendo ad Antonio Chersa usciva in queste parole: « Genova superò ogni mia espettazione, e mi scosse meraviglia della bellezza del suo porto, magnificenza de’ palagi, postura di sito e vaghezza di deliziosi prospetti. Se non che debbo dire; quello che a pezza me la rendette più cara e più bella, fu la cortesia smisurata e le infinite carezze fattemi dal signor Gian Carlo Di Negro; che mi beatificò della sua meravigliosa villetta posta dentro della città, che è veramente un fascino ed un teatro di tutte eleganze » (i). Ed avendo il cav. Bocci, console di Toscana, aperto il desiderio di conoscerlo al Di Negro; questi lo condusse a lui, ed il Cesari afferma come il trovasse uomo di squisito gusto e giudizio in opera di bella letteratura (2). Volle altresì rimanesse a testimonio di sì fatte bellezze e di tanta cortesia il seguente sonetto, quasi fatto all’ improvviso al pranzo datogli dal Marchese : Dal mar cui signoreggia ardua, dal monte Scoglioso, ove tien fitto altera il piede, Alza in ricchi palagi, onde il ciel fiede, Genova per miracolo la fronte. (1) Leti, cit., I. 154. (2) Leti. cit. 430 GIORNALE LIGUSTICO Di tutte grazie albergo elette e conte La villetta Di Negro ha qui sua sede, Che d’Armida ai giardin punto non cede, E d’aspro irato ciel non teme l’onte. Non può la calda e viva fantasia Di sì rare bellezze ornar la scena , Che da lor vinta al paragon non sia : Ma nulla è ciò: chi vide esta sirena Del cor di Carlo, e l’alta cortesia, D’ ogni altro bello si ricorda appena. Cui fu risposto con questi bellissimi distici estemporanei dal Gagliuffi : Quod tibi spectaclum dat villa Nigraea videndum Laudarunt alii, nomina clara, viri. Tuque hodie hunc mirum naturae atque artis honorem Illustras plausu, vir venerande, tuo. Et qui te praesens praesentem amplectitur hospes Hunc sibi felicem praedicat esse diem. Gestaturque suam caro cum conjuge natam, Et laetum hunc quotquot laeti adiere locum. Quin (nam vidisti), varia inter marmora (lectas Delicium italicae Pallados effigies), Tu quoque marmoreum, non fallor stare jubebit, Et decus adquiret villa Nigraea novum. Rimase poi tanto preso d’ ammirazione per l’istituto dei sordo-muti, e pel suo fondatore il P. Assarotti, che tornato appena a Verona in uno splendido ragionamento, recitato nella sua congregazione, volle mostrare l’utile di sì benefica istituzione, porgendo a chi se n’era fatto promotote in Genova quelle lodi alle quali ha giustamente diritto. Il Giornale Ligustico, i cui scrittori erano parte precipua delle geniali adunate in casa Di Negro, tramandò ne’ suoi eruditi volumi onorevole memoria della dimora del Cesari in GIORNALE LIGUSTICO 431 questa superba metropoli (i); e quei socj cooperatori il proseguirono di meritate lodi esaminandone alcune opere (2), e si pregiarono pubblicarne pei primi prose e poesie (3); nè dimenticarono difenderne la memoria, facendo noto ai lettori le disoneste scritture del Villardi, e le generose dell’ illustre abate Manuzzi e del Parenti (4). Ecco come discorre il prof. Antonio Bacigalupo della cooperazione d’un tanto uomo a quel giornale : « Allorché io dirigeva il Giornale Ligustico, eh’ ebbe principio del ventisette, m’ avvenne di dover carteggiare con ben parecchi uomini di lettere, ed usai sempre ogni cura e diligenza per avere a col-laboratori i più illustri ed eccellenti ch’io sapessi e potessi, e maggiormente di que’ di fiorissero per fama d’ingegno e di squisita letteratura. Nel che di tanto fummi la sorte amica, che sotto a quel vessillo potei vedere raccolti un Cesari ed un Colombo, benché il primo (oh sciagura delle cose umane!) non mi venisse prima ritrovato, che tolto per morte alle lettere e al desiderio comune » (5). Infatti egli moriva il i.° ottobre 1828, e fra le inedite poesie autografe del Bacigalupo v’ha, con la data de’ 16 giugno 1829, uno strano sonetto in morte del Cesari, composto coi più straordinari arcaismi ed idiotismi dei primi poeti volgari. Eccolo : Lo die che andoe del corpo il lumen crero Dello aggenziato partacar scoffetto, Omne om che zentil quore hae nello petto Micidar spata fedio d’ajo fero. (1) Giorn. Lig., fase. 5, 1827, pag. 548, fase. 1.° del 1828, pag. 43. (2) V. Giorn. cit., fase. 1, 2, 3 e 5 del 1827; 2, 3 e 4 1829. (3) V. note alla tetterà II. (4) Giorn. cit., fase, 8 del 1828, pag. 590. (5) Lettere inedite di A. Cesari, M. Colombo ecc. Genova, Pellas 1841, p. Vili. 432 GIORNALE LIGUSTICO Et gralimando con fleto sincero Traivasi al sipolcro benidetto, Et liviritta dicea: Como cetto S’obscuroe, Italia, el fio sole primero ! Chi chiù in chesto brobbrioso et speregiato Secui, farae bono opero d’oncastro, Chi di paratile tezauro novato? Ahi ! ahi ! verguno ! et anderan laldite Le grazie, mone che 1’ orrevil Mastro Le hae bandonate sì affritte et marrite (x). Niuno vorrà per certo argomentare, che abbia voluto il Ba-cigalupo fare oltraggio con questo sonetto a quel forbitissimo scrittore, nè che si volesse da noi, pubblicandolo, venir meno a quel rispetto dovuto giustamente, in diversa ragione, ad entrambi. Ma Genova possiede un’ altra memoria del Cesari, vogliam dire la sua mano, donata al Municipio da mons. Stefano Rossi e conservata nella Biblioteca Civico-Beriana. Senza discutere la guisa curiosa di onorare la memoria di uno scrittore, « impossessandosi della sua mano in un modo che tutti non possono applaudire », come ebbe giustamente a rilevare in Consiglio Γ avv. Nicolò Federici, diremo che il Rossi volle serbare questo ricordo, quando reggendo la città e provincia di Ravenna, con lodevole e pietoso ufficio si piacque di far togliere gli avanzi dell’ illustre filologo dal luogo indegno ove giacevano, e farli riporre in un ricco monumento eretto a sue spese. Le due lettere da me tratte con ogni diligenza dagli autografi sono indiritte al P. Girolamo De Negri filippino, morto or son pochi anni in Gavi sua patria. Come che non abbia lasciato opera alcuna stampata, per quanto io ne so, pure và annoverato fra i nostri eruditi, essendosi procacciata fama (i) Bibl. Universitaria, ms. E. IX. 14. 433 di botanico distinto. Egli divisava compilare una Fiora Ligustica, per il che tenne una lunga corrispondenza di lettere coll insigne Bertoloni; al quale inviò parte del suo lavoro, che rimase per avventura incompiuto, distratto com’ ei fu da suoi studi a cagione della soppressione del sno sodalizio dove ebbe i principali uffici. Era membro della Società Geografica Italiana, e di quella Ligure di Storia Patria, e prese parte all’ ottavo congresso degli scienziati. Achille Neri. I. M.<° RA° e Car.m° P. Negri, Verona li 9 del 1828. Non posso aspettare più avanti, nè tollerare il sospetto di essere paruto o villano o ingrato verso la sua degnissima Congregazione; avendo io ragion di dubitare, che elle debbano credere me essermi dimenticato delle tante gentilezze, onde io e gli miei compagni fummo da lei e dagli altri strabocchevolmente onorati. Debbo dunque farle sapere, che appena ripa-triato, scrissi al P. Compiano una lettera, nella quale io apriva a lui ed al P. Preposito ed agli altri Padri i cordiali sentimenti della mia gratitudine e devozione, a nome altresì degli altri compagni, per le troppe cortesie fatteci nella nostra dimora costì; delle quali noi nè ci dimenticheremo mai, nè potremo dimenticarci. Io mandai anche un fascetto di libri a cotesto libraio Canevello; nel quale erano 12 copie della mia vita di S. Luigi Gonzaga, le quali il P. Compiano m’ avea dimandate; delle quali, sei io lo pregava di ricevere in nome di umile presentuzzo che io gli mandava; ed il Canevello dovea portargliele. Ma non avendo io da questo libraio ricevuto risposta, temo di qualche disastro ; e che, come la mia lettera al P. Compiano, così il fagotto sia ito a male, ovvero rimaso dimenticato in dogana, per colpa di chicchessia. Ma sia che vuole ; a me preme troppo, che Ella, il P. Compiano, e gli altri Padri sappiano, che io non ho mancato ad un dover così grave, che mi stringeva, e che mi duole senza fine di questo accidente, qual che egli sia, e donde che proceduto. Io ho già scritto al M.se Gio. Carlo di Negro, che avvisi il Cane-vtllo, sicché riscuota il fagotto, e faccia il dovere. Intanto prego Lei, carissimo P. Negri, che voglia mettere il colmo alle infinite sue cortesie, facendo in mio nome, questo ufizio di troppo dovere colla Congregazione sua, tanto Giorn. Ligustico, Ann V. 28 434 GIORNALE LIGUSTICO di noi benemerita; e che la preghi di perdonare o a me, od al caso, questo sconcio, del quale io ho già fatto la penitenza col dolore che ne ho poi-tato. Deh! lo prego, ringrazj cordialmente il P. Proposito e gli alni con la maggiore esuberanza d’ affetto ; che certo non supererà quello dell a-nimo mio. Mi conservi il suo amore e mi creda sinceramente Tutto Suo Dev.mt> Aff.”>° Antonio Cesari d. o. II. Caris.mo Padre De Negri Verona, li 27 del 1828. Lasciando da parte tutti gli altri aggiunti ond’Ella mi onora, io mi ritengo e conserverò quel solo di amico , col quale io quinci innanzi nominerò sempre Lei, ed Ella me, credendo che ad ambedue noi piacerà. Ringrazj pel primo il P. Superiore, il P. Compiani e gli altri dell affetto loro, di che m’ è testimonio la cara sua lettera; e gli assicuri della buona memoria che non mi lascerà dimenticar mai le loro gentilezze. Godo che tanto le piaccia la lingua ond’ è scritta la Vita di S. Luigi ; essa è quella lingua, che con tanti studj e travagli io mi sono adopeiato di far amare agli Italiani, venuti già quasi alla barbarie: e mi pare esser certo, che chi la studiasse bene ne’ classici, parlerebbe e scriverebbe (parlo principalmente de’ Preti) con proprietà, forza, energia, calore, e chiarezza, le quali doti troppo son necessarie a portar frutto negli uditori della parola di Dio ; ed a’ Predicatori farebbe dismettere le arguzie, i giuochetti vani di parole, le raffinature, e le buffonerie, che imbrattano il parlare moderno, dico di molti (i). Non debbo nè posso negare che le cose mie non abbiano latto risentire ben molti, e recatigli al sano scrivere e fruttuoso; e (per confessarmele) mi consolò che anche costi in Genova esse mie opere non dispiacevano, anzi ne sia qualche desiderio. Il M.se Gio. Carlo Di Negro mi scrive maraviglie dell’ ardore de’ letterati Genovesi del leg- (1) In questi tempi il clero non era molto innanzi negli studj neppure in Genova, chè lo Spotorno colla usata franchezza scriveva nel 1838 a mons. Stefano Rossi : « Il nostro clero dorme pacificamente senza logorarsi gli occhi su i libri ; e piacesse a Dio che fosse vero ciò che ne pensa V. S. ]ll.ma e Rev.ma cioè che « in perizia di moralisti niuno 1’ avanzi ». L’ Em.mo Lambruschini, sommamente disgustato di trovare un clero così pellegrino negli studj, si adoperava di scuoterlo dal letargo; ma chiamato a servire in ardui negozj la S. Sede, tutto ricadde nel sopore primitivo; anzi va crescendo la negligenza e perciò l’ignoranza ». (Bib. Univers., ms. B. Vili. 20). GIORNALE LIGUSTICO 435 gere le cose mie : e già ne ho a quest’ ora mandate a lui non poche, delle quali mi promette buon ispaccio. Ora che si ? che per mezzo del P. De Negri, si spargeranno largamente anche fra’ Preti ed i Religiosi! La sua lettera, e l’affetto suo, mi hanno messo in questa speranza. Certo quel sig. Professore Teologo del Seminario, che fu meco a pranzo nella villetta della Congregazione, quel bel Prete, fatticcio, rubicondo, mi mostrò assai calda brama di avere le cose mie, e laddove Hlla ne scaldasse più altri, o conoscenti suoi od amici, forse lilla vorrà che gliene mandi qualche numero di copie. Genova veramente è stata la sola o la principale delle città, che mi mostrasse tanto affetto e desiderio di queste cose mie; e non voglio credere che debba la mia speranza tornare a nulla (i). Io ho (me le confesso da capo) una grossa mia famiglia, della quale io sono il sostegno o il padre da molti anni; e vorrei poterle dare uno stato sicuro e fermo: il che non ispero altronde, che dallo spaccio delle mie stampe : da che tanti miei studj non mi fruttarono altro, che di poterla mantenere a spilluzzico: di che però ringrazio Dio cordialmente (2). Aspetterò adunque, quello che ella mi debba scrivere in questo proposito : e qui intanto le chiudo il catalogo delle cose mie. Quanto al Direttore del Giornale Ligustico, credo che egli vorrà qualche brano di forte eloquenza tratto dalle opere mie già stampate. Se così è ; mandandone io alcune copie, potrà cavare quello che più gli piaccia; massime dalle orazioni che ho poste nel fine di ciascuno dei 5 volumi. Quanto a’ Sordo muti: io, tornato da Genova, ho scritto e recitato nella nostra Chiesa due ragionamenti sopra questa materia. Se egli volesse stampare cotesti, glieli manderei: ed egli me ne darà un numero ragionevole di copie: trovando io però modo di mandargli il manoscritto, senza ingrassar la posta, e spolpar me. Io avrei anche forse alcune Rime mie piacevoli, da farne un libro di 20 fogli, parte già da me stampate in libro di dieci fogli, e parte no. Anche queste potrei dargli (3) Ho detto (1) Queste cose stesse scriveva al Chersa tornato da Genova (Leti. cit. I, pag. 154), ed al Fracassetti (Ivi, II. pag. 464). Tanto erano in pregio le opere sue in essa città che vi furono ristampati i Ragionamenti e le Novelle. Già era uscita dalla stamperia stessa del Giornale Ligustico nel settembre del 1S26 l’orazione pel S. Natale (Giorn. Lig., Fase. 5, 1827, pag. 563). (2) V. Leti. cit. I, pag. 126; II, pag. 425. (3) Un ragionamento intorno ai Sordo muti, leggesi appunto nel Giorn. Li·;., Fase. 1. pag. 43 e Fase. 2, p.ig. 132 del 1828. Alcune delle poesie piacevoli comparvero pure ivi nei Fase. 3, pag. 280 e 4 , pag. 371 del 1828, e Fase. 1, pag. 64, 2 , pag. 157 e 6 pag. 585 de' 1S29. Due sonetti l’uno al Conte L. Salina, l’altro al Cm. F. Schiassi stanno nello stesso Giornale, Fase. 4, pag. 357-3® ^ 1 ^-9· 436 GIORNALE LIGUSTICO forse, perchè un librajo potrebbe volerle per se, avendogliene io gittato un motto. Expecto quid velis. Li miei compagni fanno a lei ed a’ Padri mille ossequ] : ed io me le profferisco e dico Suo Amico Antonio Cesari d. o. ANNUNZI BIBLIOGRAFICI Tragedie di Seneca. — Nella Gaietta Ufficiale del Regno, del 9 Luglio 1878, pag. 2674, veniva riprodotta la notizia che alla vendita seguita in Parigi della prima serie della Libreria di Ambrogio Firmin-Didot, quella Biblioteca Nazionale acquistava fra gli altri preziosi manoscritti « le tragedie di Seneca, copia datata da Genova il 7 Settembre 1381 ». Avendo noi pregato il eh. sig. Daniele Giampietro, erudito collaboratore dell’ Archivio Storico Italiano, che nell’estate scorsa si recava a Parigi, della cortesia di qualche ragguaglio intorno al detto codice, che per Genova avrebbe avuta qualche particolare importanza, lo stesso in data dell’ 11 Agosto, ci scriveva cortesemente quanto segue: « Ho veduto nella Nazionale il codice di cui mi parlaste, cioè il volume delle Tragedie di Seneca. Siccome è la cosa che torse principalmente v’interessa, dirò innanzitutto che nè altri nè io abbiamo letto in nessun luogo del codice il luogo e il tempo preciso in cui fa scritto. I caratteri sono del secolo XIV, e lo vede qualunque studente di paleografia; ma che appartenga all’anno 1317 e che sia stato eseguito in Genova, aspetteremo che sia provato. Non vi sono miniature. Carattere gotico. La prima lettera di ogni verso unciale. Ciascuna pagina a due colonne di versi, ed ogni colonna 46 versi: sono in tutto 130 pagine. Nei margini si leggono note di ogni apecie a caratteri microscopici: nell’interlinea qualche piccolissima nota dichiarativa. » Manca il frontispizio. Tutto il codice è però in buono stato. La co-vertura membranacea e anch’ essa antica. È classificato tra i codici di formato grande tra il 37 e 50 centimetri di altezza. La classificazione: Nouv. Acq. Lat. 2181 ». Santo Varni — Tarsie ed intagli del Coro e Presbiterio di S. Lorenzo in Genova. — Genova, Sordo-Muti, 1878. In 8.vo. È un bel volume egregiamente impresso, dedicato dal Varni con affettuose parole all’ amico prof. Giuseppe Isola; e costituisce come la seconda GIORNALE LIGUSTICO 437 parte delle Memoria sulle arti della tarsia e dell’ intaglio, già comparse alla luce del 1869 nel giornale letterario Vittorio Alfieri, e poi raccolte in un volumetto assai male stampato e intorno a cui P illustre statuario declina a buon diritto ogni responsabilità. Fino dal 1850 il prof. Varni avea fatte vive istanze al Consiglio Municipale , perchè le opere di commesso e di scultura che adornano il Coro della nostra Cattedrale (fra le quali le maggiori del Presbiterio sono del celebre frate Damiano da Bergamo) venissero acconciamente restaurate ; ma a deliberare i restauri indugiò un intero decennio, finché nel 1860 decise che si dovesse metter mano alle opere, e giustamente conferì al Varni medesimo 1’ onorevole incarico di dirigerle. Ma Γ ottimo direttore fece molto di più, come può leggersi nella Prefazione , e ne fu rimeritato in quel modo che la Prefazione stessa rivela. Nel 1860 egli aveva inoltre di già apprestata cotesta monografia, e in quell’anno stesso ne d'ava lettura alla Società Ligure di Storia Patria. Lo scritto si divide in tre capitoli. — Nel primo si espone la storia del Coro; nel secondo se ne discorrono i pregi artistici; nel terzo si contiene la descrizione delle tarsie. Seguono poi ventotto Documenti. Nessuno meglio del Varni poteva dettare una rassegna così completa del nostro monumento, nessuno al certo aveva ragioni maggiori per farlo. Giovanni Franciosi. — Scritti varii per la prima volta riuniti, e notevolmente ritoccati dall’ autore, con giunta di cose inedite. Firenze, Le Monnier — 1878 — In 8.° Questa importante pubblicazione, ne siam certi, varrà a raffermare maggiormente la fama onorata che il Franciosi seppe acquistarsi di elegante scrittore e di accurato indagatore delle patrie memorie. È questa ultima dote che specialmente avvertiamo in lui perchè in più stretta attinenza coll’ indole del nostro giornale, risplende di luce vivissima nello scritto, che fa capo al Volume, e che l’autore consacra alla Vita ed alle opere di Carlo Sagomo ; scritto ora dal Franciosi riprodotto e arricchit col corredo di documenti che valgono a porre ognor più in rilievo il merito di quel sommo , non apprezzato abbastanza dai critici contemporanei ; sebbene dalla sua opera de Regno Italiae tanto lume si diffonda sulle avvilupate ed oscure vicende mediovali, e sì ben collegata narrazione si porga di que’ tempi che furono precursori e generatori potenti della italica civiltà ; e per essa della civiltà universale. Ma d’ altri pregi si adornano gli scritti in parte noti, inediti in parte, 438 GIORNALE LIGUSTICO e che offrono nel libro da noi annunciato un subbietto di proficua e attraente lettura ; vuoi sotto P aspetto letterari , come nella parte artistica. Dappoiché il Franciosi colla dottrina maestrevolmente si addentra nelle regioni non ancora bene ricercate della patria letteratura, e svolge del pari con mirabile perspicuità di dettato i più dilicati e riposti principii dell’ Estetica applicata alle arti gentili. Il che si fa manifesto principalmente nella sua Cecilia Raffaellesca e nell’ altra forbita scrittura i Fanciulli nell' arie Raffaellesca. Chiudono il volumetto, che si raccomanda in ogni sua parte per gli alti e generosi concetti che tutto P avvivano, alcuni ritratti morali di benemeriti italiani di recente rapiti al decoro e al meritato affetto della patria comune. Biblioteca delle tradizioni popolari Siciliane per cura di Giuseppe Pitré. — Palermo — Luigi Pedone Lauriel — Editore — Corso Vitt. Eut. 360. Prima e affatto nuova nel suo genere, questa Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane ha havuto grande successo in Italia e all’ Estero. I sette volumi usciti finora hanno mostrato quanto vantaggio possa trarre la Letteratura, la Filologia romanza e la Mitologia comparata dallo studio de’ Canti e delle Novelle popolari in Sicilia. Ora questo vantaggio diventa maggiore e più evidente anche per gli studi sociali sul popolo siciliano con la pubblicazione degli altri otto volumi, co’ quali es^a Biblioteca avrà compimento ; volumi che illustrano la vita de’ Siciliani ne’ proverbi, negli spettacoli sacri e profani, nelle feste, ne’ giuochi fanciulleschi, negli usi, nelle credenze, nelle superstizioni, nel linguaggio furbesco, convenzionale e in tutti i tratti più caratteristici di questa gente sì poco conosciuta e sì poco intesa. L’ autore ha messo la maggior cura perchè 1’ opera sua riesca proficua a’ vari studiosi di queste materie, e degna del favore che è stato accordato a’ volumi pubblicati : e basti dire che la sola raccolta di Proverbi gli è costata oltre a 20 anni di ricerche, siccome apparirà dalla lunga prefazione alla raccolta stessa. La Sicilia tutta è stata messa a contributo dal raccoglitore : e libri e manoscritti curiosi e rari sono stati da lui ricercati e consultati per quest’ argomento. Ecco intanto il programma de’ volumi da pubblicarsi e parte de’ loro sommari : Vol. Vili, IX, X. — Proverbi Siciliani raccolti e messi in raffronto con quelli degli altri dialetti d’Italia, con Discorso preliminare. Saggio di proverbi lombardi di Sicilia ecc. Vol. XI. — Spettacoli e Feste popolari. — Sacre rappresentazioni popo- GIORNALE LIGUSTICO 4 39' lari in Sicilia (dal sec. XVI aL secolo XIX). — Tradizioni cavalleresche nel teatro de’ burattini, nel racconto , nella poesia e nella pittura popolare. — Il Carnevale in Sicilia. — Il Capo d’ anno. — S. Agata. — S. Giuseppe. — La Settimana Santa. — L’ Ascensione. — S. Giovanni Battista. — SS. Pietro e Paolo. — Il i Agosto (Trapani). — La Festa di mezz’ agosto. ·— SS. Cosma e Damiano. — La festa dei Morti. — S. Martino. — S. Lucia. — Natale. — S. Rosalia. — S. Agripina (Mitieo). — S. Sebastiano (Melilli).— Sant’ Anna. —Santo Spirito (Caltanisetta). — L’Immacolata (Palermo).— S. Lorenzo. — S. Stefano. —L’ Annunziata. — Calendario popolare. Vol. XII. — Usi, credente, superstizioni e giuochi fanciulleschi. — Usi natalizi. — Usi nuziali. — Usi funebri. — Il venerdì. — Le anime de’ corpi decollati. — Streghe, Fatture , Scongiuri, Donne di fuora. — Medicina popolare. — Botanica. — Zoologia. — Usi agricoli : seminagione, messe. — La luna nelle credenze popolari. — Le stelle. — Gesti e insegne del popolo siciliano. — Il Camposanto. — La Mafia. — Il tocco. — Lingua furbesca e zingaresca. — Imprecazioni. — Le gridate (abhan-niatini). — Superstizioni, usi e credenze varie. Fol. XIII. — Canti popolari siciliani inediti. Vol. XIV. — Novelle popolari siciliane inedite. Vol. XV. — Sulle Tradizioni popolari siciliane. Questo volume conterrà importanti studi pubblicati sulle tradizioni popolari siciliane , a proposito di questa Biblioteca , da illustri scrittori d’Italia , Spagna , Portogallo , Francia, Svizzera, Germania, Inghilterra, Russia , America. CONDIZIONI DELL’ ASSOCIAZIONE. 1. L’ associazione è obbligatoria per ogni singola Raccolta. 2. Ogni volume verrà diviso in tre fascicoli di 128 pag. ciascuno, che costerà L. 1, 50 franco in tutto il Regno. 3. Ogni venti giorni sarà pubblicato un fascicolo. 4. Carta e caratteri uguali ai primi 7 voi. già pubblicati. 5. 11 primo fascicolo sarà pubblicato il 1 febbraio 1879. 6. Il vol. XV verrà dato gratis a chi si associerà all’intera Collezione. VOLUMI PUBBLICATI. Voi. I-II. — Canti Popolari Siciliani — raccolti ed illustrati e preceduti da uno Studio critico; di pag. XII-450 e XII-500 con 16 pagine di musica, 1870-71. L. 9. Vol. III. — Studi di Poesia popolare di pag. VII-398, 1872, L. 4. Vol. IV-V-VI-VII. — Fiabe, Novelle e Racconti Popolari Siciliani — raccolti ed illustrati, con Discorso preliminare , Grammatica del dialetto e delle parlate siciliane — Saggio di novelline albanesi di Sicilia e Glossario ; di pag. CCXXXII-424 , IV-404, IV-406, IV-460, 1875, L. 20. Discorso sopra la musica de’ suoi tempi di Vincenzo Giustiniani, Marchese di Bassano. Lucca, Giusti 1878. _ La pubblicazione di questo scritto inedito si deve all ei udito Salvatore 440 GIORNALE LIGUSTICO Bongi, il quale la trasse da una miscellanea conservata nella Biblioteca aggiunta all’Archivio di Stato di Lucca al quale egli così meritamente presiede. Una succosa ed importante avvertenza ci fa conoscere 1’ autore con assai maggior larghezza di quello che non fecero fino a qui i nostri scrittori^ nè v’ha alcuno che almen non lo ricordi per quella Galleria Giu-stiniana la quale attesta la splendidezza e 1’ amore delle arti di Vincenzo. Egli avendo viaggiato in gran parte d’Europa conosceva perfettamente gli usi e i costumi, di che si ha prova nelle istruzioni sui modi di fabbricare conservate nella citata miscellanea. Già un suo breve Discorso intorno alla pittura avea pubblicato Michele Giustiniani nelle sue lettere memorabili, ma questo sulla musica è di assai maggiore importanza come quello che discorre storicamente di siffatta disciplina, pergendo molte notizie comparative intorno al diverso modo del comporre e dello eseguire. Utile è altresì perchè ci manifesta molti nomi di maestri, di cantanti e di suonatori, tanto celebrati un tempo ed oggi quasi al tutto dimenticati. Il libretto edito in occasione di nozze se sarà riuscito per avventura a cagione dello stile un po’ ostico al palato della sposa, non potrà per la materia cadere sotto la poetica critica del Carducci laddove volgendo le parole al D’Ancona scriveva: Non io tinger vorrei di dotta polve A la sposa il vel bianco ed i pensieri, Nè schiuder quei che un’età grossa involve Grossi misteri. Francesco Podestà. Escursioni archeologiche in Val di Bisogno. Genova, Sordo muti 1878. Non è opera agevole certamente il dar qui un semplice cenno delle moltissime notizie che trovami costipate in questo libretto, il quale ci è prova della diligenza dell’ autore nello aver voluto condurre la sua narrazione intórno e ad un antico acquedotto romano, e alle sculture pur romane ed a Molasana ed al suo castello, sopra gran copia di documenti da lui ritrovati nei nostri archivi. Il medesimo può dirsi dei cenni storici intorno al ponte di Santa Zita che formano un capitolo distinto di queste escursioni. Ond’ è a saper grado all’ egregio scrittore di averci apprestate notizie affatto ignote, le quali oggimai entrano nel patrimonio della nostra storia genovese, ed alle quali dovrà rifarsi chi voglia sapere alcunché d’ antico di questa importante vallata appena fuor delle mura di Genova. Alderano Mascardi giureconsulto saryinese, nota biografica di Giovanni Sforza. Modena, Vincenzi 1878. Poche notizie ed inesatte ci avea lasciato il Gerini di questo giureconsulto che fu autore d’un trattato latino intornq all’ interpretazione degli statuti, opera lodatissima ai suoi tempi e della quale il tipografo Cafïa-relli nel cadere del secolo passato si proponeva farne una ristampa. L’ egregio Sforza mercè alcuni documenti tratti dall’ archivio di Lucca ha potuto darci più larga contezza della sua vita, correggendo le inesattezze del primo biografo. Nato il Mascardi a Sarzana nel 1557 fu successivamente auditore del principato di Massa e Carrara, e poi della Repubblica di Lucca e della Rota di Bologna; morì, secondo alcuni nel 1606, secondo altri due anni appresso. Fu padre di quell’ Agostino che si rese tanto illustre nel secolo XVII. Accennando all’altro figlio Carlo, lo Sforza dice che lasciò manoscritta un’ opera sui vitalizi, e sebbene ciò sia esatto, tuttavia non doveva dimenticarsi che il figlio di lui Carlo Maria, barnabita, pubblicò quel trattato in Milano nel 1707. Pasquale Fazio Responsaiìe. GIORNALE LIGUSTICO 441 SUPPLEMENTO AL FASCICOLO XI, 1878 Nell’articolo: Bonifacio di Monferrato e i Trovatori (Giorn. Ligust. 1878 p .256) l’Av. Desimoni ha accennato a una vivace polemica che si agita dal 1845 hi poi tra parecchi Dotti di Germania e di Francia, e che riguarda le cause e i modi onde la IV crociata deviò dall’ Egitto trasportandosi alla conquista di Costantinopoli. L’Autore di quell articolo si limitò a dare la nota dei varii scritti su questo soggetto in ordine cronologico, riservandosi a trattarne altra volta di proposito. Frattanto il eh. prof. Fulin, nell’intendimento di far conoscere in Italia la stessa quistione ha fatto tradurre ed inserì nel pregiato suo Archivio Storico Veneto (numm. 31, 32) una di quelle Memorie in extenso, quella cioè in tedésco del dottor Luigi Streit di Anclam. Senonchè il lodato Direttore dell’Archivio presenta tale scritto come definitivo, come se fosse 1’ ultima parola nella questione. Delle confutazioni fattegli, in ispecie della risposta del Conte Riant inserita nella Revue des Questions historiques, t. XXIII (1878 gennaio) il Prof. Fulin non parla fuorché per fare due osservazioni in contrario le quali, a dire il vero, non ci paiono punto solide (1). Infine egli non ragguaglia affatto (i) Secondo il eh. Fulin; il Conte Riant ha franteso il senso d’una frase del Sagredo nell’ Opera Venera e le sue Lagune parte 1. pag. 39 dove quest’ ultimo dice che: « la conquista di Costantinopoli era una di quelle grandi colpe delle quali sola ultrice è la Storia ». Pure il senso letterale di queste parole è tanto chiaro che non ammette interpretazione diversa o dubbia: qualunque sia poi l’allusione politica onde il Sapdo 29 Giorn. Ligustico, Anno V. 44 2 GIORNALE LIGUSTICO il lettore sullo stato in cui è rimasta la quistione dopo la seconda Memoria del sig. Hiant. Siccome tale seconda Memoria abbraccia la critica del dott. \ Streit non solo ma e di due o tre altri scritti relativi allo stesso soggetto, è quindi uno specchio della polemica compiuto e (come il prof. Fulin ammette pure) lucido ed imparziale; siccome d’altra parte della Memoria del conte Riant, all’ infuori della sua inserzione nel citato Periodico, non furono stampati che soli cinquanta esemplari, cosi abbiamo pensato che piacerebbe ai lettori del nostro giornale il vedere riprodotto nella sua lingua originale 1’ ultimo scritto del lodato Conte, con che essi potranno formarsi un giusto concetto della quistione. Ed ottenutone gentilmente il consenso dal eh. Autore lo pubblichiamo come supplemento del fascicolo XI. abbia inteso ferire copertamente anche l’Austria. In secondo luogo i documenti pubblicati dal Mas Latrie sull’ accordo di Venezia coll’ Egitto nel 1503, in occasione dei primi stabilimenti portoghesi alle Indie, sono essi pure chiari ed incontestabili. Sarebbe forse stato meglio scusarli, mostrandone la necessità commerciale e politica per 1’ avvenire di Venezia; come si potrebbero scusare, se non giustificare, altri fatti simili nella storia di Genova, di Pisa ecc. GIORNALE LIGUSTICO 443 LE CHANGEMENT DE DIRECTION DE LA QUATRIÈME CROISADE D’APRÈS QUELQUES TRAVAUX RÉCENTS par le comte Riant Sans avoir la prétention de ranger au nombre des questions qui passionnent, la recherche des causes qui firent changer de direction la quatrième croisade, il est difficile de ne point constater que , dans ces derniers temps, cette recherche a soulevé, de chaque côté du Rhin, une polémique suffisamment animée. Les lecteurs de la Revue des questions historiques, qui ont eu, pour ainsi dire, · la primeur de ces débats (i), me sauront peut-être gré de leur en faire suivre la marche ultérieure. « Je reviendrai d’abord, et pour un instant seulement, au point de départ de la question. En 1873, M· de WaiUy> qui préparait la grande édition de Villehardouin que nous avons tous maintenant entre les mains, lisait à l’Académie des Inscriptions les savants commentaires qui accompagnent cette édition (2). Prenant fait et cause pour l’historien champenois, il cherchait à en mettre, aux dépens de Clari et des autres chroniqueurs contemporains, l’autorité au-dessus de toute discussion, et s appuyait (1) Innocent III, Philippe de Souahe et Boniface de Montferrât ; examen des causes qui modifièrent, au détriment de l’empire grec, le plan primitif de la quatrième croisade, t. XVII, pp. 321-3741 et t· XVIII, pp. S-75 (hvr. des Ier avril et Ier juillet 1875). (2) Villehardouin, édit. Wailly (Paris, Didot, 1874, in-8°), pp. 429-464· 444 GIORMALE LIGUSTICO ensuite sur ce fondement, désormais inébranlable à ses yeux, pour montrer, dans le fameux changement de direction de la croisade, une conséquence fortuite des événements antérieurs; M. de Mas Latrie (i), qui avait, sur le témoignage d’Er-noul (2 j, attribué ce changement à une trahison de Venise, achetée par le sultan d’Égypte, se voyait accusé, sinon de calomnie historique, du moins d’une hardiesse de jugement voisine de la témérité. Ne pouvant me dissimuler tout ce que la thèse de M. de Wailiy paraissait avoir d’exclusif, je me hasardai à la combattre, en consacrant un travail spécial à l’examen des causes qui avaient, à mon sens, modifié le plan primitif de la quatrième croisade. Je cherchai à établir, avec Μ. E. Winkel-mann (3), que cette modification n’avait été qu’un épisode de la querelle séculaire du Sacerdoce et de l’Empire, tandis qu’au cours du récit, je battais en brèche, sur plus d’un point, l’autorité de Villehardouin, que, d’accord avec Du Cange, je prenais souvent en contradiction avec la correspondance officielle de la chancelliere pontificale. Incidemment enfin je défendais, avec Karl Hopf (4), le témoignage d’Ernoul et les assertions incriminées de M. de Mas Latrie, de façon à donner une nouvelle vie à l’hypothèse de la trahison vénitienne. On n’a pas oublié la protestation très-vive dont M. de Wailiy honora publiquement son contradicteur (5), et la courte réfi) Mas Latrie, Histoire de. Chypre, t. I. pp. 161-164. (2) Ernoul, édit. Mas Latrie, pp. 345-346. (3) E. Winkelmann, Philipp v. Schwaben t. I, pp. 525-528. (4) Dans Erscli et Gruber, Encyclopédie, t. LXXXV (Leipzig, 1867, in-40) p. 188. (5) Revue des questions historiques, t. XVIII, p. 576 (icr octobre 1875; cette protestation a été lue à l’Académie des Inscriptions le 10 septembre 1875; — M. Julien Havet, qui en a rendu compte dans la Revue critique (1875, t. II, p. 191), a pris soin d’en accentuer le fond et la forme. GIORNALE LIGUSTICO 445 ponse que ce dernier crut devoir y faire (i). Les débats paraissaient clos : ils ne faisaient en réalité que commencer. Si l’infaillibilité de Villehardouin n’a point encore trouvé le défenseur que lui souhaitait M. de Wailiy, la thèse générale de l’intervention allemande n’a pas été acceptée sans réserve de l’autre côte du Rhin. Après avoir rencontré d’abord les objections courtoises de M. Thomas (2), elle provoquait plus tard la publication d’un travail considérable du docteur Streit (3), travail tendant à transporter à Venise le rôle prépondérant que j’avais assigné à l’Allemagne, tandis qu’une petite étude littéraire de Karl Hopf (4), sur Boniface de Montferrat et le troubadour Rambaud de Vaqueiras, était présentée comme une protestation posthume du regrettable historien contre mes conclusions. Presque en même temps, un organe important de l’érudition historique ouvrait ses pages à une dissertation de M. Hanotaux (5), sur le point secondaire de la trahison vénitienne, et Ernoul retombait plus bas encore que ne l’avait mis M. de Wailiy. Enfin, en dehors même de ces discussions, apparaissait un mémoire (6) qui y touchait de trop près pour ne point prendre forcément sa place dans une polémique, dont l’auteur, le docteur Klimke, était resté d’ailleurs totalement ignorant. (1) Revue des questions historiques, t. XIX, p. 300 (Ier janvier 1876). (2) D. Doge H. Dandolo und der Lateiner^ug gegen K. P., d. YAllg. Zeilung Beil. n.° 356 (22 décembre 1875). (3) D.r L. Streit, Venedig und die Wendung Kreu^uges gegen K. P. (Anklam, Krüger, 1877) 50 pp. in-40 . (4) K. Hopf, Bonifaz von Montferrat und der Troubadour Rambaut von Vaqueiras, publié par L. Streit (Berlin, Habel, 1877) 40 pp. in-8°. (5) Hanotaux. Les Vénitiens ont-ils trahi la chrétienté en 1202, dans la Revue historique, t. IV, pp. 75-102 (mai-juin 1877). (6) D.r Klimke. Die Quellen xjtir Geschichte d. IV Kreu^uges (Breslau, Aderholz, 1875), 106 pp. in-8°. 446 GIORNALE LIGUSTICO Ce sont ces divers travaux que je vais passer en revue, me réservant de résumer ensuite, avec toute 1’ impartialité désirable, l’état de la question. I. Je commencerai par le mémoire de M. Klimke, qui est le plus ancien en date et en même temps le plus général. Sous un titre qui aurait pu être plus précis : Les sources de l'histoire de la quatrième croisade, M. Klimke, qui paraît débuter dans les études historiques, a réuni en réalité deux œuvres très-distinctes: un examen de quelques-uns des témoignages relatifs à son sujet, et un essai de chronologie des événements de 1198-1205. Je m’occuperai d’abord de la première. Comme je viens de le dire, M. Klimke n’y traite que de quelques-unes des sources de l’histoire de la quatrième croisade: en premier lieu, il met de côté tous les témoigna-gnes non contemporains des événements : en second lieu (s’il faut en croire un aveu qui ne donnerait pas une haute idée des ressources bibliographiques que peut offrir l’université de Breslau), l’auteur a été obligé de négliger, entre beaucoup d’autres, tous les documents italiens, n’ayant pu avoir à sa disposition ni Muratori, ni Y Archivio storico italiano. Il résulte de cette lacune regrettable, que son travail n’a aucun titre à être considéré comme complet; il n’en a pas moins, en tant qu’étude limitée de critique littéraire, une valeur intrinsèque réelle, et un mérite subjectif d’autant moins discutable que M. Klimke disposait de matériaux plus défectueux, et était plus étranger à la bibliographie de son sujet: ce travail est, en tout cas, très-supérieur à tout ce qui a paru jusqu’ici sur le même sujet (1). (1) Hopf, De historiae ducatus Atheniensis fontibus (Bonn. 1853, in-8°), et Streit, Comm. de auctoribus IV sacrae cxped. (Putbus, 1863, in-40). GIORNALE LIGUSTICO 447 M. Klimke a divise en cinq classes les documents qu’il se proposait d’étudier: sources françaises ou flamandes, ponti-cales, allemandes, vénitiennes et grecques. Il partage ensuite les sources françaises en sources de premier rang, comprenant d’abord: les témoignages privés, Villehardouin et Clari; puis les quatre lettres officielles des croisés et les débris d une Relation citée par Albéric; et en sources de second rang. Ernoul, le Balduinus Constantinopolitanus, et les Annales de Cologne. Les sources pontificales comprennent, suivant lui: les Gestes d’innocent III et Pierre de Vaux-de-Cernay ; les sources allemandes: Günther, la Devastatio Constantinopolitana, l’Anonyme de Halberstadt et Sicardi de Crémone; Venise, pour la raison alléguée plus haut, est passée sous silence. Ni-cètas, Georges Acropolite, la Chronique de Novgorod et Ibn el-Athir sont rangés au nombre des sources grecques (sic). Il y aurait fort à dire sur cette classification: ainsi Villehardouin est un témoignage officiel et non privé; les Annales de Cologne ne sont pas d’origine flamande; et Ernoul est une source syrienne, et non française: faire de Sicardi un témoignage allemand et de la Chronique de Novgorod un document grec, laisse à désirer comme exactitude. Je ne pallerai que pour mémoire du silence gardé sur des textes très-importants, comme le récit inséré dans la chronique de Robert Abolant (i), ceux de 1’Anonyme de Laon, des Gesta Trevirorum, d’Ogerio Pane, et surtout la source par excellence de l’histoire de tous ces événements, la correspondance d’innocent III. Ces réserves faites, et étant données les limites restreintes, (i) Sans parler, bien entendu, de tous les textes que j’ai étudiés dans un Mémoire lu aux Antiquaires de France, 1875, t. XXXVI, pp. 1-214, et réunis sous le titre d'Exuviae sacrae Constantinopolitanae ( Genevae , 1876-1877, 2 vol. in-8°). 448 GIORNALE LIGUSTICO fixées, par l’auteur à son propre travail, je reconnaîtrai volontiers qu’il a étudié avec soin les documents dont il parle, et trouvé à faire, sur la plupart d’entre eux, des remarques tout a fait nouvelles et des rapprochements ingénieux. Il a soin, de plus, d’établir, pour chaque texte, la liste exacte, d abord des faits particuliers qui ne se trouvent point dans les autres, puis des documents diplomatiques, perdus ou non, que 1 auteur a pu avoir entre les mains. Il est moins heureux, ou plutôt moins clair, dans le travail de comparaison qu il entreprend entre chacun des témoignages qu’il étudie, et ceux qu’il a déjà passés en revue ou qu’il se propose d examiner plus tard. Ce système l’entraîne à des redites, et rend difficile Γ usage de son mémoire pour un auteur déterminé, — l’opinion du critique se trouvant à la fois concentrée dans 1 article spécial consacré à cet auteur, et disséminée dans tous les autres. M. Klimke abuse aussi du système allemand des rapprochements sur deux colonnes, appliqués à des textes d origine tout à fait diverse. Il aura beau (pp. 50 et 77) grouper ainsi des phrases empruntées à des témoignages venus des quatre coins de l’Europe, il ne convaincra pas le lecteur qu’Ibn el-Athir, par exemple, et la Chronique de Novgorod ont consulté une source commune, parce qu’ils racontent, à peu près dans les mêmes termes, un événement identique. M. Klimke consacre à Villehardouin et à Clari les premières pages et les plus importantes de son travail : bien qu’il donne prise au soupçon de ne pas posséder parfaitement l’intelligence du français du Moyen Age et d’avoir lu Villehardouin plutôt dans la version de Du Cange que dans l’original, cependant je n’hésite pas à dire que c’est certainement la meilleure étude comparée à laquelle ces deux chroniqueurs aient encore donné lieu. Je reprocherai seulement à M. Klimke quelques hypothèses un peu risquées; ainsi (p. 7) il suppose, avec Hopf, que Clari est resté en Orient GIOXNALE LIGUSTICO 449 pendant tout le règne de l’empereur Henri, et que, si le chevalier picard ne donne sur l’histoire de ce prince que de maigres renseignements, il faut l’attribuer à la mort d’Al-leaume de Clari, clerc amiénois, son frère, sans l’aide duquel il n’aurait pu achever sa chronique. Or nous savons que Clari revint à Corbie le 17 juin 1213 (1), et il n’est question nulle part de la mort d’Alleaume, dont cette collaboration prétendue à l’œuvre fraternelle est tout à fait imaginaire. La nctice consacrée par M. Klimke à Albéric est également très-intéressante, bien qu’il se trompe en attribuant (p. 31) à Du Cange l’identification entre l’un des récits cités par le moine de Neufmoustier, et YHistoire de la translation des reliques de Soissons (2). Du Cange connaissait cette Histoire, qu’il cite quatre fois dans ses Notes à Villehardouin (3), et n’aurait pu faire une semblable confusion , qu’il faut restituer à Dom Brial (4). M. Klimke n’a pas, du reste, la main heureuse, quand il cherche, soit à signaler, soit à retrouver des documents perdus. J’ai montré ailleurs (5) que l’existence d’un Mémoire justificatif du changement de direction de la quatrième croisade, mémoire dont M. Klimke (p. 52) attribue la rédaction à l’abbé de Locedio, ne peut soutenir la discussion: VHistoria Francorum, consultée par André Dandolo, ne saurait pas plus être identifiée avec Er-noul, ou avec le Balduinus Constantinopolitanus, que Y Historia Venetorum, également perdue, avec Martino da Canale (6). (iY Voir le Mémoire cité plus haut, pp. 170-172. (2) J’ai publié cette Histoire dans les Exuviae C. P., t. I. pp. 3-9. (3) Pp. 257, 315, m 34S- (4) Ree des historiens de la France, t. X\ III, p. 767 n.; voir Exuviae C. P., praef. p. lui. (5) Exuviae C. P. praef. pp. xxv, xc. (6) Ibid., p. xxxnj-xxxv (Sources perdues de l’histoire de la quatrième croisade). 450 GIORNALE LIGUSTICO Enfin chacun sait quelle justice on a fait de la fameuse Historia Monferralcnsis, inventée par M. Dove, et que M. Klimke accepte (p. 64) comme acquise à la science (1). Avec Günther, M. Klimke se retrouve sur un terrain plus solide, et bien qu’il n’y ait pas lieu d’admettre la division qu’il veut introduire (p. 48) dans l’œuvre du moine alsacien, toute cette partie du‘ mémoire est traitée d’une manière originale et intéressante. M. Klimke me permettra seulement de ne pas accepter ses conclusions (p. 45 et 50) sur l’impossibilité de faire arriver Alexis IV à Haguenau en juillet 1201: je pense qu’il ne serait pas difficile de lui renvoyer, sur ce point, la phrase peu polie qu’il adresse au professeur Winkelmann (bat sicb grôblicb tausebm iasseu). Je protesterai également contre la façon dont il interprète les textes (p. 53, n.) a l’endroit de la complicité d’innocent III, et contre les doutes qu’il émet (p. 5 6) sur les reliques de Pairis, qui ont existé certainement, telles que les décrit Günther, et ailleurs que dans l’imagination de l’abbé Martin (2). La Devastatio est étudiée avec soin par M. Klimke: mais, renonçant aux autres sources italiennes, il eût mieux fait de ne pas parler du tout de Sicardi, que de consacrer à ce chroniqueur une aussi maigre notice. Cette première section du mémoire se termine par l’étude des sources grecques (lisez: diverses). Nicétas y est l’objet d’une critique attentive et souvent heureuse : mais je n’en dirai pas autant de la Chronique de Novgorod ; le point de départ de M. Klimke (p. 71) est mauvais: l’original de la Chronique n’est point grec, comme il le prétend; il suffit d'en lire dix lignes pour s’en assurer. C’est un document de pre- (1) Jenaer Lit. Zeilung, 1874, pp. 4 (6 et suiv. (2) Elles n'ont disparu qu'i une époque relativement récente : voir mon Mémoire, pp. 195, 2tO. GIORNALE LIGUSTICO 45 I mière main, et le nombre des Russes qui fréquentaient, vers cette époque, la ville impériale1, peut permettre de supposer que le récit de Novgorod émane d’un témoin oculaire ( i). Je me suis un peu écarté, dans cet examen, des discussions relatives au changement de direction de la quatrième croisade ; la seconde partie du travail de M. Klimke -r- la chronologie des événements de 1198 à 1205 — va m’y ramener. Rien n’est plus utile que ce genre d’étude, rien n’est plus difficile à bien faire. Jusqu’à présent le seul essai qui eût été tenté dans ce sens, pour cette période de l’histoire des croisades, était la partie correspondante de la Chronographi? Byzantine de M. de Murait: cet érudit qui avait réussi à classer dans un cadre assez rigoureux, les faits embrouillés des premiers siècles des annales byzantines (2), s’était heurté, avec les témoignages latins, à des difficultés qui ne l’avaient pas trouvé suffisamment préparé, et dont la seconde partie de son livre (3) porte la trace: l’inexactitude et le manque de clarté en sont les moindres défauts. M. Klimke, qui ne semble pas, du reste, avoir eu connaissance de l’œuvre de son devancier, a fait, du premier coup, beaucoup mieux que lui. N’opérant, il est vrai, que sur un nombre restreint de témoignages, et ne se servant pas de la correspondance pontificale, il n’est pas complet; mais les déductions, à l’aide desquelles il a établi indirectement un grand nombre de dates, sont ingénieuses, et L’ensemble de son travail, d une utilité indiscutable. Je ne me séparerai de lui que sur quelques points, et en particulier sur celui dont je parlais tout à l’heure: l’époque de la fuite et de l’arrivée en Allemagne (1) Voir Exuviae C. P., praef., p. ccvij. (2) Essai de chronographie byzantine (St-Pétersb., 1855, in-8°). (3) Ibid., 2e part. (Bâle, 1871, in-8»). 452 GIORNALE LIGUSTICO du jeune Alexis (i). Pour le reste des événements, il y a lieu d’adopter presque entièrement ses conclusions, qui, dans la discussion actuelle, ont une grande importance ; car, ainsi que je l’ai montré dans mon premier travail, la chronologie minutieuse, poussée jusqu’aux dates de jour, occupe dans la question du changement de direction de la croisade, une place importante; et il n’est pas sans intérêt de voir un érudit, tout à fait étranger au débat, arriver précisément, à l’aide des textes eux-mêmes et sans aucune idée préconçue, aux résultats que j’avais cru devoir formuler. II. Je me hâte, du reste, de quitter, avec M. Klimke, des considérations qui regardent davantage l’histoire générale des événements de 1204, que celle du point en litige, et de rentrer, avec M. Streit, dans le cœur de la discussion. Mais je dois auparavant mentionner l’opinion d’un homme qui s’est placé, par ses travaux, au premier rang des historiens de Venise et de Byzance: M. le docteur Thomas ne pouvait rester étranger à une polémique relative à des sujets qu’il avait plus d’une fois abordés (2), et incidemment à des pièces mises par lui-même au jour. Examinant, dans l’article que j’ai signalé plus haut, la question à nn point de vue fort élevé, et rejetant la théorie commode des causes fortuites, l’éminent éditeur des chartes vénitiennes reconnaît la place que les événements précurseurs (1) M. Streit, dans le mémoire dont je vais m’occuper, relève (note 185) une soi-disant erreur de M. Klimke (pp. 82-84) relative à la date d’ambassades échangées entre Venise et C. P.; l’nn et l’autre peuvent avoir raison; il serait trop long de l’expliquer. (2) En particulier dans son mémoire intitulé : Die Stelluug Venedigs in d. JVeitgcsch. (Munich, 1864 in-40) pp. 13-14. GIORNALE LIGUSTICO 453 de la quartième croisade doivent désormais occuper dans l’histoire générale de l’Europe, et surtout dans celle de la rivalité du Sacerdoce et de l’Empire; mais, s’écartant ensuite de la thèse que j’ai soutenue, il veut que toutes ces intrigues aient eu pour cheville ouvrière presque unique, Henri Dandolo, acteur principal d’un drame, dont le pape, le roi des Romains et les chefs de la croisade n’ auraient été que les comparses (i). C’est cette opinion qui a servi de point de départ à M. Streit, pour le travail considérable que je vais examiner maintenant. M. le Dr Streit, déjà connu par quelques travaux d’histoire littéraire sur les chroniqueurs des croisades, est devenu, depuis deux ans, l’heureux possesseur de la bibliothèque et des papiers de Hopf, qui ont passé des mains d’héritiers inintelligents dans celles d’un homme parfaitement capable de mettre ce trésor en valeur (2). Parmi ces papiers se trouvait, entre autres œuvres posthumes du regrettable historien, une Histoire de la quatrième croisade presque terminée, et dont M. Streit a entrepris la publication. Mais, en attendant qu’il puisse mettre au jour ce travail considérable, M. Streit se sert des précieux matériaux (3) qu’il a acquis, pour (1) Sur le point particulier-de l’entente de Venise avec l’Egypte, M. Thomas a adopté, avec quelques réserves, les conclusions du comte de Mas Latrie et de K. Hopf. (2) Je ne donnerai qu’une faible idée de l’importance de ces papiers pour l’histoire de l’Orient latin, en rappelant que, pendant treize ans, Hopf n’a point quitté les dépôts publics et privés de l’Italie et de l’Orient, copiant sans cesse tout ce qui se rapportait à ses études, qu’il a fait alors les découvertes les plus précieuses, et que les pièces reproduites ainsi par lui dépassent le nombre de plusieurs milliers. (3) M. Streit le reconnaît lui-même loyalement plusieurs fois, en particulier pp. 5 et 40. 454 GIORNALE LIGUSTICO élaborer une série d’études personnelles, qu’ouvre le mémoire que je me propose d’examiner. Sous le titre de Venise et le changement de direction de la quatrième croisade, le savant recteur du collège d’Anklam consacre cinquante pages grand in-40, d’un caractère très-serrè, à la question qui nous occupe. Je dois dire que la lecture de cette dissertation est fatigante : obéissant à une mode typographique, toute récente de l’autre côté du Rhin, M. Streit a rejeté à la fin de son travail les deux cinq cinquante longues notes que comporte le texte proprement dit: commode pour la mise en pages, permettant de compléter après coup les renvois, ce système, que l’on comprendrait à la rigueur pour des livres destinés à servir de modèles d’éloquence, rend inextricable l’étude d’une discussion souvent plus érudite que claire, et qu’il faut suivre, en sautant à chaque instant d’un point du mémoire au renvoi qui le développe ou l’explique. Cette réserve faite, je passe à l’examen du travail lui-même; il peut se diviser en trois parties: un préambule de cinq pages, où le commencement de la polémique est résumé avec impartialité; puis un long récit chronologique des rapports mutuels de l’Italie avec les deux empires de Byzance et d’Allemagne; ce morceau capital occupe, avec les notes correspondantes, plus des deux tiers du mémoire : le reste seul (à peu près 8 pages) est consacré au sujet énoncé sur le titre; puis l’auteur s’arrête court, au début même de l’expédition, se gardant de chercher dans les événements subséquents, un contrôle et une confirmation des hypothèses que les faits antérieurs lui ont suggérées. Un appendice formé de cinq longs paragraphes, termine le travail. Pour, exposer et discuter utilement tous les faits, toutes les inductions, tous les rapprochements que M. Streit a condensés dans ce cadre, un numéro entier de la Revue des Que- GIORNALE LIGUSTICO 455 stions historiques ne suffirait pas ; il y faudrait un ouvrage en plusieurs volumes, et comme il le dit lui-même (p. 5), une histoire détaillé de la quatrième croisade, faite à nouveaux frais, et reprenant une à une toutes les questions qu’il n’a pu qu’aborder. Je n’ai pas la prétention d’entrer dans cette voie: je me contenterai donc de chercher à guider le lecteur dans le savant labyrinthe où l’attire M. Streit, en suivant rapidement l’exposé chronologique qui forme ,1a seconde et la plus importante partie de son travail, et discutant ensuite quelques-unes des assertions groupées dans la troisième (1). Si l’on veut bien se reporter pour un instant au chapitre où — dans le dessein de montrer que l’ingérence de Philippe de Souabe dans les affaires de la quatrième croisade n’avait été qu’une suite de la politique traditionnelle des Ho-henstauffen, — j’ai esquissé rapidement les origines de la question (2), on n’aura qu’une image très-pâle de l’exposé lumineux, concluant, bourré de faits, que M. Streit (pp. 6-30) consacre au même sujet: les témoignages de l’Europe entière sont invoqués par lui; pas un événement n’est oublié, si bien qu’après l’avoir lu, on vient à se demander comment Byzance, — la croisade n’eût-elle pas été aux mains des Vénitiens, ou même eût-elle simplement avorté à son berceau, — comment Byzance, dis-je, aurait pu échapper à la revanche forcée que se préparait à prendre de ses trahisons la haine séculaire des Allemands. Il faudrait reproduire en entier toute cette argumentation si nourrie, si féconde en rapprochements ingénieux; j’en noterai seulement les traits principaux. (1) C’est à dessein que je passerai ici sous silence tout ce que M. Streit dit de l’entente de Venise avec l’Égypte, entente sur laquelle je vais revenir à propos du travail de M. Hanotaux. (2) Revue des questions historiques, t. XVII, pp. 340-346. 456 GIORNALE LIGUSTICO Nous remontons à la première croisade, et nous assistons aux préludes de l’opposition, tantôt sourde et tantôt éclatante, que Constantinople doit toujours faire aux armees de la Croix et plus spécialement aux contingents germaniques. Les intrigues des empereurs d’Orient en Italie commencent; et, par contre, commencent aussi les represailles exercées à leur passage à Byzance par les Latins, soit en 1097 ( P· 7 )> soit en IX47 ( P* 10 )' ^es Proîets Fré-déric Ier contre Manuel Comnène, projets pour lesquels il trouvait à ses côtés les flottes de Pise et de Gênes, mais auxquels Venise (qui apportait au contraire en 1190 des secours à Constantinople) voulut rester étrangère , sont ensuite exposés ·par M. Streit (pp. 18-20) avcc la même érudition. Mais c’est surtout quand il en arrive à Henri VI (pp. 23-24) qu’il se surpasse; développant, à l’aide d’un véritable arsenal de textes, la politique altière de ce prince, il nous le montre arrêté seulement par la mort, au moment où, déjà suzerain incontesté de deux des anciennes provinces asiatiques de l’empire d’Orient, — l’île de Chypre et l’Arménie (1), — il allait fondre sur Constantinople, qui n’avait jamais couru de danger plus redoutable (2), et ceindre, d’une main sûre, la double couronne que lui promettaient d’antiques prophéties, tandis que Venise, terrifiee, refusait, pour la première fois, à la cour de Byzance un secours solennellement promis par les traités. Si, poursuivant la lecture du travail de M. Streit, on arrive enfin à la quatrième croisade, on retrouve, lune après l’autre, bien que groupées différemment, la plupart des assertions que j’ai émises dans les chapitres m et iv de mon (1) V. Mas Latrie, Hist. de Chypre, t. I, pp. 127, 191. (2) « Von keinem Fürsten der Erde hatte Byzans ernstlicher fürchten müssen als yon Heinrich. » (Streit. p. 24). GIORNALE LIGUSTICO 457 travail (i). Sans me suivre pied à pied, M. Streit refait pa-rallèlemenr l’histoire des négociations de 1202-1204, ajoutant encore au bagage de textes dont je m’étais entouré, et ne se séparant de moi que sur certains points secondaires, sur lesquels je vais revenir. Ne doit-on pas naturellement s’attendre à le voir, après avoir si bien développé mes prémisses, arriver, en 1’ accentuant, à la même conclusion que moi? Bien loin de là; il tourne court, pour revenir brusquement à l’affirmation qui figure déjà en tête de son mémoire : que, Venise, est le seul auteur du changement de direction de la croisade, avec ce corollaire que ma théorie est un pur déplacement du véritable point de vue historique de la question (2). Par quel chemin de traverse est-il sorti ainsi de la voie qu’il suivait jusqu’alors, pour aboutir à cette impasse ? Entre temps, et à mesure que l’y amenait la série chronologique des événements, M. Streit exposait, à côté des rapports mutuels des deux empires, ceux des villes italiennes avec Byzance (3), et en particulier les origines et les (1) Revue des questions historiques, t. XVII, pp. 352-374; t. XVIII, pp. 5-23· (2) « Er (M. Thomas qui ne dit rien de cela) urtheilt... dass Riants » Deductionen eine vôllige Verschiebung der wàren historischen Gesi-» chtspunkte ergeben würden. » (Streit, p. 5·) C est en le faisant précéder d’une protestation, exactement conçue dans les mêmes termes, que M. Streit présente au public allemand la petite étude posthume de Hopt sur Boniface et Rambaud de Vaqueiras, étude que j’ai signalée plus haut. Sans cette mention .spéciale, je n’aurais pas parlé de cet opuscule qui ne fait pas grand honneur à Hopf. Il s’y est beaucoup trop inspiré de la notice d’Émeric David (Hist. lût. de la France, t. XVII, pp. 499-521), notice qu’il ne cite du reste nulle part. (3) Toute cette partie du mémoire de M. Streit est excellente, comme recherches historiques, et en tous cas très-supérieure au travail analogue de M. Armingaud (Venise et le Bas-Empire, dans les Arch. des Miss. 1868, IIe série,\ IV, pp. 299-445)· M. Streit s’y est beaucoup seni de Giorn. Ligustico , Ann ο V. 45 8 GIORNALE LIGUSTICO péripéties de la brouille survenue entre Alexis III et les Vénitiens, jusque-là fidèles alliés de l’Empire. Arrivé au moment oxi cette brouille — qui, à ses yeux, est la véritable cause du changement de direction de la croisade — va éclater, il constate que le point en litige et le nœud de la querelle sont le retard apporté par l’empereur au payement du reliquat des indemnités, stipulées en 1189 en faveur de la république par Isaac Comnène, comme réparation des injustices de Manuel. La somme tant de fois promise n’avait point été payée; Venise se devait à elle-même de ne pas supporter un pareil affront: c’était pour elle une question de vie ou de mort; elle ne pouvait point ne pas attaquer constantinople (1); et en formulant cette conclusion inattendue, M.r Streit nous apprend, par une ligne de Nicétas (ligne qu’il faut, il est vrai, aller chercher ailleurs) (2), que ce terrible reliquat, qui pesait d’un poids si lourd dans la balance politique de Venise et devait avoir pour l’empire grec des conséquences si désastreuses, s’élevait, sur une créance totale de un million neuf cent mille francs, au chiffre énorme (!) de deux cent dix-huit mille francs (3), et il ne se demande la savante étude de M. Desimoni de Gênes, Quartieri dei Genovesi a C. P. nel sec. XII {Giorn. ligustico. 1874, pp. 137-180; 1875, pp. 217-275) qui touche constamment et avec une grande compétence à l’histoire de la quatrième croisade. (1) « Die Entschaedigungssümme, welche damais von neuem zuge-» sichert war, wvrde night mehr gezahlt » (p. 27). — « In dem » JaHREN 1202 UND 1203 HATTE VeNEDIG KEINE WaHL MEHR ; ES WAR » DURCH DIE VeRHAELTNISSE GEZWUNGEN BEI DEM ElNSTURZ DES GrIE- » CHENREICHES MIT RASCHER UND FESTER HaND ZUZUGREIFEN, UND..... » SICH ALLES ZU SICHERN, WAS FUR SEIN EIGENES LEBEN VON BEDEUTUNG » war » (p. 33); je respecte la disposition typographique de M. Streit. (2) Note 205. (3) « °0 Αλέξιος ουγ. άζεδίδου σφίσι χρυσίου μνας διακοσίας ένδεούσας « έτι πρός τ6 &παν δφείλημα των δέκα πρός τοίς πέντε κεντηναρίων. » GIORNALE LIGUSTICO 459 pas si Henri Dandolo — si âpre qu’il se soit plus tard montré dans ses relations financières avec les croisés (i) — s’est décidé à remuer le monde, pour recouvrer une somme aussi misérable. Enfin M. Streit caresse une idée, sur laquelle il revient sans cesse avec complaisance, et dont le développement un peu emphatique forme l’épilogue de son travail : c’est que le changement de direction de la croisade a été opéré par un seul homme, par un actor rerum unique, et que cet actor rerum, ne peut être autre que Henri Dandolo, dont il entreprend le panégyrique exclusif (2), et grossit outre mesure l’influence personnelle, sans tenir compte en somme de la constitution de Venise, dont toute la rigueur défiante a 1 endroit du pouvoir ducal se traduit précisément dans le capitu-laire qu’avait juré le doge à son avènement (3). A^euise, poussée à bout par le non-payement d’une créance de deux cent dix-huit mille francs, a donc voulu, dès l’origine , et avant même la conclusion du pacte de nolis de 1202, détruire à son profit l’empire grec. Dandolo a mené cette intrigue depuis le commencement jusqu’à la fin: voilà toute la thèse de M. Streit. L’immense arsenal de textes accumulés par lui pour établir la situation respective des deux empires, est laissé de côté: du rôle joué par Philippe de Souabe, avant, pendant et après l’expédition, pas un mot. De quel côté est le déplacement du véritable point de vue historique de la question? (Nicètas, p. 713). Dix mines d’or font à peu près 86 kilogr., soit, au pouvoir de ’ 1/12,2 , 218,233 fr., et 1,500 livres d’or, au même pouvoir, 1,903,200 fr. (1) Revue des questions historiques, t. XVII, pp. 361-363, t. XVIII, p. 45. (2) Page 34 et note 165. (3) Ce Capitulaire, qu’invoque imprudemment M. Streit, se trouve dans Y Arch. st. Ital., t IX„.app. pp. 327'329- 460 GIORNALE LIGUSTICO Après cet exposé général du mémoire de mon savant contradicteur, je ne m’appesantirai pas sur les questions secondaires qu’il a résolues dans un sens différent du mien (i), (1) C’est ainsi que je me contente de signaler les points suivants — (P. 25 et n. 195). M. Streit insiste sur le texte où Dandolo (XII, 318) raconte qu’Alexis III fut, dès 1198, menacé par les ambassadeurs vénitiens de la restauration d’Alexis IV ; ce texte dont je me suis servi (Revue des questions historiques t. XVIII, p. 328), prouve seulement qu’en 1198 (ce qui n’était d’ailleurs point nouveau), les envoyés de la république étaint prêts à tremper dans quelque intrigue de palais : de là à une conquête de l’empire, il y avait un abîme. — (P. 27 et n. 210). Même abus d’un autre texte du même Dandolo (XII, 319), qui place en 1198 une première arrivée de croisés français à Venise, et mentionne le mauvais accueil qu’ils y reçurent; M. Streit y voit une preuve de la bonne volonté de Venise pour les choses de la croisade! — (P. 31, et not. 236). La critique de M. Streit sur le sens que j’ai donné (Revue des questions historiques, t. XVIII, p. 353) au mot tractatus dans un passage des Gesta Inn. III n’est pas sérieuse : s’il n’y a pas eu traité libellé et scellé à Haguenau, il y a eu convention verbale d’égale importance et de conséquences identiques. — (P. 33 et n. 246). Suivant Tolosano (Docum. Toscani, t. VI, p. 683), c’est après Zara seulement que Dandolo aurait fait connaître aux croisés le projet d’attaquer l’empire grec, en leur présentant ce projet comme la meilleure voie pour arriver au recouvrement des Lieux saints; ce texte, qui n’a été publié que l’an dernier, est très-important, et vient confirmer tout ce que j’ai dit (Revue des questions historiques, t. XVIII, p. 34) des négociations de Corfou. — (P. 33, n 250). Le passage d’Ogerio Pane (119) que M. Streit interprète comme impliquant la présence de Boniface à Gênes le 21 avril 1202, ne me paraît pas aussi concluant qu’à lui: d’abord il s’agit de Lerici (Ylex) et non de Gênes, puis la médiation de Boniface a pu ne pas être directe et personnelle. — (P. 50). M. Streit n’accepte pas l’interprétation que j’ai proposée (Revue des questions historiques, t XVII, p. 46, n. 1) du mot Tos-cain, employé par Villehardouin (n° 153); il veut que ce mot désigne les Pisans, qu’il fait, sur le témoignage de Rondoni (456) figurer à la quatrième croisade. On les y trouve, en effet, mais combattant à côté des værings et Jcontre les croisés, comme auxiliaires des Byzantins. Le texte vague de Roncioni, écrivain du commencement du xvie siècle, n’a absolument aucune valeur dans la question. GIORNALE LIGUSTICO 461 et je ne fatiguerai pas le lecteur par des discussions de détail. Il y a cependant quatre points, à propos desquels je ne puis passer sous silence les assertions de M. Streit; ce sont: Le pacte de nolis de 1202; L’époque de la fuite et de l’arrivée en Europe d’Alexis IV; La complicité d’innocent III; Enfin le caractère de Boniface de Montferrat. Jouant sur une phrase du pacte (1) de nolis, M. Streit, malgré le préambule si clair, où le but immédiat de l’expédition est exposé par les rédacteurs de ce traité, affirme sérieusement que pas un mot du document n’ implique la guerre contre les Infidèles (comme si l’on eût pu, sans les attaquer, reprendre à ceux-ci Jérusalem) (2), en sorte que la conquête de Constantinople étant un des moyens les plus efficaces d’arriver indirectement au recouvrement des Lieux saints, c’était cette conquête qui était convenue implicitement dans le pacte de nolis, auquel il faudrait désormais faire remonter le changement de direction de la croisade. L’on saisit à l’instant les ^conséquences de cette interprétation surprenante — conséquences développées en partie par M. Streit. L’hostilité entre Venise et Innocent III remontant, non à l’attaque de Zara, mais à la conclusion du pacte lui-même — Philippe de Souabe et Boniface, mis au courant par Venise (x) « Ut arma sumeritis contra barbaricas pravitates ». (Pactum cruces., d. Taf. et Thom., I, p. 370, 1. 2). Cette phrase suit immédiatement un préambule d’une page, où il est parlé des adversarii Christi et de l'état où ils ont mis les Lieux Saints, que les contractants se proposent de leur reprendre; c’est à ces adversarii, c’est-à-dire aux Musulmans, et non aux Grecs, que se rapportent évidemment ces barbaricae pravitates. (2) « Findet sich kein Wort in der Urkunde, welches die Unglâu-» bigen als die zu bekâmpfenden Feinde bezeichnete: « Gegner, » heissen » dieselben ; ja selbst von den Baronen sagt Dandolo, sie hatten die Waf-» fen genommen, gegen barbarische Schlechtigkeiten ». (Streit, p. 29). 462 GIORNALE LIGUSTICO elle-même du projet d’attaque contre 1’ empire, projet auquel ils seraient restés jusque-là totalement étrangers. — Leurs ambassades à Venise et à Zara ne devant être considérées que comme autant de comédies. — Enfin les .négociateurs du traité, et, parmi eux, l’historien par excellence de toute cette affaire, Villehardouin, devenant forcément des dupes ou des traîtres, et de façon à mériter un jugement bien autrement sévère que celui que l’adoption de mon hypothèse autorisait à porter contre eux. J’avoue ne voir dans tout cela qu une pure fantasmagorie, contredite par les lettres répétées du pape, qui se fût gardé d’approuver, même conditionnellement, un semblable traité, par le témoignage de tous les chroniqueurs contemporains sans exception, par 1 existence indiscutable, à cette époque, de négociations entre "Venise et Constantinople, négociations poursuivies jusqu’au moment du départ de l’expédition, et excluant par conséquent, de la part de la république, tout projet de guerre à outrance contre Alexis III (1), enfin et surtout par l’ensemble de la conduite de Dandolo, de Boniface et de Villehardouin, qui etaient (1) C’est M. Streit lui-même (p. 27, n. 206) qui, le premier, nous a fait connaître ce point curieux, résultant de l’envoi à Constantinople d’une ambassade vénitienne, que l’on peut difficilement placer autre part que dans les trois premiers mois de 1203 : cette ambassade est mentionnée par une charte très-importante, datée de septembre 1206, et, qui, signalée seulement par Cicogna (dans les Inserìζ. Ven., IV, 538) a été publiée pour la première fois en 1868, par le professeur Ljubic, dans le Monum. spectantia ad hist. Slavorum vierid. (Zagrebu, in-8°, t. I, pp. 23-2$). Rogerio Premarino et Pietro Michiel y reçoivent une indemnité en terres « pro eo » quod a Jadertinis capti et rebus exspoliati, cum iremus in legatione ad » imperatorem C. Γ. ». Il est possibile que, si les Jadertins n’avaient pas, attirant sur eux la foudre, violé ainsi le droit des gens, Venise se fût entendue avec Alexis III, et n’eût pas eu besoin d’entrer, en attaquant Zara, dans la voie des désobéissances au Saint-Siège, et que la croisade eût été conduite, sinon en Egypte, du moins en Syrie. GIORNALE LIGUSTICO 463 peut-être de peu scrupuleux politiques, mais que l’on ne peut accuser en bloc, à l’aide d’une phrase méchamment interprétée, d’avoir prémédité, en concluant le pacte de nolis de 1202, un véritable acte de piraterie envers les Grecs et de haute trahison à l’endroit des Latins. L’époque de la fuite d’Alexis IV est un point très-important dans la discussion des causes qui modifièrent la direction de la croisade. M. Streit (p. 30) place avec M. Klimke cette fuite en juillet 1202, et fait aller directement à Rome le jeune prince, qui se serait rendu de là en Allemagne après avoir traversé la Lombardie et s’y être rencontre avec Boniface ; il ne serait ainsi resté à la cour de Souabe que pendant l’automne de 1202 (puisque M. Streit admet avec moi que les premiers mois de 1203 furent employés par Alexis à un voyage en Hongrie), et n’aurait pris aucune part aux négociations de Haguenau (25 dee. 1201). Le fait que ces négociations auraient déjà eu pour objet le changement d’itinéraire des croisés, deviendrait alors beaucoup moins certain. J’avoue n’être aucunement convaincu pai les arguments que M. Streit développe dans une longue note (p. 48), et en particulier par l’interprétation qu’il donne, après M. Klimke, du passage des Annales de Cologne, signalant l’arrivée du jeune prince en Allemagne: je persiste à entendre ce passage de la même façon que M. Winkelmann. Par contre, je reconnais que l’identification avec Jean Com-néne (p. 48), du personnage byzantin anonyme, venu intriguer à la cour du roi des Romains, est préférable à celles que M. Winkelmann et moi avons proposées, soit avec Manuel Kamytzès, soit avec Alexis Contostéphane (1); il y aurait même à étudier de plus près le rôle de ce Jean Com-nène. Je reviendrai également sur la rectification que j’avais (1) Revue des questions historiques, t. XVII, pp. 345-346. 464 GIORNALE LIGUSTICO cru devoir faire à un passage de Nicétas, relatif au rôle joué par les Pisans dans l’évasion du jeune prince, et j’admettrai, avec Heyd, que la colonie pisane de Constantinople a eu, en ce cas, une politique différente de celle de la mère patrie. Mais je repousserai, sans hésiter, l’assertion de M. Streit qui suppose (p. 48) qu’Alexis III aurait favorisé la fuite de son neveu : c’est là une hypothèse tout à fait gratuite, et que combattent tous les témoignages contemporains. Je ne veux pas répéter ici toutes les preuves que j’ai accumulées pour démontrer qu’innocent, avant, pendant et après la croisade, n’a jamais eu en vue que la délivrance des Lieux saints, et n’a jamais, de près ni de loin, trempe dans les intrigues qui amenèrent la chute de l’empire grec (1). M. Streit ne revient, il est vrai, que timidement sur cette question de la complicité du pape (p. 2, n. 8; p. 32, n. 244); mais je ne me lasserai pas de traiter de fable, plus ou moins vénérable, tout ce que les textes secondaires pourront apporter, sur ce point, de contradictoire à la correspondance du grand pontife — l’extrême limite que l’on puisse assigner à une déviation quelconque en ce sens, de la politique d’innocent III, me semblant donnée par l’appréciation si impartiale de l’auteur anonyme de la Chronique de Novgorod (2). Je (1) J’ajouterai ici à ce que j’ai dit (Revue des questions historiques, t. XVIII, p. 60) sur la difficulté des comunications entre Rome et l’Orient — difficulté qui, en combattant alors contre Innocent III, constitue aujourd’hui l’un des meilleurs arguments, à l’aide desquels on puisse dégager la responsabilité du pape à l’endroit des événements de 1203-1204 •— ce fait qu’en 1205, un envoyé de Baudouin 1er mit six mois à arriver à Rome (Epist. Inn. Ili, VIII, 73), et que, l’année suivante, l’archevêque de Nicosie eut besoin de deux ans pour écrire en cour de Rome et recevoir la réponse. (Ibid., IX, 141). (2) « Sic Isaaci filius aufugit, et ad Philippum, Germanorum impera-» torem affinem sororemque suam pervenit. Germanorum imperator eum » Romam ad papam misit, quo cum consuleret an Constantinopoli bellum GIORNALE LIGUSTICO 465 n accorderai même pas à M. Streit que le pape, en 1205, se soit relâché de sa sévérité à l’endroit d’Henri Dandolo, armé au terme de sa carrière: je n’en veux pour preuve que le texte entier de la lettre pontificale, où M. Streit est venu imprudemment (p. 34, n. 251) chercher, en faveur du vieux doge, une marque d’indulgence au moins discutable. Du reste M. Streit apporte (p. 26) de nouveaux arguments à ce que j ai pu dire des bons rapports, qu’avant la croisade ,entretenaient les deux Romes, rapports que peut seul expliquer le péril égal dont les menaçait l’ambition du fils de Henri VI. Je terminerai en regrettant que M. Streit, poursuivi par l’idée de réserver à Henri Dandolo une prépondérance sans partage, ait donné au marquis de Montferrat, au chef officiel de la croisade, un rôle tellement effacé que Boniface apparaît à peine dans son travail; cette indifférence vaut certes encore mieux que le travestissement de cette personnalité si considérable en une sorte de chevalier de cour d’amour, tel que Hopf nous le dépeint dans le petit opuscule dont j’ai dit un mot tout à l’heure; cependant on ne peut supprimer Boniface de l’histoire da la quatrième croisade, et quand bien même on serait amené à reconnaître qu’il n’était pas aussi inféodé que je l’ai dit à la politique des Hohenstaufen (1), il y a une autre place à lui donner dans ces événements que l’obscurité voulue ou M. Streit le relègue. » inferendum esset, et Isaacides: « Tota urbs, inquit, me imperatorem » cupit; » Papa vero Francis dixit: « Si ita res se habet, eum in solio » collocetis, et postea Hierosolymam abeatis, Terrae Sancrae opem la-» turi ; quodsi vero eum accipere noluerint, ad me redeatis, neve Grae-» eorum terram laedatis ». Franci autem omnesque eorum duces, auri » argentique cupidi erant, quae Isaacides se iis daturum promisit; et mox » imperatoris et papae praecepta obliti sunt ». (Chron. Novg., d. Hopf., Chron. gréco-rom., p. 94). (1) Streit, p. 33, et n. 248. 46é GIORNALE LIGUSTICO III. J’arrive à la dissertation de M. Hanotaux, que j’analyserai plus rapidement que le travail de M. Streit, puis qu’elle est déjà connue du pubblio français, mais que je discuterai, par contre, avec plus de détails, d’abord parce qu’elle n’aborde qu’un point spécial, et qu’elle étudie ce point minutieusement, puis pour un motif personnel que je vais donner tout à l’heure. M. Hanotaux pose cette interrogation: Les Vénitiens ont-ils trahi la chrétienté en 1202 ? Si l’on ne s’en tenait qu’au sens littéral qu’une semblable question peut offrir, il faudrait sans hésiter la résoudre par l’affirmative. Ne fût-ce que par le commerce que Venise, avant, pendant et après la quatrième croisade, a entretenu, de l’aveu de tous, avec les Infidèles, leur fournissant les armes qu’ils devaient retourner ensuite contre les croisés (1); (1) Inn. Ili Epist., I, 559 (1198, 3 dèe.): XII, 142 (1209, 23 nov.); XVI, 28 (1213); Cf. Inn. IV Epist., i*r oct. 1246 (Potth., n» 12283); Thaddaeus Neapol., p. xvij; Mas Latrie. Hist. de Chypre, t. II. pp. 120-125; Marinus Sanutus, Secr. fidei. Crucis (d. Bongars, t. II, p. 26). Ce n’est qu’en mars 1226 (Taf. et Thom., t. II. p. 263) que la république se décide de nouveau (elle l’avait déjà fait en 991. — Iaf. et 1 hom., t. I, p. 25) à prohiber officiellement l’importation en Égypte de la contrebande de guerre, importation qu’innocent III ne toléra jamais. Cette contrebande reprit de plus belle quelques années plus tard (Constitution de Boniface F1I1, 12 mars 1295, d. Mas Latrie Hist. de Chypre II, 92-93). Voici ce qu’en disait, en 1315, frère Guillaume d’Adam, dominicain, qui avait passé toute sa vie à parcourir l’Asie, et mourut archevêque de Sultaniah : « Primo igitur ministrantur necessaria Sarracenis per mercatores......... » Venetos.... Ad quod sciendum quod Sarraceni Egipti non habent ex se » ferrum, nec ligna, nec picem navalem, nec pannos laneos ad induendum, GIORNALE LIGUSTICO 467 ne fût-ce que par les conséquences désastreuses que la chûte de l’empire grec — chûte dont Venise fut l’un des agents — devait entraîner pour les intérêts latins en Orient, la république, partie prenante dans l’expédition, a trahi la chrétienté en 1202. M. Hanotaux répond au contraire à l’interrogation qu’il s’est posée par une négative absolue ; en effet, et probablement de crainte d’un titre trop long, ce n’est point de la trahison vénitienne en général qu’il a voulu parler, et qu’il admet (1) d’ailleurs au moins partiellement, c’est de ce fait spécial que les Vénitiens se seraient fait acheter a prix » nec oleum, vinum nec bladum interdum ad comedendum, nec suffi-» cicnter homines ad eam inhabitandum; set per predictos mercatores, » ministros inferni, falsos Christianos, hec omnia ministrantur et tam » habunde, ut aliquando de hiis in Alexandria Egipti, que ad hoc portus » et porta dampnacionis est, tanta habundantia habeatur, ut pro parvo a precio et quasi pro niellilo habeatur. Portatur ergo eis ferrum et omnia » que de ferro fiunt, ut sunt gladii, lancee, ferra iaculorum et telorum, » lorice, galilee (sic) et alia que necessaria esse possunt ad invadendum » Christianos, vel eisdem resistendum, si passagium esset, vel ad defen-» sionem propriam et munimen, ita quod ut si hec per illos, ut premit-» titur, non portarentur in Egiptum, non invenirentur in ea lancee, nec » ligones. Portantur cciam ligna ad domificanduni, aste pro lanceis, pro » saginis, pro iaculis, buxum et alia ligna apta pro arcubus et balistis, » tabule pro galeis, navibus et lignis pirraticis, et eciam ipsimet christiani, » nequiter talia vasa eisdem Sarracenis componunt et fabricant et fabricare » insuper eos docent, vel huiusmodi vasa iam facta in hiis partibus eis • vendunt, que Sarraceni a seipsis haberi nequeunt, nec fabricare sciunt; « et quod horrendum est, se eis iungunt ad exequendum navale officium » et piraticum ad expoliandum Christianos vel eciam captivandum ». (Guillelmi Adæ, De modo exlirpandi Sarracenos, ad Raimundum Guil-hermi de Fargis, cardinalem, Clementis V ex sorore nepotem — Cod. Basil. A I 28, ch. s. xv, in-fol., f. 233 b.). La plupart des auteurs de projets de croisades répètent les mûmes plaintes; voir surtout Hèlian de Verceil, d. Freher-Struve, SS. RR. G., II, 528. (i) P. 84. 46S GIORNALE LIGUSTICO d’argent, par les Infidèles, le concours que la république a pu donner au changement de direction de la croisade. C’est pour combattre cette assertion circonscrite qu’il a entrepris le travail dont il nous offre les résultats. Les lecteurs de la Revue se rappellent qu’avant d’exposer les causes que j’allais attribuer aux événements de 1202-1204, j’avais eru devoir, pour dégager le terrain d’hypothèses parallèles à la théorie que je voulais développer, résumer la polémique engagée auparavant entre M. de Wailiy et M. de Mas Latrie, au sujet du texte d’Ernoul, accusant les Vénitiens de cette entente avec l’Égypte, et que j’avais eu soin, pour bien montrer combien la négation ou l’affirmation de cette entente était étrangère à la défense de la thèse que j’abordais, de faire très-nettement la distinction suivante (1): « Il y a deux points dans le changement apporté au plan primitif de la croisade : » i° L’abandon de la route d’Alexandrie; » 20 L’attaque et la destruction de l’empire grec. » Or Malek-Adhel s’était parfaitement contenté du premier, et n’exigeait, en aucune façon, l’accomplissement du second. Si donc les Vénitiens avaient conduit simplement les croisés en Terre sainte (ce qui était l’avis d’un grand nombre de ceux-ci) (2), ils se seraient trouvés avoir exécuté, aussi bien le pacte de nolis, que leurs engagements envers le sultan (3) ». Cependant, à la fin de mon travail, et comme étude accessoire, j’avais cherché à retrouver, par induction, comment (1) Revus des questions historiques, t. XVIII, p. 333. (2) Villeh., n° 95 ; Epist. Hugonis S. Pauli (d. Tat. et Thom. t. I, p. 304). Cf. Streit, p. 29. (3) Ils auraient même rendu à Malek-Adhel un service signalé, en donnant de l’embarras à ses neveux de Syrie, comme le fait remarquer M. Streit (p. 29 et n. 224). GIORNALE LIGUSTICO 469 Karl Hopf avait pu parvenir à donner un corps et à assigner une epoque précise (13 mai 1202) à la trahison, qu’il faisait résulter cette fois, non du seul témoignage d’Ernoul, mais aussi de la fixation à la date susdite de traités conclus entre Venise et l’Égypte. Prendre parti pour l’opinion de l’historien allemand était, il est vrai, rendre hommage à ce que je prenais pour la vérité, mais, en même temps, nuire dans une certaine mesure à la cause que je défendais. Cette façon de procéder n’a pas été suffisamment comprise: car, loin de m’en tenir compte, on a affecté de ne voir dans tout mon travail que cette étude accessoire, de dire (ce qui était aisé, la discussion une fois ainsi limitée) que je n’y apportais aucun fait nouveau, enfin de m’attribuer comme opinion personnelle tout ce que la poursuite de la méthode de Hopf avait pu m’amener à avancer. Je trouve qu’il convient de rendre à chacun ce qui lui appartient; et, maintenant surtout que Hopf a été' convaincu par un aveu posthume, de procédés à la Fallmerayer (1), je dois me trouver satisfait d’avoir si bien réussi à suivre à contre-pied la piste de l’é-rudit allemand, et m’empresser de lui restituer tous les faux raisonnements que l’on m’a prêtés en son nom. C’est là la seconde raison qui m’a déterminé à entrer à mon tour dans (1) M. Streit (p. 49), en expliquant le cas de Hopf, parle d’une simple 'inexactitude; tandis qu’en réalité Hopf avait sciemment altéré le prénom de Pietro Michiel, et le nom de Faideddin, et inventé le lieu de la signature du traité. La Geschichte Griechenlands (Ersch et Gruber, t. LXXXV) fourmille d’affirmations semblables, qu’en considération de la situation scientifique et des travaux si considérables de Hopf, on était disposé à accepter aveuglément, et qu’il faudra désormais soumettre à une critique très-sévère. M. Streit aura, sans doute, soin d’expurger VHistoire de la quatrième croisade, qu’a laissée Hopf, de toutes les assertions obtenues à l’aide de procédés analogues à celui qui a fourni la date et les circonstances du fameux traité. 470 GIORNALE LIGUSTICO le débat, en discutant de très-près l’argumentation de M. Ha-notaux: non pas que je trouve à cette polémique une très-grande importance dans la question du changement de direction de la croisade, mais parce que j’éprouve le besoin de traiter une bonne fois, en mon nom personnel, le fait de la trahison vénitienne. Voici la thèse de M. Hanotaux: Il commence par déblayer le terrain, en exécutant sommairement ses contradicteurs anciens et modernes; puis, une fois débarrassé du témoignage d’Ernoul et de ceux qui s’en sont servi, il prend les six traités avec l’Égypte, abandonne les deux derniers, et soumet les quatre autres, dont il reproduit le texte in extenso, à un examen minutieux, dont le premier résultat est de prouver qu’ils ne constituent qu’un seul et même pacte. Les intitulés, le lieu de la signature, les divers articles de ce pacte, l’amènent successivement à des conclusions très-nettes ; puis il passe à la discussion de la date, et, après s’être un peu égaré à terrasser inutilement Karl Hopf, déjà désarçonné, il arrive à proposer et à soutenir, comme seule possible, la date du 9 mars 1208. Enfin il termine par quelques considérations générales, tendant à prouver a priori que Venise n’a jamais pu trahir la chrétienté, ni par une entente à prix d’argent avec l’Egypte, ni d’aucune autre façon. Je dirai tout de suite que l’argumentation de M. Hanotaux est serrée, qu’il possède parfaitement son sujet, le développe avec une certaine verve, et expose ses conclusions d’une manière séduisante, en sorte que la forme de son mémoire ne pèche que par quelques incorrections matérielles qu’il serait puéril de relever ici une à une. Il en est autrement du fond; ce que j’espère montrer en suivant pied à pied la marche de M. Hanotaux, marche excellente et dont je n’ai aucune raison de m’écarter. GIORNALE LIGUSTICO 471 Le témoignage si long et si explicite d’Ernoul (i), qui est, en somme, l’une des sources capitales de l’histoire des croisa-des, gene naturellement ceux qui n’admettent point la trahison de Venise. Aussi ce témoignage a-t-il été plus d’une fois battu en brèche; mais, après ce qu’en a dit M. de Wailiy, il n’y a plus qu’à glaner: M. Hanotaux n’ajoute donc pas grand'’ chose de nouveau aux arguments de l’éminent éditeur de Villehardouin; je remarquerai seulement qu’il exagère un peu les dangers que courait la Terre Sainte, — dangers qui auraient provoqué, selon lui, par le désappointement de ne point voir arriver les secours attendus en 1202, les accusations d’Ernoul. La meilleure preuve que les États latins de Syrie n’étaient pas dans une situation aussi désespérée qu’on veut bien le dire, c’est qu’ils surent parfaitement, non-seulement se passer de ces secours, mais encore supporter le vide que la nouvelle de la prise de Constantinople opéra sur leurs forces locales (2). M. Hanotaux s’attache ensuite à prouver que le témoignage de l’écuyer d’Ibelin est isolé. « Aucun des narrateurs de la croisade, dit-il, n’a parlé de la trahison vénitienne ». Il aurait d’abord dû dire : » aucun autre » ; car Ernoul constitue lui-même l’une des sources de la quatrième croisade: il en fournit un récit spécial, et ce récit est d’autant plus important que nous devons y retrouver les dires de ce grand parti de l’opposition, dont l’abbé de Vaux-de-Cernay est l’organe jusqu’à Zara, et qui avait pu pénétrer des secrets dont nous ne demanderons la divulgation, rii aux chroniqueurs of- (1) Ch. xxxi, édit. Mas Latrie, pp. 343-346; Eracles, 1. XXVIII, ch, x, H, d. le Recueil des hist. Occ. des cr.. t. II, pp. 250-252, qui donne des. variantes nombreuses. (2) Voir le curieux document que M. Winkelmann a publié sur ce fait, dans 1 'Ienaer Liter. Zeitung, 1876. n» 1. 472 GIORNALE LIGUSTICO ficiels, ni même à d’autres témoins, aveuglés par la splendeur du résultat de la croisade, sur la malhonnêteté des moy-ens employés pour la détourner. Examinons ces narrateurs de la croisade ; on peut les diviser en trois classes: ceux qui sont favorables à Venise; ceux qui lui sont défavorables, sans cependant formuler la fameuse accusation ; enfin ceux qui l’accusent nettement comme Ernoul. Je reconnaîtrai volontiers que les premiers sont nombreux, et je crois que je viens d’en donner la véritable raison. Les seconds peuvent facilement se compter; mais il y a parmi eux des témoins de premier ordre, dont les réticences viennent plutôt corroborer moralement qu’infirmer l’assertion d’Ernoul; je rangerai parmi eux Innocent III, Gün-ther (i) (quoi qu’en dise M. Hanotaux), Rostang de Cluni (2), Ogerio Pane (3). Viennent enfin les derniers, ceux qui reproduisent l’accusation du chroniqueur syrien; ce sont ceux dont il convient avant tout de se débarrasser : car si l’on venait à constater que l’entente à prix d’argent est affirmée par un ou plusieurs témoignages contemporains, dignes de foi et étrangers à celui d’Ernoul, toute la thèse de M. Hanotaux croulerait par la base. Aussi s’empresse-t-il de réduire ces témoignages à deux : un texte de Baudouin d’Avesnes, et un passage du Balduinus Constantinopolitanus. je lui ferai remarquer que, sans parler de plusieurs documents plus ou moins considérables qui nous font défaut aujourd’hui (4), et dont l’un, au moins, concordait avec (1) Günther. d. les Exuviae C. P., t. I. p. 71. (2) Rostang. Clun., d. les Exuviae C. Tt. I. p. 133. (3) Dans les Monum. Gerrn.. t. XVIII, p. 120. (4) Voir Exuviae C. P., praef., pp. xxnj-XYVif7* giornale ligustico 473 Ernoul (i); il y a d’autres textes que l’on ne peut passer sous silence: celui de Pippino (2), un peu différent, en cet endioit, d Ernoul, qu’il avait sous les yeux, celui de Ricobaldo de Ferrare (3), et un passage de Sanudo (4), dont je me servirai tout à l’heure, et qui confirme, sinon l’achat par Malek-Adhel du concours des Vénitiens, du moins la levée par ce sultan de l’impôt'général qui a été déclaré si invraisemblable. Mais contentons-nous de Baudouin d’Avesnes et du Bal-dhinus Co s tantinopolitanus. Pour M. Hanotaux, comme au reste pour M. Streit (5), le texte de Baudouin d’Avesnes (6) a pour unique source (1) Une certaine Chronique de S. Victor, consultée par Michaud (t. III, p. 143) et qui a échappé à toutes mes recherches. (2) Dans Muratori, t. VII, col. 820. (3) « Baroni, essendosi per prezzo convenuti del passaggio co’Vene-» ziani e quali, come si stimava, corrotti dalla condizione di Safadino, » molto li tennero in lungo » (Ricob. d. Ferr. Istor. imper., d. Mur., t. IX, col. 417), témoignage du xive siècle, si l’on considère la chronique comme originale, du xve, si on la regarde plutôt comme l’oeuvre personnelle de Boiardo, que comme une version faite par lui. En 1510, Hélian de Verceil (d. Freher-Struve, 5S. RR. Germ. t. II, p. 528), répétait la même accusation. (4) « Saphadinus, Ægyptum profectus, pro terrae defensione inquirit » concilium, congregatque thesauros ». (Sanutus, 1. III, p. xt, c. 2, d.Bong., II, 204). (5) P. 2 et n. 15. (6) Déjà publiés par Buchon dans le Panthéon littéraire ( t. III, pp. 265-292), et à la suite de Christine de Pisan, pp. 653-673, les fragments de Baudouin d’Avesnes, relatifs Λ la quatrième croisade, ont été donnés comme inédits par Tafel et Thomas (t. I. pp. 328-358)) d’après un manuscrit de Munich. C’est M. Gachet (Chon. de Baud. d’Av., p. 53) et non Hopf, comme le veut Streit, qui a le premier reconnu quel était l’auteur de ces fragments. Le passage en discussion se trouve dans Taf. et Thom., t. I, p. 333. Giorn. Ligustico, Anno V. 51 474 GIORNALE LIGUSTICO Ernoul: que Baudouin d’Avesnes ait fait de larges emprunts à Villehardouin, cela ne fait de doute pour personne ; mais qu’il ait eu entre les mains et copié Ernoul, au moins tel que nous l’a conservé le texte publié récemment, il y a matière à une discussion, dans laquelle je n’entrerai pas, me contentant de faire remarquer que Baudouin d’Avesnes raconte en cinq lignes ce qu’Ernoul met trois pages à nous apprendre, et passe complètement sous silence la fabuleuse histoire de l'impôt sur les biens des mosquées. Or nous avons une chronique française, très-voisine, il est vrai d’Ernoul, mais distincte: Y Estone d’Outremer et des Enfances Sale-hadin (i), qui offre précisément un récit d’une longueur intermédiaire entre ceux d’Ernoul et de Baudouin d’Avesnes, — récit dépouillé- de la fable en question, et que nous retrouvons dans Galeotto del Carretto (2). Il est donc probable que Baudouin d’Avesnes a abrégé, non Ernoul, mais ce texte parallèle, et que nous avons dans l’ensemble de ces trois chroniques, un second témoignage réellement distinct, quoique trés-rapproché, de celui de l’écuyer d’Ibelin. Mais je n’insisterai point, préférant m’ attacher au second texte rejeté par M. Hanotaux, au Balduinus Constantinopoli-tanus, sur lequel il me permettra de ne point partager son avis; le Chronicon comitum Flandrensium, dans lequel est inséré (3) ce curieux récit, n'est pas une compilation sans (1) Paris, B. nat. fr. 770 (venant de Cangé) 12203 et 24210; voir Monachus, édit. Riant, pp. 68-69. Le passage en question se trouve dans un fragment de cette chronique, publié par Buchon (Rech. hist., 1845,1.1, pp. 481 et s.) et par Taf. et Thom. (t. I, pp. 322-328). (2) Cronica di Monferrato (d. les Mon. hist. patr., t. Ili, col. 1138). Il ajoute ce détail que le sultan se procura l’argent, par la confiscation des revenus des chrétiens d’Égypte, fait confirmé par 1 'Hist. patriarcharum Ale-xandr. (citée dans Michaud, H. des Cr., 4e éd., III, 143) · c'est évidemment l’origine de la fable de l’impôt mis sur les mosquées. (3) Corpus chron. Flandriæ, éd. De Smet, t. I, pp. 130-140. GIORNALE LIGUSTICO 475 valeur et bourée d’erreurs; Dom Martène, qui en a donné la seconde édition (i), en parle avec estime, et Bethmann la considère comme le fondement de toutes les autres chroniques de Flandres; De Smet ne l’a soumise à aucune étude critique ; c’ est M. Klimke qui, le premier (pp. 3 6-42), a appelé 1’ attention sur le passage qu’elle consacre à la quatrième croisade, passage qui forme un tout complet, renfermant, à côté d’invraisemblances évidentes, des détails spéciaux, que l’on chercherait vainement ailleurs, et qu’il est difficile de rejeter sans examen. Je ne puis que renvoyer ici à l’analyse que M. Klimke a donnée de ce récit, qui nous offre évidemment la traduction, ou plutôt l’abrégé latin, d’un texte en langue vulgaire, aujourd’hui perdu, et que l’on ne saurait exclure du nombre des témoignages importants de la quatrième croisade. Or voici ce que dit le Balduinus Constantinopolitanus : » Ista prædicta ad aures perveniunt soldani, Francos et » Flamingos disponere ad Jerusalem proficiscendum; et præ- » cipue timens comitem Flandrensium, eo quod prædeces- » sores ejus infinita damna et mala fecerant olim in Sar- » denay et in regno Abilinæ, ea de causa soldanus scribit et » promittit Venetis mille marcas auri optimi, et pro ævo » salvum conductum liberum per totam Arabiam, Syriam, » Damascum et Egyptum, sed quod nullo modo naves seu » navitas super drutsmannos concedant Francis, sed consu- » lant eos repatriare ». M. Hanotaux veut, timidement il est vrai, que ce soit là (1) Thes. Anecd., t. III, col. 377-449; publiée aussi, sous le titre de Flandria generosa, mais seulement jusqu’en 1164, par Galopin en 1643 et Paquot en 1781, et dans Pertz, Mon. Germt. IX, pp. 313-334, par Bethmann (jusqu’en 1214). 47 6 GIORNALE LIGUSTICO un écho d’Ernoul, devenu, de très-bonne heure, populaire en Occident; je lui répondrai que cette rapidité de propagation de la chronique d’Ernoul n’a peut-être pas été aussi grande qu’il le croit (i); que d’ailleurs Ernoul n’a été terminé dans sa forme actuelle qu’en 1231, et que le Balduinus a été écrit avant 1214 (2); que le reste du Balduinus n’a absolument rien de commun avec Ernoul, et que, s’il est évidemment impossible que deux récits d’un fait identique ne se touchent pas par des points communs, il y a néanmoins entre Ernoul et le passage du Balduinus, des différences assez notables, pour que l’on hésite à voir dans celui-ci un abrégé de celui-là. La crainte inspirée au sultan par les Flamands, Sardenay, Abilina, le sauf-conduit (que Ton ne peut s’empêcher de rapprocher du second des pactes égyptiens), le chiffre des mille marcs d’or, tout cela est étranger à Ernoul. Niez, si vous voulez, ou rabaissez la valeur de ce témoignage, mais reconnaissez-le pour distinct de celui d’Ernoul, qui cesse, par conséquent, d’être isolé. Qu’importe, en regard de cette conclusion capitale, l’opinion des historiens modernes? la plupart n’ont pas connu Ernoul, publié pour la première fois au milieu du siècle dernier (3), ou s’en sont peu servis; qu’importe de savoir ce qu’ont pu penser Maimbourg, ou Michaud, ou Wilken, qui n’ont pas eu entre les mains d’autres sources que celles dont (1) On est loin d’être d’accord sur l’interprétation du passage de Raoul de Coggeshale, sur lequel M. de Mas Latrie (Ernoul, 497) appuie cette assertion. (2) Probablement par un auteur flamand, sinon témoin oculaire, du moins reproduisant les récits des compagnons de Jean de Nesle, qui, on le sait, opéra, en 1204, un débarquement en Egypte, et put y apprendre quelque chose de la fameuse entente. (3) En 1725, par Muratori, dans la version latine de Pippino; en 1730, par Martène, sous le nom de Bernard le Trésorier. GIORNALE LIGUSTICO 477 nous disposons? que Sauli (i), et non M. de Mas Latrie, ait été le premier à faire usage du récit de l’écuyer d’Ibelin ? que la phiase de Hurter implique, comme je le crois encore, une adhésion au moins conditionnelle à la mise en accusation de Venise (2), et que l’école allemande entière, MM. Thomas, Winkelmann, Heyd, Streit, Klimke (je me gaiderai bien de nommer Hopf), soient à peu près unanimes sur la question ? — l’opinion du dernier venu, s’il apporte de bonnes raisons dans la discussion, pèsera davantage, en ce cas, que celle du plus grand des historiens passés, et j abandonnerai bien volontiers à M. Hanotaux tout ce qu’il réclame de ce côté. Là n’est point d’ailleurs le nœud et l’intérêt de sa thèse, et j’ai hâte d’y arriver. Il s’agit des fameux traités non datés conclus entre Venise et Malek-Adhel, traités signalés pour la première fois par Hammer (3), et placés par lui entre 1218 et 1227, publiés par Tafel et Thomas d’après les manuscrits de Vienne sous la date dubitative de 12x7, enfin apportés par M. de Mas Latrie (4) et Karl Hopf comme un second et plus décisif témoignage en faveur de l’hypothèse de la trahison vénitienne. (1) « È fama che la promessa fatta dal soldano d’ Egitto di concedere » nuove e più larghe franchigie ai naviganti Veneti, et il molto oro sbordi sato ai principali della republica, per impegnarli a stornare quell’ in-» cendio di guerra dalle provincie di Siria, abbiano avuto forza di me- li nare la risoluzione, per cui vennero accolte le preghiere del giovane » Alessio. » (Sauli, I Genovesi in Galata. Torino, 1831, 2 voi. in-8°, t. I. p. 32). (2) J’avoue ne pouvoir comprendre autrement la phrase de Hurter. (3) Gesch. d. Osmann. Reichs, t. II, p. 664. (4) dui a donné le texte des deux premiers d’après le Libro dei Patti de Venise, dans l’appendice de ses Traités de paix, pp.· 70 et suiv. On trouve la version italienne du n° 5 dans les Vite d. duchi Vene\. de Sa-nudo le jeune (Murat., t. XXII, col. 542-543). 478 GIORNALE LIGUSTICO M. Hanotaux les reprend, reproduit le texte des quatre premiers (i), et en aborde l’examen. Les arguments qu’il groupe, pour prouver que ces quatre pièces ne constituent qu’un seul et même pacte, sont sans réplique, et j’y souscris des deux mains. Il établit parfaitement que le n° i est le document d’ensemble, les nos 2 et 3 des sauf-conduits de navigation et de commerce, et le n° 4 un privilège de comptoir (Fondaco) à Alexandrie. Je lui accorderai que ce traité n’a pas été conclu au Caire, bien que je ne trouve pas que le texte d’Abul-féda qu’il invoque, implique aussi formellement qu’il paraît le croire, 1’ impossibilité de placer vers 1202, un voyage rapide de Malek-Adhel en Egypte, et que Sanudo (2), témoin bien impartial en cette affaire, y fasse arriver le sultan précisément à cette époque. Cette circonstance de lieu n’a du reste aucune importance dan$ la question; car il est évident que le résultat des traités sera le même, quel que soit l’endroit où ils auront été conclus. M. Hanotaux va-t-il être aussi concluant dans le reste de son travail? Il examine successivement le protocole, le contexte et la date du traité. Les formules de courtoisie qui précèdent l’acte · lui-même se trouvent avoir un grand intérêt; elles comprennent: i° Les titres que prend Malek-Adhel; 2° Ceux qu’il donne au doge anonyme, dans lequel M. Hanotaux veut voir Pietro Ziani, successeur de Henri Dandolo, et non, comme Hopf, Dandolo lui-même. M. Streit a remarqué le premier (p. 49) que le sultan n’a commencé, suivant Abulféda (3), à se qualifier de Scbahin- (1) D’aprés Mas Latrie, pour les n°* 1 et 2, et Thomas, pours les n®* 3 et 4; M. Hanotaux accuse à tort Thomas d’avoir omis le mot decima dans la date du quatrième. (2) Sanutus, Secr. fid. Crucis. 1. c. (3) « Eodem anno‘(604) ineunte. » (Abulféda, éd. Reiske, t. IV, p. 224, et Hist. or. des crois., t. I, p. 84J. giornali; ligustico 479 schah (Rex regum) et de Chalil el miitnenim (Amicus principis fidelium) qu’ au commencement de Γ année 604 de l’Hé-gire, c’est-à-dire en août 1207. M· Streit qui, sans donner de raison, place le traité en 1203, ne tient aucun compte du passage d’Abulféda; il y voit, soit une erreur de ce dernier, soit un acte de vanité de Malek-Adhel, qui aurait pris les deux titres, avant d’en avoir reçu du khalife de Bagdad l’investiture régulière. Je regarde au contraire, avec M. Hanotaux, ce texte du chroniqueur arabe comme un argument de la plus grande gravité contre 1’ opinion de Hopf, et l’adoption pour le traité d’une date antérieure à août 1207. Quant aux titres donnés au doge anonyme, ils soulèvent de sérieuses difficultés, d’abord en eux-mêmes, puis par l’absence du nom de ce prince. Ils ne sont pas, en effet, semblables à ceux que reçoit Pietro Ziani dans les traites passés avec d’autres souverains infidèles (1) que le sultan d Égypte. Même différence, mais plus importante avec ceux qui accompagnent le nom du doge dans les pactes n°“ 5 et 6, conclus avec le même Malek-Adhel. Le titre de dux Venctwrutn et ladrac atque Constantinopolis, manque; il est remplacé par des épithètes guerrières qui conviennent mal à Pietro Ziani, et se seraient mieux appliquées à Henri Dandolo. Ici l’anoinalic mérite d’attirer une attention particulière; car si l’on accepte pour le traité avec le doge anonyme, la date à laquelle nous allons voir arriver M. Hanotaux, le 9 mars 120S, on sera amené nécessairement à examiner si cette date n’est point trop voisine de l’époque qu’il convient d assigner aux pièces n"* 5 et 6, et si d’aussi grandes différences de rédaction ne se présentent point à un trop court intervalle. Ces pièces 5 et 6 ne font, à mon sens, qu’un seul et même traité, qu’à l’aide d’une correction que l’on connaît (i) Voir Tafe! et Thomas, t. II, pp. 62, 231, 272, 274· GIORNALE LIGUSTICO déjà, je fixe au 17 mai 1217; mais je dois dire que, d’abord M. Heyd (1), puis M. Thomas (2), revenant sur son premier calcul, et enfin M. Streit (p. 49) (pour le n° 5 seulement, qu’il sépare, sans raison bien décisive, du n° 6) préfèrent l’année 1206 (3), qu’en somme la question est loin d’être résolue ,et que l’on se trouve courir le risque, au cas où elle serait dans le sens de MM. Thomas et Streit, d’aller au-de-vant de cette diversité de formules, inexplicable à deux ans de distance entre les mêmes contractants. Inexplicable est aussi l’absence du nom du doge, quand tous les autres traités, conclus par Pietro Ziani avec des princes musulmans, le contiennent en toutes lettres. A ceux qui seraient tentés de penser que cette radiation a été ordonnée, de crainte de scandale, par la chancellerie vénitienne, M. Hanotaux répond d’avance (p. 87) que le scandale eût été le même pour les documents analogues, où le nom du doge a cependant été conservé (4). Il omet, je crois, de distinguer entre les circonstances ordinaires, peu excusables, il est vrai, mais enfin conciliables, à tout prendre, avec la politique commerciale de Venise, qui accompagnèrent tous les autres traités, et la situation spéciale, où, en 1202, le fait d’être devenu solennellement partie intégrante de la croisade, (1) Le col. comm. d. Italiani, t. II, p. 188. (2) All g. Zeiturig. I. c. (3) M. Streit, séparant les deux traités, ne dispose plus que d’un élément pour résoudre le problème de la date de chacun d’eux : aussi c’est arbitrairement qu’il identifie le 7 safar avec le 3 septembre 1206; il pouvait choisir n’importe quelle autre année du règne de Ziani. (4) André Dandolo, qui ne paraît pourtant craindre aucunement ce genre de scandale, puisqu’il nous apprend (Murat, t. XII, col. 341), en relatant le traité fait par Pietro Ziani avec un sultan turc, que la conclusion de ce traité avait pour cause la décadence des Latins (cum jam Gallorum potentia evanesceret), est naturellement muet à l’endroit des pactes égyptiens. giornale ligustico 481 plaçait, aux yeux de la chrétienté, le gouvernement vénitien. Entrant dans la discussion du contexte du quadruple pacte, M. Hanotaux prouve qu’il doit être considéré comme constituant, de la part de Malek-Adhel, le prix de services futurs et non la récompense de services passés (1); sur ce point restreint, je ne vois aucune objection à lui faire; mais je crains qu’il n’aille ensuite trop loin, et que, dans le dessein de fermer la porte à toute hypothèse d’un traité conclu avec l’Égypte en 1202, différent de celui qu’il étudie et aujourd’hui perdu, il ne se soit fourvoyé, en cherchant à prouver que la pièce n° 4 (octroi du comptoir à Alexandrie) est une concession de premier établissement pour les Vénitiens. Tout proteste contre cette conclusion: des témoignages nombreux et irréfragables montrent que Venise avait pris pied, dès le Xe siècle, à Alexandrie (2). Benjamin de Tudèle, en 1170, dit formellement que vingt-huit nations chrétiennes y avaient leurs fondachi, et, parmi ces vingt-huit nations, figurent naturellement les Vénitiens (3). Que signifierait d’ailleurs l’expression augeatur et crescat factum mercatorum de la pièce n" 1: la première condition pour que le commerce augmentât était qu’il existât déjà. Et ces établissements vénitiens à Alexandrie n’étaient pas le fait d’une simple tolérance, dépourvue de privilèges diplomatiques. Sans parler d’un traité conclu dès 991 (1) Cf. Streit, p. 49. (2) And. Dand. (d. Muratori, t. XII, col. 223); Heyd, t. II, p. 168; v. Thomas, 1. c. (3) « Every nation has its own fonteccho there. » (Benj. de Tud., éd. Asher, t. II, p. 158). Dans la nomenclature de ces nations, le texte d’A-sher porte il est vrai: Valentia; mais le manuscrit d’Oxford. (Bodl., Op. add. 8°, 36, f. 62 b.) donne « Venecia)), ainsi qu’a bien voulu le vérifier pour moi M. Ad. Neubauer; cf.' Makrizi, d. Amari Dipi, arabi, p. lv, et Heyd, t. II, pp. 171, 172. 482 GIORNALE LIGUSTICO par le doge Orseolo (1), il est certain qu’en 1171, il y en avait eu un autre passé au nom de Sebastiano Ziani (2). Toute liberté reste donc à l’émission d’une hypothèse analogue à celle que je viens de formuler. Je suis obligé également de ne point accorder à M. Hanotaux que MM. Thomas et Hopf aient fait un raisonnement aussi étrange qu’il veut bien le dire, en cherchant à placer le quadruple traité immédiatement avant une croisade, et en se servant pour cela des termes du sauf-conduit donné par le sultan, dans la pièce n° 2, aux pèlerins voiturés par les Vénitiens (omîtes qui vadunt in peregrinationem ad Sanctum Sepulcrum cum Venetis). Il est évident qu’aucun des deux historiens que je viens de nommer n’a pensé un instant, comme le suppose M. Hanotaux (p. 92), qùe si le sultan donne un sauf-conduit aux chrétiens, c est qu’il prévoit qu’ils vont venir I’ attaquer en grand nombre, mais qu’au contraire ils ont compris la clause, comme impliquant l’engagement, pris ou à prendre par Venise, d’empêcher que ces pèlerins ne devinssent des croisés, double signification qu’a le mot peregrini. Il me semble donc que, si l’on trouvait une bonne raison pour placer le traité avant une croisade, ce ne serait pas cette phrase du sauf-conduit qui pourrait détourner de le faire. J’arrive enfin avec M. Hanotaux à la recherche directe de la date véritable du quadruple pacte. On se rappelle à l’aide de quelles inductions j’étais parvenu à retrouver la voie que Hopf avait suivie pour fixer cette date au 14 mai 1202 (13 par une, erreur de calcul) : on se rappelle également que Hopf avait dû opérer, sur le libellé du pacte, une correction consistant à lire tnaii au lieu de martii, correction que ‘pouvait justifier jusqu’à un certain point l’aspect du manuscrit de Veli) And. Dand. I. c.·, cf. Forsch. ζ. d. Gcsch., 1877, p. 394. (2) Chron. Altin., 169; cf. Streit, p. 15, not. 123. GIORNALE LIGUSTICO 483 nise, dont j’ai le fac-similé sous les yeux, et qui porte mart. Cette correction laissait a choisir entre les trois dates de: 1201, 25 mai. 1202, 14 mai. 1203, 4 mai. Comme je l’ai dit plus haut, M. Streit (p. 32), sans donner de raison bien convaincante, adopte la troisième. Mais M. Winkelman (1) et, avec lui, M. Hanotaux, rejettent la correction maii pour martii, et se trouvent alors en présence de trois autres dates 1206, 31 mars. 1207, 2: mars. 1208, 9 mars. Ici, M. Hanotaux a succombé à une tentation très-péril-leuse: la souscription de la pièce n° 3 porte: fuit scripta die xviiij saben non. Voir dans ce non. l’abréviaton de nona infrante martij était assez naturel, et, bien que M. Hanotaux ne l’avoue que dans une note un peu timide (p. 81), il ne niera pas que ce non. a déterminé a priori un choix qu’il a cherché ensuite à justifier par des raisons plus sérieuses (2). Ces raisons sont les suivantes : la date du 9 mars 1208 rend compte de toutes les données matérielles du quadruple pacte : elle concorde avec ce que les historiens arabes nous disent de Malek-Adhel en cette année ; elle s’explique par la nécessité qu’avait Venise de garantir la sécurité de ses nouvelles possessions insulaires. J’accorderais peut-être à M. Hanotaux ces trois points, pris dans leur ensemble, et pourtant je n’accepterai point la date du 9 mars 1208, et ceci pour un motif très-simple: M. Hanotaux pour rendre cette date admissible, (1) Jenaer Liter. Zeit, 1. c. (2) Il y a en effet non. et non pas non., ce qui est une difficulté: y a-t-il une raison de lire nona plutôt que noms? qui donnerait une date de jour toute différente. 484 GIORNALE LIGUSTICO a corrigé /’indiction dans la souscription d’une charte qui le gênait; cette charte, — donation faite au Rialto, et à laquelle assiste Marino Dandolo, l’un des signataires du pacte égyptien, — est très-régulièrement souscrite. Anno MCCVII mense februarij, indictione undecima (x) ce qui donne (la XIe indiction, devant se compter du Ier septembre 1207, et l’année 1208, vieux style, commençant à Pâques) la date précise février 120S et ce qui rend partant impossible la présence de Marino Dandolo en Orient, le 9 mars de la même année. Je pourrais à cette objection péremptoire en ajouter d’autres, dont le développement ne ferait que fatiguer le lecteur: dire, par exemple, que M. Hanotaux exagère beaucoup l’importance de la guerre des Iles (1205-1207), que cette guerre de conquête ne fut régularisée que plus tard (2), qu’alors ce n’était qu’une simple piraterie, dont le gouvernement central ne prenait pas assez la responsabilité pour que le sultan pût qualifier un ramassis de corsaires d'exercitus magnus Christianorum; qu’enfin jamais Ziani n’en a été le chef. Mais je ne veux pas insister, et je préfère revenir aux deux autres dates du 31 mars 1206 et du 21 janvier 1207; ici le sultan n’aura pas ses titres en règle, et nous ne saurons que faire du mystérieux mot non. : cependant je suivrai jusque-là M. Hanotaux. Il a lui-même rejeté la première, 1206, pour diverses raisons qu’il expose (p. 96, note 2), et j’ajouterci, pour mettre, à mon tour, en doute celle de 1207 (21 mars), devenue libre (1) Taf. et Thom., t. II, pp. 47-49; plusieurs autres chartes vénitiennes contemporaines offrent la même supputation. (2) Voir le beau travail de M. Thomas, Commission il. D. Andr. Dandolo f. Creta (Munich, 1877, in-40), pp. 5 et suiv. GIORNALE LIGnSTICO 485 par la réhabilitation de la charte corrigée à tort, que Pietro Michiel était à Venise en septembre 1206 (1), ce qui ne nous laisse que cinq mois pour le voyage en Egypte des ambassadeurs vénitiens, aller et retour — temps bien court, surtout si l’on songe qu’à peine revenu d’Orient, c’est-à-dire au plus tôt vers la fin de mai, le compagnon de Michiel, Marino Dandolo, n’aura plus disposé que de quelques semaines pour aller conquérir Corfou, dont il était déjà inféodé en juillet 1207 (2). Aucune des trois dates, on le voit, ne résiste à une critique sérieuse. M. Hanotaux termine son travail, comme je l’ai dit plus haut, par quelques considérations générales sur la politique de Venise à l’endroit du changement de direction de la croisade, raisonnant, bien entendu, avec la persuasion que les conclusions, auxquelles il vient d’arriver, sont inattaquables. Il nous montre Venise amenée forcément par les nécessités de son commerce, à maintenir une paix perpétuelle avec les ennemis de l’Église, à renouveler cette paix par des traités conclus précisément aux époques où l’attitude de la chrétienté envers les Infidèles était de nature à compromettre des relations que la république prenait tant de soin â entretenir ; il nous montre, par contre, les défiances de l’Occi-dent éveillées par les mille rumeurs qui transpiraient de ces transactions odieuses aux mœurs du temps, et se traduisant naturellement par des accusations (3) plus passionnées que (1) Charte (dans les Monum. Slav. tnerid., t. I, p. 23) datée; « 1206, » mense Septembri, indictione decima », et qu’il faut, par conséquent, placer entre le Ier et le 30 septembre. (2) Taf. et Thom. t. II, p. 54. (3) Accusations qu’il ne faut pas confondre, comme le fait M. Hanotaux (p. 76, n. i, à propos de la levée du siège du Thoron en 1198) avec ces vulgaires calomnies qui sont la revanche ordinaire des soldats battus. 486 GIORNALE LIGUSTICO réfléchies, dont les chroniqueurs comme Ernoul, nous ont transmis l’écho. Sans poser la question de savoir si le véritable intérêt de Venise résidait dans ces alliances perpétuelles avec les ennemis de la foi, aliances qui lui créaient tant d’embarras en Europe ; si, obtenue par un concours loyal aux projets du Saint-Siège, une conquête solide de l’Égypte n’eût pas offert à la république des résultats matériels plus pratiques et plus durables que des alliances secrètes et fragiles avec le Croissant, si même elle ne fut pas tentée plus d’une fois, et en particulier au xive siècle, sous la sage influence de Sa-nudo (i), de renoncer à cette politique séculaire, et de revenir tardivement à celle d’innocent III, — sans entrer enfin dans des considérations qui m’entraîneraient trop loin, — je reconnaîtrai avec M. Hanotaux que les origines de la politique commerciale de Venise excusaient jusqu’à un certain point ces alliances traditionnelles; j’ajouterai qu’elle a su les perpétuer du xe au xvi° siècle (2), les resserrant immédiatement avant chaque croisade, stipulant pour ses nationaux la neutralité en temps de guerre sainte « salvi sint tempore guerre » (3), — toujours oublieuse à l’égard des Infidèles, de ses rancunes les plus légitimes, et, au lendemain de la prise d’Acre, qui ruinait, au milieu des horreurs que l’on sait, ses antiques comptoirs de Syrie, s’empressant de (1) Sanutus, Secr. fid. Crucis, lib. I. p. 1, c. 1 (d. Bongars, t. II, p. 22); Andreae Danduli Commissio Cretae, éd. Thomas, pp. 45, 51* (Prohibition du commerce avec l’Égypte en 1309 et 1322). (2) Voir les instructions du Conseil des Dix à l’ambassadeur envoyé en Egypte (5 déc. 1502), pour y conclure une alliance contre les Portugais. (De Gubernatis, St. d. viagg. italiani, pp. 393-398). (3) Traité de 1254 avec Malek Aïbeck (d. Mas Latrie, Supp. aux Tr. de paix, p. 77). GIORNALE LIGUSTICO ‘ 487 mendier un traité de commerce (x) auprès de ses spoliateurs de la veille, — par contre, toujours prête à abandonner les Latins d’Orient, quand elle n’avait plus rien à en attendre « cnm potentia Gallorum evanesceret », (pour parler le langage impudemment naïf d’André Dandolo) (2) — en un mot, n’obéissant jamais qu’à ce qu’elle pensait être ses intérêts. Mais ce qui, dans les temps modernes, au Japon pour les Hollandais, en Turquie pour la France ou pour l’Angleterre, peut s’appeler, par euphémisne, esprit de politique traditionnelle, n’avait-on pas au Moyen Age, et, en 1204 tout particulièrement, quand la croisade était la grande affaire de l’Europe , et que la guerre de religion par excellence passait avant toutes les autres, le droit de l’appeler trahison? — Je dis en 1204: car ici — et je me sépare sur ce point de M. Hanotaux — doit revenir la distinction que j’ai déjà faite plus haut, et sur laquelle je ne me lasserai pas d’insister. Si, pour les autres croisades, les Vénitiens n’étaient que les voituriers des croisés, et, à ce titre, peuvent, dans une certaine mesure et, quelques bénéfices qu’ils aient toujours su exiger de leurs nolisants, pour prix d’un concours tout matériel, être regardés comme excusables d’avoir veillé au maintien de leurs relations d’affaires avec le monde musulman — dans la quatrième, au contraire, ils étaient, non plus de simples entrepreneurs de transport, mais bien partie prenante et, jusqu’à un certain point dirigeante dans l’expédition: c’est cette situation spéciale qui rendait coupable de leur part toute entente, même purement commerciale, avec (1) Traité de sept. 1304 entre Venise et l’émir du Safed et de Saint-Jean d’Acre, au nom du sultan d’Égypte (Archiv. de Venise, Libr.Pact., t. IV, f° 95 v°), communiqué par M. de Mas Latrie. (2) Voir plus haut. 4ss GIORNALE LIGUSTICO l’ennemi; c’est là que pouvait être, et que, si l’onjen croit Ernoul, fut leur trahison. IV. Je viens d'analyser, les théories différentes qui sont venues, sinon combattre ouvertement, du moins chercher à ébranler celle que j’avais développée en 1875. Avant de conclure cet examen par l’exposé sommaire des résultats historiques qu’il comporte, je demanderai la permission de revenir un instant sur mon propre travail, pour constater l’état dans lequel le laisse la polémique dont il a été l’objet. J’avais poursuivi un triple but: réduire à sa juste valeur-le témoignagne de Villehardouin — dégager Innocent III de toute complicité dans le changement de direction de la croisade — prouver surtout que ce changement de direction n’avait été qu’un épisode de Lr querelle entre le Saint-Siège et l’Empire. Puis, subsidiairement, j’avais abordé et discuté l’hypothèse d’une entente secrète de Venise avec l’Égypte. Le premier point me paraît acquis: que l’on adopte, en effet, l’opinion de Hopf, celle de Streit ou la mienne, sur les causes qui modifièrent le plan d’innocent III, l’œuvre de A^illehardouin ne revêt plus aux yeux de personne le caractère d’un procès-verbal infaillible: c’est tout ce que je voulais prouver. Le second point a subi quelques contradictions, mais trop timides pour que je ne me sente pas autorisé à maintenir qu’innocent III n’a jamais été complice du changement de direction, et que si, à la dernière heure, il a accepté le fait accompli, c’était lorsque l’échec subi, grâce aux intrigues vénitiennes, par les projets de Philippe de Souabe, avait déjà écarté le danger que le succès de ces projets aurait pu faire courir aux intérêts de l’Église. Enfin le troisième poiut — la prépondérance du rôle joué GIORNALE LIGUSTICO 489 ans toutes ces intrigues par la politique allemande — a trorné dans M Streit un auxiliare précieux, qui a fortifié mes prémisses par de nouveaux arguments, tandis que mes conclusions rencontraient ailleurs de nombreux adhérents. Reste la question accessoire dont je ne m’étais occupé que '"Omme d un hors-d’œuvre, — Fentenre de Venise avec FÉ-gypte. c est là qu’ont porté les attaques les plus vives. Je viens d’y répondre; qu’en reste-t-il? une date plus inacceptable encore que celle que Hopf avait proposée, et la question obscurcie de telle sorte que l’on se demande comment on s y prendra désormais, non pour la résoudre, mais simplement pour la poser de nouveau. Cherchera-t-on une nouvelle date au quadruple traité? mais laquelle? Après avoir si bien réussi à unir les quatre pièces, s’efforcera-t-on de briser le lien qui les enchaîne toutes ensemble à six hypothèses également inadmissibles ? Mais où les placer isolément, et que prouveront-elles ainsi séparées? Ernoul restera d’ailleurs, et aussi le Balduinus, dont on ne se débarrassera plus sans de nouveaux arguments, et ces arguments où les prendre? N’a-t-on pas épuisé la matière? Beaucoup plus sérieuses, quoique moins vives, sont les attaques de M. Streit. Je ne reviendrai pas sur notre dissentiment à l’endroit de Boniface de Montferrat, et, d’autre part, je constaterai avec satisfaction que, si M. Streit n’a pas adopté mes conclusions relativement à Philippe de Souabe, il a du moins éludé soigneusement la discussion des cinq textes les plus importants, à l’aide desquels j’établissais les prétentions du roi des Romains sur Constantinople, avant, pendant et surtout après la quatrième croisade. L’article des promissa Pbilippi (1) relatif à la restauration d’Alexis IV. (1) « Si omnipotens Deus regnum Graecorum mihi vel leviro meo suh-» diderit, ecclesiam Constantinopolitanam Romanae ecclesiae bonafide et Giornale Ligustico. Jnno V. 52 490 GIORNALE LIGUSTICO La Chronique de Novgorod qui ne voit que lui à côté des Latins (i). Le passage où Nicétas nous apprend qu’il avait réclamé la personne d’Alexis III (2). Le charte où il revendique comme son bien, le butin pris à Constantinople par l’abbé de Pairis (3). Et enfin le récit si curieux que l’Anonyme de Laon nous fait de ses tardives colères, à l’endroit de la couronne impériale qui lui avait échappé (4). » sine fraude faciam fore subjectam ». (Promissa Philippi regis papae, art. 7, dans les Inn. III Opera, éd. Migne, t. IV. p. 29) ; cf. Inn. III Epist., V. 122. (1) Voir plus haut, et le passage suivant: « Franci autem certiores » facti Isaacii filium imperio privatum esse, bello urbem circumdedere, » Murzuphlum ita cohortati: « Trade nobis Isaaciden; deinde in Germa-» niam ad imperatorem nostrum revertemur; nos enim necessitate coacti » huc venimus; quod si feceris, tuum sit eius regnum ». (Chron. Novg., 'dans Hopf, Chr. Gr. - Rom., p. 95). (2) « Καί τον δοσπραγή έν βασιλευσιν Άλεξίον... τφ των Αλαμαννών » έξέτ-εμψεν αρχοντι ». (Nicétas, ρ. 819)· (j) Cette charte, qui existait encore à la fin du siècle dernier (v. Hugo. Sacrae antiq. monum., t. II, p. 274), a échappé à toutes mes recherches; mais il en subsiste, aux archives de Colmar, dans deux cartulaires, 1 un du XVIe siècle, l’autre compilé au XVIIe, par Buchinger, les cotes suivantes: i° « Philippus Romanorum imperator, ecclesiam Parisiensem, tanquam » dilectam et peculiarem, sub regiam defensionem accepit, et preciosum » reliquiarum thesaurum eidem confirma [vi] t, et quicquid questionis vel » iuris super hoc sacro pignore habere sperabat, in integrum resignavit ». 2° « Philippus Romanorum rex monasterium nostrum et nos, in pro-» tectionem imperii suscipit, et sacrarum reliquiarum thesaurum, illuc a » C. P. deportatum, confirmat anno 1206 ». On sait que le prix de cet abandon fut un joyau décrit par Günther (éd. Riant, p. 7 S » PP* 91-92) ». (4) « Fuit quoque uxor Othonis, ex filia Isaaci, imperatoris Graecorum, » unde Pbilippus, dux Suevorum, dum viveret, ab Henrico, imperatore » Constantinopolitano, requisitus ut filiam suam ei mitteret uxorem, re- GIORNALE LIGUSTICO 491 J ai donc le droit de laisser ces cinq témoignages occuper la place considérable que je leur ai assignée dans mon premier travail (i). C’est seulement à l’endroit de Venise que M. Streit a abordé franchement la discussion pour se séparer presque complètement de moi: c’est là que je dois insister. Je n avais évidemment pas à faire ressortir outre mesure le rôle de la république et la personnalité de Dandolo. Cependant je n’ai jamais nié un instant que Venise ait été favorable au changement de direction de la croisade, ni que le doge y ait mis la main; je ne diffère en réalité de M. Streit que sur deux points très-faciles à circonscrire. i La mesure dans laquelle Venise, représentée par Dandolo, a influé sur le détournement de la croisade — j’ai dit qu’elle y avait pris part, M. Streit veut qu’elle l’ait seule dirigé. » spondit : Putavitne advena ille, solo nomine imperator, filiam habere uxo-» rem, ex utraque parte ex imperatoria stirpe editam, cui etiam Orientale » et Occidentale imperium debetur jure parentum? Post paululum subridens » ait: Verum, si me imperatorem Romanum, dominum suum, velit recogno-» scere, mittam haeredem imperii illi in uxorem. Nuntiis ei respondentibus » se domini sui voluntatem nescire, res est indutiata », {Chron. anon. Laudun., d. le Ree. des hist. de la Fr., t. XVIII, p. 714). On sait que ces ambassadeurs étaient probablement Gérard de Walcourt, et Thomas, abbé de Liessies. son frère, dont l’anonyme de Laon parait rapporter les dires : voir Exuvias C. P. praef. pp./ xxvij et clxiv. (1) A ces textes j'ajouterai les suivants, dont je ne m’étais pas servi : « In diebus ejus civitas Constantinopolitana Theutonibus capta est», (Gesta Trevirorum, édit. Wyttenbach, p. 294). « Teutonici, capta C. P. regem sibi, Flandriae comitem, Balduinum con-» stiluerunt ». (Ann. Stad., d. Pertz Monum. Gemi., XVI, p. 354). « Unde factum est stolium maximum apud Venetias, in quo idem Ale-» xius perrexit de ducis Philippi auxilio ». (Anon. Cajetanus d. les Exuviae C. P., t. I, p. 153). 49 2 GIORNALE LIGUSTICO 2° L’ÉPOOUE OÙ A COMMENCÉ À SE FAIRE SENTIR l’iN- fluence vénitienne: j'ai parlé des conférences de Zara, M. Streit remonte au-delà même du pacte de nolis. Revenons successivement à ces deux points de divergence. Sur le premier, je ne puis que répéter ce que j’ai dit plus haut de la préoccupation de M. Streit à vouloir imposer un aclor renivi unique au changement de direction de la cioi-sade : il y en a eu autant qu’il y avait d’intérêts engages dans la question, plus peut-être que je n’en ai moi-même mis en scène. Et à grandir ainsi inconsidérément la personnalité de Dandolo, n'arrivera-t-on pas plutôt à nuire à sa gloire ? si surtout il vient à être établi quelque jour, qu’en somme le rôle joué par la répulique en cette affaire a ete plus odieux encore qu’habile, et qu’en attaquant l’empire grec, le doge, loin de garder l’article de son serment sur lequel M. Streit revient avec tant d’insistance, a trahi 1 honneur et l inté)et de sa patrie (i), comme il aurait trahi l’honneur et 1 intérêt de la chrétienté entière par une entente avec 1 Égypte. J’aime mieux limiter l’action de Dandolo a la seconde et à la troisième partie de la croisade, alors qu il avait acquis, sur les Latins, par l’autorité de son âge, de sa parole et de ses conseils, une influence que je n’ai jamais mise en doute. Dans ces limites, je ne demande pas mieux que de m’incliner devant une opinion dont je serai toujours le dernier à contester la valeur, celle de M. le docteur Thomas. Quant à l’époque où Venise commença à vouloir modifier, aux dépens de l’empire grec, le plan d’innocent III, époque que M. Streit veut placer avant la conclusion du pacte de nolis, on se trouve, si l’on adopte cette dernieie hypothèse, en face du dilemme suivant : (i) « Honorem autem et prof cium V enteiarum consiliabimus, tractabi-» mus, et operabimus bona fide, sine fraude », (Capit. Henrici Danduli, d. Y Arch. stor. itat., t. IX, p. 327). giornale ligustico 4 93 Ou Venise ne songeait alors qu’à une simple révolution de palais à provoquer à Constantinople; Ou elle méditait déjà la conquête et le partage de l’empire. Dans le premier cas, nous sommes ramenés à rapprocher encoie une fois la mesquinerie du but poursivi — le recouvrement d’une créance de deux cent dix-huit mille francs — de la grandeur des moyens mis en œuvre et de la gravité des îisques courus pour y atteindre. N’était-il pas bien plus simple pour Venise de s’entendre avec Alexis III, qui lui dépêchait des ambassadeurs en 1202 (1)? et n’est-ce pas ce qu’elle était en train de faire, un peu plus tard, par l’envoi .1 Constantinople de Pietro Michiel (2) — au moment où, précipités par Boniface, les événements ne laissèrent plus à la république la faculté de se soustraire à des difficultés qu’elle aurait dû prévoir ? Dans le second cas, celui d’une conquête méditée par Venise, en dehors de toute pression ou de tout concours venu de 1 Allemagne, nous avons la preuve manifeste que jamais un gouvernement aussi prudent n’a pu songer à commettre une semblable folie: c’est qu’une fois la chiite de l’empire consommée, Venise s’est trouvée prise au dépourvu. Elle a dû, d abord, décliner l’honneur de voir le doge ceindre la couronne des Césars: puis ne sachant que faire de possessions immenses qu’elle ne pouvait, ni s’annexer réellement, ni conserver avec sécurité, elle en a abandonné une partie, échangé une autre, et a fini par se borner à l’établissement de postes insulaires, dont elle a confié l’occupation et la garde à une sorte de féodalité marchande, qu’il lui a fallu, en dehors des lois mêmes qui présidaient à sa vie politique, (1) Zorzi Dolfin, f. 76 (d. Thomas, Ueber die h. Veti. Chr., d. les Bayer. Akad. Sitiungsber., 1864, t. II). (2) Voir plus haut. 494 GIORNALE LIGUSTICO improviser dans son sein — tandis qu’à Constantinople, au cœur même de son commerce du Levant, elle a dû se contenter d’un monopole fictif, bientôt battu en brèche et finalement partagé (comme sous la domination grecque) par ses rivaux de Pise et de Gênes. Enfin, dussé-je même renoncer à ces objections, et, mettant de côté le dilemme, dans lequel je viens de chercher à enfermer M. Streit, laisser à Venise toute la responsabilité directe du projet contre l’empire d’Orient, je ne pourrai m’empécher de rappeler, que, cinq ans auparavant, Venise, jusque-là alliée lidèle ou plutôt auxiliaire salariée de l’empire, ne s’était brouillée avec Alexis III que sous la pression de Henri VI„ et que, par conséquent, il conviendrait — même dans ces données extrêmes — de faire remonter à la politique allemande la responsabilité indirecte des événements de 1204. Si maintenant, revenant sur toute la polémique que je viens d’exposer; je cherche à dresser le bilan des résultats pratiques qu’elle peut revendiquer, je constaterai qu’il doit en ressortir, d’abord une conclusion générale, que M. Hanotaux a bien formulée dans le compte rendu très-sage qu’il vient de faire du travail de M. Streit (1): c’est que le changement de direction de la quatrième croisade n’est pas dû a une seule et unique influence, s’exerçant isolément, mais a la résultante de plusieurs forces, représentant les intérêts divers qui se trouvèrent en jeu dans les événements de 1202-120]. Venise, a cause des nécessités de son commerce, Philippe de Souabe, par politique traditionnelle, Boniface en raison des prétentions des Montferrat en Orient, le clergé latin (sinon Innocent III personnellement), leurré de l’espérance illusoire d une union entie les deux Églises, peut-être enfin Philippe-Auguste, dont (1) Revue critique, 1877, t. I, pp. 318-319 ,(n° du 18 mai). GIORNALE LIGUSTICO 495 le rôle demanderait à être étudié de plus près (i), doivent garder chacun leur place distincte dans ce grand conflit d’ambitions — la théorie de Y accident étant, bien entendu, mise hors de cause. De faits acquis d’une façon indiscutable, il y en a peu, je dois le dire, et deux seulement me paraissent démontrés sans espoir de revanche: c’est d’abord la partialité de Villehardouin , et, en second lieu, l’irresponsabilité d’innocent III et l’ingérence de Philippe de Souabe dans le détournement de la croisade. Les autres points des débats — direction exercée par Boniface au nom du roi des Romains — rôle exclusif de Venise et de Dandolo dans les événements de 1202 — entente avec l’Égypte — demanderaient, avant d’être admis définitivement ou rejetés sans appel, à être abordés, examinés et discutés encore une fois. Mais comment? tous les textes connus ont été passés en revue; construire, à l’aide d’inductions nouvelles, de nouvelles hypothèses? L’exemple de Hopf, à qui sa (1) Sur ce rôle il faut lire le passage suivant de Roger de Hoveden: » Eodem anno (1200), Margaritus, dux piratarum, quem Henricus Ροή manorum imperator excæcari fecerat, venit Parisius ad Philippum regem » Franciæ, et ob tulit ei quod, si ipse consilio suo adquiesceret, faceret » eum imperatorem Romanorum, vel imperatorem Constantinopolita-» rum , utrum si eligeret. Cui rex Franciæ facilem prabens assensum, præ-» paravit itineri suo necessaria, in equis, et armis, et curribus et supel-II lectilibus. Et Margaritus, a rege Franciæ recedens, ut præpararet pro-» missa, mandavit per universos portus suæ dominationis, quod omnes » galeæ suæ convenirent apud Brundusium in occursum ejus: sed cum » ipse Romam veniret, a quodam serviente suo, quem ipse male tracta-» verat, interfectus est. Et tali casu interveniente, rex Franciæ a desiderio » suo fraudatus est. » (Rog. de Hov., éd. Stubbs, t. IV, pp. 121-122.) Cf. Streit, p. 25, et Revue des questions historiques, XVII, p. 348, η. η, et XVIII, p. 20, η. 2. Richard Cœur-de-Lion avait aussi pensé à cette conquête (Ernoul, p. 133). 49 6 GIORNALE LIGUSTICO compétence hors ligne sur ces matières n’a pas évité la chiite posthume que l’on sait, n’est point fait pour y encourager. Est-ce à dire qu’il faille renoncer désormais à traiter ces questions intéressantes, et se contenter des grandes lignes historiques que nous offrent, sur la matière, les essais à] l’usage des gens du monde et les manuels du baccalauréat? Non évidemment, mais il faut se reporter aux conditions particulières qu’offrent à ceux qui veulent s’y livrer les études relatives aux croisades. Placées, en effet, à égale distance des temps obscurs du premier Moyen Age et de la période moderne, les croisades passent alternativement, et comme au hasard des faits, de la stérilité des âges antérieurs à la richesse des époques voisines de nous, et nécessitent 1’ emploi intermittent des procédés spéciaux à l’histoire, soit des premiers , soit des secondes. Elles offrent de plus cette difficulté, qu’appartenant à la fois, mais indirectement, aux annales respectives de tous les pays divers qui y ont pris part, elles ne présentent presque jamais à l’historien, qui veut en entreprendre l’étude, l’aide qu’il trouverait, pour l’examen de faits purement nationaux, dans les travaux antérieurs des érudits de chacun de ces pays, et le forcent au contraire à aborder directement — et non sans passer à chaque instant d’un peuple et souvent d’une langue à une autre — la compilation et la critique des matériaux originaux qui lui sont nécessaires. Ces difficulté^ ont écarté plus d’un travailleur sérieux: on se contentait en France, et l’on se contente encore aujourd’hui de Michaud, l’un des livres d’histoire les plus médiocres qu’ait jamais enfantés notre littérature. Les travaux de recherche, d’examen et de classement des manuscrits relatifs aux croisades, aussi bien que la bibliographie et la critique des sources imprimées, sont encore à faire presque entièrement; les chartes sont perdues dans des re- GIORNALE LIGUSTICO 497 cueils où elles gisent ignorées et le plus souvent mal datées; les itinéraires des princes chrétiens et arabes qui ont pris part aux événements ne sont pas établis. Jusqu’à ce que toutes ces élaborations préliminaires soient terminées ou du moins suffisamment avancées, toute étude de longue haleine, sortant de limites chronologiques très-étroites, ne pourra être utilement abordée, et il faudra se contenter de suivre avec modestie et persévérance l’œuvre ingrate de publication des textes, à laquelle ont su se borner des érudits aussi éminents que Du Cange ou Martène. Si maintenant des croisades en général je passe à la quatrième en particulier, je trouve que nous ne possédons encore qu’une faible partie des matériaux dont nous devrions disposer (i): Venise, qui nous fait assister a l’aurore d’une véritable renaissance historique, dont Γ Archivio storico veneto est l’organe autorisé, n’a pas encore pris la parole dans la question. Qui dit qu’elle ne tirera point de ses archives publiques ou privées, de nouveaux documents, aussi importants que la charte de Ljubic? Les chroniques vénitiennes commencent à peine à être soumises à une critique intelligente: il n’y a que quelques mois, qu’étudiant les sources d’André Dandolo, M. Simonsfeld a découvert que tous les passages relatifs à la quatrième croisade, contenus dans ce chroniqueur, devaient être reportés à Paulin de Pouzzoles (2), auteur plus ancien. Parmi les Arabes, Abu Schâmah viendra contrôler Abul-féda, à qui l’on peut reprocher d’être encore, pour les affaires musulmanes de cette époque, le testis unus, testis nullus du proverbe. (1) Voir Exuvia C. P. præf., pp. xxiij-xxxv. (2) H. Simonsfeld, Andreas Dandolo und seine Gescbicbtsiuerke (Mün-chen, 1876, in-8»), pp. 115-120. 498 GIORNALE LIGUSTICO Avec des matériaux plus nombreux et meilleurs, on pourra alors refaire, avec plus d’autorité, le travail chronologique de M. Klimke, et aborder avec plus de hardiesse, des problèmes qu’une différence de mois, et souvent de jour, peut faire résoudre tantôt par la négative et tantôt par l’affirmative. Je sais bien que, dans les questions qui, comme celle du changement de direction de la IVe croisade, ont eu lemalheur d’être traitées, dès le principe et prématurément, d’une façon trop passionée, l’attitude que chacun a été forcé de prendre dans la discussion, rend plus tard l’impartialité bien difficile, et que — publiât-on cent textes nouveaux — il pourra se faire qu’aucun ne soit trouvé décisif, tant est commode le procédé qui consiste à mettre en doute l’authenticité d’une pièce gênante, à changer une souscription qui embarrasse, à diminuer la valeur d’un témoignage, en l’accusant de partialité, et rejetant, par exemple, tout texte génois hostile à Venise, et tout texte vénitien défavorable à Gênes. Cependant il est certain que pour se battre, il faut des munitions, et qu’au point où en sont parvenus les débats, les arguments font défaut. En ce qui me concerne, j’attendrai, pour rentrer dans la discussion, qu’il se produise d’autres documents, et je me garderai de revenir, encore une fois, tourner dans un cercle qui me semble, pour le moment, sans issue. giornale ligustico 499 BIBLIOGRAFIA Il Conte Riant ci ha comunicato le seguenti notizie di mss. conservati nella Biblioteca Nazionale di Parigi (parte francese) : N.0 9783 membran. Sec. XIV. Espitre du frère Tbelelofre bermite à homme de très grant magnificence Anthoyne (Adorno) noble Duc de Janues : De l’Eglise militante. Dell’ anno 1386. Discorso assai curioso sullo scisma d’Oriente con pitture allegoriche. N. N. 5640, 6117, 14681, Cartacei del Sec. XVI in 4.0 , Tutti tre esemplari contenenti la traduzione in francese del Viaggio del Vartema fatta da Jean Raconys. Della quale traduzione il lodato Conte indica un altro esemplare come segue : Ashburnam-Place, Fonds Barrois n.° 17: Varthema, traduit en français par Jean de Raconys; Cod. membr. Sec. XVI, 126 fogli in fol. con figure. Servono queste notizie di giunta alla Bibliografia che il Cav. Amat di San Filippo ha inserito nel suo dotto articolo; Della Vita e dei Viaggi di Ludovico da Varthema nel presente Giornale 1878 , pag. 44 e 60-73. Inoltre intorno all’esistenza in Genova d’una famiglia Vartema, di che parla 1’Amat, ivi, pag. 43-4, ci è grato aggiungere notizia del seguente documento comunicato dal nostro amico il signor Francesco Podestà. 1610 20 novembre. Nella nota dei bronzini dell’Acquedotto fuori della Città di Genova, fatta da Stefano Storace capo d’ opera nell’ anno predetto, ne sono descritti due esistenti nella villa del nobile Giovanni Maria Vertema. (Dall’Archivio Municipale, filza Pratiche pubbliche, anni 1601 a 15). Gescbicbte des Levantehandels in mittelalter (storia del commercio del Levante nel medio evo) del dott. Guglielmo Heyd: Stuttgard, Cotta, 1879; vol. I, pag. 604. 8.v0. Di questa insigne Opera del Bibliotecario di Stoccarda ci riserviamo a discorrere con qualche larghezza, quando sarà pubblicato il secondo e ultimo volume che è sotto i torchi. Per ora basti dire che essa è scritta da chi conosce pienamente i! soggetto trattato, e che è frutto di venti anni di studio. L’Autore ha qui esteso a tutto il mondo latino-germanico la storia del commercio che aveva già trattato per le sole Colonie covi- JOO GIORNALE LIGUSTICO marciali degli Italiani in Oriente nel medio evo, pubblicate in tedesco nel 1858-64, tradotte e ripubblicate in italiano a Venezia 1866-68. VARIETÀ Memorie inedite sulla Certosa di Pavia raccolte dagli antichi libri di quella abazia da un Matteo Valerio, che vi tenne ufficio di priore dal 1604 al 1645, ed ora pubblicate nell 'Archivio Storico Lombardo (1), c porgono alcune notizie artistiche non inutili alla nostra storia dell" arte. L’ erudito March. Giuseppe Campori raccogliendo con l’usata diligenza le notizie di Alberto Maffiolo da Carrara diceva come questo scultore abbia lavorato, per quell’ insigne monumento, il medaglione posto sopra la porta della sacristia vecchia ed il bassorilievo che si vede al di sopra del Lavatoio dei monaci, il quale rappresenta il Bacio di Giuda e 1’ Orazione nell’Orto (2). Ora noi leggiamo questa memoria: « M. Alberto da Carrara 1’ anno 1490 scolpì una testa nel marmo di Carrara del Duca Ga-leazo et fu posta sopra la porta della sacrestia a sinistra. Il medesimo maestro Alberto scolpì il lavatoio di marmo nella sacrestia a man destra dove é una Annonciata et molte altre figure, pretio L. 1294.13.3 » Donde si deduce che se in quanto alla testa può intendersi tutt’ una cosa col medaglione, non potrà dirsi altrettanto del lavatoio essendo diverse le storie scolpitevi, ed il prezzo di lire 1463 maggiore del qui enunciato. Il Soprani ci aveva narrato che Andrea ed Ottavio Semini pittori genovesi erano stati molto tempo a Milano dove lasciarono non poche opere dei loro pennelli. Ora veniamo a conoscere che furono anche alla Certosa e concorsero al suo adornamento. La memoria è come segue : « Andrea et Ottavio Semini pitori genovesi 1’ anno 15 66 finirono il Cenacolo in Refetorio, quale era già disegnato et fatto il Dio Padre di sopra, ma non si nomina chi Γ avesse incominciato, per scuti 125. — Hanno fatto anco dieci quadri a oglio, et diverse figure in chiesa, ma non nominano le figure precise ». Ed ecco per ultimo due quadri di Gio. Batta Poggi: « Giovanni Battista Poggi pitore genovese 1’ anno 1598 li quadri nella sacrestia nova cioè: Nostro Signore che porta la croce et la presa nel horto dove Malco ha tagliata 1’ orecchia ». (1) Anno VI (1879) p. 132. (2) Memorie biog. degli scultori ecc. nativi di Massa Carrara p. 155. Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO 5OI LETTERE INEDITE DI FULVIO ORSINI AL CARDINALE ALESSANDRO FARNESE (dal carteggio Farnesiano nell’Archivio di Stato in Parma) con annotazioni archeologiche PER A^ittorio Poggi Al Cardinal Farnese — a Caprarola. Ill.m0 et Rev.m0 S/ mio osser.m° Ragionando hieri col Car.le Sirleto dell’ andar mio a Grottaferrata per fare l’indice di quei libri greci, mi disse ch’io scrivesse a V. S. Ill.ma che havea tanto fatto con quei monaci, che finalmente s’erano contentati, et il Priore principalmente , vestirsi 1’ habito che portava il Car.le Bessarione, quale egli mi fece vedere in un ritratto, copiato già per il Manzolo da quello che è in Bologna in S.ta Maria in Monte, datoli dal Car.le Aquaviva a questo effetto. Et mi soggiunse poi che stava in forse d’ andare per tre 0 quattro giorni a Grottaierrata, et che lo dovesse scrivere a V. S. 111.™; il che credo m’habbia detto più tosto per vedere che V. S. 111.™ Γ ami, con mostrare che le piaccia questa andata, che perchè sia per andarvi con effetto. Il S.r Duca di Ferrara per disegno di Pirro mette insieme la sua libraria de’ scritti a mano, fatta de’ libri del Manutio, del Statio et d’altri; et sopra i pilastri che parteno l’armarii mette teste antiche de philosophi et letterati. Et il S.or Alessandro de’ Grandi ha cura di procurarle ; il quale n’ ha messe insieme già quante n’ erano in Roma, in luoghi donde si sono potute havere. Io sono stato richiesto Giorn. Ligustico, Anno V. 33 502 GIORNALE LIGUSTICO darli alcune che ne ho di philosophi et poeti, che sono forse le più rare che si vedano; ma ho risposto che non Γ ho comprate per rivenderle, et che io non ho cosa che non sia prima di V. S. Ill.ma che mia. Intendo che hanno animo, secondo il ricordo dello Stampa, chiederli il Lysia, havendo già hauto il Miltiade del Car.le Ferrara, antichità bellissima, col nome et epigramma greco et latino. Ho voluto avvertire V. S. Ill.ma, sebbene a chi me n’ ha parlato ho detto che V. S. Ill.ma lo tiene carissimo, et che ne comprarebbe Lei' di simili antichità, se ne trovasse. Con che humilissimamente bacio le mani di V. S. Ill.ma Da Roma a5 xi di settembre 1571. Di V. S. Ill.raa et R.raa humiliss.1"0 servitore Fulvio Orsino. L’ effigie di Lisia a cui si accenna in questa lettera è il famoso mezzo busto in marmo, di ottimo stile, già nel Museo Farnese, ora nel Nazionale di Napoli. Rappresenta 1’ oratore ateniese in età senile, il volto improntato di quel carattere ideale che è proprio delle opere greche dei buoni tempi, mentre l’identità del soggetto rappresentato è autenticata dall’iscrizione ΛΥΣΙΑΣ incisa sul petto. Fu edito nelle Imagines et elogia virorum illustrium ex bibliotheca Fulvii Ursini. Romae, M. D . LXX, Ant. Lafrerij formels (tv. 75), e riprodotto in quasi tutte le collezioni iconografiche, compreso la greca del Visconti, dove è disegnato con grande esattezza nella tv. XXVIII (n. 1 e 2) del 1 volume. Altri due ritratti di Lisia autenticati dal nome, ma inferiori a questo in linea d’ arte, son pervenuti a noi, uno dei quali conservasi nel Museo Capitolino di Roma. Quanto è al Milziade qui ricordato, consisteva in un erma scoperto sul Celio in Roma, ora perduto. Fu pubblicato dall’OrsinÌ nella tv. 11 dell’opera dianzi menzionata e al n. 92 della postuma divulgata dal Lefebure, 0 Fabro che dir si voglia, col titolo Joannis F abri Bambergensis, medici Romani, in imagines illustrium ex bibliotheca Fulvii Ursini commentarius, etc. GIORNALE LIGUSTICO 505 Antuerpiae, ex officina Pìantiniana, apud Jo. Moretum, 1606. I due epigrammi a cui si allude sono i seguenti : Qui Persas bello vicit Marathonis in arvis Civibus ingratis et patriâ interiit. Πάντες, Μιλτιάδη, ταλαρή'ία Ιργα ϊσασιν Πέρσαι, καί Μαραθ-ών σής άρεττ]ς τέμενος. Un altro erma di Milziade, di più nobile magistero, venne publicato daH’Orsini nella tv. 12 della più volte citata opera. Esso fu riprodotto dal Visconti alla tv. XIII, n. 1 della sua Iconografia Greca, e porta l’iscrizione ΜΙΛΤΙΑΔΗΣ || ΚΙΜΏΝΟΣ || ΑΘΗΝΑΙΟΣ in caratteri arcaici quadrati. Anche questo monumento é ora perduto. In opera di iconografia greca, la serie dei marmi Farnesiani, non ultima delle dovizie monumentali di quella immensa Collezione che ebbe la sua sede principale in Parma, finché D. Carlo di Borbone non la trasse seco quasi a trionfo nella capitale del nuovo suo regno di Napoli, era a gran pezza la più insigne fra quante ne ricordi la storia dell’ antichità figurata, vuoi per la copia dei soggetti rappresentati, vuoi pel pregio artistico dei monumenti, vuoi finalmente per la loro autenticità constatata nella maggior parte da iscrizioni. Oltre ai due menzionati di Lisia e di Milziade, ricorderò fra i più ragguardevoli ritratti greci di quella raccolta gli infrascritti : a) Testa d’Omero. Erma edito dal Fabro (Itnagin. illustr., ediz. 1606, pag. 46). b) Id., di Sofocle. Medaglione in marmo pubblicato da Fulvio Orsini, ossia dal Lafrérie (tv. 25), dal Fabro (n. 136), e dal Visconti (Icon. Gr., I, tv. IV, 3). c) Id., di Euripide. Erma pubblicato nell’edizione del Lafrérie, 27, e riprodotto dal Galle, 0 Galleo, nell’opera del Fabro (n. 60), e dal Visconti (ibid., tv. V, 3). d) Id., di Menandro, medaglione in marmo (Lafrérie, 33. Fabro, n. 90. Visconti, tv. VI, 3). e) Statua di Moschione edita dall’Orsini (Lafrérie 30) e dal Visconti (tv. VII, i). f) Busto di Licurgo (Visconti, tv. Vili, 3, 4). g) Testa di Zenone, erma (Lafrérie, 75. Fabro, n. 151. Visconti, tv. XVII, 5, 6). h) Id., di Socrate. Erma con sul fusto incise le parole riferite da 504 GIORNALE LIGUSTICO Platone nel Cratilo come pronunziate da Socrate tre giorni prima della sua morte (Visconti, id., I, p. 213). i) Busto di Cameade (Fabro, 42. Visconti, tv. XIX, 1, 2). k) Id., di Possidonio (Fabro, n. 107. Visconti, tv. XXIV, 1, 2). ì) Id., di Erodoto e Tucidide, erma bicipite già di Fulvio Orsini, edito nelle Imctg. ex biblioth. F. Ursini del Lafrérie. (Visconti, tv. XXVII, 1, 7). 111) Id., di Eucaride, publicato da Fulvio Orsini (ibid., 39) e dal Visconti (tv. XXXVII, 5). È per avventura superfluo rilevare come il Piiro, pel cui disegno, secondo scrive qui 1’ Orsini, il Duca di Ferrara mettava insieme la sua biblioteca dei manoscritti, sia il famigerato Pirro Ligorio le cui falsificazioni fecero dell’ epigrafia latina una stalla d’Augia appena purgata oggidì per le immani fatiche di quell’ Ercole che fu in questa materia il conte Bartolomeo Borghesi. Allo stesso — a Capraroìa. III."10 et R.mo S.or mio. Ho consignato a M.r Pasquino Guardarobba il libro di fr. Annio, che V. S. Ill.ma m’ordina che io le mandi per la lettera del 25, et due giorni sono feci consignare a M.r Lepido il Pompeio d’ oro, che m’ ha mandato il Cavalier Mo-cenigo. La qual medaglia, se bene per la sua rarità et qualità è stimata et è stata anco pagata 25 scuti d’ oro, non per questo a me pare che si debbia permutare con la testa d’un Antonino. Ma dirò bene che quando V. S. 111.™ si risolvesse privarsi d’ uno delli tre, del meno bello, cioè di quello che s’hebbe questi giorni dalli frati di S. Stefano (perchè li altri due hanno il petto antico, et sono più conservati), si potria trattare che oltre il Pompeio dovesse dare il Cavalier Mocenigo qualche altra cosa che fosse a gusto di V. S. Ill.ma per ricompensa dell’ Antonino. Con che facendo fine bacio humilissimamente le mani di V. S. Ill.ma Da Roma a’ xxvi di luglio 1574. Di V. S. Ill.ma et Rev.ma himiliss.'”0 scr.re Fulvio Orsino. GIORNALE LIGUSTICO SOS La moneta offerta dal cav. Mocenigo al cardinal Farnese in cambio d’ una testa in marmo d’Antonino Pio, era un esemplare dell’ insigne aureo di Sesto Pompeo, portante al diritto la testa nuda di Sesto Pompeo di profilo a destra entro una corona di quercia, colla leggenda UAG(nus) pivs IMP(eratór) iter(um) ; e al rovescio le teste nude affrontate di Pompeo Magno e di Gneo Pompeo figlio fra un lituo e un tripode, coll’iscrizione praef (ectus) clas(sìs) et orae MARiT(twai) ex s (enatus) consulto) (H. Cohen, Descr. gen. des monti, de la Republ., p. 263, n. >7, tv. XXXIV , Pompeja, 10. Descr. hist. des monn. itnp., I, p. 20). Il conio di questa moneta, battuta probabilmente in Sicilia, accoppia al pregio d’ una grande rarità quello d’ uno stupendo artificio. Inesatta per altro è l’asserzione del Cohen, il quale addita in esso l’unico monumento di tutta 1’ antichità che ci abbia trasmesse le sembianze di Gneo e Sesto Pompei. Di quest’ultimo, infatti, si possono citare i seguenti ritratti: a) Intaglio in niccolo della celebre collezione di Cristiano Dehn ereditata dai Dolce di Roma. Porta inciso nel campo il caratteristico attributo della prora di nave significativa del dominio del Mediterraneo tenuto da S. Pompeo nel periodo dal 716 al 719 di Roma (Fr. Dolce, Dtscriζ. del Museo di Crisi. Dehn, X, 52). l·) Id. in corniola delle Indie coll’ iscrizione ΑΓ ΑΘΑΝΓ6ΛΟΥ, nel Museo di Berlino. Questa superba gemma, trovata colla sua antica legatura in oro in un sepolcro fuori di Roma nel 1726, fu dapprima del celebre antiquario romano Marcantonio Sabatini, dopo la morte del quale passò pel prezzo di 200 scudi al Borioni, che la pubblicò nei Collectanea antiquitatum Romanarum (tv. 68), poi alla Duchessa Mugnano Luneville di Napoli, presso cui trovavasi quando venne riprodotta dall’abate Bracci nei Commentaria de antiquis scalptoribus qui sua nomina incideruut in gemmis (tv. V). In seguito l’ebbe il pittore Harper di Berlino, e più tardi Filippo Hackert, da cui 1’ acquistò il R. Museo. Reca meraviglia il vedere come in un’ opera per tanti rispetti pregevolissima, quale è il Dictionnaire numismatique di A. Boutkowski (Leipzig, in corso di stampa), si continui oggi a comprendere un Agatangelo nel novero degli artisti litoglifi contemporanei di Pompeo il Grande e dei suoi figli (col. 106, sg.), e ciò sulla fede di quest’unica pietra, quando fin dai tempi del A^enuti illustratore della citata raccolta del Borioni già si riteneva che il nome stesso fosse un’ aggiunta di mano moderna allo scopo di accrescerne il prezzo (Collect., p. 48); alla quale opinione aderiva anche il commendatore Vettori nella sua Dissertatio glyptographica (p. 5). Il dubbio che il eh. Boutkowski deduce dall’ ortografia dell’ iscrizione 506 GIORNALE LIGUSTICO già era stato formulato in termini identici del Winckelmann (Description des pierres gravées de la Collect. du Bar. de Stosch, cl. IV, 186); riguardo al quale mal s appone 1 illustre numismatico polacco là dove asserisce 1 intaglio in discorso essere stato attribuito nel secolo scorso a Pompeo Magno, insino a tanto che il Winckelmann non vi riconobbe il ritratto di Sesto Pompeo : quando sta in fatto che fu per appunto il Winckelmann che, contrariamente all opinione più accreditata e in aperta opposizione alla testimonianza delle medaglie, pretese ravvisare in esso la fisionomia di Pompeo Magno (op. cit., ibid.): di che venne a ragione redarguito dal Bracci (op. cit., ibid.), e dal Visconti (Esposidelle impr. di ant. gemme racc. per uso di D. Ag. Chigi, n. 545); sebbene egli non si mostrò sempre della stessa opinione intorno a questa gemma, avendo altrove dato alla medesima una diversa attribuzione (Storia dell'Arte, II, p. 254, 259). c) Id., in corniola già del Museo Barberini (Fr. Dolce, op. cit., X, 41). d) Cammeo in sardonica a due strati nel Gabinetto della Biblioteca nazionale di Parigi, secondo 1’ attribuzione del Du Mersan (Chabouillet, Catalogue gen. et rais, des camées et des pierr. gr. de la Bill. Imp., n. 184, p. 27). e) Statua eroica in marmo descritta dal Visconti (Opere varie, IV, P> 476). f) ld., dello scultore Ofelione figlio di Aristonida, nel Museo del Louvre (n. 150) (1). (1) Una altra gemma col ritratto di Sesto Pompeo era nel Museo di Firenze (Gori, Museum Florentinum,, II, tv. I, 4); e due paste di vetro colla stessa effigie facevano parte della raccolta del Barone di Stosch (Winckelmann, Cabin. Stosch, cl. IV, 190, 191). Il eh. Boutkowski nel prelodato suo Dictionnaire Numismatique di cui è oggi edito il i.° volume, tessendo il catalogo delle opere del litoglifo Epitincano (p. 108), cita erroneamente una gemma di questo artista colla testa di Sesto Pompeo già nel Museo Strozzi a Roma. La pietra citata dal Boutkowski non esibisce altrimenti la testa di S. Pompeo, bensì quella giovanile di Germanico nipote e figlio adottivo di Tiberio, siccome venne riconosciuto fin dai tempi dello Stosch , il quale la pubblicò nelle sue Gemmae antiquae caelatae scalptorum nominibus insignitae (tv# XXXII) sotto tale attribuzione accettata pure dal Gori (Mus. Flor., II, tv. IX, 1) nonché dal Winckelmann (Cab. Stosch, cl. IV, 230), e confermata poi dal Visconti (Impronte Chigi, 47$); pogniamo che Fulvio Orsini che ne fu un tempo il possessore, P avesse dapprima edita pel ritratto di Marcello (Fabri, Imag., 87) , attribuzione risuscitata più tardi capricciosamente dal Bracci (tv. LXX). Questa pietra è precisamente la stessa che figura al capoverso c) del catalogo del Boutkowski; in altri termini, le due gemme riportate dal Boutkowski ai capoversi a) e c) del suo catalogo non sono in realtà che una sola. Il catalogo poi è incompleto, mancandovi 1’ ammirabile intaglio in ametista colla testa di Pane oggidì nel Gabinetto del signor Luigi Fould in Parigi (Chabouillet, Calai., 1797). / GIORNALE LIGUSTICO 507 Così di Gneo Pompeo figlio conosciamo l’effigie nel celebre intaglio in aquamarina coll’ epigrafe ΑΓΑΘΟΠΟΚ ΕΠΟΙΕΙ già nel Museo di Firenze (1); nè sfuggì all’ occhio competentissimo del Visconti come una testa marmorea, al naturale, scoperta in Roma sullo scorcio del secolo scorso, e da lui pel primo descritta ed illustrata (op. cit., I, p, 180) offrisse tale rassomiglianza colle sagome di Gneo, quali ci vengono esibite da questa gemma e dal nummo in discorso, da autorizzare l’attribuzione della stessa al primogenito del Gran Pompeo. Vero è tuttavia che le gemme e i marmi ora citati non potevano ricevere una attribuzione iconografica se non col confronto dell’aureo di S. Pompeo; oltreché ai tempi dell’ Orsini nè le une nè gli altri erano peranche conosciuti : di che tanto maggior pregio dovea 1’ aureo stesso acquistare agli occhi del romano antiquario, in quanto che questi, oltre al coltivar con passione e trattare con non volgare dottrina gli studi numismatici, proseguiva, come è ben noto, di particolare predilezione quella appunto fra le discipline archeologiche la quale ha per oggetto di travagliarsi intorno alla notizia ed alla investigazione dei ritratti degli antichi uomini illustri, disciplina che dietro' iniziativa di Gio. Angelo Canini e per 1 autorità di E. Q.. Visconti, ricevette poi la denominazione universalmente accettata di Iconografia antica, e della quale l’Orsini, per bocca dello stesso ^i sconti, è oggi a buon dritto e senza contrasto proclamato padre. Sembra che il cambio proposto dal Mocenigo siasi poi effettuato, sebbene non consti delle ulteriori condizioni a cui accenna in genere 1 Orsini: imperocché l’aureo di Sesto Pompeo iacea parte più tardi del medagliere del Museo Farnesiano, e come tale figura nella tv. I, n. 1, dei Cesari in oro del P. Pedrusi, onde si può ragionevolmente argomentare esser quello lo stesso esemplare che esiste oggi nel Museo Nazionale di Napoli, registrato dal Sen. Fiorelli al n. 3134 del Catalogo delle monete romane del medesimo. L’ apprezzamento di tal nummo indicato da Fulvio Orsini m 25 scudi d’ oro può somministrare un utile dato per la conoscenza della rarita e del valore commerciale delle antiche monete in tempi e luoghi diversi. La stessa moneta, infatti, veniva valutata ai tempi del Mionnet (De la (,) Fu dapprima presso il Sabatini in Roma, d’onde passò nella Collezione dell'abate Andrea Andreini in Firenze e da questo nel Museo Granducale. Pubblicato dal Maffei (Gemm. ant., tv. I, n. 6), dallo Steseli (tv. V), dal Cori (Mus. Flor., II, tv. 1,2), dal Bracci (tv. VII) e da altri. Cf. Lippert, Dactylioth. univers., II, 516; De Murr, Bibliotheca Glyptographica , p. 43, Raspe, Catalogue de Tassie, 10772 ; Winckelmann, Cab. Stosch ,c\. IV, 189; Visconti, op. varie, II, p. 121. 303; T. Bieliler, Ueber Gemminkundl, Wicn 1S60, p. 48. 5o8 GIORNALE LIGUSTICO rar. et du prix des mëd. rom., I, p. 87) lire 400. Nel 1843, il Riccio (Le mou. delle ant. fam. di Roma, p. 183, n. 18, 19), al quale però ηπο erasi presentata occasione di trattar del suo acquisto, la estimava in Napoli piastre 30 = 1. 153· Più recentemente, il Cohen con criteri desunt dalle vendite pubbliche effettuatesi ai suoi giorni in Parigi le assegnò il prezzo di 1. 600 (Descr. gen. des monn. de la Rep., p. 263, n. 27. Descr. hist. des violili, imp., I, p. 20): ma questa stima, trattandosi d’un esemplare in buon stato di conservazione, è oggi ritenuta insufficiente anche dal Boutkowski, il quale nella citata sua opera in corso di stampa (Dictionn. numism., p. 99, n. 238) la porta a 1. 800. Si può aggiungere in proposito che a Londra nella vendita della collezione Pembroke (1818), un esemplare di detta medaglia venne pagato lire sterline 33, e in quella della collezione del Duca di Devonshire (1815) un altro esemplare della stessa raggiunse l’egregio prezzo di lire sterline 40 e scellini 19 = 1. 1025. Allo stesso. lll.mo et R.mo S.re Aniello Turtolo fu mio grande amico., mentre visse, et poco innanzi che morisse questi giorni m’ havea promesso la medaglia Agrigentina, quale poi Gioseppe suo fratello, continuando nell’amicitia, et havendo ricevuto piacere da me, me l’ha donata, siccome havrebbe fatto ancora della ivlia et messallina, se non fosse stato prevenuto dal Thesoriere; et io 1’ ho mandata a V. S. Ill.ma come medaglia rara et bella, per supplicarla che mi favorisca riceverla da me, et aggion-gerla all’ altre dello Studio suo. Quanto alle medaglie d’ argento et di bronzo che sono restate al detto Gioseppe, io non ne ho ancora hauto nota, perchè dovendo fra poco lui essere in Roma, le porterà seco, et all’ hora io vederò quello che vi sia per V. S. 111.™, la quale serà padrona del tutto. Ero stato richiesto da quest’ huomo di farli havere una lettera di raccomandatione da V. S. 111.”* all’ Arcivescovo de Napoli, ma io ho supplito questa volta col Car.le Caraffa, giornale ligustico 509 per non dare questa noja a V. S. Ill.ma Alla quale humilis-simamente bacio le mani. Da Roma a’ xix di luglio 1576. Di V. S. Ill.ma et R.raa Obligatis.”'0 ser.re Fulvio Orsino. Non consta quale fra 161 monete di Agrigento oggidì esistenti nel Museo Nazionale di Napoli (non tenuto conto della collezione Santangelo di recente acquisto), delle quali una parte appunto proviene dal Museo Farnese (Fiorelli, Catal. delle mon. gr., I, 3906-4066), sia quella di cui parla l’Orsini come derivatagli dall’amico Aniello Turtolo. Parimenti è ignoto a quali medaglie di Giulia e di Messalina egli accenni più sotto. Non sarà tuttavia fuor di proposito ricordare come la Giulia di Tito fosse rappresentata nel medagliere Farnese dal denario argenteo col rovescio di Venere Vincitrice (Pedrusi, I Ces. in arg., II, tv. XXII, 9), dal gran bronzo, restituzione di Domiziano, col rovescio del carpentum (Id. I Ces. in met. gr., VI, tv. XVII, 5), dai bronzi mezzani coi rovesci di Cerere, di Vesta, e della testa di Tito, quest’ultimo coloniale greco (P. Piovéne, I Ces. in met. e picc., IX, 16, 17, 18). Così di Messalina, della quale non esistono coni romani, sappiamo dal Pedrusi (Vili, tv. XVIII, 1) esservi stato in quel medagliere un piccolo bronzo col rovescio fregiato della testa di Claudio, di colonia greca incerta, probabilmente Corinto. Allo stesso — a Caprarola. Ili"'0 et R.mo S.r mio col.”'01 È molto tempo che io hebbi dall’ Abbate Pucci un diaspro ligato in oro, dove è intagliato il porto di Traiano. Et mi disse haverlo hauto dalla casa Salviati, che 1’ hebbe già dal Lascari. Èmmi hora capitato un altro diaspro simile a fatto, che fu del Maifeo, dove è intagliato il Circo Maximo, et sono venuto in openione che queste due memorie sieno fatte per Traiano Imperatore, quale restaurò 1’ uno et 1’ altro edificio. 510 GIORNALE LIGUSTICO L’ho dedicate al Studio di V. S. Ill.ma, et le mandarò a Ca-prarola se intanto mi commandarà che io faccia ligare questo del Circo, come è quello del Porto. Bacio humilmente la mano di V. S. Ill.ma della gratia che mi ha fatto dello strame et della rimessa per il cocchio, et la supplico, che, se vero è che questa rimessa mi possa esser tolta nel ritorno suo, si degni confirmarmela, con darne ordine che non mi sia levata; overo, concedermi un poco di sito et di materia, che ne possa fare un’ altra a mio costo. Perciochè non saprei dove più voltarmi, havendo cercato con ogni diligenza tutto questo vicinato. Et il pigliare casa fuori, sarìa scommodo a V. S. Ill.ma, et spesa a me. Però io la supplico di questo, come di gratia che sia per farmi, consistendo in essa quasi il tutto della sanità mia. La qual gratia devo ragionevolmente sperare da V. S. Ill.ma in questa casa, nella quale ho servito tanti anni, et ho animo, quando a Dio piacerà, lasciare qualche memoria ancora della servitù mia. N. S.re Dio conservi V. S. Ill.ma felicissimamente. Da Roma a’ xvn di luglio 1580. Di V. S. Ill.ma et R.ma obligatis."'0 scr.re Fulvio Orsino. La rappresentazione dei porti di mare non è subbietto straniero all’antica iconologia gliptica ; in prova di che mi limito a citare la celebre corniola Ficoroniana (Fr. Dolce, DD , 21) con porto munito di grandioso antemurale o faro che creder si voglia, e tre navigli, uno dei quali sul punto di imboccare il porto (1). Il diaspro di cui è cenno nella presente lettera offriva probabilmente una riproduzione del rovescio di note monete battute sotto il V e il VI consolato di Traiano, col tipo del porto interno d’Ostia costruito da questo imperatore in aggiunta all’ esterno di Claudio. Questo porto, o (1) "Nella sua descrizione delle gemme Stoschiane, il Winckelmann registra non meno di sette intagli con rappresentanze di porti di mare (cl. VI, 52-55, 57-59). giornale ligustico bacino, in cui veleggiano tre navi, è circondato da grandiosi fabbricati ad uso di magazzini: intorno corre la leggenda portvm traiani s c (Cohen, II, 365, 366). Più comune è sulle gemme la rappresentazione del circo e dei giuochi circensi. È nota la passione spinta alla frenesia (insania et furor circi) dei Romani per questi giuochi: e s’intende come coloro i quali avessero riportata qualche vittoria circense amassero fregiare di una rappresentazione relativa alla medesima il proprio anello segnatorio onde ostentare il ricordo d’un avvenimento che costituiva per essi un titolo ambitissimo di distinzione: senzachè, le rappresentanze circensi venivano adoperate eziandio in senso simbolico, come è provato da molti monumenti. La rappresentazione del Circo Massimo, in quanto restaurato da Traiano, ricorre nella serie numismatica imperiale, vuoi in forma di personificazione , cioè sotto la figura d’ uomo giacente con le mete sulle anche e appoggiato col gomito destro ad una colonna ; vuoi in forma architettonica, come sul rovescio di gran bronzo coniato sotto il V consolato di detto Imperatore (Cohen, II, 493, 494). La prospettiva del Circo Massimo su questo bronzo presenta all’ esterno e sul dinanzi un primo piano composto d’ una serie di dodici grandi arcate, a destra altra grande arcata sormontata da analoga quadriga di fronte; al secondo piano, di dietro e da ciascun lato, simile arcata sormontata da analoga quadriga di fronte e un tempio a quattro colonne sormontato da statua ; nell’ interno del circo, in mezzo, il grande obelisco, e da ciascun lato un gruppo di tre obelischi minori; a sinistra del grande obelisco un cavaliere, e a destra una piccola barriera che segna il termine delle corse. È plausibile congettura che il diaspro indicato da Fulvio Orsini come già appartenuto al Maffei (l’autore delle Gemmae antiquae) esibisse una analoga rappresentazione, se egli la credette riferibile appunto a Traiano: niuno ignorando, del resto, che le gemme non di rado riproducono più 0 meno liberamente e talvolta persino in modo servile i tipi delle medaglie, specialmente imperiali, contemporanee (cf. le mie Iscrizioni gemmarie, 2.1 serie, n. 52). Questo parallelismo fra le due serie numismatica e dattiliografica trova la sua ragione anche in ciò che tanto gli autori dei coni quanto gli artisti litoglifi attingevano spesso i loro soggetti da famosi archetipi di pittura, scultura e toreutica allora esistenti; di che riesce tanto più incomprensibile come altri (1) traesse argomento (1) Questo altri non è però l’Eckel, siccome erroneamente fu asserito dal Visconti (Impr. Chigi, 12). Nel passo da questi citato, Γ Eckel non ha punto sollevato dei dubbi sull’autenti- 512 GIORNALE LIGUSTICO contro la genuinità del celebre cammeo Farnesiano col nome dell’incisore Atenione e colle rappresentanze di Giove fulminante i Giganti dal-l’alto della quadriga, unicamente dal fatto che un consimile tipo ricorre in noto medaglione di Antonino Pio. Allo stesso — a Caprarola. IlLmo et R;"° Ss mio col”·0 Credo che V. S. Ill.ma haverà inteso, come Γ altro giorno morse il S.r Mario Gabriele, quale ha lasciato un numero grande di bellissime medaglie di bronzo, tre carnei singularissimi, et un’acqua marina grande, nella quale è intagliata la testa di Galba Imp. di mano eccellente. Ho voluto darne a V. S. Ill.ma questo poco di conto, acciochè la mi commandi se devo passare più oltre. La rimessa che V. S. 111.™1 s’ è degnata concedermi per il cocchio, ho inteso che nel ritorno suo a Roma, è per servire alle carrozze et cocchi di V. S. Ill.ma; per la qual causa ho fatto intanto fabricarne una nel sito che s’ è contentata darmi. Nella quale havendo messo certi legnami, mi son convenuto per il restante pagare al muratore scuti venticinque, delli quali, perchè lasciandosi da me questa rimessa per qualche accidente, resta in casa, m’è parso darne avviso a V. S. Ill.ma, caso che a lei piacesse sgravarmene per la causa suddetta, et per la molta spesa che ho fatto di presente nel cocchio et nelli cavalli. Il che sia detto a V. S. Ill.raa con cità del cammeo Farnese di Atenione; anzi lo menziona per rilevare la somiglianza che corre fra la composizione da esso esibita e quella d’ un cammeo del Gabinetto imperiale di Vienna da lui illustrato (Choix des pierr. gr. etc., tv. XIII), e dedurne che i due monumenti derivano da un comune archetipo ; donde crede potersi inferire che nel cammeo Vindoboncnsc siasi voluto esprimere il combattimento di Giove contro i Giganti, quale appunto ricorre nel cammeo Farnese e in congenere tipo d* un medaglione di Antonino Pio ; contuttoché la ristrettezza dello spazio non abbia permesso all’ artefice di rappresentare sul primo di detti monumenti i Giganti che figurano sugli altri due. GIORNALE LIGUSTICO quella humiltà et modestia che si conviene. N. S.re la conservi felicissimamente. Da Roma a’ ix di agosto 1580. Di V. S. 111."“ et R.raa obligatissm0 ser.” Fulvio Orsino. L’iconografia di Galba è più ricca in gemme che in marmi. Tralasciando i cammei, di cui ricordo il bellissimo in onice, riprodotto nel Trésor de numismatique et de glyptique (Icon, des emp. Rom., tv. XVII, 15), e altro oggi conservato nella Galleria di Firenze (Zannoni, Gali, di Fir., serie V, tv. XV, 5), c limitandomi ai soli intagli, poiché su questi è il discorso, se ne conoscono uno in ametista già del Museo Odescalchi (Galeotti, Mus. Odesc., I, tv. XXXI), uno in sardonica e due in corniola del Gabinetto di Francia (Chabouillet, 2086, 2088), altri due in corniola della Galleria di Firenze (Gori, Mus. Flor., I, tv. VI, 1. Zannoni, serie V, tv. Ili, 5; tv. XX, 4), uno superbo in zaffiro del Museo Ludovisiano del Principe di Piombino (Tris, de num. et de glypt., lcon. des emp. Rom., tv. XVIII, 1) etc. La diversità della materia osta però a che alcuno di questi e altri intagli a me noti possa identificarsi con quello in aquama-rina, o berillo che dirsi voglia, di cui è caso nella lettera dell’Orsini. A proposito di gemme iconografiche già possedute da Fulvio Orsini e oggi qua e là disperse, non sarà superfluo che io ricordi qui le seguenti: a) Intaglio in corniola in cui il Galleo e il Lefebure ingannati dal-P iscrizione ΥΛΛΟΥ, nome al genitivo del litoglifo Ilio (Hillus), credettero ravvisare l’effigie di Hylas, e che lo Stosch (Gemmae ant. caelatae sculptorum imaginibus insignitae. — Amst. 1724, tv. XXXIX) e il Bracci (tv. LXX1X) riprodussero coll’attribuzione, non meno infondata, di Cleopatra. Passò nella Dattilioteca del Duca di Orleans, e trovasi oggidì col rimanente di quella famosa raccolta all’ imperiale Ermitage di Pietroburgo. b) Testa senile coll’iscrizione MYKilNOC. Intaglio in diaspro, e-dito dallo Spon (Miscellanea eruditae antiquitatis. Lugd. Bat., 168/, p. 122), e riprodotto dallo Stosch (XLII) e dal Bracci (LXXXII). c) Id. di Bacco barbato in profilo, la chioma acconciata in guisa da formargli intorno al capo un quadruplice diadema. Int. in corniola pubblicato pel ritratto di Platone dal Galleo nelle sue Illustrium imagines ex GIORNALE LIGUSTICO antiquis marmoribus, numismaìibus et gemmis expressae, quae extanl Romae, maior pars apud Fulvium Ursinum. — Antuerpiae, 1598 (n. 112). d) Id., virile, imberbe, edita dall’Orsini (Fabro, op. cit.) pel ritratto di Antistene, e dal Visconti (Mus. Pio Clem., II, tv. XLI. Icon. Gr., I, tvv. XX, XXI) attribuita ad Aristotele. Int. in corniola passato poi nella Dattilioteca Ludovisiana del Principe di Piombino. e) Id., di profilo, d’uomo senza barba, di matura età, coll’iscrizione ΘΕΜΙΣΤ. Int. in corniola pubblicato dal Fabro (n. 141) come ritratto di Temistocle. f) Intaglio in plasma con due teste virili barbate che figurano nel-1’ opera del Fabro sotto i nomi di Magone Cartaginese e di Dionisio Uticense (Dolce, Descr. Mus. Dehn, T, 66). g) Id., in giacinto, rappresentante forse un attore tragico romano, a giudicarne dalla maschera che ha dinanzi, coronato d’ alloro. L’ Orsini vi ravvisò con poco fondamento 1’ effigie di Virgilio. h) Id., in corniola con testa senile imberbe, attribuita dall’Orsini (Lafrérie, 49. Fabro, 135) al legislatore Solone, a causa dell’iscrizione COAilNOC, nome dell’ incisore, dallo Stosch e dal Cori a Cicerone, dal Duca d’Orleans e dal Visconti con maggior probabilità a Mecenate. Passò colla Collezione Farnese nel Museo di Capodimonte. Una pasta di questo intaglio facea parte della raccolta Stoschiana (Winckelmann, Cabin. Stosch, cl. IV, 217). Altri intagli con simile effigie insignita della stessa leggenda conservansi in diverse collezioni (Stosch, LXI. Bracci, CV. Chabouillet, Catal., 2077). i) Testa di Germanico. Cammeo frammentato, coll’iscrizione ΕΠΙ-ΤΥΓΧΑ .... Edito dall’Orsini (Fabro, 87) col nome di Marcello. Acquistato poscia da Monsignor Leone Strozzi Conte di Forano pel prezzo di cento ducati d’oro di Spagna (Stosch, XXXII. Gori, II, tv. IX, 1. Bracci, LXX). k) Testa barbata attribuita dall’Orsini (Lafrérie, 23. Fabro, 68) ad Esiodo, sulla fede dell’ iscrizione HCIOAOC aggiuntavi probabilmente da mano moderna. Ha molta rassomiglianza coi lineamenti di Euripide, quali ci vengono esibiti da indubbi monumenti. I) Id., di Omero, colla leggenda OMHPOC (Lafrérie, 21). vi) Id., di Platone, coll’iscrizione ΠΛΑΤΏ.Ν (id., 53). n) Teste di Augusto e di Livia (Fabro, 39). 0) Testa di T. Quinzio Flaminino, colle lettere T · φ · Θ (id., 126). Una pasta di questo intaglio trovavasi nella raccolta Stoschiana (Winckelmann, cl. IV, 176). GIORNALE LIGUSTICO p) lesta barbata e coronata di fronde palustri, attribuita gratuitamente a I eocrito (Fabro, 142). Un intaglio in diaspro rosso con testa simile Iacea parte più tardi della Collezione di Cristiano Dehn passata poi ai Dolce di Roma (Dolce, T, 86). q) Ritratto di Alcibiade giovinetto (Fabro, 4), riprodotto dal Visconti nell’ Iconografia Greca (I, tv. XVI, 3), Allo stesso — a Caprarola.' III.™ et R."’° 5/ mio col.”10 Sono quattro giorni che è capiiato in Roma un mercante di gioje fiammingho, il quale ha un carneo col ritratto di Alessandro et Olympiade, antico indubitatamente et non ritocco. lit essendomi parso cosa dignissima che V. S. 111.”1 lo veda, 1’ ho inviato a Caprarola, non perchè gli lo proponga per comprarlo vedendo che la stima fattane qui da persone perite è molto lontana da quello che il padrone lo stima, ma solamente perchè V. S. 111.”1 lo veda, stimando io che doppo la tazza che havea Madama di fe : me :, che dicono fosse di Alessandro Magno, non si possa vedere cosa migliore di questa, essendo di maestro eccellentissimo et la pietra bellissima. È ben vero che dietro la testa, dove è quel ritratto di Giove Aminone del quale si faceva figliolo Alessandro, è un poco di rottura accomodata col smalto che si conosce benissimo; ma poco importa. Il prezzo che è stimato qui il carneo sono 500 scuti d’oro; il che ho voluto soggiùngere, caso che a V. S. 111."“ paresse parlare di compra in qualche modo. Con che humilissimamente le bacio le mani. Da Roma a’ 7 d’ottobre 1586. Di V. S. IU.m* et R.mi obligatiss."10 scr.fc Fulvio Orsino. 5i 6 GIORNALE LIGUSTICO I:i ordine alla esimia gemma del mercante fiammingo che l’Orsini in questa lettera descrive come rappresentante Alessandro Magno ed Olimpia, e giudica appena inferiore in merito alla Tazza Farnese, la prima supposizione che si affaccia come molto probabile è che trattisi del famoso cammeo Gonzaga, cosi detto per aver fatto parte del tesoro dei Duchi di Mantova, donde in seguito alla deplorabile dispersione di questo, passò nella raccolta della Regina Cristina di Svezia (i), e da questa al Museo di D. Livio Odescalchi duca di Sirmio e di Bracciano, poi alla Biblioteca Vaticana, e successivamente alla Collezione dell’ imperatrice Giuseppina moglie di Napoleone I, e al Gabinetto imperiale di Pietroburgo ove trovasi oggidì. Questo cammeo che per la mole non meno che per la nobiltà della materia, e più assai per P eccellenza della forma accoppiata al non plus ultra del magistero tecnico, va a buon dritto classificato fra i più preziosi cimeli della serie litoglittica, è inciso su sardonica orientale a tre strati, e rappresenta i busti coniugati di giovine guerriero col capo coperto di ricco elmo laureato, il petto e le spalle difese dall’egida, e di nobilissima figura muliebre, cinta il crine di corona d’alloro. Per lungo tempo fu creduto rappresentare le imagini di Alessandro Magno e di Olimpia, sotto la quale attribuzione venne pubblicato nel Romanum Museum del De La Chausse (I, sect. I, tv. i8, p. 15 sg.) e nel Museum Odescalcum del P. Niccolò Galeotti, dove si accenna in proposito all’antichità ed al-l’autorevolezza di siffatto criterio : Alexandrum Magnum et Olympiadem exhiberi in hoc pretiosissimo carneo iam ante me indicaverunt peritissimi antiquitatum aestimatores (Museum Odescalcum etc.,.Romae J/fi. I, tv. XV, p. 19). Un simile criterio, per quanto concerne le fisionomie, era invero assai debole. Si trovava che il ritratto virile inciso sul cammeo corrispondeva più o meno alla descrizione, peraltro affatto indeterminata, del volto di (x) Pulcherrimas Alexandri Magni, eiusque matris Olympiadis imagines carneus exquisitissimi artificii nobis exhibet. Ille hie est qui olim in celeberrima Mantuae Ducum ga^a cum plurimis propemodum antiquae et modernae magnificentiae monumentis asservabatur ; at illa superioribus antiis in miserabili urbis excidio direpta multorum deinde Principum cime lia exornavit; iste vero cameus clarissimae memoriae Reginae Christinae thesauro accessit, in quo etiam rarissima ex quovis metallo moduloque numismata, gemmae pretiosissimae, eximiae Graecorum , Romano-rumque sculptorum statuae, bibliotheca selectissima , plurimae celeberrimorum pictorum tabulae , ditissimaque peristromata omnium oculos mirum in modum etiam nunc alliciunt (Causei Mi-chaelis Angeli, Romanum Museum, siue Thesaurus eruditae antiquitatis. Romae, Ι74&> I» P* 1 > » sq·)· GIORNALE LIGnSTICO 517 Alessandro latta da Solino (1), e che alle linee del volto femminile convenivano a cappello le parole di Plutarco, che nella vita di Alessandro chiama Olimpia capricciosa ed arrogante. Più solido argomento potevasi bensì dedurre dal fatto che il volto virile porta sulla fronte quel ciuffo appunto di capelli onde veggiamo nell’ antica iconologia fregiate le teste di Giove e di Alessandro e di cui toccano, riguardo a quest’ ultimo, Plutarco (Pomp., 1) ed Eliano (Var. Hist., lib. XII, 14). Ma era sopratutto dagli accessori ornamentali e simbolici che si traevano induzioni a fine di avvalorare in qualche modo una attribuzione basata su ipotetiche analogie anzicl)ò sul riscontro dei monumenti figurati : e così nel serpe alato che corre sulla testiera dell’ elmo del giovine guerriero si volle scorgere un attributo significativo del Giove Libico onde Alessandro vantavasi figlio e che sotto quella forma era giaciuto nel talamo di Olimpia ; come nella testa barbata e con ali alle tempia posta ad ornamento sull’ omero del medesimo personaggio, si ravvisò per Io stesso motivo e con significato analogo 1’ effigie di Giove Aminone. 1-u soltanto verso la fine dello scorso secolo che, applicati all’esame di questo insigne monumento criteri desunti da una critica più razionale, lo Schlaeger (De num. Alex. Magni, p. 21) dimostrò che la testa virile dal medesimo esibita non offriva la menoma rassomiglianza coi ritratti di Alessandro quali appariscono sui suoi tetradrammi. Il cammeo Gonzaga ricevette finalmente una positiva determinazione iconografica per opera del Visconti ; il quale nelle sue Osservazioni sul catalogo degli antichi incisori in getnm (Op. varie, II, p. 128) espresse dapprima l’opinione che i due busti fossero le imagini di Tolomeo Evergete e di Berenice; ma più tardi, dietro ulteriori e più esatti riscontri colle medaglie, vi riconobbe in modo definitivo i ritratti di Tolomeo li Filadelfo e di Arsinoe I, e come tali li pubblicò nella Iconografia Greca (III, tv. XII, c. XVIII, § 4)· Anche la circostanza a cui accenna l’Orsini, d’un poco di rottura accomodata con smalto, da lui osservata nel cammeo, potrebbe fino ad un certo punto corroborare il presupposto che si trattasse nella sua lettera del cammeo Gonzaga; sapendosi che la parte inferiore di questo presenta, infatti, le tracce di commessure fra diverse pietre, a celare in parte le quali vennero apposte le collane ai ritratti. (1) Ecco il passo di Solino: Forma tupra hominem augustiore, cervice celsa, lactis oculis et illuitrihus ; malti ad gratiam rubeicentihat, reliquit corporii liniamentis non sine maieitatc j«fl-iam decorai (Polyhitt,, cap. XIV). Giorni. LiovsTico , Anno V. 54 5i8 GIORNALE LIGUSTICO Senonchè esaminando più attentamente il passo della lettera dell’ Orsini, là dove è detto che dietro la testa di Alessandro vedevasi un ritratto di Giove Aminone, è giuocoforza riconoscere che le parole dell’Orsini non sono punto applicabili al cammeo Gonzaga. Imperocché in questo trovasi bensì, come più sopra ho notato, una testa barbata con ali alle tempia, le quali altri preoccupato dall’ idea che la figura principale fosse di Alessandro, ha potuto per avventura scambiare colle corna, attributo caratteristico di Giove Ammone di cui Alessandro si faceva figliuolo: ma questa testa, chi ben guardi, non è altrimenti dietro quella del preteso Alessandro, ove la pone l’Orsini, ma bensì sulla spalla sinistra entro l’egida; oltreché essa non rappresenta Giove Ammone, ma piuttosto il-volto di Fobo, personificazione del Terrore, del quale parla Omero quando descrive Minerva in atto di adattarsi agli omeri divini la ricca di fiocchi egida orrenda Che il Terror d’ ogn’ intorno circondava (II. V . 986 sg.). La stessa considerazione che si oppone alla identificazione della gemma descritta dall’ Orsini col cammeo Gonzaga, ci conduce in pari tempo, e quasi a dire per mano, a ritrovarla invece nel congenere e non men famoso cammeo del Gabinetto imperiale di Vienna coi ritratti dello stesso Tolomeo Filadelfo e di Arsinoe II (Eckel, Choix des pierres gravées du Cabinet impérial des antiques. Vienne, ιη88, tv. X). Questo cammeo non inferiore all’altro fuorché per rispetto alla mole, ben giustifica col suo inestimabile pregio 1’ ammirazione onde mostrasi compreso a suo riguardo 1’ Orsini, e sì che questi avea pur sotto gli occhi la meravigliosa Tazza Farnese. Esibisce del pari un busto di giovine guerriero coniugato ad altro muliebre; l’elmo che copre la testa virile è insignito d’un serpe sulla testiera, d’un fulmine sul giugulare; nè manca la rottura nel posto indicato dall’Orsini, che anzi tutta la parte inferiore del cammeo, dall’ estremità del cimiero fino al collo della donna, è una poco abile restaurazione di moderno artefice : ma ciò che determina in modo positivo la sua identità con quello che forma argomento della lettera dell’Orsini, è che appunto sulla parte posteriore del-1’ elmo che discende sul collo, vale a dire sul coprinuca vedesi incisa la testa barbata e cornuta cui l’Orsini qualifica per effigie di Giove Ammone, in rapporto al presunto Alessandro, ma che in realtà altro non è che la testa di Pane con significazione analoga alla maschera di Fobo nell’ egida del cammeo Gonzaga, allusiva, cioè, al timor panico che dovea incutere ai nemici la vista dell’ elmo reale : del che non è lecito dubitare, giornale ligustico 5l9 chi osservi come la testa di cui è cenno sia munita di corna caprine, anziché di ariete quali soltanto convengono alle imagini di Giove Ammone, Anche i due personaggi effigiati sul cammeo dell’ imperiale Collezione vindobonense furono lungamente creduti Alessandro Magno ed Olimpia sua madre, per gli stessi motivi che diedero luogo a simile congettura riguardo ai busti del cammeo Gonzaga. Fu 1’Eckel che pel primo, sebbene in modo dubitativo, propose i nomi del secondo dei Tolomei e della consorte Arsinoe, facendo rilevare la leggera somiglianza éhe i ritratti incisi sulla gemma da lui pubblicata presentavano con quelli proferti dai bei medaglioni d’oro di Tolomeo Filadelfo e di Arsinoe (Choix des pierr. etc., p. 30). Siffatta attribuzione venne confermata poi dal Visconti, il quale riconobbe nel busto muliebre non 1’ Arsinoe I rappresentata sul cammeo Gonzaga, ma l’omonima sorella ad un tempo e seconda moglie di Filadelfo (Icon. Gr., Ili, c. XVIII, § 4). Più vicino a noi, F. Lenor-mant {Très, de numism. et de glypt. Numism. des rois Grecs, p. 166, tv. LXXXVI) riferisce il cammeo del Gabinetto viennese a Tolomeo VI Filometore ed a Cleopatra. Checchenessia, non sarà senza interesse per gli archeologi il rinvenire le tracce autentiche di questo insigne cimelio in una lettera inedita del 1586; come non può essere senza utilità per la storia del medesimo, e quale dato comparativo per la statistica dei prezzi che ebbero le anticaglie di questa classe in diversi periodi sui principali mercati, la notizia che in quell’ epoca veniva estimato in Roma dai conoscitori cinquecento scudi d’ oro, prezzo peraltro di gran lunga inferiore alla richiesta del possessore. Così non riuscirà indifferente agli amatori di simili curiosità 1’ apprendere che già in quel tempo il cammeo era stato restaurato nella parte inferiore, non facendo l’Orsini menzione della sua mutilazione, e solo accennando a lieve guasto accomodato con smalto al di dietro della testa virile. Nè sarà finalmente superfluo rammentare che il cimelio in discorso appartiene ad una serie di capolavori gliptici che ci rimane come saggio della cima di perfezione a cui era pervenuta 1’ arte di incidere a rilievo le gemme nel periodo dalla morte di Alessandro alla distruzione di Corinto, e insieme come testimonianza della passione importata dall’O-riente per questo genere di monumenti, non meno che del supremo buon gusto, del lusso e della magnificenza che dominavano nelle corti dei Dia-dochi, e specialmente in quelle dei Lagidi e dei Seleucidi. Fra i più conosciuti campioni di questa superba serie, la quale non trova riscontro 520 GIORNALE LIGUSTICO in tempi posteriori fuorché nei grandiosi cammei relativi alle famiglie imperiali Giulia e Claudia (i), citerò, oltre al gii descritto cammeo del-l’Ermitage di Pietroburgo coi ritratti di Tolomeo II e di Arsinoe I, (i) Di questa ricchissima serie di cammei additerò i seguenti, tutti di primo ordine: a) Apoteosi d’Augusto, o la famiglia dei Cesari Panno 776 di Roma. Sardonica a s strati , alta 30 centimetri , larga 26, conosciuta sotto i nomi di Achilles Tiberiauus, c di Cammeo della Santa Cappella di Parigi; nella Biblioteca nazionale di Parigi, o Gabinetto di Francia (F. Lenormant, Icon. des emp. Rom., nel Tres. de num. et de glypt. , tv. XII. Chabouillet, Catal.. 188). b) Busto d'Augusto , sardonica del Musco di Napoli (Le normant, op. cit., tv. Ili, 11). c) Testa d* Augusto laureata e coperta dal velo dei sommi Pontefici, id,, a 5 strati, Musco di Firenze (Cori, I, tv. XXVII, S). d) Augusto c la Dea Roma seduti sullo stesso trono, grande calccdonia, Gabinetto di Vienna (Eckcl, Choix etc., 11). e) Busto d’Augusto, cinto il capo di diadema e difeso il petto dall’egida, sardouica a 3 strati , Musco di Firenze (Lenormant, V, 1). f) Testa di Livia in figura di Cerere, coronata di spighe e di papaveri; id. , Museo di Napoli (id„ V, 8). g) Busti di Augusto c di Livia, di fronte, id., Ga-bin. di Francia (id., VI, 2). b) Livia in figura di Cibclc , tenendo il busto di Augusto laureato e velato, id., Gabin. di Vienna (Eckcl, XII). i) Livia coronata di papaveri, id., a 5 strati. Gabin. di Francia (Lenormant, VI, 16). k) Testa d’ Auguro, col nome di Dioscoridc , id., Collezione del Principe di Piombino (id. , VII, 7). /) Augusto c Agrippa, id., a 3 strati, Gab. di Francia (Chabouillet, 199). rn) Aquila romana, c busto d’Augusto, grande sardonica a due facce, Gab. di Vienna (Eckcl, III, IV). n) Agrippa c Giulia, id., a 3 strati c a 2 facce, Gab. di Francia (Chabouillet, 200. Lenormant, VI, 10, li). o) Busto di Giulia, id.. Collez. Ponia-towski (\ isconti, Catal. gemme Poniatoxvski, 71). p) Trionfo di Tiberio, grande sardonica del Gabinetto di \ ienna, alta 9 pollici, larga 8, conosciuta sotto i nomi di Gemma Augustea, c di Augtafs Panoniuher Triumph (Eckcl, I). q) Testa di Tiberio coronato di quercia, il petto coperto dall*egida, id., a 3 strati , Gab. di Francia (Lenormant, IX, 1). r) Busto di Ti· bcrio laureato, coll’egida, grande calccdonia, Gab. di Vienna (Eckcl, V). t) Busti di Taberio c di Livia , Musco di Firenze (Visconti, Impr. Chigi, 474). t) Busto di Nerone Dr uso seniore, laureato e paludato, sardonica a 3 strati, Gab. di Francia (Lenormant, IX, 12). a) Testa di Germanico, opera di Epitincano, gii nel Musco Strozzi (Stosch, XXXII). v) Busto di Germanico, paludato, sardonica del Principe di Piombino (Lenormant , X, 1). w) Apoteosi di Germanico, grande sardonica del Gab. di Francia, alta 105 mi!!,·, larga 109 (id., X, *S)· x) Busti di Germanico e di Agrippina, coi nomi dei litoglifi AlfcO c Aratone , id., dcl-1'Abbazia di S. Germano di Prcs (Bracci, XIV). ζ) Busto di Agrippina, id. . Gab. di Francia (Lenormant, XI, 7, 8). αα) Busto di Antonia, grande sardonica del Gab. di Vienna, pubblicata dall’ Eckcl pel ritratto di Agrippina seniore (tv. II). bb) Busto di Caligola, gii presso il sig. Jcnkins (Visconti, op. ver., II, p. 362). ce) Teste coniugate, laureate, di Caligola c Drusilla, Gab. di Francia (Lenormant, XI, 17). dJ) Busto di Claudio laureato, con c^ida c paludamento, id., Gab. di Francia (id., XIII, 3). et) Busto di Claudio laureato c coll’egida sul pitto, id., id. (id., XIV, 1). ff) Claudio c Messalina in figura di Trittolcmo e di Cerere Tcs-mofora, su carro tirato da due serpenti alati, grande sardonica a 4 strati , Gab. di Francia, alta 8$ mill.1, larga 80 (id., XIII, 12). gg) Busto di Messalina laureata, colla bulla, sotto il quale si incrociano due cornucopii sormontati dai busti di due bambini, Briunnico c Ottavia, idM a 3 *lr*ti, Gab. di Francia (id., XIV, 6). hh) Gaudio, Messalina, Tiberio e Livia, grande sardonica del Gab. di Vienna (Eckcl , VII), ii) Busto di faccia del fanciullo Britannico, niccolo giornale ligustico 521 a) il ritratto del medesimo Tolomeo in frammento di cammeo in onice conservato a Berlino (Beger, Thes, Brandeburg., p. 202). b) cammeo in sardonica orientale a tre strati colle teste coniugate di Demetrio Sotere e di Laodice di Siria, già in casa Grimani, donde passò nella sala del Consiglio dei Dieci in Venezia, poi nel 1796 regalato dalla municipalità di questa città al ministro di Francia signor Lallemand, e da questi ceduto all' Imperatrice Giuseppina (Visconti, Icon. Gr., II, tv. XX, 9) ; e) id , frammentato con testa virile imberbe, diademata, dal Visconti attribuita ad Alessandro Magno; Collezione della Imperatrice Giuseppina (id., ibid., tv. II, a, }); d) id., a tre strati con testa di Alessandro il Grande divinizzato’, Gabinetto di Francia (Chabouillet, Catal., 154); e) id., in onice orientale a 3 strati, con testa galeata e laureata, attribuita dal Visconti a Lisimaco re di Tracia, Gab. di Francia (Icon. Gr., II, tv. V, 10. Chabouillet, 163); f) id., con busto di Demetrio Poliorcete, già ne! Museo Odescalchi (Galeotti, Mut. OJfsc., I, tv. XVI); g) id., in sardonica edito dal Millin (Moti, ined., tv. 15, p. 17); h) id., con due busti coniugati, da taluno aggiudicati a Diana e ad Apollo, nu più verosimilmente riferibili a qualche coppia regale della dinastia de’ Tolomei 0 d'altri successori di Alessandro. L’originale è d'ignota ubicazione, ma ne esisteva una impronta nella collezione del Principe D. Agostino Chigi esposta dal Visconti (n. 75); i) id., a tre strati con due busti coniugati e galeati che il Chabouillet attribuisce non senza peritanza ad Alessandro e a Minerva, ma che io crederei doversi piuttosto riferire a membri di alcuna fra le reali famiglie dei Diadochi; frammento ritoccato, Gab. di Francia (Chabouillet. 164); hutun c «ero lwalo a Faenw, Colle*, del Principe Poniatowsk» (Visconti, Cai. çemme Po-nUl, kb) Claudio in figura di Giove trionfante, Messalina, Ottavia c Briunnico su carro lirato da Ccntaun , grande uriomea nel Musco del Re di Olanda, alta 171 mill.1 (Jongc, No-IìU cut U Cofanrt tnMajlUi Au Rei dei Payi-Bai, i. suppl., p. 14: Millin, Galerie Mytho-hfym, 177, 6-t). Parecchi altri cammei «potimi alla «ali urne, vennero pubblicati di T. Cadcs nelle Impronti ii manufnenli grmmart lvrnali in Itut da] l8ìf in poi ; fra i quali citerò la testa di Auguro giovine delia Collezioni Demidoff (Centuria IV, 9:) ; id. di Augusto con corona radiata. ni panieri r e limo di frotta, Collezione Beverley (ibid. 94); busti di Augusto e Livia, presso il negotiante Vescovili di Roma (Cent. Il, 79) ; testa di Claudio, Collezione del principe Vidoni (Cent. IV, 9^). 522 GIORNALE LIGUSTICO li) id., a due strati, col busto di Berenice moglie di Tolomeo III, Evergete I, re d’ Egitto, velata in figura di Iside, Gab. di Francia (id., 160) ; 1) id., con busto della stessa Berenice, Gab. di Francia (id., 161); vi) Carchesio bacchico in sardonica orientale a 12 strati lavorata a cammeo, conosciuto sotto il nome di Coppa dei Tolomei, già nel Tesoro dell’Abbazia di S. Dionigi, ora nel Gabinetto di Francia (id., 279). Alla stessa categoria è da assegnarsi il celeberrimo vaso in cristallo a due strati, uno di color violaceo o ametistino che costituisce il fondo, e bianco 1’ altro, nel quale è lavorata a cammeo una superba composizione; già nel Museo Barberini in Roma, donde passò al Gabinetto del Duca di Portland in Inghilterra : edito da P. S. Bartoli negli Antichi sepolcri, dal La Chausse nel Romanum Museum, dal Foggini nel Museo Capitolino, dal Piranesi , dall’Hancarville e da altri, fra cui il Duca suo possessore che lo fece incidere in più rami dal Bartolozzi, e ultimamente Achille Deville che lo riprodusse egregiamente nella sua Histoire de l’Art de la verrerie dans l’antiquité. Ma il posto d’onore in questa serie spetta a buon dritto alla eccellentissima tazza in onice orientale che Fulvio Orsini cita quale proprietà di Madama, cognata del cardinale Alessandro (1), e che come già del Far-nesiano in Parma forma oggi il più prezioso ornamento del Museo Nazionale di Napoli. L’Orsini non accenna qui alla provenienza di questo meraviglioso capolavoro, nè quanto siavi di vero nella diceria che esso sia stato rinvenuto nell’ urna cineraria del mausoleo di Adriano ; o se debbasi accordare la preferenza all’altra voce più accreditata, secondo la quale sarebbe invece stato scoperto da un soldato delle bande del Cone-stabile di Borbone, all’epoca del famoso sacco di Roma, nell’occasione d’una trincea aperta nel terreno spettante alla Villa Adriana, miniera inesausta di antiche opere d’ arte. Tornerebbe qui superflua la descrizione d’ un cimelio noto almen per fama anche ai meno versati nello studio dell’ antichità figurata. Dirò soltanto, poiché 1’ argomento il comporta, e sto per dire l’esige, esser desso un monumento di primo ordine non solo, ma unico nel suo genere, sia che si guardi alla eleganza e grandiosità dello stile, non meno che alla finitezza del lavoro, sia che si tenga conto della dimensione e (1) È appena necessario avvertire che trattasi di Margherita d’Austria, figlia naturale di Carlo V, moglie in prime nozze di Alessandro de’ Medici e in seconde nozze di Ottavio Farnese Duca di Parma e fratello del Cardinale Alessandro al quale è diretta la lettera di Fulvio Orsini. Questi ne accompagna la menzione colla formola di felice memoria, perché Madama era morta ai 18 gennaio dello stesso anno 1$86. giornale ligustico qualità della sardonica, tutta d’ un pezzo, diafana, color caffè venato di bianco e d’ altre strisce sanguigne e bionde che sperandole alla luce paiono d’ oro ; la quale esser dovette d’ uno spessore straordinario , se la tazza misura ben tre pollici di profondità; sia finalmente che si abbia 1’ occhio alla singolarità d’ una grande composizione trattata a cammeo su ambedue le facce (i). L’ esterno è tutto ricoperto d’ una testa di Medusa di superbo artificio. Del soggetto simbolico espresso in otto figure rilevate in uno strato bianco sulla faccia nobile, ossia nell’interno della tazza, vennero proposte diverse spiegazioni: la più plausibile delle quali sembra esser quella del Visconti che vi raffigura la rappresentazione del Nilo cogli emblemi dell’ annua sua fecondatrice inondazione e colle divinità che si credevano presiedere e cooperare alla periodica rinnovazione di quel fenomeno onde l’Egitto ripete la sua prosperità. Egli addita nella figura muliebre seduta sulla Sfinge, imagine dell’Egitto, la dea Iside ; nell’ uomo barbato sedente la personificazione del Nilo ; nelle due ninfe seminude dicontro allo stesso le figlie Menfide ed Anchirroe; nei giovani volanti al di sopra, i venti etesì ministri di Iside e di Oro, e finalmente nella figura giovanile al centro della composizione il dio Oro che presiede al Nilo, alle sue acque ed escrescenze, tenendo pel manubrio l’embolo d’una antlia, o macchina ctesibiana, esprimente la forza del Sole, che col suo calore reputavasi determinare l’innalzamento e la sospensione sopra il loro livello delle acque del Nilo (Mus. Pio Clem., III. Indicaz. dei mon., tv. C, i). Secondo un’altra più recente interpretazione, il cammeo· Farnesiano rappresenterebbe invece Tolomeo Ever-gete con Berenice e le figlie in atto di consacrare la festa della mietitura. (i) Di massima i cammei a due facce sono rarissimi. Trovansi, è vero, pietre incise da ambo i lati, ma nella maggior parte dei casi, Γ incisione è a rilievo da un lato e a cavo dall’ altro, come ad esempio in quella del Gabinetto di Vienna pubblicata dall Eckcl nella tv. XXX della sua più volte citata illustrazione; oltreché esse sono iu genere di bassa epoca e di mediocre lavoro. Sarebbe tuttavia inesatto asserire, come altri ha fatto, che la Tazza Farnese offra l’unico esempio d’ una composizione lavorata a cammeo su ambedue le facce. Ho gii citato alla nota a pag. 520 la magnifica sardonica del Gabinetto di Vienna con da una Darte l’aquila romana e dall’altra il busto di Augusto (Eckcl, III, IV), e cosi pure la sardonica a tre strati del Gabinetto di Francia (Chabouillet, 201) portante inciso a rilievo da un lato il busto di Agrippa e dall’ altro quello di sua moglie Giulia figlia di Augusto. Un altro esempio si può additare nel cammeo viennese con Minerva che incorona Bacco , il cui rovescio è fregiato di simmetrica rappresentanza (Eckel, XIX): nè manca, ove d'uopo, un riscontro nell’ altro bel-liissimo edito dal Tristan (Commini, htsior., II, p. 626), con rappresentanza relativa alla edu-cazionc del giovine Bacco. 524 GIORNALE LIGUSTICO È curioso constatare come 1’ opinione predominante ai tempi di Fulvio Orsini fosse che la tazza avesse appartenuto ad Alessandro Magno, congettura desunta unicamente dalla magnificenza e perfezione del lavoro che consideravasi degno sotto ogni rispetto della fama di Pirgotele. Indubitato è, invece, che lo stile del lavoro e il carattere della composizione la appalesano per un prodotto dell’ arte greco-alessandrina, e che Γ ambiente storico a cui appella non è altrimenti la corte del Macedone, bensì quella dei Lagidi. Allo stesso — a Caprarola. Ill.mo et R.m0 Sr mio coi,mo Mando a V. S. Ill.ma un libro stampato qui de cose mie appartenenti ad rem rusticam, havendo deliberato fare il medesimo dell’ altre cose che io tengo in questo genere de studii, poi che li vedo quasi estinti per la morte di coloro che li potevano illustrare. Il Papa mi diede l’altro giorno una pensione di ducento scuti d’ oro di suo motu proprio sopra una badia del Card.le Montalto; quando a V S. Ill.ma piacesse, et lei giudicasse che le convenisse, la supplicarei humilmente che si degnasse scrivere un verso al Card.le Savello, o chi paresse a lei, ac-acciochè a nome suo ne ringratiasse il Papa, il che me saria di. grazia singulare. Ho due corniole antiche in mano, in una delle quali è intagliata Γ historia delli Horatii et Curiatii, con alcuna reliquia dell’ anello nel quale anticamente era ligata, et nell’ altra è un toro che beve in un fiume, di artificio incomparabile, essendo la figura del toro in faccia et di sottosquadro: et questa corniola fu del Card.le Salviati primo, et è celebratissima per 1’ artificio suo. Fu venduta altre volte 40 scuti, per quello che sono informato; et hora s’haveranno tutte dui le corniole per 20 scuti d’ oro in oro. Se V. S. Illma le vuole, o le piace che io le mandi costi, veramente le giù- GIORNALE LIGUSTICO 525 dico degne di V. S. IH.™». Alla quale humilissimamente bacio la mano. Da Roma a’ xii di settembre 1587. Di V. S. Ill.ma et R.ma humiliss.1"0 et devoliss."'0 servitore Fulvio Orsino. Ai giorni dell Orsini e per lungo tempo dopo era poco men che generale presso gli antiquari la tendenza a ravvisare ovunque nelle antiche opere d arte soggetti di storia romana. Sono incredibili gli errori a cui diede luogo siffatta preoccupazione, insino a tanto che dal Winckelmann non venne posto in sodo il principio, a buon dritto qualificato come la chiave dell antichità figurata, aver gli antichi desunto dai poemi omerici e da pochi altri la maggior parte dei loro subbietti. In tema di pietre incise, citerò come un esempio fra i mille di simili qui pro quo l’intaglio in sardonica della collezione del Barone di Stosch , nella cui rappresentazione, giustamente dal Winckelmann spiegata per Pirro sul punto di trucidare Polissena presso la tomba di Achille, 1’ anima del quale caratterizzata dalle ali di farfalla comparisce sull’ alto del monumento (Moti, ined., n. 144), il P. Scariò, nelle Gemme Ficoroniane, avea raffigurato Sesto Tarquinio in atto di far violenza a Lucrezia (1). Sotto questo punto di vista non apparisce pertanto improbabile che il combattimento figurato sulla corniola di cui scrive 1’ Orsini e da lui spiegato per la pugna degli Orazi e dei Curiazì, fosse la rappresentazione di qualche episodio dell' Iliade. Il principio del Winckelmann non è però (1) Questo erudito vedeva tutti i monumenti antichi attraverso ad un prisma romano. Una sardonica con Diomede che tiene in mano la testa di Dolone viene da lui spiegata per Dolabella che ha fatto recidere la testa a Trebonio uno de’ congiurati contro Giulio Cesare. Veg-gasi la sua Lettera nella quale vengono espressi in rame e dilucidati vart antichi documenti. Venezia, 1779. Del resto, le sillogi dattiliografiche sono piene di simili aberrazioni. Un intaglio della Collezione Stefanoni rappresentante il suicidio di Aiace trovasi riprodotto in grande colla denominazione di Decius Mus. Chi crederebbe che un altro celebre intaglio in granato del Gabinetto ili Francia colla figura della musa Polinnia (Chabouillet, 1473) venne pubblicato nell’opera del Manette sotto 1’ attribuzione di Calpurnia inquieta sulla sorte di Cesare? Che più ? tale era la forza della corrente che lo stesso Winckelmann scambia un Giasone inciso su agatonice del Gabinetto di Stosch (Cl. IV, 168) con un personaggio romano, dichiarandolo per Quinzio Cincinnato in atto di adattarsi P armatura alle gambe! 526 GIORNALE LIGUSTICO così assoluto che non ammetta delle eccezioni in quanto concerne l’arte romana. La quale se negli archi trionfali, nelle colonne onorarie e nelle monete ci esibisce una vera galleria storica onde si svolge dinanzi ai no-stii occhi senza alcuna apparenza mitica la rappresentazione dei principali avvenimenti militari così dell’ età repubblicana come dell’ imperiale , è a credere che abbia impresso le orme di tale sua peculiare tendenza anche nei tipi della gliptica, i cui subbietti hanno con quelli della serie numismatica una strettissima convenienza. È certo, infatti, che a prescindere anche dai numerosi ritratti di storici personaggi, non mancano nelle pubbliche e private dattilioteche composizioni e motivi istorici di romano argomento. Citai più sopra la serie dei magnifici cammei con composizioni relative alle imperiali famiglie Giulia e Claudia : ho io bisogno di qui ricordare le rappresentazioni riferibili alle leggende di Rea Silvia (Ficoroni, Gemmae, 3, 6. Winckelm., Gabin. Stosch, cl. IV, 128), di Enea (Gori, Mus. Flor., II, 23, 30. Win- 1 cVelm., ib. cl. IV, 119. Fr. Dolce, R., 92. Impr. dell’ Inst. di corr. arch., II, 62), dell’origine di Roma (Fr. Dolce, W, 12 sgg. Millin, Galerie myth., 655, Impr. dell’ Inst., II, 64, 65. Zannoni, Gali, di Fir., s. V, ^6, 1) etc.? Si può obbiettare che queste rappresentanze, 0 esprimono apoteosi, le quali non si possono a rigor di termini classificare fra gli avvenimenti storici, come quelle il cui processo si effettua in un mondo diverso e superiore a quello in cui si svolge la vita storica, o riproducono fatti che appartengono alla mitologia storica, anziché alla storia propriamente detta: ma sarebbe follia riferire a personaggi e ad avvenimenti mitici alcune note rappresentazioni gemmarie d’un carattere storico sì determinato, quale, ad esempio, quella riferita dal Gori (Mus. Flor., II, tv, XIX, 1) e dal Lippert (Dactyllioth. univers., I, 11, 451), nella quale sono tratteggiate le vicende della Legione XI Claudia Pia Fidelis. Non vi ha dubbio, del resto, esservi stata un’epoca durante la quale fu in gran voga presso i Romani l’uso di fregiare le gemme degli anelli segnatori di rappresentazioni relative alle gloriose gesta dei propri antenati, dei quali tipi ancor ci rimane un saggio nei coni dei magistrati monetali della Repubblica, i quali verosimilmente impressero sul rovescio delle loro monete 1’ arma o impresa propria, gentilizia 0 personale, ond’ era insignito il loro anello-sigillo, siccome ho dimostrato con qualche ampiezza ia un mio lavoro speciale (Sigilli antichi romani, p. 3 sgg.). È ovvio sul.e gemme il tipo del pastore Faustolo in atto di trovare Romolo e Remo lattanti sotto la lupa (Fr. Dolce, W, 14 sgg.); composizione identica a quella del noto conio della famiglia Pompea (Cohen, tv. XXXIII, Poni- GIORNALE LIGUSTICO peia, i), come non è raro il tipo della cerimonia dell’ Alleanza (Dolce, W, io), che riscontra col rovescio del denario di Ti. Viturio e di altre monete (Cohen, tv. XLI, Veturia, tv. XLIV, 8, 9, 10. Friedlander, Osk. Mün%en, tv. IX, 9, 10. X, 19). Se per testimonianza di Plinio (1) e di Plutarco (Siila, 3), consta che Siila portava inciso sulla gemma del suo anello segnatorio il tipo della tradizione di Giugurta ; il qual tipo, per appunto, ricorre sul denario di Fausto Felice figlio di Siila (Cohen, tv. XV, Cornelia 24): nulla osta a credere che la rappresentazione del combattimento degli Orazì coi Curiazì abbia potuto essere adottata quale impresa gentilizia da taluni membri della famiglia Orazia, e come tale incisa sulla gemma dei propri anelli (2). Non si vuol tuttavia pretermettere un’ ultima considerazione, ed è che ai tempi dell’Orsini passavano per antiche fra le mani dei molti raccoglitori di pietre incise non pochi lavori dovuti al diamante di abilissimi artefici di quel secolo e dell’ antecedente ; i quali attingevano i soggetti delle loro composizioni specialmente alla storia romana. Non a torto O. Muller (Handbucb der Archeologie, § 425, 6) poneva in dubbio 1’ autenticità di alcune gemme del Museum Florentinum del Gori coi fatti di Orazio Coclite, di Muzio Scevola e di M. Curzio, nonché di altra del Lippert colla morte di Giulio Cesare : ugualmente moderne vennero oggi riconosciute le congeneri del Gabinetto di Francia edite dal Mariette (Traité des pierr. ant. grav., II, tv. C, CI, CI1) colle rappresentanze di Muzio Scevola, della continenza di Scipione e della consegna di Giugurta a Siila (Chabouillet, 2401 sg). Ora è del pari certo che Fulvio Orsini errò talvolta nei suoi giudizi intorno a gemme 0 ad altri monumenti da lui posseduti o visti, come riguardo all’ intaglio in plasma con due teste edite nelle Imagines illustrium del Lefebure pei ritratti dei filosofi Magone Cartaginese e Dionisio Uticense, mentre a giudizio del Visconti sono opera di non ignobile ruota del secolo XV 0 del XVI; e cosi dicasi in ordine al medaglione in marmo con busto barbato che fra le imagini raccolte dal-l’Orsini e pubblicate dal Lafrérie (p. 57) figura pel ritratto di Aristotele, nonostante che la prolissa capigliatura e più assai il collarino, la zimarra e il berretto dottorale lo additassero anche all’ occhio meno esercitato (1) Sulla Dictator traditione Jugurthae semper signavit (Hist. Natur., XXXVII, 4). Un » altro tipo che trovasi ripetutamente riprodotto in gemma è quello della pietà figliale, quale ricorre sull1 ovvio conio di M. Erennio Pietas (Winckelmann , Cab. Stosch, ci. IV, iS. Cohen, tv. XIX , Herennia). (2) Un vetro antico della Collezione Kcstner fii spiegato pei tre fratelli Orazì che s’incamminano alla pugna (Gides, Impr. di mon. finii»., Cent. IV, 89). 528 GIORNALE LIGUSTICO come fattura di non antico litoglifo. Giovi invocare in proposito 1’ autorevole testimonianza del suo stesso biografo Giuseppe Castalione, il quale nella Vita Fulvii Ursini, Romae 1757, p. 9, osserva espressamente come Γ Orsini non possedesse 1’ occhio più sicuro per riconoscere 1’ autenticità degli antichi monumenti. Mancando tuttora il catalogo delle gemme conservate nel Museo Nazionale di Napoli, ignoro se 1’ intaglio in corniola colla figura del toro che beve in un fiume, di cui tocca da ultimo 1’Orsini come di gemma d’incomparabile artificio, e così parecchie delle altre da lui prima citate in queste lettere abbiano fatto parte del Museo Farnesiano, e sieno successivamente passate col contenuto di questo nel Tesoro di Capodimonte ora a Napoli. Siccome poi degli storici di Parma nessuno ha avuto cura di compilare 1’ elenco delle dovizie dattiliografiche che insieme ai tanti altri tesori della Galleria, del Museo, della Biblioteca e dell’Archivio di casa Farnese, D. Carlo di Borbone nel 1734 portò seco da Parma al nuovo suo regno delle Due Sicilie; e il Malaspina nel suo Compendio della storia di Parma, pur tessendo una lista dei principali dipinti, marmi, bronzi, libri, codici e documenti allora esportati da Parma, si limita, per quanto concerne le gemme, a menzionare la sola Tazza Farnese; stimo prezzo dell’ opera enunciare qui sotto alcuni fra i più insigni monumenti di glip-tica antica del Museo Farnesiano, dei quali mi venne fatto raccapezzar la notizia, non senza la speranza che il risultato di ulteriori investigazioni mi ponga in grado di completarne 1’ elenco, e in attesa che la pubblicazione del catalogo delle gemme del Museo di Napoli e di altre pubbliche e private Collezioni possa darci contezza della loro odierna ubicazione. 1. Giove sulla quadriga, in atto di fulminare due Giganti dalle gambe di serpi. Cammeo in onice col nome dell’incisore ΑΘΗΝΙΏ.Ν. (Winckelmann, Mon. ant. ined., n. io. Bracci, op. cit., tv. XXX). 2. Ercole che combatte colla clava e colle frecce un Titano alato. Intaglio in onice, un’impronta del quale esistente nella raccolta del Baron^ di Stosch venne descritta dal Winckelmann (cl. II, 124). 3. La contesa di Minerva e di Nettuno. Cammeo coll’ iscrizione ΠΥ in monogramma (Visconti, Espos. delle impr. di ant. gemme di D. Ag. Chigi, 37). 4. Apollo che prepara il supplizio di Marsia, mentre il giovine Olimpo Supplica invano a favore del maestro. Intaglio in corniola, già della Collezione di Lorenzo de’ Medici come risulta dall’ iscrizione laur . med. (Id. ibid., 49). GIORNALE LIGUSTICO 5. Il Sole sulla quadriga con face sollevata nella destra. Sotto, due figure, personificazione della Terra e del Mare. Id., in corniola colla stessa iscrizione (Bracci, op. cit., I, tv. d’agg. Ili, n. 2). 6. Diana montana fra rupi scoscese, succinta e faretrata, appoggiata a sinistra ad un’ ara, impugnando colla destra una fiaccola rovesciata. Id., in ametista inscritta ΑΠΟΛΛΏΝΙΟΥ già di Fulvio Orsini (Stosch, Gemmae ant. cael., tv. XII. Bracci, tv. XXVI. Spon, Misceli., Suppl. del Poleni IV, p. 891. Winckelmann, Pierr. de Stosch, cl. II, 294). 7. Venere seminuda e coperta il capo d’un velo sul dorso d’ un Tritone barbato che sembra sostenerle innanzi lo specchio. Cammeo già di Lorenzo de’ Medici (Dolce, L, 23). 8. Amore in atto di bruciare colla sua face una farfalla che tiene per le ali. Intaglio in niccolo (Id., I, 13). 9. Le nozze di Amore e Psiche. Id. in sardonica coll’ iscrizione ΤϋΥφίΐΝ II ΕΠΟΙΕΙ. Copia del famoso cammeo colla stessa epigrafe della Collezione del conte di Arundel (Stosch, op. cit., tv. LXX). 10. Busto di Nettuno attribuito da altri ad Esculapio. Id. in calce-donia (Dolce, K, 50). 11. Anfitrite seminuda con due cavalli marini su l’uno dei quali è assisa: un Amore natante la precede e ai suoi piedi è il delfino che la scopri alle ricerche di Nettuno. Il Visconti ha sospettato dall’ acconciatura della chioma che trattisi del ritratto d’ una dama romana. Id., in ametista già di Lorenzo de’ Medici, pubblicato dal La Chausse, dal Winckelmann e dal Bracci sotto la denominazione di Venere Marina (Caus. Rom. Mus., tv. 46. Bracci, tv. d’agg. V, n. 3). 12. Busto in profilo d’ un Tritone con chioma rabbuffata e squamine agli omeri. Id. in calcedonia frammentata (id., L, 20). 13. Tritone che rapisce una Ninfa marina ignuda. Id., in corniola, già di Lorenzo de’ Medici (Visconti, Impr. Chigi, 136). 14. Teste coniugate di Bacco e di Arianna. La chioma del dio è ricinta di edera: Arianna ha sul capo la corona nuziale che ha dato il nome ad una costellazione. Cammeo (Visconti, ibid., 152). 15. Un Fauno ed una Ninfa dinanzi a Sileno legato ad un albero, incitandolo al canto. Intaglio in corniola (id., ibid., 162). 16. Fauno sedente su d’una rupe, tenendo sulle spalle il bambino Bacco e reggendo colla destra la nebride formante seno e ripiena di frutta. Cammeo, già di Lorenzo de’ Medici (id., ibid., 170). 17. Gli amori de’ Fauni e delle Ninfe. Cammeo edito dal Bracci (tv. XIX). 530 GIORNALE LIGUSTICO 18. Busto di Baccante coronata, col tirso, colla nebride e colla benda bacchica. Vetro antico già di Lorenzo de’ Medici (Visconti, ibid., 179). 19. Busto quasi simile. Id. (Id., ibid., 180). 20. Centauro che sostiene sulle spalle un cratere e una face. Cammeo (Id,, ibid., 195). 21. Baccante seminuda in furore. Intaglio in corniola (ld.,ibid., 199). 22. Ercole che lega Cerbero. Id., in diaspro sanguigno (Id., ibid., 224). 23. Vittoria sulla biga. Cammeo col nome COCTPATOY, già di Lorenzo de’ Medici (Id., ibid., 253). 24. Diciotto figure di divinità greche ed egiziane, disposte su tre linee. Intaglio in ametista (Dolce, B, 62). 25. Due Geni della palestra che hanno fatto combattere due galli. Il Genio, il cui gallo riuscì vincitore si cinge al capo il diadema e nella sinistra impugna la palma ; 1’ altro è in atteggiamento ÿ tristezza. Cammeo già di Lorenzo de’ Medici (Visconti, 296). 26. Teseo che rapisce Elena svenuta fra le sue braccia. Winckelmann ravvisò in questo intaglio da lui pubblicato, lo stesso eroe come uccisore di Fea. La gemma, sottratta dal Museo Farnese, passò nella Collezione del Conte di Lemberg (Winckelmann, St. delle Arti del dis., III, p. 442)· 27. Ippolito che insieme ad uno dei suoi compagni si appresta alla caccia, mentre in disparte Fedra innamorata di lui sta manifestando alla nudrice la sua fatale passione. Cammeo già di Lorenzo il Magnifico (Visconti , 341). 28. Achille che osserva le armi recategli dalla madre. Intaglio in corniola coll’iscrizione AIOCKOYΡΙΔΟΥ, edito dallo Stosch (tv. XXX) e dal Bracci (II, tv. LX) sotto la denominazione di Perseo datagli anche dal Winckelmann. 29. Diomede in atto di scendere dall’ ara d’ onde ha rapito il Palladio. Intaglio in calcedonia già di Lorenzo il Magnifico, ripetizione della sublime corniola di Dioscoride che dalle mani di Luigi XIV passò come regalo di nozze alla Principessa di Conti, donde in seguito a diversi trapassi di proprietà pervenne alla Collezione Seviniana e da questa a quella del Duca di Devonshire (Visconti, 377). 30. Aiace d’ Oileo che rapisce Cassandra dall’ ara di Minerva. Id., in corniola (Winckelmann, Pierr. de Stosch, cl. Ili, 337)· 31. Testa presunta del poeta efesio Ipponatte. Id., in corniola (Dolce, T, 87). 32. Ritratto barbato creduto di Aristofane. Id., in corniola (id., T, 76). GIORNALE LIGUSTICO 53 1 33. Testa giovanile di Augusto. Cammeo (id., Y, 10). 34. Effigie ignota attribuita a Mecenate coll’ iscrizione COAilNOC Intaglio in corniola già di Fulvio Orsini (Visconti, 471). 35. Ritratto di Adriano descritto da Winckelmann nella Storia delle aiti del disegno. Id., in ametista, sottratto alla Collezione Farnese e oggi nel R. Gabinetto olandese all’Aja. 36. Ritratto di Antonino Pio. Id., in ametista (Dolce, Z, 106). 37. Busto di ritratto femminile già attribuito a Plautilla e a Giulia Pia. Maggiore è la sua rassomiglianza colle imagini di Didia Clara; ma forse non appartiene che ad una contemporanea di quest’ultima. Id., in aquamarina (Visconti, 492). 38. Busto paludato del giovinetto Geta. Id., in corniola (Dolce, AA, 158). 39. Ippocampo, coll’iscrizione φΑΡΝΑΚΗ( || ΕΠ. Id., in corniola edita dallo Stosch (tv. L) e dal Bracci (tv. XCIII). 40. Nereide stesa su cavallo marino cui tiene strettamente abbracciato. Cammeo in agatonice col nome dell’incisore 2Ώ.ΣΤΡΑΤ0Υ (Winckelmann, Cai. Stosch, cl. II, 465). 41. Lo stesso soggetto collo stesso nome. Id. (id., ibid.). 42. Testa di un guerriero galeato con berretto sotto l’elmo che scende fino ai sopraccigli (id., ibid., 920). 43. Bacco ed Arianna sopra un carro tirato da tre Ore, con un Amore che precede e un altro che segue il carro spingendolo. Cammeo (id., ibid., 1457). 44. Elle seduta su di un ariete, che passa a nuoto lo stretto che da essa prese il nome, seguita da un Amorino che le corre dietro sulle onde. Cammeo, di cui una pasta trovavasi nella raccolta Stoschiana (id., cl. III, 58). VARIETÀ Tre lettere inedite di Lodovico Antonio Muratori e una del professore Giuseppe Ignazio Montanari. Nelle mie peregrinazioni militari, Γ anno 1860 quando mi trovavo col Reggimento di guarnigione a Modena, com- 532 GIORNALE LIGUSTICO prai da un pizzicagnolo che abitava in quella via stretta che dal portico del Collegio mette al palazzo ducale, ora residenza della Scuola di fanteria, varii oggetti fra i quali tre lettere di Lodovico Antonio Muratori. Il venditore mi disse di avere guadagnati nei tempi passati di belli danari, e proprio nell’ epoca in cui gli stranieri, e specialmente i Russi, venivano a Modena e raccoglievano, pagando assai bene, qualunque pezzo di carta purché fosse scritta dal celebre annalista. Le lettere in discorso, come si vede, sono tutt’affatto private, non riguardano cioè a verun punto controverso, o che abbia relazione agli scritti che resero immortale il celebre parroco della Pomposa; sono lettere che toccano rivendicazioni di diritti ovvero opere di carità. A queste tre lettere ne aggiungo una quarta diretta da un valent’ uomo, dal prof. Giuseppe Ignazio Montanari mancato non ha molto alle buone lettere, a un nostro ligure, a Filippo Chiarella, nato a Chiavari e prof, alla R. Scuola tecnica, e Istituto tecnico di Macerata. Il Chiarella è autore di belle poesie, lodate specialmente dal Romani, dal Tommaseo, e ancora giovine assai e uscito da poco dalle scuole, meritò di fare ammirare più volte i suoi nobili versi nella villetta di quel benemerito che fu il march. Gian Carlo Di Negro, quando nelle solennità in cui inaugurava i busti ai grandi nostri italiani, conveniva a quelle feste il fiore dei letterati di quel tempo. Ma ecco le lettere. Genova, dicembre 1878. Prof. G. B. Brignardello. Lettera I. Alle mani dell' 111.mo Sig. Camillo Fontana. È divotamente riverito il signor Camillo Fontana dal Muratori, e pregato che essendo già disposte le cose per l’ingresso della S.a Laura Bar- GIORNALE LIGUSTICO 533 bieri nelle Putte del Canalino (i), ed essendo necessarj per ora almen cento scudi, egli con sollecitudine voglia somministrarli, e più ancora, se si può, per ultimare tal fatto: che di tal favore gli resterà molto tenuto anche il sudetto Muratori. Dalla Pomposa , 6 agosto 1722. Lettera II. Alle mani dell’ III.11™ Sig. Camillo Fontana Modena, 12 agosto 1722. Se il signor Camillo Fontana vorrà favorire il P.re Muratori delle L. 500 per gli eredi Barbieri, basterà ch’egli solamente accenni il preciso numero del danaro, che 1’ esibitore della presente verrà a pigliarlo; e porterà la ricevuta. Con che esso Muratori se gli ricorda Ser.e Div.° Sono L. 505 — 12 — 11. Lettera Iti. Al Riv.mo Sig.r mio e P.ronc Col.mo Il Sig.r Dott.c Montignani Commissario di Spedano, Riv.’"° Sig.c mio e P.ron.e Col."'“ Spira oggi un nuovo semestre del censo, che io tengo col sig. Alfiere Andrea Botti, e tutto il suo debito per frutti decorsi vien ad essere di L. 3ï8 — 6 — 9. Prego intanto la bontà di V. S. di fargli sapere, ch’io desidero d’ essere pagato, e di non veder crescere maggiormente la somma del debito suo. Quando a quel tempo discreto, ch’ella giudicherà, egli non abbia soddisfatto, imploro il rimedio della Giustizia. Fu poi dal nostro Perito decretato, che alla Compagnia della Carità apparteneva il mantenere il Trave, che sostiene il pavimento di V. S. Essa Compagnia dunque provvederà. Desideroso anch’io di ubbidirla, con vero ossequio mi ricordo Di V. S. vembre 1746. Lod.co Ant.0 Muratori. Modena, 20 novembre 1746. o Div.mo ed Obb.'"° Sers (1) il Canalino era un luogo di ricovero per le fanciulle. Giorn. Ligustico , Anno V. 55 534 GIORMALE LIGUSTICO Lettera IV. Gentilissimo Signor Professore, Osimo, ii novembre 1866. Ho debito di ringraziare la S. V. Chiarissima del dono gentile che ha voluto farmi per mezzo del Signor Agostino Cruciani, presentandomi del libro de’ suoi nobilissimi versi (i). Ho indugiato a fare questo dovere verso di Lei, perchè ho voluto prima leggerli e rileggerli, e le dico che ne sono rimasto non solo contento, ma ben anche ammirato. Vena facile di poesia, nobili concetti, affetto spontaneo, chiara elocuzione, sono tutti pregi che io vi ho rilevato. Talora anche tratti e voli che sanno di sublime. Al malinconico e flebile stile del Pellico, Ella ha saputo aggiungere una tale forza Leopardiana che molto diletta. Mi rallegro adunque con Lei, e mi convegno con que’ chiari uomini che hanno dato sì splendido e savio giudizio di Lei e de’ suoi versi. Io sono vecchio, e inabile oramai a fare, ho tuttavia la buona volontà, ed ammiro ed applaudo sinceramente agli sforzi di quelli che tentano ristorare la scaduta letteratura italiana. Sì continui Ella, sig.r Professore, in sì nobile arringo, e per Lei in qualche modo sarà riparato alla vergogna di quelli che non altro si studiano che imbastardire le belle nostre lettere, tornandole strane all’ Italia co’ vezzi francesi e le stranezze alemanne. Desidero di vedere l’Italia libera non solo dagli stranieri, ma dal mal gusto che di loro vi è venuto, e mi è caro conoscere che la S. V. sarà uno de’ campioni che vincerà la prova, e a sè gloria, all’Italia nostra acquisterà onore. E per me il più grande onore che possa venire ad uno scrittore, è di essere italiano di lingua, di stile e di gusto. Perdoni a queste mie ciarle, e creda che l’affetto e la stima che ho per Lei mi rendono loquace, e dopo questo aggradisca le proteste della sincera mia stima. Dev.”'° ed Obb.mo Servitore Giuseppe Ignazio Montanari. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA A. Ademollo. Tommasina Spinola « intendio » di Luigi XII Re di Francia. (Nella Rassegna Settimanale, N. 42, 1879). (1) Poesie di Filippo Chiarella chiavarcse , 2.a edizione con aggiunta di componimenti non ccmpresi nella prima raccolta e di posteriori. Macerata, Tip. del Vessillo delle Marche diretta da Marino Ilarj ; 1866 , in 8.0. 535 Allorquando leggemmo il titolo posto in fronte a questo articolo dell’egregio sig. Ademollo, ci siamo argomentati eh egli diligente ricercatore ed erudito critico qual’ è avesse scovato qualche novità, la quale venisse a recare nuova luce sopra un episodio della storia genovese, assai importante dal lato dei costumi. Se non che dovemmo subito accorgerci come il eh. autore abbia deluso la nostra aspettazione. In un antecedente suo scritto aveva rilevato con molta giustezza, che nessuno degli scrittori che toccarono della famosa disfida di Barletta, s’ era giovato della cronaca di Jèan d’Auton, il quale narrando i casi di Luigi XII, ha largamente parlato di quell’avvenimento, recando preziose ed ignorate notizie. Per mezzo di questa cronaca, uscita a Parigi in parte nel 1617 e poi interamente nel 1834 per le cure del Lacroix, egli acutamente rilevava errori, correggeva nomi e finti, ripristinava insomma la verità. Mosso da questo lodevole proposito ha stimato opportuno narrare gli amori di Tommasina col Re di Francia colle parole stesse del d’Auton, nel fermo convincimento che nessuno n’ avesse mai fatto parola. Dal suo lavoro spiccano queste tre affermazioni: i.° che gli storici posteriori al Giustiniani, meno il Casoni, non hanno accennato alla venuta di Luigi XII in Genova nel 1502; 2.° che nessuno ha mai scritto del fatto di Tommasina Spinola, neppure togliendolo a soggetto di variazioni romantiche, del che si maraviglia; 3.0 che egli ha rivelato agli studiosi italiani l’esistenza fin qui ignorata di queste cronache piene di cose importanti per la nostra storia nel grave periodo dal ijoo· al ijoS. La cosa ci tocca cosi da vicino, che non ci vorrà male P egregio autore se brevemente rispondiamo. E per cominciare dal principio, diremo che della prima venuta del Re in Genova si ha memoria nell’ Interiano, nel Foglietta, 5 36 GIORNALE LIGUSTICO nel Bizaro, nel Brequigny, nel Bastide, nel Varese, nel Vincens, nel Canale, nel Bargellini; e si potrebbe aggiungere che un Commentario latino ne lasciò Benedetto da Porto Maurizio edito dal Godfroy nel 1617 a Parigi in line alla storia di Carlo Vili del Jaligny, e che assai ne discorre il Senarega ne’ suoi Commentarii editi dal Muratori, non ignorati dal Giustiniani; oltreché una monografia sulla dedizione di Genova a Luigi XII pubblicò il Belgrano. Della Spinola e de’ suoi amori tocca appena il Varese; ma con maggior larghezza ne parla il Bastide, il quale anzi ne tesse un vero e proprio romanzetto. Riprodotti i pochi cenni consacrati a Tommasina dagli autori del Dizionario storico, afferma che egli narra quella vicenda amorosa colla scorta di un prezioso manoscritto ; ma noi non crediamo scostarci dal vero avvisando che abbia preso il fondo del suo racconto dal d’Auton stesso, o per mezzo delle notizie estratte da quella cronaca da Drieux du Radier e pubblicate nella Biblioteca istorica del Poitu, 0 dal libro anonimo di questo stesso autore intitolato Mémoires historique-critiques et anecdotes des reines et regentes de France, dove ha posto intorno a Tommasina le notizie date dal d’Auton. Più recentemente ha poi con più larghezza parlato di questo fatto il Belgrano nell’ Archivio Storico di Firenze, traducendo quasi quanto ne ha detto il cronista Francese, ed aggiungendo qua e colà notizie rilevate da altre fonti. Ne ha poi toccato più di recente nella sua Vita privata dei Genovesi, com ebbe a rilevare nella stessa Rassegna l’illustre amico nostro Alessandro d’Ancona. La narrazione del Bastide fornì il soggetto ad una novelletta in prosa, e ad un’ altra in terzine del march. Gian Carlo di Negro; se ne giovò il Celesia nel racconto Un tintore di seta, e più recentemente nella sua tragedia Paolo da Novi. Ed ora da una lettera del Sig. Armando alla stessa Rassegna ap- 537 prendiamo come dello avvenimento medesimo parli con diffusione il Kiihnholtz in un suo libro intorno agli Spinola di Genova (i). Con questo ci sembra di aver ampliamente risposto altresì alla terza affermazione; e potremo aggiungere che del dJAu-ton si è servito il Sismondi, che ne reca eziandio un brano; e non rimase ignoto al Cantù, il quale specialmente lo cita a proposito di quella carità pisana, che il sig. Ademollo ci narra in questo suo scritto colle parole del più volte ricordato cronista. Cionondimeno conveniamo anche noi coll’ egregio autore che potrebbe riuscire utile uno studio critico intorno al d’Auton, ora specialmente che il felice e vigoroso risveglio degli studi storici appresta nuovi ed importanti materiali agli studiosi (2). (1) Des Spinola de Gênes et de la Complainte depuis les temps plus recules jusqu'à, nos jours, suivis de la Complainte, de Gennes sur la morte de Dame Thomassine Espinolle, Genevois, Dame intendyo du Roy. Paris, Montpellier 1852. (2) Ci riserbiamo dar contezza maggiore di Tommasina Spinola, se le indagini negli archivi, come speriamo , recheranno buon frutto. INDICE DEL VOLUME DOCUMENTI ILLUSTRATI Due documenti di un marchese Arduino crociato nel 1184-5 (C. Desimoni) ......... Pag. Documenti riguardanti alcuni dinasti dell’Arcipelago (A.. Luxor 0, G. Pincili-Gentile e C. Astengo) . » I Cisterciensi in Liguria: Appendice e documenti (C. Desi-moni) ........... yt Lettere inedite di Fulvio Orsini al cardinale Alessandro Farnese (V. Poggi)........» 541 345 423 y 501 >c MEMORIE ORIGINALI Della vita e dei.viaggi di Lodovico de Varthema (0. Amat di S. Filippo) ......... Pag. Notizie sopra varie opere di Fra’ Bartoloïneo da S. tyarco (E. Ridolfi) ........ Di una falsa porpora trovata in Roma (A. e G. De Negri). Come debba reintegrarsi la supposta iscrizione dei Sapienti Pisani, già nella chiesa di S. Domenico (M. Remondini). Iscrizioni gemmarie (V. Poggi)..... La Torre degli Embriaci (L. Grassi) .... I Cisterciensi in Liguria secondo una receute pubblicazione (C. Desimoni)........ Due sigilli genovesi (L. T. Belgrano) .... II Marchese Bonifazio di Monferrato e i Trovatori provenzali alla sua Corte (C. Desimoni) .... Le Donne nell’ antica società genovese (M. Staglieno). Iscrizioni gemmarie, Serie seconda (V. Poggi) . Due lettere inedite di Antonio Cesari (A. Neri). Le changement de direction de la quatrième Croisade d’a près quelques travaux récents (Riants) .... 3 128 15; 177 209 y 216 23 5 >< 24 i 275 \ 372 428 445 giornale ligustico NOTIZIE VARIE Sunto della Memoria intorno ai viaggi dei fratelli Zeno al settentrione d’ Europa letta da C. Desimoni . . . Pag. 74 Verbali delle Assemblee generali della Società Ligure di Storia Patria i.° luglio, 5 agosto, 16 dicembre 1877. 21 luglio e 4 agosto 1878 . . . pag. 75, 169, 171, 332, 333 Cenno delle tornate della Sezione di Storia, pag. 167, 272, 275, 330, 332 * Cenno della tornata della Sezione di Belle arti — Sunto di una Notizia d’ un quadro di Taddeo da Siena letta da A. Remondini — Comunicazione d’un documento intorno a Luca Cambiaso fatta da C. Desimoni . . Pag. 167 Cenno delle tornate della Sezione di Archeologia pag. 169, 172, 174, 175, 272, 329, 332 Cenno delle tornate della Sezione di Belle arti . pag. 172, 175, 272 Indirizzo della Società per la morte del Re e risposta . Pa%. 173 Comunicazione di diverse notizie riguardanti la Storia genovese , fatta da C. Desimoni.....» 275 Sunto del Ragionamento intorno alcuni documenti riguardante la Storia della Sardegna nel Sec. XIII di T. Wüstenfeld .... » 330 VARIETÀ Transunti di alcuni memoriali presentati da Liguri al Papa e al Governatore di Roma nel Sec. XVII (A. Bertolotti). Pag. 576,400 Ancora una memoria sulla Congiura Fieschina (A. Ga- vazzo)..........» 126 Tre lettere inedite di Lodovico Antonio Muratori e una del Prof. Giuseppe Montanari (G. B. Brignardelli). . » 531 RASSEGNE BIBLIOGRAFICHE Numismatique de l’Orient Latin par G. Scblumberger (V. Promis)..........Pag. 10·] Elenco dei documenti orientali e delle Carte nautiche e geografiche «egli Archivi di Stato di Firenze e di Pisa (C. Desimoni).........». 403 540 GIORNALE LIGUSTICO Su la data degli spousali di Arrigo VI con la Costanza di Sicilia e sui divani dell’azienda normanna in Palermo. Lettera di O. Hartwig e Memoria di M. Amari (C. Desimoni) ..........Pas- 407 Vittorio Bersezio. Il Regno di Vittorio Emanuele, Libro primo ......... • » 417 ANNUNZI BIBLIOGRAFICI La Prise d’Alexandrie, ou Chronique du Roi Pierre i.er de Lusignau par Guillaume Machaut, pag. 79. — Curiosità e ricerche di storia subalpina, 175. — Tragedie di Seneca, 436. — Santo Varni, Tarsie ea intagli del Coro e Presbitero di S. Lorenzo, ivi.— G. Franciosi. Sciitti varii, 437. — Biblioteca delle tradizioni popolari, per cura di G. Pi-tré, 438. — Discorso sopra la musica de’ suoi tempi di V. Giustiniani, 439. — Francesco Podestà. Escursioni archeologiche in A^al di Bisagno, 440. — Alderano Mascardi, Nota biografica di G. Sforza, ivi.