GIORNALE LIGUSTICO ARCHEOLOGIA, STORIA E LETTERATURA FONDATO E DIRETTO DA L. T. » dicti denarii, videlicet floreni ducenti auri, licentia ser Guidonis de » Petrasancta, eidem domino Johanni per dominum Laurentium dati fue-» runt per bancum suum. » L’ antipapa Benedetto XIII (Pietro de Luna) sul principio del 1407 si recò a Genova e quindi a Portovenere, dove fece dimora per quasi sei mesi. Fu da lui che Aragone venne consacrato Vescovo della Chiesa di Luni, della quale era legittimo pastore frate Andrea dell’Ordine di S. Domenico; e prima a lui, poi al suo successore Giacomo De’ Rossi, Aragone contrastò la sede episcopale, forte dell’appoggio de’ propri congiunti, potentissimi in Lunigiana. GIORNALE LIGUSTICO 43 sione non è opera di Martino V, ma bensì del suo predecessore Giovanni XXIII, il quale, per ridare la pace alla sconvolta Chiesa di Luni , il 28 gennaio del 1415 nominò arcivescovo di Brindisi Γ intruso Aragone (1) , e poi il 6 di marzo (2) del medesimo anno trasferì all’ arcivescovato di Napoli il legittimo Giacomo de’ Rossi e nello stesso giorno nominò Francesco da Pietrasanta Vescovo di Luni. Per oltre mezzo secolo governò esso la Chiesa, ma per verità senza che niente facesse in questo lungo periodo di tempo da raccomandarne ai posteri la memoria. Nel primo anno del suo governo pastorale, per testimonianza del De’ Rossi, « nella chiesa parrocchiale di Canetto, terra di questa dio-» cesi Lunese, posta nella giurisdizione del Capitanato di » Fivizzano, avendo monsig. Antonio di Pera, Vescovo e » Visitatore Apostolico, fatto aprire Γ aitar maggiore di detta » chiesa, per vedere se quella parrocchia era veramente con- » sacrata, furono il dì 25 di novembre.....trovate, con » molte altre, alcune reliquie del corpo di S. A^enanzio lunese » Abate di Ceparana, che furono a quell’ altare nuovamente » riposte. Et essendovi concorso molto popolo, v’ intervenne » ancora a venerarle il Vescovo Pietrasanta. » Il Comune di Nicola, già padronanza de’Vescovi di Luni, e che fino dal 1406 si era dato alla Repubblica di Firenze (3), (1) Dopo tre anni, Aragone da papa Martino V, il 26 febbraio del 1418, venne trasferito all’Arcivescovato d’ Otranto, ma, come asserisce PUghelli, « paucis mensibus sedit. » (2) L’Ughelli (Italia sacra; VI, 202) afferma che il De’ Rossi « Nea-» politam sedem adeptus est Constantiae prid. non. maii 1415 »; ma quel « maii » è senza dubbio un errore di stampa e deve leggersi « martii ». (j) A p. 426 del voi. Il delle Istorie fiorentine scritte da Giovanni Cavalcanti si legge una lettera della Comunità e uomini di Nicola alla Signoria di Firenze, in data de’ 10 marzo 1448, che è accompagnata da 44 GIORNALE LIGUSTICO si trovava involto in un aspro litigio co’ canonici della cattedrale di Sarzana, volendo costoro per vecchi diritti riscuotere le decime in esso Comune, e ricusando gli uomini di Nicola di pagarle. A sopire la controversia vennero scelti due arbitri, e furono il nostro Vescovo e Marco de’ Conti di Modigliana (i), Commissario in quel tempo di Nicola per la Repubblica Fiorentina ; i quali sentenziarono a favore de’ canonici. Il 14 gennaio del 1419 il Vescovo si fece pagare da’ Consoli di Ceserano la sua porzione degli introiti sul pedaggio in quel Comune, che per metà appartenevano al Comune stesso e per Γ altra metà al Vescovato (2). Il 4 di febbraio del 1447 pose (ine con un’amichevole transazione al litigio che da moltissimi anni si era acceso tra la Chiesa di Luni e il Comune e gli uomini di Castelnovo di Magra per gli affitti, i censi e le prestazioni da essi dovute e da un pezzo non pagate ; litigio incaloritosi a segno da esser portato dinanzi la Curia Romana, e sorgente, a confessione stessa del Vescovo , di crescenti scandali, rancori e inimicizie, non senza detrimento delle anime (3). Nel 1450, « sotto il di 30 del mese di luglio, » (cosi il De’ Rossi), « Francesco interpose il suo decreto alla deliberazione fatta » dal Capitolo in materia della residenza de’ Cappellani, di una interessante nota illustrativa di E(manuele) R(cpctti), dove, tra l'altrc cose, si dice, che * la Repubblica Fiorentina considerava allora questo » luogo come capo della parte Guelfa in Lunigiana. * (1) Il Semerìa (op. cit. II, 88) lo chiama e Marco dei Conti d’Arunti* gliano » e il De’ Rossi « Marco de’ Conti di Mutiliana », tutti c due però più o meno erroneamente. (2) Archivio Notarile di Sarzana. Contratti del notaio Andrea q." Iacopino de’ Griffi. (3) L’ originale di questa transazione è posseduto dagli eredi dell’ avvocato Pietro Ferrari di Castelnovo di Magra. La riporto, nella sua integrità, in fine. GIORNALE LIGUSTICO 45 » che si rogò Antonio da Pontremoli, Cancelliere del Vesco-» vato. Dopo di che velie intervenire anch’ esso alla solen-» nità dell’ anno giubileo ; al qual effetto, dopo la festa del-» l’Esaltazione della S. Croce, nel mese di settembre si portò » a Roma, dove da Nicolao, nostro papa, fu onorevolmente » ricevuto et ammesso alle sacre funzioni con particolar di-» stinzione dagli altri prelati. » Per lo più tenne questo Vescovo la sua dimora a Pontremoli , « per poca soddisfazione de’ Sarzanesi », come dice il De’ Rossi. A Pontremoli infatti venne rogata la sua transazione con gli uomini di Castelnovo; da Pontremoli il io giugno del 1457 scriveva agli Anziani sarzanesi « lamen-» tandosi con essi di un nuovo convento che si trattava di » erigere in Sarzana a pregiudicio della sua Chiesa, con pro-» testa di trasferire altrove la sua residenza » ; a Pontremoli il 27 agosto del 1460 « fece locazione per anni nove di tutti » li possessi del suo Vescovato, situati nelle giurisdizioni di » Carrara et Avenza, a Pietro del q.m Domenichino di Car-» rara, detto Pitorso, per instromento pubblico (1). » Sul tempo della sua morte sono tra loro discordi i biografi di lui. « Vixit usque ad Nicolai Quinti tempora », scrive 1’ Ughelli , ma fuori del vero. Il De’ Rossi sostiene invece che passò all’altra vita nel 1465; forse deducendolo dall’as-serirsi appunto dall’ Ughelli che il successore di Francesco « patriae Episcopus fuit anno 1465 ». Ma, come già provò il Neri, di Francesco si ha una lettera nell’Archivio Capitolare di Sarzana in data de’ 28 marzo 1467; l’elezione del (1) Son parole del cronista De’ Rossi, che così prosegue: « et a’ 21 •ί settembre dell’anno istesso intervenne con li Vescovi Lucchese e Peru-» gino alla consacrazione fatta in Sarzana nella Chiesa cattedrale della » Cappella dell’Apostolo S. Tomaso fatta dal Cardinal Calandrino con » molta solennità. » 46 GIORNALE LIGUSTICO successore, Antonio Maria Parentucelli, avvenne il 6 settembre del 1469, e il Cardinale Filippo Calandrini, il i ottobre di quell5anno, nel darne parte a* canonici del patrio Capitolo dice che « il dolore di vedere la diocesi di Sarzana priva » da olire due anni del proprio pastore » lo aveva indotto a pregare la Santità di papa Paolo II a farne l’elezione; per la qual cosa, conchiude il Neri, si può « con sicurezza » affermare » che Francesco da Pietrasanta « sia mancato » fra l’aprile e il settembre del 1467 (1) ». Esso, per il primo, ne’ suoi atti assunse il titolo di Vescovo di Luni-,Sarzana, ed ò questo forse il fatto più notevole della lunga e oscura sua vita pastorale. Massa, 10 gennaio I892. Giovanni Sforza. APPENDICE Convenzioni e transazioni fra il Comune di Castelnovo di Magra e Francesco da Pietrasanta Vescovo di Luni. In Christi nomine, amen. Anno incarnationis eiusdem millesimo quadringentesimo quadragesimo sexto, indictione decima, die vero quarto mensis februarii, secundum cursum terre Pontremuli Lunensis dioecesis. Cum inter reverendos in Christo patres et dominos, dominos Episcopos Lunenses, tam preteritos, quam reverendum patrem et dominum , dominum Franciscum de Petrasancta, Dei et Apostolice sedis gratia Episcopum Lunensem modernum et Comitem, ex una, (i) Neri A. Di papa Nicolò V c dei più chiari uomini della famiglia Parentucelli di Sarzana; nel Giornale Ligustico, II, 450. GIORNALE LIGUSTICO 47 ac Comune et homines Castrinovi longissimis temporibus iam elapsis verse fuerunt et adhuc vertuntur lites, iurgia, questiones et controversie, tam in Romanam Curiam, quam extra, cum maximis dannis , laboribus et expensis ac scandalis ipsorum litigantium, pretextu et occasione certorum affictuum seu censuum, aut aliarum prestationum , ad quas seu quos solvendum annis singulis Comune et homines prefati Lunensis dioecesis obligati pretenduntur, seu dicuntur, Ecclesie Sancte Marie Lunensis, seu reverendo Episcopo Lunensi pro tempore existenti, ac certorum locorum ut pretenditur spectantium et pertinentium ad Ecclesiam predictam Lunensem et ut dicitur occupatorum per diversos ex alia partibus ; et maxime nunc inter prefatum reverendum in Christo patrem et dominum , dominum Franciscum de Petrasancta Dei et Apostolice Sedis gratia Lunensem Episcopum et Comitem . suo proprio nomine et nomine et vice Lunensis Ecclesie, sive dominum Franciscum de Ioagallo Archidiachonum ipsius Lunensis Ecclesie et dicti reverendi domini Episcopi in spiritualibus et temporalibus Vicarium Generalem, nomine et vice reverendi domini Episcopi et dicte Ecclesie, et Ber-tonus quondam Andrucelli de dicto Castronovo syndicum, procuratorem, nuntium et negotiorum gestorem universitatis Comunis et hominum Castrinovi predicti, ad hoc habentem plenum et sufficiens mandatum, de quo constat publico instrumento, tradito et rogato manu ser Petri Benetini de Castronovo, publici et autentici notarii, a me infrascripto notario viso, tacto et lecto cum solemnitatibus debitis, anno, die et mense contentis in illo : Cumque crescentibus differentiis predictis, et crescere cognoscantur expresse, et crescant scandala, rancores et inimicitie cum animarum detrimento: unde cum lis esset dubia, et dicti homines et Comune a petitione dicti reverendi domini Episcopi tam in Romana Curia quam alibi se defenderent, et ad obviandum scandalis 4S G FORNAI. E LIGUSTICO et parcendum laboribus et expensis partium huiusmodi, ac salvandis animabus, ipse partes diutius fatigate pro apponenda compositione inter se, videlicet preiatus reverendus dominus Franciscus Episcopus de scientia, consensu et voluntate omnium et singulorum canonicorum Lunensis Capituli, et nunc residentiam facentium in dicto Capitulo, ut de dicto consensu et scientia constat instrumento publico et so-lemni tradito et rogato manu mei Bartolomei Francisci de Borborinis notarii publici pontremulensis et ipsius reverendi domini Episcopi et Curie sue Cancellarii et scribe, anno, die et mense contentis in illo, pro una parte, et Berthonus quondam Andrucelli pro dicto suo proprio et privaro nomine, ut supra, et tanquam syndicus et procurator et syndacano et procuratorio nominibus dictorum Comunis, universitatis et . hominum ex altera , ad infrascripta pacta, conventiones et transactiones, modis, conditionibus et formis infrascriptis, super predictis controversiis et defferentiis et emergentibus dependentibus ab eisdem et illis connexis , devenerunt et deveniunt. Primo, Berthonus syndicus predictus suo ut promittitur et sindicario et procuratorio nominibus, et per se et suos et cuiuslibet hominum de Castronovo predicto successorcs et heredes solemniter promisit et convenit dicto reverendo domino Episcopo, et sive dicto eius Vicario ct procuratori, procuratorio nomine pro se et suis successoribus stipulantibus et recipientibus, et mihi infrascripto notario unquam publice persone officio publico fungentis stipulanti et recipienti nomine et vice ipsius reverendi domini Episcopi et dicte Ecclesie Lunensis in iis que ad dictam Ecclesiam, singula singulis referendo, spectant et pertinent, vel spectare poterunt quovismodo, et omnium et singulorum quorum principaliter interest vel in futurum poterit interesse, dare, solvere, numerare realiter et cum effectu in bonis florenis auri et iusti ponderis ad terminos et terminis infrascriptis : videlicet, nunc GIORNALE LIGUSTICO 49 et in presenti de numerato, ulla sine compensatione, ducatos quinquaginta boni auri, ut supra, reliquos vero centum fìorenos dare et solvere facta confirmatione huius transationis et concordie per sanctissimum dominum nostrum Papam infra mensem a die notificationis ipsius confirmationis. Et hoc prò integra solutione et completa satisdatione omnium et singulorum affictuum non solutorum per homines et personas privatas de dicto Castronovo, sive per universitatem et Comune, ipsi reverendo domino Episcopo Lunensi seu Ecclesie sue Lunensi, ut pretenditur, debitorum vigore publici instrumenti traditi et rogati manu quondam ser Aluysini de Marciasio , et sumpti et publicati per quondam ser Baptistam notarium et filium dicti quondam ser Aluysini anno, mense et die contentis in ilio, seu vigore et ex causa cuiuscumque extimi sententie et laudi, transactionis vel pacti hactenus inter dictas partes late et lati sive facti, quos omnes hic pro sufficienter expressis et declaratis dicte partes haberi voluerunt, ac si de omnibus ipsis de verbo ad verbum fieret mentio specialis. Et quod factis duobus solutionibus suprascriptis, ipse reverendus dominus Episcopus et qualibet agens pro eo teneatur et debeat absolutionem et liberationem validam et solemnem de omnibus et singulis que ipse reverendus dominus Episcopus ex causis predictis quacumque causa et ab illis dependenti et emergenti petere posset consequi vel habere usque in diem presentem ab ipso syndico sindicario nomine sive a dictis universitati et Comuni vel singularibus personis masculis et feminis ipsius universitatis et Comunis. Salvis tamen manentibus omnibus pactis et conventionibus modis et conditionibus suprascriptis. Item actum extitit interdictas partes et conventum quod prefatus reverendus dominus Franciscus Episcopus et Franciscus Arcidiachonus de consensu, scientia, deliberatione et voluntate Capituli Ecclesie Lunensis pro bono pacis et concordie, et ut scandala in futurum tollantur, Gì Oku. Ligustico. Anno XIX. 4 50 GIORNALE LIGUSTICO remittat quosque census et affictus quos sibi et Ecclesie Lunensi a Comunitate et hominibus et singularibus personis, tam masculis, quam feminis, Castrinovi pretendit annis sin-gulisdebitos, sive in grano, sive in vino, aut aliis quibusvis speciebus consistant, ipsosque Comune et homines et singulares personas a solutione et prestatione affictuum et censuum huiusmodi in futurum facienda penitus et omnino liberaret et eximeret, prout in mei notarii publici etc. stipulantis etc. presentia pro espressum pure simpliciter et sua mera libera et spontanea voluntate remisit, liberavit et exemit. Et versa vice pro recompensa huiusmodi liberationis et absolutionis , ne ex illis Ecclesia Lunensis dispendium patiatur, immo ex inde commodum et reverentiam ab ipsis Comuni et hominibus ac singularibus personis suscipiat et habeat quod prefatus syndicus syndicario nomine quo supra et homine et universitas et Commune Castrinovi predicti dimittat et tradat ac assignet, et dimettere, tradere ac assignare debeat, et libere relassare eidem reverendo domino Episcopo sive agenti et agentibus pro eo omnes et singulas terras, bona, domos et casamenta et loca infrascriptas et infrascripta, libera et expedita , liberas et expeditas, et ipsum reverendum dominum Episcopum et quemcunque eius procuratorem quotiescumque voluerit in tenutam et corporalem possessionem terrarum, domorum, bonorum, casamentorum et locorum predictorum mittere et inducere, ipsumque manutenere et defendere quantum est pro se ipsis. Et ex nunc ipse Berthonus syndicus dicto syndicario nomine ipsas omnes domos, terras, loca et bona liberas et libera eidem reverendo domino Episcopo ut supra recipienti dimittit et relassat, dans etiam eidem quantum est pro se dicto nomine universitatibus hominibus Communis predictis plenam licentiam sua propria auctoritate possessionem intrandi, capiendi et retinendi sine ipsorum aut cuiuslibet ipsorum contradictione et molestia, et de ipsis GIORNALE LIGUSTICO SI omnibus et singulis faciendi et disponendi pro libito voluntatis : sane intellecto quod fructus pendentes, et qui nunc sunt impositi, pro hoc anno tantum et non ultra sint colonorum et hominum qui ipsos fructus imposuerunt, et eas tenuerunt et laboraverunt, presenti assignatione et relassatione in aliquo non obstante. Que bona sunt hec, videlicet : et primo medietas cuiusdam possessionis pro indiviso posita in pertinentiis Castrinovi loco ubi dicitur a li Orti, cui coheret a duabus partibus via publica et ab aliis duabus partibus Petrus quondam Johannis prenominatus Iurbonus de Castronovo ; quam medietatem possessionis ipse Berthonus dicto syndicario nomine promisit et promittit eidem domino reverendo Episcopo stipulanti ut supra dare et assignare liberam et expeditam ab omni onere, ipsamque semper et in perpetuum defendere, autorizare et disbrigare ab omni persona Communi, collegio et universitate. Item, petia una terre campivo posita in pertinentiis Nicole et Ortonovi iuxta viam et nemus paduli que fuit Martini Bernardini libera et expedita ut supra. Item, petia una terre campive posita in pertinentiis Castrinovi in loco dicto al Cafa^io iuxta Dominicum quondam Zuchoni et nemus Communis, que fuit predicti Bernardini libera ut supra. Item, domus una coperta partira planeis et partira palea posita in terra Castrinovi iuxta stratam Communis et Benedictum quondam Petrucii libera ut supra. Item, eidem reverendo domino Episcopo liberum et expeditum nemus sive rogum quod est in pertinentiis Castrinovi in loco dicto a Cocombola iuxta canale et fuit Branchi Dinelli. Item petia una terre olivate in dictis pertinentiis in loco dicto al Prado iuxta viam a duobus partibus que fuit dicti Franchi libera ut supra. Item, casamentum positum in terra Castrinovi iuxta Simonellum Petri et viam , quod fuit dicti Branchi, liberum ut supra. Item, petia una terre campive in dictis pertinentiis Nicole et Ortonovi in loco dicto a Lune 52 GIORNALE LIGUSTICO iuxta viam et nemus paduli, que fuit Ricolde Figelli, libera ut supra. Item, domus una posita in terra Castrinovi coperta planeis iuxta Bertucellum et viam, que fuit ser Petri Dinotti libera ut supra. Item, petia una terre campive posita in pertinentiis Nicole et Ortonovi iuxta viam et nemus paduli, que fuit Fatii Cionelli, libera ut supra, in loco dicto a Lune. Item , petia una terre campive posita in pertinentiis Castrinovi in loco dicto a la Muruciara iuxta viam, libera ut supra, que fuit dicti Fatii. Item, petia una terre posita in dictis pertinentiis in loco dicto a la Jara iuxta viam, que fuit Fran-cisci Vite, libera ut supra. Item, quodam nemus in dictis pertinentiis et in loco dicto a Maciatrono quod fecit dicti Francisci liberum cum suis confinibus. Item, petie due terre campive in pertinentiis Castrinovi in loco dicto al Bolignolo cum suis confinibus, que fecerunt dicti Francisci, libere ut supra. Item, petia una terre campive in dictis pertinentiis loco dicto a Betigna vechia cum suis confinibus, que fuit dicti Francisci, libera ut supra. Item, petia una terre campive in dictis pertinentiis in loco dicto a la Giara iuxta Betignam, que fuit Ioannini Venturelli, libera ut supra. Item, domus una in terra Castrinovi libera iuxta plateam , que nunc est casamentum et fuit Simonelli Petri. Item, quodam nemus in dictis pertinentiis in loco dicto Vallechia, quod fuit dicti Simonelli, ut supra. Item, petia una terre campive in pertinentiis suprascriptis loco dicto in Tavolara cum suis confinibus, que fuit Mechi Ursucis, libera ut supra. Item, ortus unus in dictis pertinentiis loco dicto a li Orti cum suis confinibus, qui fuit Parentis Salini expeditus ut supra. Item, petia una terre in dictis pertinentiis in loco dicto a Borgora iuxta ser Petrum , que fuit Guidoti Guglielmi, libera ut supra. Item, casamentum unum iuxta rocbam, quod fuit Fosci Fatii. Item, petia una terre boschive in dictis pertinentiis loco dicto Pontesello cum suis confinibus, que fuit lane Francischini. Item, petia una GIORNALE LIGUSTICO 53 terre campive in dictis pertinentiis loco dicto a la Gragnola iuxta viam, que fuit Cursi Rollandi. Item , petia una terre campive in dictis pertinentiis et in dicto loco que fuit Ro-bini Rollandi iuxta Franciscum Vite. Item, casamentum unum in terra Castrinovi iuxta Ioaninum Vegnudi, quod fecit Petri Alberti. Item, petia una terre in dictis pertinentiis loco dicto in Agione iuxta Natalem et viam, que Foschi Corselli. Item, petia una terre vineate in dictis pertinentiis in loco dicto al Prado iuxta viam, que fuit dicti Francisci. Item, casamentum unum in terra Castrinovi iuxta canonicam quod fuit dicti Foschi. Item, salvis premissis, quod si contingeret reperiri aliquem vel aliquos de Castronovo tenere et occupare aliqua bona mobilia et immobilia ad Lunensem Ecclesiam iure directi et utilis dominii spectantia, vel ad ipsum reverendum dominum Episcopum pro Ecclesia, quod tales occupantes teneantur ipsa bona libera et expedita dimittere et relassare ut supra, et ad hoc homines de Castronovo pro recuperatione predicta teneantur reverendo domino Episcopo predicto et agentibus pro eo omne sibi possibile auxilium et consilium prebere. Que omnia suprascripta et infrascripta dicte partes et utraque earum solemnibus stipulationibus hinc inde intervenientibus sibi ad invicem attendere et observare promiserunt prout iacent ad litteram, et non contrafacere vel venire per se vel alium seu alios aliqua ratione, causa vel ingenio, directe vel per obliquum, sub pena florenorum quingentorum boni auri applicandorum parti attendenti, et auferendorum a contra-faciente. Que pena tocies committatur et exigi posset cum cum effectu, quoties fuerit in aliquo contrafactum vel conventum. Et pena soluta vel non rata, tamen maneat omnia et singula suprascripta et infrascripta. Et ex nunc pro observantia fidei premissorum dictus Berthonus syndicus dicto syndicario nomine volens agnoscere bonam fidem animo et intentione liberationem integram consequendi pro satisdatione 54 GIORNALE LIGUSTICO prime partis debiti suprascripti florenorum centum quinquaginta coram me notaio et testibus infrascriptis dedit, solvit, numeravit, nomine quo supra, prefato reverendo domino Episcopo presenti et recipienti florenos quinquaginta boni auri, videlicet in pecunia numerata, occasione suprascripta. Et ad cautelam sponte et ex certa scientia, ut supra, dictum Ber-thonum syndicum dicto syndicario nomine presentem et acceptantem, et per ipsum universitatem, Commune et singulares personas de Castronovo, pro acceptilationem prece-dentem et acquilianam stipulationem subsequentem et eorum et cuiuslibet eorum heredes et bona absolvit et liberavit ab omni eo et toto quod predecessores ipsius reverendi domini Episcopi et post ipsos ipse reverendus petere potuissent vel poterant usque in diem presentem et in futurum petere pos-sent a dictis universitate, Commune hominibus et singularibus personis ut supra occasione suprascripta vel ex causa affictuum preteritorum retentorum et non solutorum et occupatorum et debendorum condepnationis vel pacti vigore et ex causa con-tratus dicti ser Aluysini seu alterius cuiuscumque scripture notarii. Quod instrumentum ser Aluysini et omnes sententias arbitrarios et arbitramentaria iudiciarias et deffinitivas idem reverendus dominus Episcopus, facta prius solutione dictorum florenorum centum, cassat, irritat et annullai, ita quod aliquo tempore nullum sortiri possint effectum. Salvo tamen remanente eidem domino reverendo Episcopo iure petendi et habendi reliquos florenos in dicto termino persolvendos et hoc ideo quia per pactum solemni stipulatione vallatum sic actum extitit et conventum. Ita tamen quod predicto reverendo domino Episcopo eu eius successoribus predictis non obstantibus salvum et intactum remaneat omne ius dicte in aliquo Ecclesie, sive ipsi reverendo domino Episcopo pro dicta Ecclesia de iure spectans et pertinens in possessione et possessionibus campivis, vineatis et olivatis positi et iacen- GIORNALE LIGUSTICO 55 tibus in territorio Castrinovi loco dicto al Cafa^io sub qui-buscumque confinibus terminentur et confineantur, et supra quibuscumque aliis possessionibus prativis, vineatis et olivatis ac quibuscumque arboribus arboratis et boschivis ubicumque sint et iaceant et sub quibuscumque confinibus terminentur occupatis et detemptis per aliquos dominos temporales : ad quarum relassationem homines de Castronovo ullatenus teneantur nisi quantum est pro se ipsis et suo facto tantum, et ad exortationem et iuvamen prestandum quod predicta dicto reverendo domino Episcopo relassentur et restituantur. Hoc etiam acto quod prefatus reverendus dominus Episcopus teneatur facere et curare cum effectu quod Sanctissimus Dominus Dominus Nicolaus Papa ratificet et approbet transactionem et conventionem presentem, ac omnia et singula in presenti contractu contenta, que auctoritatem apostolicam exigant, expensis tamen hominum de Castronovo. Et ipso sic non facienti, et retificationem non habente, ut supra, quod tunc ipse reverendus dominus Episcopus restituere teneatur universitati et hominibus de Castronovo omne totum et quid quid de dicta summa florenorum centum quinquaginta recepisset, et utraque pars sit et esse intelligatur in pristino statu, hoc est in eodem gradu in quo erant ante presentem contractum. Salvis remanentibus iuribus amborum partium. Salvo tamen eidem domino reverendo Episcopo et eius successoribus dominio et iurisdictione terre dicti Castrinovi et eius roche. Pro quibus omnibus et singulis firmiter attendendis et observandis obligaverunt dicte partes, nominibus quibus supra, omnia ipsarum Ecclesie Lunensis universitatis, Communis et hominum de Castronovo bona presentia et futura. Actum Pontremuli in . . , . Sancti Iohannis in domo re-sidentie prefati domini Episcopi in eius camera cubiculari, presentibus venerabilibus viris presbitero Mayneto de Ma- 5I8 · Itti — Leggendo: Mi phleres sfidare, e deducendo quest’ultima parola dal grecò σφυρηλατον, tradussi : Me statua metallica d’Apollo; avendola però meglio studiata, mi sono persuaso che non si debba leggere sfulare, ma xuulare, che starebbe per xuulale, e sarebbe un aggettivo con la desinenza in alis adoprato a modo di sostantivo da confrontarsi con la parola etrusca suhulo (lt. tibicen'), della quale sembra una derivazione : su(b)u-laris per su(b)ulalis. Ora molto giustamente, mi pare, il sig. Alfredo de Maury (v. Atlante di Noël des Vergers, pag. 35, nota 2) deduce la parola subulo del greco σύναυλος; ed io accettando ben volentieri questa etimologia, attribuisco perciò nel caso nostro, alla voce σύναυλος, che qui leggo Ξύναυλος (i), non il significato di tibicen, ma quello di con- (1) Forse la parola etrusca subulo meglio che da σοναυλός potrebbe dedursi da ϋπαολός, colui che col suono della tibia segue, o, come si direbbe oggi, accompagna il suono 0 il cauto di un altro; lat. tibid succinens. E in questo senso, allora, potrebbe anche interpretarsi la parola aqfuvqe; la quale chissà che non vada letta xbulare, o xvulare per subulare.... Dal subulo etrusco poi si potrebbe, senza molto sforzo, far derivare la parola italiana %ufolo. Per il cambiamento della tenue b nell’aspirata / cfr. 1’ umbro trifus per tribus (tribù), e il basso latino trifunes per tribunas. GIORNALE LIGUSTICO 69 tubernalis, sodalis e simili, e così traduco: ΜI ■ ΦΛΗΡΕΣ · ΞΥνΑΥΛ — alem: Me famigliare (compagno) d’Apollo — Di guisa che la statuetta su cui si legge questa iscrizione non rappresenterebbe un Apollo, ma sivvero un suo seguace, ossia un poeta. Due altre parole delle quali io stimo dover correggere la interpretazione sono queste: 3K1IH3+ . >1MKA2 — Nella prima versione (v. fascic. cit., pag. 284 e seg.) io lessi la parola ΊΜΚ1ΑΕ come un’ abbreviazione di ΑΊ3Μ : ritengo invece che >1MMA2 sia una parola diversa, e la deduco da un tema ξαω, scolpire; ξανς-l significherebbe dunque: opera dello scultore, in una parola la scultura. E che cosa significheranno allora le parole: 3)qA+----#3+ · >JMI1fH3M , che si leggono in una delle due statuette di bronzo ritrovate nelle mura di Cortona ?... Io leggerei : selansl ted .... lurce (la lettera etrusca $ si adatta molto bene a rappresentare non solo il 2, ma anche il Δ).. e tradurrei: questo (τήδε) bronco donò. Selans — sarebbe un participio pr. o del verbo σέλαω, avere lo splendore del fuoco ; o del verbo κέλοω, abbruciare; oppure potrebbe essere una forma attenuata di sethlans, vulcano; e in conseguenza qualunque di queste tre etimologie si voglia accogliere, selans-l significherebbe 1’ opera della fusione, del fuoco, di vulcano, insomma il bronco. Per completare la frase che sto esaminando rimane la parola 3HIH3-K la quale io, fondandomi sopra una semplice analogia, tradussi dapprima annuale (v. fascic. cit., pag. 285). Depenno anche questa interpretazione perchè troppo arbitraria e per 1’ etimologia e per il concetto; e ne sostituisco un’ altra che mi pare assai più razionale: io tradurrei xansl tenine, la scultura di bronco, la statua di bronco. Capisco che anche una tale interpretazione é molto incerta, giacché non si trova sui vocabolari una parola a cui si possa con sicurezza riannodare 1’ agg. tenine. Forse gli etruschi per esprimere l’idea del bronco si servivano 70 GIORNALE LIGUSTICO di una parola come τένων, τένον, derivandola dal verbo τείνω; oppure dal verbo τανυμι nel significato di distendersi, vale a dire il metallo che si distende, che si fonde (rad. tan, ten; cfr. lt. teneo, tennis, con-tinuus, tenor ecc.); e di qui sarebbe venuto Γ agg. τένινος,, di bronco ; ma, come si vede facilmente, queste non sono che ipotesi. E un’altra ipotesi sarebbe questa: si potrebbe immaginare una parola t-ahenum per significare il bronco, dalla quale poi sarebbe venuto 1’agg. ieninus. — A convalidare Γ interpretazione che ho dato alle due parole surriferite stimo opportuno d’inserire in questo luogo una versione dell’ inscrizione che si legge sopra la statuetta di un fanciullo, inscrizione riportata nel Corpus inscr. ital. del Prof. Fabretti sotto il num, 1930. L’inscrizione è questa: q3V>IMHflE:>3*M3q3>IS che io leggo: Phleres dee xansl euer, e traduco letteralmente: scultura gettata (fusa) di fanciullo d’Apollo, cioè appartenente ad Apollo. Dal gr. κόρος sarebbe venuto l’etrusco cuer, e da questo il lt. puer. Dec poi verrebbe da un tema δίκω, gettare, lt. jacio, dejicio (Rad. jak, gettare, cfr. lt. sub-jex, sub-jectus, e fors’ anche Γ italiano azzeccare'). Si capisce però che anche questa é una interpretazione molto incerta. Passiamo ora all’ultima parola dell’inscrizione in esame. Ho già detto più sopra che invece di chisu-lics, in questa nuova versione io leggo psixulics, e questa parola composta spezzo in tal modo : psi-xulics — gr. Ψι — ξυλλεγ----s. Ψι sarebbe un verbale abbreviato dal verbo ψίω; ξυλλεγ... s sarebbe un genitivo di un verbale da ξυλλεγω (cfr. lt. colligo)', e la traduzione sarebbe : sottile ragionatore. Terminate così le correzioni all’inscrizione dell’Arringatore, riportiamo per intero la versione riveduta e corretta nel modo seguente : GIORNALE LIGUSTICO 71 ΑΪΛΕΣΙα . ΜΕΤΕΑΙΣ . ΤΕξ>.ς. FESIAL KAANESI. ΚΑΙΝω. ΦΐΕΡ ES (οΦαΛΗΡ£5) ΤΕθ-ειΚΕ ΞΑΝSL . ΤΕΝΙΝΕν . ενΤΑΪ-ΘΙΝ£5 ΨΙΞΓΑλΕΓοντος Aulesia di Metello Vessio della famiglia Vessia nella ricorrenza della festa (καινω) d’Apollo pose la statua (scultura) di bronzo di questo (ενταυ&ινες) sottile ragionatore. Potrà il sottoscritto sperare che qualche valente filologo prenda in esame queste sue investigazioni linguistiche ? . ... Ne dubita assai. Antonio Pacini. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Dottore Agostino Dutto. — Le origini di Cuneo dimostrate con documenti, contributo alla storia delle origini dei Comuni del Piemonte. - Saluzzo, tipografia Lobetti-Bodoni, 1891. Se il vero amor patrio ci lega alla Nazione, esso peraltro si radica in quello che ciascuno deve avere pel proprio Comune, poiché nella guisa che dalla riunione delle famiglie sorge il Comune, dall’assieme dei Comuni nasce la Nazione. Dalle storie particolari si deduce la storia tutta di un paese; ma questa non è possibile senza quelli, nel modo che senza i materiali non si potrà mai edificare una casa. Il perchè tutte le storie particolari di città ed anco di piccoli Comuni deggiono sempre ritenersi d’interesse generale. Che se notevoli città dell’alto, del basso e del medio Piemonte ebbero da un secolo in qua i loro storiografi, quali Vercelli, Fos-sano , Asti, Saluzzo, Savigliano , Carmagnola , Cavaglià ed altri Comuni minori, non posseggono ancora storia acconcia nè Susa, nè Ivrea, nè Alba. Cuneo stessa, per quanto 7' 2 GIORNALE LIGUSTICO parecchi, ed in tempi meno recenti, e ne’ recenti ne abbiano fatto argomento dei loro studii, non ha ancora una storia, che unicamente fondata sui documenti, possa soddisfare quanti al giorno d’ oggi, in cui 1’ ermeneutica storica ha fatto giganteschi progressi, sono in diritto di pretendere. A fare scomparire in parte simile lacuna si accingeva appunto per Cuneo sua patria, il dottore in lettere Agostino Dutto , che non invano prese a rimaneggiare Γ intricata storia delle sue origini e dei primi suoi anni. Egli distinse il suo lavoro in tre parti, e trattò: i.° delle origini di Cuneo secondo i cronisti ; 2.° degli errori principali nei quali inciamparono i cronisti e gli storici; 3.0 dell’origine di Cuneo secondo i documenti. E non è a dire che il campo percorso dal nostro autore si poteva ritenere incolto, poiché mal dissodato da cronisti rozzi e da scrittori, cosi deboli in critica, da non potersi loro attribuire la qualità di storici. Cito fra questi secondi Giuseppe Mariani da Mondovì, che nel 1719 pubblicava col pseudonimo di Teofìlo Partenio un libro intitolato da lui: I suoli della città di Cuneo, che quel municipio stesso non aggradiva, confiscandone gli esemplari venutigli a mano. Ragione di giustizia però esige che da cotal numero abbiasi a sceverare il barone Giuseppe Manuel di S. Giovanni, il quale se poco si trattenne sull'argomento trattato dal Dutto, pubblicò pregevoli e critiche memorie sulla storia Cuneese. È nella terza parte del suo scritto, che il Dutto viene col sussidio di documenti del finire del secolo XII e del seguente, e collo studio degli avvenimenti principali e delle lotte dei comuni vicini col feudalesimo, a stabilire la più probabile opinione sull’ origine del cosi detto Ρϊζζο del Conio, sorto sul promontorio tra il Gesso e la Stura, e per la sua forma denominatosi Cuneo. Egli col mezzo dello studio approfondito su varii documenti, editi bensì, ma non abbastanza vagliati GIORNALE LIGUSTICO 73 cogli occhiali della critica, riesce a provare che Cuneo fu proprio fondata nella primavera del 1198, 0 tutt’al più sul cadere del precedente 1197 da popolazioni, che più non potendo sopportare il giogo dei marchesi di Monferrato, Saluzzo e Busca, avevano preso quel partito a suggerimento dell’ abate del borgo di S. Dalmazzo e del Comune d’ Asti. E siccome le popolazioni più maltrattate erano state quelle dei luoghi di Caraglio, Bernezzo, Vignolo, Brusaporcello, Boves e Quaranta, così furono queste che concorsero ad edificarsi quel luogo di difesa. Il Dutto, a cui la sorte non pose in mano documenti straordinarii , fece già assai nel potere stabilire quanto è argomento del suo lavoro : sarà ben difficile che altri, con tutto il buon volere, nello stato attuale delle cose possa far di più. E questo è già un buon pronostico per affermare, che amplificando le investigazioni, potrà, il Dutto, volendolo, tessere la storia medioevale della sua patria , che scritta da chi già diede prova di acume critico e di una diligenza commendevole, non potrà che riuscire soddisfacente agli eruditi. C. Documents historiques relatifs à la principauté de Monaco depuis le quinzième siècle, recueillis et publiés par ordre de S. A. S. le prince Albert I, par Gustave Saige. Tome III. Imprimerie de Monaco, 1891. È di fresco uscito il terzo volume di questa splendida edizione, di cui ogni elogio è superfluo presso gli intelligenti. Il volume accennato contiene i documenti compresi dal 1540 al 1641, e così per il periodo di un secolo. Essi cominciano dall’ atto col quale Stefano Grimaldi di Monaco, sottratto il dominio alla tutela degli agenti di Carlo V, 74 GIORNALE LIGUSTICO si fece conferire indefinitamente il governo del piccolo stato a nome del pupillo Onorato I. Questo documento che è del 6 dicembre dell5 anno 1540 dimostra subito la superiorità dello Stefano, che succeduto al tutore Agostino Grimaldi, vescovo di Grasse, zio di Onorato I, otteneva da questo la prosecuzione in quell’ uffizio vita sua naturai durante. . . utpote qui iam Dei munere, ad meliorem cognitionem, aetateque maturiore se provectum sciat, prospectumque habeat, sua et omnium rerum suarum supra quam unquam interfuerit, interesse, eumdem illustrissimum dominum Stephanum non solum sibi conservare, sed et perpetuare omni meliori modo quo validius potuit et potest, ex certa scientia, motuque proprio, confirmando non tantum in primis ratificando approbando etc. E bene incolse all’ Onorato di lasciare la cura di governo ad uomo fornito delle doti politiche ed amministrative quale Stefano. Infatti, difeso Monaco dalle incursioni ostili, egli seppe renderlo piazza forte, e munirlo convenientemente. L’illustre Gustavo Saige consacra alcuni capi per discorrere delle opere murali ed artistiche compiute in quel torno, rappresentandone anche i punti più rilevanti col mezzo di zincotlpie perfettamente eseguite. Sicuramente che nelle vane epigrafi riprodotte e che attestano le opere compiute, talora compare il solo Stephano Gubernante, tal altra il suo nome associato a quello di Onorato I, Domino Honorato Primo et Stephano Grimaldo annuentibus ; ma ciò non deve fare specie, e non si può censurar troppo che Γ amor proprio vi avesse anche un pochino la sua parte. E come alle arti, così Γ autore dedicò altri capi per dir qualche cosa sull’ organamento legislativo, finanziario, amministrativo dello stato e del Comune di Monaco. Prosegue indi nel suo sommario generale le notizie risguardanti i signori di Monaco che regnarono dopo Onorato I, morto nel 1581, non lasciando, si può dire, altra traccia che quella di avere GIORNALE LIGUSTICO 75 procreato quattordici figli, nove dei quali erano superstiti al momento della sua dipartita. Quindi i lettori troveranno curiose ed esatte notizie sui fatti principali avvenuti sotto i discendenti dell’ Onorato I, e così sulle gravi differenze passate tra Carlo II di Monaco ed il duca di Savoia Carlo Emanuele I, per la sovranità su Mentone e Roccabruna, vecchia pretesa che era rimasta da alcuni anni assopita; e veniva ridestata con nuova gagliardia, degna delle agitazioni e delle continue aspirazioni dell’ irrequieto duca di Savoia. Imparzialmente pure F autore ricorda, come dai Grimaldi siasi assunto il titolo principesco sotto Onorato II, non senza accennare qualche punto della sfragistica relativa a quella famiglia, che dice però, sarà a suo tempo argomento di pubblicazione particolare. Come nei volumi precedenti, così in questo ricca è la messe dei documenti che Γ infaticabile ed accorto cavaliere Saige seppe, secondo il suo uso, raccogliere negli archivi italiani e stranieri. Notiamo fra il carteggio lettere di Andrea Doria; della Duchessa Margherita di Francia, consorte del Duca di Savoia Emanuele Filiberto, di Andrea Provana di Leyni generale delle galee di questo duca, ecc. D’interesse storico è la lettera di Gian Giacomo Toscani consigliere di Carlo II Grimaldi, nella quale scrivendo a Francesco Grimaldi in missione a Madrid, s’intrattiene su molti particolari per dilucidare le relazioni dei Grimaldi coi Duchi di Savoia pel fatto delle differenze per Mentone e Roccabruna. Copiosi sono altresì i documenti relativi alle relazioni di Genova con Monaco, che gettano molta luce sulle aspirazioni della Repubblica ad annettersi quello Stato. Nè priva d’interesse e di curiose notizie è la lunga relazione del passaggio per Monaco di Marianna d’Austria regina d’ Ungheria, avvenuto nel giugno del 1630. E per la storia non solamente locale, ma dei vicini Stati meritano di es- 7 6 GIORNALE LIGUSTICO sere consultati i documenti concernenti i negoziati seguiti colla corte di Luigi XIII, e così coll’ onnipossente cardinale di Richelieu. É inutile aggiungere, come quest’ istoria è confortata da così abbondante copia di documenti che sono d’interesse speciale a Genova, dai cui archivi appunto il signor Saige ricavò carte e notizie di molto pregio. Egli è certo che allorquando questa grand’ opera sarà giunta al suo termine , si avrà una raccolta di documenti, la cui imparziale pubblicazione torna di grande onore alla famiglia sovrana di Monaco che Γ ordinava, ed all’ illustre editore e dotto raccoglitore, che già sin d’ ora ha ottenuto la gratitudine di tutti gli studiosi della storia. G. C. SPIGOLATURE E NOTIZIE É comparso nel T. XVIII (iasc. IV a VI, aprile — giugno 1891) del Boletin de la Reai Academia de la Hisloria di Madrid un articolo in francese : La signature de Christophe Colomb di Eugenio Dognée, nel quale Γ autore si propone d’interpretare le note sigle del gran genovese. Ma le sue conclusioni appaiono poco conformi a verità e molto discutibili. * * * Si è ritrovato a Chiavari nella biblioteca Rivaroliana un pregevole manoscritto miniato, dove si leggono gli statuti del comune di Levanto del 1471. Se ne annunzia la pubblicazione per opera dei signori G. Pe-devilla e P. L. Ardy. * v ■:· Nel vol. XXXIV; P. 1. delle Notices et Extraits des mss. de la Bibliote-que nationale et autres Bibliotéques viene reso di pubblica ragione il manoscritto latino 10133 della Biblioteca Nazionale di Parigi spettante a Cicco Simonetta. Quivi sono notevoli i documenti relativi all’ infeuda- GIORNALE LIGUSTICO 77 zione e cessione di Genova e Savona ai Duchi di Milano. La pubblicazione è dovuta a M. Perret. * * * Col titolo I Corsi e la Corsica alla fine det sec. XV Carlo Errera pubblica nell’ Archivio storico Italiano (Ser. V. T. VII, 390) due lettere di Antonio Ivani a Cicco Simonetta con opportune ed importanti illustrazioni. + * * Antonio da Brivio, Guiniforte e Giovanni da Solaro ingegneri si trovano nel giugno del 1479 a Genova per lavori occorrenti alla rocca del Castelletto, e presentano a questo proposito al duca di Milano la loro relazione il 25 del mese stesso. (Soc. Slor. di Como, Periodico, vol. VIII, 304). * * * Segnaliamo un importante lavoro di Francesco Pagnotti intorno alla Vita di Miccolò V scritta da Gianno^xi Manetti, che è uno studio preparatorio alla nuova edizione critica alla quale egli intende. Nella notizia bibliografica delle opere inedite di quell’ umanista posta a corredo di questa monografia, rileviamo una Laudatio Inunensium, ad Illustrissimum Principem dominum Thomam de Campo Fregoso Dei gratia Ianue Ducerti esistente nei mss. Vaticani, della quale aveva già dato un cenno Apostolo Zeno. Questi aveva anche ricordato una Historia Ianuensium che non comparisce nell’ elenco del Pagnotti, il quale però aggiunge un’ altra Laudatio Ianuensium, ad clarissimos Iauuae legatos Florentiae commorantes, che si trova nei mss. Vaticani e Barberianini (Cfr. Archivio della R. Società Romana di Storia Patria, XIV, 411 e segg.). * * * La R. Biblioteca della Università di Genova ha acquistato di recente diciotto lettere autografe della Beata Brigida di Gesù, monaca Orsolina a Parma, scritte nel 1678 alla marchesa Cristina Malaspina, e cinque?lettere della marchesa stessa a Livio Bonaventura, ambasciatore del Duca d’Ur-bino, dell’ anno 1663. * * * Il R. Archivio di Stato in Massa di recente ha fatto acquisto dell’ importante e ricco Archivio de’ Malaspina d’ Olivola. ?8 GIORNALE LIGUSTICO In questi giorni si è pubblicata una curiosa raccolta di novelle per cura di James Bruyn Andrews edita a Parigi da Leroux. È intitolata : Contes ligures, traditions de la Rivière recueillis entre Menton et Gênes, e contiene sessantaquattro novelle che l’egregio raccoglitore ha tradotto in francese dall’ originale dialetto onde vennero narrate da più persone delle quali sono riferiti i nomi; esse sono assai notevoli, anche perchè non tutte hanno riscontro in quelle conosciute e classificate dai folcloristi. Ne riparleremo. * * * Nell’ ultimo fascicolo della cronaca mensile delle Missioni francescane il padre Marcellino da Civegna stampa un documento tratto da un manoscritto del secolo XVI, che conferma la nobiltà di donna Beatrice Henriquez di Florana da Cordova, madre di Fernando Colombo. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Carlo Steiner. Cristoforo Colombo nella poesia epica italiana. Voghera, Gatti, 1891 ; in 8.° Bello argomento, e suggerito evidentemente all’autore dalla ricorrenza del centanario, e dalla solennità onde si desidera festeggiare la memoria del grand’uomo e del grande avvenimento. Toccato del poemetto di Giuliano Dati, che è « un’arida e nuda trascrizione in versi della lettera colla quale il Colombo annunciava a Grabriele di Sanchez » la scoperta, si ferma sul poema di Giovanni Giorgini : Il mondo nuovo, edito nel 1596; lo esamina, ne espone il contenuto, rileva alcun che rispetto all’arte, ai personaggi, ai caratteri, e ricerca alcune fonti donde il poeta attinse parecchi episodi. Passa quindi a discorrere del Mondo Nuovo di Tomaso Stigliani, ne mostra la struttura, i punti meglio rilevanti, le singolarità, e istituisce un confronto a cimento dell’altro ricordato, dimostrandone non solo la parentela, ma ancora i luoghi in cui vanno di conserva, perchè derivati dalle stesse fonti. Le quali fonti che giovarono alle composizioni dei due poeti, sono diligentemente citate dallo Steiner per dimostrare com’ essi si attenessero assai da presso alle storie del tempo, quantunque l’uno più e l’altro meno, a tenore dell’indole e della fantasia propria di ciascuno. Nè l’uno nè l’altro resero secondo GIORNALE LIGUSTICO 79 verità la figura dell’ Ammiraglio ; migliore tuttavia apparisce nel Giorgini anziché nello Stigliani (i). Parla in seguito de’ frammenti sullo stesso soggetto lasciati dal Villifranchi, dal Tassoni e da Guidobaldo Benamati, il quale può dirsi il primo fra’ poeti « che adombrasse poeticamente la vita di Cristoforo Colombo prima della sua navigazione », onde s’indugia a rilevarne qualche parte. Quindi ricorda il modo strano col quale Girolamo Bartolomei narra nel suo poema l’America l’episodio della scoperta, e poi discorre più a dilungo dell’ Ammiraglio delle Indie di Alvise Quirini, usando anche per questo poema lo stesso metodo di esame, di ricerca e di giudizi. E spiccatosi così da’ poeti anteriori al secol nostro, trova maggior materia di ragionamento in due componimenti contemporanei di Bernardo Bellini e Lorenzo Costa. Qui siamo in un ambiente diverso rispetto al racconto, all’arte, all’intendimento, e i rilievi notevolissimi dell’autore a sì fatto proposito, desunti da una particolare e molto acuta disamina de’ due poemi, chiariscono benissimo la ragione storica e morale onde mossero i poeti e il fine a cui essi mirarono. Ma il Costa avanza senza dubbio il Bellini nella narrazione, nella invenzione, negli episodi, ne’ personaggi, specie nella figura dell’Ammiraglio che egli ha rappresentata meglio di tutti gli altri poeti; giustamente perciò sentenzio l’autore, che malgrado tutti i difetti « tanti pregi ha la forma del Costa che se con essa fosse andata di pari passo la vastità della fela e Γ unità dell’azione, si può con sicurezza affermare che questo poema, che già supera di tanto gli altri che furono scritti su tale argomento, non sarebbe stato cosi presto dimenticato ». Dato di questa guisa un breve cenno dell’importante lavoro, noteremo alcune cose che potranno giovare a renderlo più perfetto. L’argomento che lo Steiner ha preso a trattare non è nuovo in tutto ; fino dal 1835 ne dette un buon saggio Vincenzo Lancetti nel Ricoglitore di Milano col tilolo. Il Poema desiderato, dal quale poi Michele Sartorio derivò la Postilla bibliografica intorno ai poeti che cantarono epicamente la scoperta del Nuovo Mondo pubblicata con aggiunte nel Giornale degli studiosi di Genova del 1872. Quivi si veggono indicati alcuni poemi non ricordati dallo Steiner, il quale chiude la serie col Costa, mentre v’ha un frammento del Romani, e un altro del Galletti, oltre a due interi poemi, (r) Si veda un riferimento dell’Aprosio ai poeti che trattarono della scoperta, nella mono-grafia del Menghini a pag. 30 del presente fase. 8o GIORNALE LIGUSTICO A Colombiade di. L. Μ. P. (Pedevilla) in dialetto edito nel 1870, e il Cristoforo Colombo di B. G. De-Ferrari, uscito nel 1873. Avvertiremo per ultimo che oggi la storia, contrariamente a quanto dice Γ autore (p. no), ha assolutamente escluso che Tedisio D’Oria accompagnasse i Vivaldi nella loro spedizione; egli rimase a Genova (Cfr. Atti Soc. Lig. di Stor. Pat., XV, 317 e segg). L'Archivio storico Italiano (i), che conta ormai cinquanta anni di vita, ha inaugurato fino dal 1888 la sua Quinta Serie, sotto la sapiente dire-zicne del prof. Cesare Paoli, il quale senza scostarsi dal programma e dalle tradizioni del periodico, ha cercato introdurvi quei miglioramenti che gli furono suggeriti dalle nuove condizioni degli studi e dalle relazioni scientifiche, dai consigli di uomini autorevoli e dalla propria esperienza. Ora Γ Archivio ha le seguenti rubriche : 1.* Documenti, e Memorie di storia politica letteraria ed artistica, 0 di studi sussidiari della storii. 2.a Aneddotti e Varietà, cioè brevi documenti e brevi comunicazioni di varia erudizione e di storia aneddotica. 3.” Archivi e Biblioecche. Memorie, relazioni e documenti concernenti archivi, biblioteche e collezioni pubbliche e private, con particolare riguardo agli studi storici. 4.“ Corrispondente; nelle quali, a cura di speciali collaboratori, si dà conto in modo sobrio , ma per quanto è possibile compiuto, di ciò che si pubblica all' estero intorno alla storia d’Italia. Abbiamo già pubblicate corrispondenze dalla Francia, dalla Germania e dall’Inghilterra, e abbiamo ora promesse di collaborazione da altri paesi. 5.* Rassegna bibliografica. In essa si rende conto di libri italiani e stranieri, ora con brevi cenni, ora con ragionata recensione, secondo 1 importanza e l’ampiezza del subietto, e secondo 1’ opportunità. Forma appendice alla medesima l’estratto ragionato dei più notevoli articoli che vengono in luce nelle Pubblicazioni periodiche, e di queste si danno anche brevi notizie miscellanee. 6.a Notizie del movimento storico-letterario italiano e straniero, scelte e ordinate con cura speciale. (1) Si pubblica a fascicoli trimestrali da G. P. Vieusseux in Firenze. Abb. annuo L. li. Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO 8l TOMMASO STIGLIAMI CONTRIBUTO ALLA STORIA LETTERARIA DEL SECOLO XVII (Continuaz. dell’ annata 1891). Nel 1643, col pseudonimo di Sapricio Saprici, Γ Aprosio pubblicava la Sferra Poetica (1); essa è composta di ventisette capitoliin forma di lettere, dirette ai suoi amici (2), in ciascuna delle quali ribatte le idee espresse dallo Stigliani nella prima censura dell’ Occhiale. Nella prefazione, diretta a Giovanni Argoli, l’Aprosio fa la storia di questo libro, che primo ad essere composto, fu il quarto a stamparsi. «L’anno 1628 — egli dice — trovandomi in Siena con occasione di studiare, mi fu recato di Perugia l'Occhiale del signor Cavalier Stigliani: (1) La I Sferra \ Poetica \ di [ Sapricio Saprici | Lo Scantonato Accademico I Heteroclito, | Per risposta alla Prima Censura dell’ | Adone del Cavalier Marino, | Fatta dal Cavalier | Tomaso Stigliani. |] In Venetia, CIDIDXLIIV [sic]. | Nella Stamperia Guerigliana. | Con licenza et privilegio. (2) Essi sono Pietro Michiele, Jacomo Pighetti, Andrea Barbazza, Scipione Herrico, Francesco Loredano, Anton Giulio Brignole-Sale, Marcantonio Romiti, Niccolò Crasso, Toldo Costantini, Leone Allacci, Olao Wormio, Severino Bentzonio, Giulio Piccolomini, Bartolo Bartolini, Benedetto Mariotti, Niccolò Pinelli, Baldassar Bonifacio, Cesare Zarotti, Frederico Gronovio, Jacomo Gaddi, Giovanni Rodio, Agostino Fusconi, Giambattista Capponi, Leonardo Quirini, Francesco Belli, Paolo Zazzaroni e Troilo Lancetta. Giorn. Ligustico, Anno XVIII. 6 82 GIORNALE LIGUSTICO del quale ebbi notizia fin Γ anno avanti dal signor Girolamo Mercucci da S. Genesio: ma no ’l vidi prima d’allora, con-ciossiaché in Siena non mai fusse capitato a.’ Librai. Lo feci leggere a diversi amici, i quali, o fusse perché mi vedessero molto affetionato al Marino, od altra cagione, mi provocarono a pigliarne la difesa, e a rispondere. Io (benché occupatissimo in altri studi) non potei non compiacerli: anzi con tutte le forze a ribatter le oppositioni m’ accinsi. E lo feci tanto più volontieri, quanto che mi pareva di guadagnare assai, se lussi stato il primo a difenderlo. Appena ebbi dato principio a far la selva, che mi giungono lettere di Parma dal gentilissimo signor Benamati, nella quale era avvisato, che ’l P. Don Agostino Lampognani col suo Antiocchiale mi haveva prevenuto; e di là a pochi mesi mi fu mandato di Firenze 1’ Occhiale Appannato del Scipione Herrico, il che mi diede occasione d’ attaccar per mezzo di lettere amicizia con questi due letteratissimi ingegni, dell’ amicizia dei quali grandemente mi pregio: che perciò 1’ anno presente sarà stimato da me più degli altri, poiché ho conosciuto in esso di presenza il signor Herrico, che fin dall’ anno 1629 conosceva per lettere. » Non molto dopo la prima parte dell’Aleandri, se bene in tempo, che haveva compilata quest’ opera, e risposto non solo alle oppositioni particolari di dieci primi libri, ove finisce; ma poco meno che i diecisette, e andava seguitando il rimanente: quando procurando di farlo stampare, ed havendone parola col signor Cristoforo Tomasini (dal quale intesi esser allora stampata 1’ Uccellatura del Foresi) ecco in un subito serrati i passi, e per rispetto del contagio impedito il commercio di Venetia; perlocché fu necessario aspettare, e finito non fui più in tempo. » Non havendo potuto per allhora pubblicarla, desiderosa di tarsi vedere, mi usci dalle mani: ma ben presto pagò le pene della sua temerità, incontrando gl’influssi, che suol GIORNALE LIGUSTICO 83 provocare un Cielo contaggioso. Non me n’ alterai punto..... Mi bastava di haver salvato il Veratro, che se bene anch’egli ha delle imperfetioni non poche, non mi riesce però tanto insipido quanto la Sferra. Gli amici, che non potevano sopportare, che si fusse smarrita (supponendosi nel Veratro molte cose, che in essa si leggono) per indurmi a ricomporla non potevano servirsi di miglior mezzo termine, che nissuno avverebbe creduto che io Γ havesse composta. Diedi di piglio a gli Avversarij, che per buona parte non haveva ancora stracciati, ed in pochi giorni le feci rivedere quasi nel medesimo habito, che era comparsa da prima. Soddisfaceva a gli amici : ma non già a me, che perciò era risoluto (ancor che non fusse stata disprezzata da soggetti eruditissimi non meno che ingenui, quali sono li signori Niccolò Crasso, Marcantonio Romiti, Carlo Giuseppe Orrigoni hoggidi viventi): Claudio Acheilini, Benedetto Fioretti, e Gio. Maria Vanti, Triga di letterati (nella cui morte fece perdita non solo l’Italia, ma tutta quanta la Repubblica letteraria), non lassarla uscire dal mio soppidiano: e già haveva avute le licenze del Veratro, non volendo che vedesse altro lume. Ora non so come m’è uscita di mano, ed ha saputo iar tanto, che non ha voluto perdere la sua primogenitura ». Nella prima delle sue lettere l’Aprosio confessa al Michiele che, non ostante le pubblicazioni dell’Errico, dell’Aleandri e del Villani, gli sembra che «l’ardimento dell’oppositore non sia rimasto cosi scimunito, che appo qualche semplice non tenga per ancora qualche vigore » : di qui la necessità di stampare la Sferra, in cui vuol dimostrare « per quanto s’ estenderanno le sue forze, che le cose da lui avvertite per manifesti errori, sono assolutamente tanto di qualunque sua compositione migliori, quanto per peggiori da lui ributtate »; e che lo Stigliani in luogo « d’impiegar l’ingegno in cose di si poco momento » avrebbe fatto molto meglio a « spinger 84 GIORNALE LIGUSTICO la, penna alla correttone del suo Canzoniere e del suo Colombaio, opere nelle quali non solo si ritrovano quelle metafore, che egli chiama ardite, e nell’ Adone, fatto appassionato censore, va indicando : ma ancora di più improprietà di sensi: periodi sconci, parole infinite forastiere, rande, di pessimo significato; bestemmie horrende; versi in disprezzo dei Santi, concetti goffi; barbarismi grossi; e quel che è peggio solecismi magiuscoli, co’ quali ha rotta in si fatta guisa la testa al povero Prisciano, che non saranno bastanti le chiare d’Escu-lapio per risanarlo». Al Capitolo XXII, dirigendosi ad Agostino Fusconi, parla 1’ Aprosio de’ furti dei quali lo Stigliani accusa il Marino ; e, e dopo aver indicate le imitazioni di cui abbondano il Furioso e la Gerusalemme, osserva: « Hor se ’l rubare è vitio comunissimo de’ Poeti havuto dalla natura, perché doverà essere ripreso il Marino huomo Napolitano, se è alquanto macchiato di simil pece? Ma perché lo Stigliani ha ardire di chiamar ladro il Marino? » E qui l’Aprosio indica molte delle imitazioni de’ poeti anteriori, ond’ è ripieno il Mondo Nuovo, e in questa revisione mostra erudizione e acutezza non comune. La Sferra Poetica fu ben presto ammirata dai dotti, i quali ne scrissero all’ autore, congratulandosi. Cosi Niccolò Crasso, pur confessando che avrebbe amato meglio veder vinto lo Stigliani « con dottrina e vivezza, che con rampogne, ancorché fossero state usate da lui contro il Marino », diceva di aver letta la Sferra « con sommo gusto dove difende P amico, e direbbe lo stesso dove è sferzato l’autor dell’ Occhiale »; Agostino Fusconi chiamava 1’ Aprosio « il Porto dove ricoverano gl’ingegni sbattuti dalle ingiurie della Fortuna »; e 1’ Errico confessava che 1’ Aprosio « con un semplice riso » aveva ruinate tante macchine d’eruditione recondite». Finalmente tra il 1645 e il 47 l’Aprosio pubblicava, in due parti, il Veratro, complemento della Sferra, in quanto vi si ribat- GIORNALE LIGUSTICO 85 tono le accuse dello Stigliani contenute nella seconda censura àt\Y Occhiale (1). La prima parte del Veratro fu pubblicata dopo la seconda, e di ciò l’autore dà spiegazione a Matteo Defendi, cui indirizzò il proemio (2). Questa è, forse, la migliore delle scritture, cui si accinse 1’Aprosio per difendere il Marino, perché 1 erudizione è più scelta, più completa, e le opposizioni non hanno più quella foga, quella passione e, anche, quella certa volgarità che si rinvengono nelle altre opere dell’ irrequieto agostiniano. La stanza 77 del nono Canto deir Adone, ad es., non gli piace, « ma non ha genio di zanniggiare né con Sissa, né con Vannetti », due poeti creati dalla fantasia dello Stigliani, dai quali il Marino avrebbe tolto molte immagini per colorir l'Adone. E aggiunge: « Con quest’ occasione non sarà fuori di proposito accennare una curiosità. Con gran destrezza feci chiedere da un amico allo (1) Del I Veratro \ Apologia [ di | Sapricio Saprici | Per risposta alla Seconda Censura | àzWAdone del Cavalier | Marino | Fatta dal Cavalier | Tommaso Stigliani, | Parte Prima. | All’ Illustrissimo Signore il Signor j Giuseppe Spinola Marmi | Del fu Serenissimo Tommaso. || In Venetia, CID I O C XLVII. I Presso Matteo Leni. | Con licenza de’Superiori, e Privilegio; e [qui il medesimo frontespizio sino a] Parte Seconda. | Al-l’Illustriss. Signore il Signor | Tommaso Spinola Marmi | dell’ Illustriss. Giuliano [I In Venetia, CIDIDCXLV. | Nella Stamperia Leniana e Ve-celliana. | Con licenza de’ Superiori e Privilegio. Nella prima parte, contro del frontispizio, v’ è un’ incisione che rappresenta lo Stigliani, il quale ha inforcati gli occhiali; sta in ginocchio e guarda Mercurio, che dall’ alto indica una pianta in cui è scritto Veratro. Nella seconda v’è un’altra incisione conle stesse situazioni: solamente lo Stigliani è in piedi. (2) « La prima è nelle mani dello Stampatore ha più d'un anno, e se ne sono stampati tanti fogli, che non fan numero. La seconda è finita: adunque il due è prima dell’ uno. Mi dispiace di questa disorbitanza, npn perché mi curi dell’ opera, ma perché parmi d’ acquistar nome di millantatore appresso il signor Allacci, a cui deve esser dedicata, per testificare in parte quale siano le mie obbligazioni ». 86 GIORNALE LIGUSTICO Stigliarli, chi fossero questo Sissa e questo Vannetti, de’quali fa tante volte mentione nell’ Occhiale. Egli per un pezzo si scusò, dicendo che rilaverebbe tosto manifestato nella Replica all’Aleandri, ed all’ Herrico Analmente disse, che erano suoi paesani, che non erano mai usciti di Matera, che erano morti; e che le loro compositioni gli erano capitate nelle mani manoscritte, delle quali fece parte al Marino, in un suo passaggio per Parma. E questi fu il signor Luca Costantini, da Fermo, giovane spiritosissimo, acciocché il signor Stigliani non s’immaginasse, che me lo fussi sognato ». Altrove, rimbeccando lo Stigliani per aver dichiarato osceno un passo dell’ Adone, osserva giustamente: « Dal giudicare li componimenti del prossimo chi non havesse di voi contezza vi stimarebbe per un novello Senocrate. Siete tanto modesto, che leggendo ne’ componimenti del Marino un minimo che spettante alla generatione,·subito lo notate per sortirà sciocca. Questa modestia vorrei che la mostraste nelle vostre compositioni, nelle quali si leggono cose da far colorir le guance fino alle femminelle di mondo per la vergogna. Sono sozzure sciocche gli Indovinelli, che dal coltello de’ Superiori furono rasi dal Can-%oniero. Sono sozzure enormi quelle che si contengono nello Schermo di Parnaso, che non senza quare dite se me rimarrà manoscritto ». Accenniamo altresì che a proposito di quel-1’ asserzione dello Stigliani (i), aver il Marino « confessati i suoi furti fatti all’ Ariosto e al Tasso, perché Y Adone potesse un giorno offuscar la memoria di quei due poemi », 1’Aprosio ribatte: « È una novella di garbo: il Boccaccio e ’l Giraldi non ne sognarono mai una cotale. Giovanni Alessio Abbatutis si può friggere il suo Cunto delli Cunti ». Finalmente avendo lo Stigliani scritto che Y Adone era morto d’apoplessia, cioè di morte subitanea », l’Aprosio osserva: « Sapete chi è morto (i) Occhiale, pg. 412. GIORNALE LIGUSTICO 87 di morte subitanea? La vostra Pipioneida, che appena era un anno finito dal di della pubblicazione, che non v’ era pur uno, che volesse aprirla. In meno di quattr’anni fu stampato Y Adone in Parigi in fol., e fu la prima edizione. Fu ristampato in Venetia ben quattro volte dal Sarzina, in 4°, alle spese di Jacomo Scaglia. Ristampossi due volte in Torino, in 12.0, una dagli H. H. del Tarino, e l’altra dalla Compagnia della Concordia. Fu ristampato pure in 12.0, in Ginevra, sotto nome di Parigi, e di tutte ne ho avuto esemplari nelle mani. Il Mondo Nuovo s’è stampato in Roma, a spese vostre la prima volta il 1628 ed in anni XVII s’ è contentato della pr'ma edizione. So che il mio Signore Allacci nel suo bellissimo opuscolo delle Api Urbane, dice essere uscito in Ispa-gnuolo, ma infino a tanto che no’l vegga non son per crederlo. Comunque sia farà il fine nella Spagnola che gli ha presagito il principio nell’italiana (1) ». (1) Tra la pubblicazione del Vaglio Critico e quella del Buratto bisogna porre, per conservar l’ordine cronologico, un opuscolo col titolo di Staffilate I Date I al cavalier Tomaso \ Stigliani. | Per haver mal ragionato contro Γ- I Adone del Cavalier Marino. | Con una lettera infine de’ Costumi | della Francia. | In Francfort. | MDCXXXVII. N’è autore Giovanni Capponi, bolognese, del quale sarebbe utile studiare la sua politica contraria alla dominazione spagnuola in Italia, perché a lui sono attribuite da parecchi codici e da qualche stampa quelle poesie, ispirate a un grande amor patrio, delle quali discorse con la solita dottrina il D’Ancona prima nell’ Archivio Veneto (Vol. III; 1872) e poi nello studio intitolato: Il concetto dell’unità politica nei poeti italiani. (Studi di Critica e Storia letteraria. Bologna, Zanichelli, 1880, pgg. 1-103). L’opuscolo è molto insignificante, e si risponde con molta insolenza alle osservazioni dello Stigliani; si divide in otto Staffilate, ciascuna delle quali comprende alcuni sonetti (in tutto sono quarantasei) oltre un commento , pieno di volgarissime frasi, a qualche giudizio espresso nell’ Occhiale. Eccone degli esempi: « Che abbia rubbato da altri scrittori ma più Lodate pur Iddio, Messer Francatrippa, che dal vostro Mondo Nuovo. Fol. $o ». non havete cosa da esservi rubbata. 88 GIORNALE LIGUSTICO Prima ancora che tante fiere dispute s’ agitassero per la pubblicazione dell’ Occhiale, lo Stigliani, nel 1628, stampava, « Di affermare, che sia come il gigante, « Avversario da pugni e da calci ». eh’ abbia ossatura di nano. Fol. 37 ». « Che sia come le Pecchie nello sciame. « Il canchero che ti fiacchi e che ti snoc- Fol. 41 ». coli ». « Riprendere il Conte Ridolfo Campeggi per « O viso di m..... come hai ardire di haver egli detto che 1’elocutione dell’ Adone parlare ». sia perfettamente chiara. Fol. 73 ». E la poesia non è un gran che differente dalla prosa. Spesso viene a Tomaso una pazzia Che stima d’ esser dotto da dovero E gli salta dal stomaco al pensiero Un fantastico humor di Poesia. Credo, eh’ un gran profitto gli faria Di cicuta, o madragora un cristiero, E ne 1’ ungerlo almen com’ a somiero Che sternutasse la maninconia. Altrove: Tomaso , a dirti il ver senza bugia Meriti veramente esser frustato Che sei stato in fragrante ritro\ ato Dishonorar la bella Poesia. Hai fatto storpi a la Secreteria Hai rotto il capo al povero Donato Per svergognar 1’ Adone hai già rubbato L’ affettatone alla pedanteria. Altro servizio non ti potria fare La tromba de la fama in questo tratto Che gir sonando innanzi al tuo frustare. E far a tutti udir come sei matto E che la tua pazzia ti dee scusare Che però non hai colpa a quel c’ hai fatto. Tomaso al poetar hebbe ventura Ch’ era il suo studio il tinger della seta ; E in far tal opra si trovò poeta Onde sarà poeta per tintura. E però Febo di lui non si cura, Ch’ a bestia cosi zotica indiscreta, Cosa non si concede, né si vieta, Ma si lascia disciolta alla pastura. Egli è ben un gaglioffo, un ignorante Et ha ’n testa un cervel si grossolano Che non la cede punto ad un furfante. Ma pur, perché sa fare il Cortegiano Con una pretendenza d’ arrogante Mendica la pagnotta con la mano. GIORNALE LIGUSTICO 89 completo in trentaquattro canti, il suo poema, nel quale rifondeva quasi tutti i primi venti canti usciti alla luce undici anni prima : e non più a Ranuccio Farnese, ma a Filippo IV era esso dedicato (1). Molti poemi epici furon composti tra il cinque e il seicento sull’impresa di Colombo; è noto, infatti, che da Lorenzo Gambara il quale la descrisse in latino (2) , al Benamati (3), un numero considerevole di poemi italiani si aggiravano su tale soggetto (4), perché era in tutti i poeti la smania di creare nuova materia epica, su la quale poetare. Oggi, però, quei poemi, a tempo loro tanto in voga, rimangono in gran parte sconosciuti e inesplorati anche dagli studiosi, salvandosi appena quel frammento che il Tas- (1) 11 Mondo I Nuovo | Del Cavaliere \ Fra Tomaso | Stiglani. | Diviso I in trentaquattro Canti. | Cogli argomenti | dell’istesso Autore. || In Roma, I Appresso Giacomo Mascardi. | M . DC . XXVIII. La lettera di dedica a Filippo IV trovasi a pg. 112 delle Lettere dello Stigliani, e porta la data del 16 aprile 1628; però lettera e copia del poema erano inviate al conte d’Olivarez, perché si compiacesse recapitarle al re. « Mando a V. E. per mezzo del piego del Signor Conte di Monterei due copie del mio Mondo Nuovo — scrive lo Stigliani, — nuovamente stampato, acciò che una ella sia servita di tenersene per sé, e 1’ altra insieme colla lettera, che le sta allegata, faccia avere alla Maestà del Re Nostro Signore, a cui il volume è dedicato, e da cui io pretendo alcuna mercede. » Lettere, pg. no. (2) Laurentii | Gambarae | Brixiani, | De navigatione Christophori Co- I lumbi libri quattor. | Romae, | Apud Franciscum Zannettum. | M.D.LXXXI. (3) Delle due Trombe i primi fiati, cioè tre libri della Vittoria Navale e tre libri del Mondo Nuovo, Poemi Eroici; in Parma, per Anteo Viotti, . 1622. Cfr. Mazzuchelli, IV, 780. ^4) C. Steiner, Crist. Colombo nella poesia epica italiana, Voghera, 1891. -Ho notizia anche di una commedia scritta da Lope de Vega, da me inu-. tilinente cercata tanto nell’edizione in tre volumi delle Comedias escogidas. del Rivadeneyra, quanto nel diligente opuscolo di A. Restori intitolato Una colle\ione di commedie di Lope de Vega Carpio, Livorno, Vigo, 1891. 90 GIORNALE LIGUSTICO soni mandò a un suo amico, perché vedesse se poteva servirgli, cui univa alcuni utili avvertimenti intorno al modo di comporre un poema in lode del Colombo (i). Il Mondo Nuovo dello Stigliani è preceduto da una « lettera ai lettori » del solito Balducci, il quale fa noto che l’autore « li prega, per suo mezzo , d’ esser contenti in questa prima edizione d’ avvisargli per private lettere, o in altro onesto modo, tutti i difetti e le ’mperfezioni, che troveranno per entro al libro; acciò che egli col lume del loro comune parere lo possa (come già poterono i suoi Γ Ariosto e ’l Tasso pur nell’ impressioni prime) correggere ed abbellire, non solo per più suo onore, e riputazione, e per più loro utile, e diletto: ma per maggior gloria di Dio, e della Santa Fede Cattolica, in cui esaltazione esso libro è composto (2) ». Non sappiamo se questo pio desiderio fu esaudito; ad ogni modo altre edizioni del poema non se ne fecero né in vita, (1) La Secchia Rapita, l’Oceano & le Rime di Alessandro Tassoni, (ediz. Casini) Firenze, Sansoni, 1887, pg. 245 e sgg. (2) Questa fu l’ultima prefazione che il Balducci scrisse ai volumi dello Stigliani. Nello stesso anno in cui fu pubblicato il Mondo Nuovo l’autore di esso aveva in animo di pubblicare uno Schermo di Parnaso « sozzure enormi, » a dire dell’Aprosio (Veratro, II, pg. 41)· Lo Stigliani, scritto ch’ebbe lo Schermo, pregò il Balducci, allora residente a Montelibretti, di farvi la prefazione; il Balducci si rifiutò, consigliando « da buon soldato che era » , come scrive il Mazzuchelli (art. cit.) lo Stigliani a rispondere con la spada: onde quest’ultimo, stizzito, rispondeva: « 11 Marino m’ha biasimato nelle sue opere stampate per ignorante, io gli ho risposto con l’Occhiale, facendogli conoscere che l’ignorante è egli medesimo. All’avermi biasimato per tristo io gli ho risposto col prenominato Schermo di Parnaso, mostrandogli parimenti che il tristo fu egli medesimo. » Lettere, pg. 143. Il libello rimase inedito e mi fu inaccessibile il manoscritto. GIORNALE LIGUSTICO 9* né in morte dell’autore (1), e, come vedemmo più innanzi, anche la traduzione spagnola non fu mai scritta. « Cristoforo Colombo Genovese — scrive lo Stigliani in principio del Mondo Nuovo, del quale dà il sunto, — uomo di supremo valore in ambedue le più principali professioni (dico Armi, e Lettere) essendosi partito di Spagna con uno esercito marittimo datogli da quel re per lo cercamento del Mondo nuovo, arriva per vari travagli a quello, e n’acquista per forza una regione la più importante, cioè l’isola d’Aiti, oltre quella di Borchen acquistata per altro caso che di guerra. Ma perché il numero de’ nemici è stato grandissimo egli non ha potuto conseguir questa vittoria senza grande scemamento de’ suoi soldati. Onde aspirando tuttavia all’acquisto del restante, e disegnando perciò d’ andare in Ispagna a rifare armata nuova, tripartisce la vecchia in due parti piccole ed una grossa. Delle due piccole una delibera di menar seco, e 1’ altra lascia in Aiti chiusa in una fortezza di legno sotto la cura di Salazaro Capitan de’ Venturieri, al quale dà in iscritto una prudentissima istruzione intorno al modo con che esso s’ abbia a governare. Ma alla terza parte che è la più grossa, e la più bellicosa, impone che vada facendo nuovi scoprimenti, ed acquisti in quel mezzo che egli s’indugierà a tornar di Spagna, e commettela in Governo a Silvarte, al quale dà parimenti un altro foglio d’istruzione conforme alla (1) Vero è che lo Stigliani aveva in animo di migliorare il suo poema, una copia del quale, conservata nella Vittorio Emanuele, mostra numerose correzioni autografe, quasi ad ogni ottava ; e sul frontespizio leggiamo: « Questi è il testo corretto e migliorato da ristamparsi, copiandosi in un altro stampato, perché sia leggibile al revisore. » A margine di qualche foglio si leggono alcune opposizioni, anch’ esse di pugno dello Stigliani, dirette a due personaggi, Falcidio (certamente uno pseudonimo) e Salzilli. 92 GIORNALE LIGUSTICO data di Salazaro. Partesi dunque il Colombo, partesi Silvane, e rimane Salazaro. Silvarte va verso mezzodì, e soggioga molti regni della penisola australe, insin che muore nella Caribana. In cambio del quale succedendo Dulipante ne soggioga alquanti altri. Il Colombo va verso tramontana, e per alcuni accidenti vede diversi paesi, da’ quali ultimamente (senza esser potuto andare in Ispagna, per cagione che gli è mancata la vettovaglia) se ne ritorna pure ad Aiti, dove ritrova essere ancora ritornata la parte che fu di Silvarte. Ma quella che fu di Salazaro trova essere stata abbruciata insieme colla medesima fortezza. Per la qual cosa egli si fortifica meglio che prima, e di nuovo si rincammina per Ispagna, dove felicemente arrivato ottiene le milizie che voleva, e se ne vien con quelle ad Aiti, la qual trova essersi in tutto ribellata. Di che egli non isbigottisce, ma raguna con gran sollecitudine altre forze numerose nuove dagli altri Regni non ribelli. E dopo aver con ambedue gli aiuti ricuperata essa Aiti rompe in un fatto d’armi navale un grandissimo esercito raccolto per lega da quasi tutti i Re del detto Mondo, e cosi finisce l’intera conquista di quello (i) ». Da tutto ciò apparve manifesto che noi non siamo in piena poesia romanzesca, ma in quel poema epico regolare del quale ci diede cosi splendido esempio, forse unico, il Tasso. Infatti, Colombo somiglia come due goccie d’acqua a Goffredo; è l’uomo buono, generoso, prode, religiosissimo, sempre scevro da passioni umane : insomma l’eletto dal Signore per compiere un’ opera immortale. Né esso è il solo dei personaggi della Gerusalemme che fanno capolino nel Mondo Nuovo. In questa tela vastissima sono poi racchiusi (i) Questo sunto del poema non è quello che si legge nell’ediz. del 1628, ma è invece ricavato dalla copia corretta di mano dell’A. da noi già citata. GIORNALE LIGUSTICO 93 molti episodi che potrebbero aneli’ essi far parte a sé ; e lo Stigliani, il quale rimproverò al Marino i « furti di favola » anche quando essi eran semplici luoghi comuni, ricavò in gran parte tali episodi da novellieri, fra i quali primeggia il Giraldi, e da poeti epici quali gli autori del Mambriano e dell’ Orlando Innamorato. Vediamone i principali, tentando di mantenere un possibile ordine cronologico nella enumerazione de'’ canti del poema. Al C. II, st. 46-74 interviene il demonio a disturbare 1 viaggi di Colombo. Astarrotte, cosi il nome del demonio, conduce Licofronte, uomo assai perverso, in giro per l’inferno. Questa descrizione di viaggio, fosca e tenebrosa, la quale risente di molte imitazioni dantesche (1), è uno dei punti più interessanti del poema. Licofronte, passando vicino a un’anima dannata, la quale da quel giorno comincia ad espiare i propri peccati, si sente chiamare per nome, e riconosce in essa la cognata, che lacrimando narra i suoi dolorosi (1) Approssimandosi a Cerbero, Astarotte, placa la sua ira col dir : Ciò Dio vuol, cosi chetollo. simile al Volsi così colà dove si puote Ciò che si vuole. La configurazione dell’ infermo è simile a quella dantesca : Cominciava da 1’ orlo, e fin giù andava Girando sempre, ed otto cerchi eli’ era De’ quali un sopra Γ altro affisso stava De’ seggi de teatri a la maniera Ma però 1’ un nell’ altro ognuno entrava Con una tratta semplice ed intiera Come de la lumaca i giri fanno Che con sola una striscia attorno vanno. Mentre sto correggendo queste prove di stampa mi giunge la Riv. Crit. d. lett. Hai. (vii, 6) nella quale il mio amico Belloni, recensionando il libro dello Steiner, indica egli pure tali imitazioni dantesche, e rileva altre fonti cui attinge lo Stigliani per la composizione del Mondo Nuovo. Cfr. altresì Giorn. stor. d. lett. ital., Vol. XIX, pgg. 150 e 168. 94 GIORNALE LIGUSTICO casi alla guida di Licofronte. Olgrada, tale è il nome del-1 infelice, era amata, benché sposa, da Licofronte, il quale vide più volte rifiutate le sue proteste d’amore. Inasprito dalle ripulse, per un iniquo sospetto fa uccidere il marito da Olgrada, che, nonostante, gli resiste sempre. Licoironte allora : più disdegnato ed inasprito E giurato voler la morte darme D’animo alfin veggendomi indurito Mi cacciò in gola insino all’ elsa 1’ arme ; Or’ odi un altro esempio , il qual più udito Non s’ è di crudeltà per quanto partile, Che non bastando avermi a morte punta Fece al suo fallo una tremenda giunta. Mentr’io col ferro nelle carni fitto Alternava il mortifero singhiozzo Vomitando con gemino tragitto Il sangue or per la bocca or per lo gozzo Egli si mise nel mio corpo afflitto A compier suo desio lascivo e sozzo. Poi mi lasciò si semiviva in terra Ed usci dal palagio e dalla terra. Quest’ orrido episodio trova riscontro nella novella decima della V Dee. degli Ecatommiti: « Modesta, moglie di Filogamo, Principe di Satalia, è gittata dalla tempesta ad Antochietta; il Signore del luogo le vuol far forza, e non volendogli consentir la donna, egli la svena, e con lei si giace ; e per tal crudeltà è cacciato dallo Stato , e in miseria si muore. » Nel Mondo Nuovo sono aggiunti dei passi che non hanno riscontro con la novella del Giraldi, quali, ad esempio, Γ uccisione del marito per opera della moglie, istigata con inganno dall’ amante, l’impunità di costui che si salva con la fuga, ecc.; ma nel fondo l’episodio è il medesimo. Abbiam detto poi che Astarotte conduce Licofronte per Γ inferno ; la guida narra e spiega il modo onde GIORNALE LIGUSTICO 95 i fiumi dal centro della terra salgono alla superficie, e indica i principali di essi : Quel che là corre è il Nil, questo più tardo A manca è l’Istro, che Pannonia verga; Quest’ altro a destra è il Bagrada gagliardo, Ch’in alto monta, acciò ch’in Libia s’erga. Cosi ancor se tu volgi indietro il guardo Ti vedrai scaturir dopo le terga L’ispano Ibero, ed il tedesco Reno E la Loira, eh’a Francia inonda il seno. O (disse il Saracin) com’ esser puote (A si dura credenza io non sottentro) Che fiumane tra sé tanto rimote Si vicino principio abbiati qui dentro? A cui ’l corrieri Qual nelle pinte ruote Le linee nel partir di mezzo al centro Si toccan 1’una l’altra, e all’orlo giunte Lontane esse si trovano e disgiunte ; Cotal de’ fiumi una coll’ altra accosto Han le nascite varie in questo fondo, Che nell’uscir lassuso esser discosto, Per Io terren si trovano di’ è tondo. Questo dicendo e pur per l’aere ascosto Camminando ambo verso il nuovo mondo , Giunsero ov’a finir venia la gola Quelle varie caverne in una sola (i). In questa descrizione lo Stigliani ebbe evidentemente la XII prosa dell’ Arcadia, in cui il Sannazaro narra che Sincero è condotto da una ninfa al centro della terra « ove molti laghi si vedevano, molte scaturigini, molte spelunche che rifundevano acque, da le quali i fiumi, che sovra la terra corrono, prendono le loro origini. O mirabile artificio del grande Idio ! La terra, che io pensava che fosse soda, rinchiude nel suo ventre tante concavità! Allora incominciai io a non maravigliarmi de’ fiumi come avessero tanta abon-danza e come non indeficiente liquore serbassero eterni i corsi loro... Quello che corre si lontano di qui è il freddo (i) Mondo Nuovo, II, 29-32. 9 6 GIORNALE LIGUSTICO Tanai , quel altro è il gran Danubio, questi è il famoso Meandro, questo altro è il vecchio Peneo; vedi Caistro, vedi Acheloo, vedi il beato Eurota, a cui tante volte fu lecito ascoltare il cantante Apollo (i). » Esaminiamo ora un altro episodio del Mondo Nuovo. Fra i personaggi del poema ve n’ è uno chiamato Roldano, un tipo tra il Gano de’ romanzi di cavalleria e Γ Ismeno della Gerusalemme : costui, per alcuni torti che pretende aver ricevuti da Colombo, s’impadronisce, nel viaggio, di una barca, con la quale approda in America. Colà narra a Guarnesse, re di alcune terre, una falsa storia della sua vita, e diviene il confidente del re (2). Lo Stigliani ricava tale storia dalla novella 9 della IV Dee. degli Ecatommiti, che suona cosi: Afrodisio ama la moglie di Cleofilo, e cerca di giacersi con lei ; Cleofilo, invece dell’ amata, lo fa giacere con la propria moglie; si avvede Afrodisio dell’inganno, e vuol far malamente morir Cleofilo ; egli schifa la morte e lascia beffato Afrodisio ». Questa novella è imitata a sua volta da un episodio del Mambriano, sulle novelle del quale il Rua fece recentemente lunghi e pazienti riscontri nelle letterature orali e scritte europee (3) : ad ogni modo né la novella del Gi-raldi né Γ episodio del Mondo Nuovo figurano ne raffronti citati, e nemmeno in quelli, cui è giunto recentemente il Cimegotto (4). Anche 1’ episodio di Tarconte e di Nicaona (5) è imitato, (1) Arcadia (ediz. Schedilo cit.), pg. 279. Simili descrizioni si rinvengono altresì nella Eneide, e nella Gerusalemme. (2) Mondo Nuovo, IV, 76-100. (3) Novelle del Mambriano del Cieco di Ferrara, esposte ed illustrate da Giuseppe Rua, Torino, Loescher, 1888, pg. 43-55- (4) C. Cimegotto, Studi e ricerche sul Mambriano di Francesco Bello, il Cieco da Ferrara, Padova, Drucker , 1892. (5) Mondo Nuovo, XI, 74; XIII, 47 ; XXV, 12. GIORNALE LIGUSTICO 97 in parte, dagli Ecatommiti (II, i): « Caritea ama Pompeo: Diego, innamorato della giovane, Γ uccide; ella promette di darsi per moglie a chi le dà il capo di Diego. Le muove guerra il re di Portogallo: Diego la difende, e fa prigione il re, poscia si pone in podestà della donna, ed ella lo piglia per marito (i). » Anche qui vi sono però delle varianti agli episodi secondari: nel Mondo Nuovo Tarconte non uccide 1 amante di Nicaona, ma il padre; però il guerriero si svela allo stesso modo di Diego, anzi, come costui, salva Nicaona e il regno di lei in una guerra che Martigone muove per ottenere la mano della giovane. Tutto l’episodio poi ne rammenta uno consimile del Pnmaleone del Dolce, in cui Duarte, sotto il nome di Giuliano, dimora nella stessa casa di Flerida, da lui amata; ed un altro dell’Adone, in cui Sidonio, sotto il nome di Cloridoro, s’è ricoverato nella casa di Dorisbe. Cosi pure 1’ episodio al C. X del poema è imitato da una novella degli Ecatommiti (I, i) : « Lippa — racconta il Gi-raldi, — ingravida di un suo amante, teme P ira del padre e de’ fratelli; partorisce di nascosto, in su la ripa d’un fiume, un figliuolo maschio, e il lascia sopra un platano ; è accolto da’ pastori e nutrito, e, fatto uomo, libera la madre di cattività, senza sapere eh’ ella madre gli sia. Poi, conosciutala, fa che il padre la si prende per moglie, e la pone in grazia de’ suoi, e vivono insieme vita felice ». Anche qui l’imitazione è, qualche volta, letterale; il Giraldi scrive: « Onde (i) Alcuni passi di questa novella sono quasi riprodotti letteralmente nel Mondo Nuovo; per brevità citiamo solo il seguente: « Stette privo il reame di Spagna di cavalieri per lo spazio di sei anni e più, perché tutti, vaghi di aver la giovane per moglie, ed il reame in dote, si erano qua e là sparsi cercando di Diego. » E nel Mondo Nuovo: Il bando fu cagion ch’ogni rivale Il nostro albergo a noi lasciò sgombrato Per andare a cercar quel micidiale. Giorn. Ligustico. Anno XIX. « 98 GIORNALE LIGUSTICO la misera sentendosi trafigger da dolori, finse voler gire ad accorre viole in un campo non molto lontano dalla casa , e vicino al Po: e la castalda, veggendo il fanciullesco desiderio della giovine, senza altro pensare, ve la lasciò andare. Lippa, giunta colà, fatta dal bisogno forte ed audace, da sé sola partorì un figliuolo ». E lo Stigliani : Disse alla madre di voler per gioco A coglier fiori a un vicin prato gire; La qual, credendo, contradisce poco Al fanciullesco semplice desire. Et essa ita più in là, ch’ai verde loco, Premendo in sé, quanto potea, ’l martire S’ aiutò sì, che schiuse un piccol figlio Ch’ai tergo manco un segno avea vermiglio (i). Altrove il Giraldi : « Poscia la ricercò se maritata o pur vedova fosse, perché la età nella quale egli la vedeva , non gliela lasciava credere vergine. » E lo Stigliani : Il capitan veggendola esser bella (Ch’ era all’ anno trentesimo secondo) Fe’ renderle ogni gemma, ogni gonella, E la tolse di man del furibondo ; Poi, destinando di riducer quella A poco a poco al suo volere immondo, Le chiese in chiusa camera ed ascosa Se vedova ella fusse, o pure sposa (2). (1) Similmente negli Ecatommiti: « E nello involgerlo in quei panni vi vide, sopra l’omero destro, una gran macchia vermiglia. » (2) Anche il Giraldi precisa l'età della madre: « Ed ella dubitando, che le piacevolezze insino a quel giorno usatele non fossero procedute da libidinoso desiderio (però, eh’ ella non passava i trentaquattro anni ; ed era di nobile e grazioso aspetto....) ». GIORNALE LIGUSTICO 99 Vediamo ora quanto lo Stigliani prese dal Mambriano (i). La IV novella del Mambriano (adottiamo la classificazione del libro del Rua) racconta di un ricchissimo ed esperto leguleio, che sposa una fanciulla amante di un giovane, e fugge con questo per mezzo di una sottilissima astuzia (2); essa trova riscontro nel C. XIII (125-187) del Mondo Nuovo, sebbene noi crediamo che lo Stigliani avesse presente anche V Orlando Innamorato (3). In questo poema, infatti, il giovine (1) In queste ricerche il Rua, che s’occupò una sol volta dello Stigliani, non esaminò tutto il Mondo Nuovo, perché delle sette novelle del Mambriano, da lui illustrate, quattro hanno punti di contatto con altrettante del Mondo Nuovo. Di u;:a, cioè della Storia di Roldano, abbiamo già discorso. (2) Cfr. il sunto più minuto di tutta la novella in Rua, op. cit., pg. 65-67. (3) Ori. hin., I, xxii. Ad es., il Boiardo: * Ricco ciascuno e di schiatta gentile; Ma Folderico saggio era tenuto, E d’un antiveder tanto sottile, Che come a Dio del ciel gl’ era creduto. E lo Stigliani: Egli era invero nel suo patrio suolo 11 più saggio intelletto, e ’l più sottile, E ’l più ricc’ uomo fra ’l civile stuolo Senza il qual pregio ogni gran senno è vile. Il Boiardo : Onde con molto argento e con molt’ oro. Fe’ comprare un palagio in quel confino. E lo Stigliani : Labindo alfin comprò per più aver agio Con sue turchesi un piccolo palagio. Il Boiardo: M’ avea gabbata con menzogna e ciancia Dandomi intender con festa e novella Che sol baciando e sol toccando il petto D’ amor mi dava 1’ ultimo diletto. E lo Stigliani : Mostrossi pigro a le notturne prove Più di quel, eh’ i sembianti avean promesso, E disse, dopo inutili riprove E dopo vano e replicato amplesso, Che le fanciulle de i lor maschi, dove Quei fusser saggi, si godeano spesso Col solo bacio, e col toccar del seno, Che si Γ età s’abbreviava meno. ΙΟΟ GIORNALE LIGUSTICO entra nella torre ov’ è rinchiusa la sposa infelice per un condotto scavato nel terreno , come nel Mondo Nuovo : nel Mambriano invece il giovine penetra nella torre rinchiuso in un forziere; come pure, l’intervento dell’innamorato accade nel Mambriano dopo lo sposalizio, mentre che il Boiardo, e cosi lo Stigliani, finge eh’ egli amasse ancor fanciulla colei che andò sposa al vecchio leguleio; infine, il comico episodio in cui il giovine sposa la donna amata creduta dal vecchio marito una sua sorella trovasi nell’ Orlando Innamorato , nel Mondo Nuovo e non nel Mambriano (i). Anche la V novella del Mambriano servi di originale allo Stigliani per un episodio del suo poema: però il nostro non segue in tutta la narrazione il Cieco, perché si compiace di lar terminare il racconto là dove i due giovini innamorati fuggono dalla casa paterna, e sono, dopo molte peripezie, salvati da Colombo (2). Per terminare con questi raffronti, osserveremo sommariamente che una burla fatta da Martidora, guerriera cristiana, a due suoi innamorati è ricavata dal Decamerone (IX, 1); che 1’episopio narrato da un compagno di Clodio, una pallida (1) Per quest’ultimo episodio, in cui lo stesso marito unisce in matrimonio col giovine la propria moglie, è anche probabile che lo Stigliani avesse presente YErasto a stampa (Venezia M . DC . LXXV, pgg. 106-127): « Filandro filosofo, col narrare la sagace astuzia d’ una donna in Grecia, che per mano del marito proprio e geloso si fece dare per moglie ad un giovine forestiero amato da lei, fa soprastar di nuovo l’esecuzione della sentenza contro di Erasto. » Cfr. Rua, loc. cit. (2) Mondo Nuovo, XIX, 138-159. Per più ampi particolari si confronti il Rua, op. cit., pgg. 84-101, in cui si potrà esaminare anche 1’ altra novella del Mambriano comune con una consimile del Mondo Nuovo, cioè 1’ avventura di Sifante. Il D’Ancona nel suo bel libro Poemetti pop. ital., Bologna, Zanichelli, 1889, s’occupa anch’esso del racconto del Mondo Nuovo, riproducendolo in appendice al poemetto di Giulia e Ottinello. GIORNALE LIGUSTICO ΙΟΙ idea del Calandrino boccaccesco, trova anch’esso il suo riscontro in una novella del Decamerone (IX, 3); che la discesa di Salazar nella balena è ricavata dalle Vere Storie di Luciano; che Roselmina e Dulipante sono i due eroi del Filocolo; che l’andata di Silvarte nel regno delle Amazzoni, il suo innamoramento con Polinesta, ecc., risentono l’imitazione della Teseide: fatti tutti che dimostrano sempre più la grande ingiustizia dello Stigliani verso il Marino, da lui accusato di plagio anche quando plagio non esisteva. Tutto compreso però il poema si legge volentieri, e fu merito non insignificante del suo autore aver preso a narrare azione nazionale in un’epoca di grande servilismo; a questo proposito è bene notare che lo Stigliani non risparmia grandi rimproveri ai principi italiani per la loro infingardaggine e per la loro politica antinazionale. Anzi, in un notevolissimo luogo del Mondo Nuovo egli condanna la sorte che obbliga il povero, ma ricco d’ingegno, a star soggetto a principe malvagio e ignorante, e in un eccesso di entusiasmo esclama : Tu puoi dunque veder per ogni via Ch’ altro non è la nobiltà di gente Ch’ un’ antica ridicola follia Ingenerata nella vana mente De’ ricchi neghittosi, insin da pria Di che superbia fu sola semente, E che la vera nobiltà di noi Non nasce nosco, ma s’acquista poi. Ma comunque ciò sia, che si'sopporti Svegliatevi voi, poveri, e m’udite, Svegliatevi una volta e del si forte E lungo sonno di tant’ anni uscite ; Riconoscete a pien la vostra sorte, E non più de’ vostr’ avoli arrossite, Non vi fate ingannar più da costoro Colla menzogna de’ natali loro. 102 GIORNALE LIGUSTICO Più lo splendor non vi barbagli il ciglio Dell’ oro, della seta, e del fin’ ostro : Pensate sotto a quel si ricco abbiglio Un corpo star terren, si come il vostro; Pensate tutto il sangue esser vermiglio E che 1’ uscita del materno inchiostro Qpand’ anco spuria sia, fu degna in vui Quanto stata esser mai possa in altrui. Tutti scendiam d’Adamo, e tutti semo Per unità d’ origine parenti ; Uno è il legnaggio uman, che dividemo, Una è la schiatta delle nostre genti; Nè nobili o villan dir ne potemo Se non in paragon d’ altri viventi ; Ch’ appresso alli animai tutti gentili E tutti appresso all’ angiolo siam vivi (i). Ora, riflettendo al tempo nel quale lo Stigliani scriveva, ci è lecito asserire che queste frasi gli fanno veramente onore, e sembra, leggendole, che in esse si preluda alla grande rivoluzione delle leggi sociali, le quali trovarono nel Parini col suo trattato nella Nobiltà e col Giorno, un così strenuo difensore. * * * Il Mondo Nuovo non fu accolto con molto favore, non tanto per il merito intrinseco del poema, quanto per la feroce guerra che ad esso fecero i marinisti; i quali non solo s’ adoprarono a vietare che 1’ Occhiale e il Mondo Nuovo si potessero ristampare, ma distrussero moltissime copie di questi due libri. Onde lo Stigliani, con lettera in data del 15 settembre 1630 rammaricavasene con Domenico Molini veneziano: « Delle mie scritture, scriveva il poeta, accade ogni giorno un miracolo mostruoso, e stranissimo, non accaduto a mun altro in niun secolo. Cioè che libri, i quali piacciono a chiunque gli legge, sieno nondimeno presso che morti. Io (1) Mondo Nuovo, XVII, 132-138. GIORNALE LIGUSTICO IO3 stimo invero le mie fatiche non per eccellenti, anzi per triste, ma molto più trista stimo la lor fortuna, mentre le veggo morir di morte non naturale, ma aiutata e violenta, vedendo dall’altro canto ristamparsi tutto il di non poche opere italiane , che son tenute di gran lunga inferiori alle mie, e di autori meno accreditati che non sono io ; le quali non per altro corrono per le botteghe, se non solo perché non hanno persecuzione (1) »; lamentavasi altresì che i marinisti biasimassero e deridessero il poema « senza mai averne letto carta », per tutte « ΓAccademie, e per tutti i Circoli, e Librerie, tenendo ingiustamente soppresse le sue vigilie di trent’anni (2) »; ma quel che più l’angustiava si era che il Baba, editorei veneziano « incoraggiato dalle spesse ricerche de’ compratori , pur si provò a voler ristampare il poema, ma ne fu fatto cessare dal L[oredano?] e dal B[usenelli?] pure parte-giani acerrimi del Marino, e seguaci suoi pertinacissimi e suoi nemici gratis, i quali per quietare esso Baba gli donarono cinquanta zecchini raccolti per tassa volontaria da tutti i marinisti di Venezia e di Padova, e d’altri luoghi circonvicini »; che il Manso, infine, comperate più di trecento copie del Mondo Nuovo « tutte le distruggesse » e che « un gran prelato di Roma tenesse occulti appresso di sé da cento Occhiali e buon numero di Cannonieri ». E ciò mentre le opere del Marino si stampavano continuamente ed eran messe a ruba dai lettori, e mentre si succedevano le risposte più 0 meno ingiuste, più 0 meno ingiuriose all’ Occhiale. Quindi, chi pensi all’animo fiero e orgoglioso dello Stigliani, potrà di leggieri persuadersi quant’ odio covasse egli nel petto contro 1 marinisti, che lo colpivano nel lato suo più debole: né il nostro poter restare indifferente e indifeso contro di essi. (1) Lettere, pg. 168. (2) Id., pg. 171. 104 GIORNALE LIGUSTICO Sappiamo infatti che il poeta in questo tempo compose una replica all’ Occhiale, opera che restò inedita, sebbene il codice autografo che ce la conserva mostri eh’ essa era pronta per la stampa (i). Della Replica si fa cenno non pure in memorie sincrone, ma anche dagli storici della letteratura, quali il Toppi e il Crescimbeni (2). L’Aprosio la cita nel-VOcchiale Stritolato (3) e nel Veratro (4), e il Crescimbeni afferma d’averne vista « la bozza originale presso il dottissimo Mons. Marcello Severoli, Accademico della Crusca (5) ». Del resto lo Stigliani, nella lettera al Molini, parla della Replica come di lavoro che sin dal 1630 doveva esser condotto a termine (6) e nel 36 prossimo a stamparsi (7). (1) È il codice Casanatense E. V., 14-15; due grossi volumi di oltre seicento carte ciascuno. (2) Toppi, Biblioth. Napolet., pg. 300 e Crescimbenî, Ist. d. volg. poes. II» 475· Il codice posseduto dal Severoli, trattandosi di un autografo, sarà forse quello che ora trovasi alla Casanatense. (3) pg· I71· (4) Pg- 7· (5) Loc. cit. (6) « Il che da me si prova diffusamente nella Replica all’Aleandri, ed a quella mi rimetto a suo tempo ». Lettere, pg. 170. (7) « Se bene pur pubblicherò in breve la Replica fatta all'Aleandri e compagni.... ». Lettere, pg. 121. Dobbiamo poi accennare, prima di esaminare l’opera, che lo Stigliani in questo tempo trovavasi « senza padrone », e può darsi che questo stato di cose perdurasse da qualche anno, quasi dal 1626, perché tanto V Occhiale quanto il Mondo Nuovo sono, come abbiam veduto, dedicati a tutt’altri che al card. Borghese; nel 1630 lo Stigliani pregava il Molini perché si degnasse « d’accettar la piccola servitu sua, e in un tempo abbracciar la protezione delle sue opere » Lettere, pg. 164. Del resto dalla Replica non siamo in grado di rilevare nulla che possa provare quando lo Stigliani chiese ed ottenne protezione da Pompeo Colonna Principe di Gallicano. Pur essendo l’opera dedicata a quest’ultimo, la lettera che la precede porta la data del 3 marzo 1646. GIORNALE LIGUSTICO ΙΟ) In questo nuovo lavoro il nostro poeta, più che il Marino, attacca i marinisti, specialmente l’Achillini, che credeva esser Γanima della congiura ordita a suo danno, che « da Bologna li reggeva tutti, e li consigliava in questa contesa contro di lui (1). Egli si propone di rispondere alla Difesa dell’Adone. si come più diffusa dell’ Occhiale Appannato e che « benché sia stata attribuita all’Aleandri solo e sotto suo nome mandata in istampa, il fatto nondimeno passa altrimenti», ritenendola invece opera « di tutti i seguaci di Marino (2) ». Non risponde all* Occhiale Appannato anche perché, essendo l’Er-rico « uomo di vilipesa condizione, e servidore in Messina del signor Antonio Gotti, che mena i suoi figliuoli alla scuola (1) A. c. 45 della Replica lo Stigliani apostrofa l’Achillini con queste parole, che hanno un considerevole fondo di vero: « Dicami ΓAchillini che è egli in queste tre professioni [arte poetica, lingua toscana e filosofia morale]? Che libri ha scritti, che lo mostrino tale, quale da sé si giudica? Non s’ acquista già la fama senza opere. Poiché in tanto l’uomo è pregiato, in quanto fa cose degne di pregio. Ma egli non ha mai fatto nulla, se pur non mi volesse porre a conto alcuni suoi sonetti, che talora manda attorno manoscritti, di Ferri vitali, di Sudate 0 fuochi, e simili altre scempiezze, che non servono, se non a far ridere le brigate de’ savi ». Nelle Lettere, pg. 121, egli dice a riguardo delle rime de’ comtemporanei : « De’ quali uno è per esempio oggi l’Achillini ; le cui rime sono nel medesimo tempo uscite di torcolo e uscite di credito ». Anche il Mascardi e il Bruni hanno la loro parte di accuse. A c. 196, parlando « di due complici » della Difesa all’Adone dell’Aleandri, dice che « all’ un di quei ridusse da morte a vita un suo libretto chiamato Pompe di Campidoglio, ed all’altro rabellt buona parte delle sue Pistole eroiche ». Le Pompe di Campidoglio sono comprese nelle pgg. 199-254 delle Prose Volgari, Venezia, M.DC.XXX. Ma su questi pretesi rabberciamenti ritorneremo tra breve. Odi’Epistole Eroiche si hanno numerose edizioni. (2) È bene notare «he qui lo Stigliani risponde alla sola prima parte della Difesa, pubblicata nel 29, ignorando, 0 fingendo di ignorare, che l’anno appresso usciva anche la seconda parte. io 6 GIORNALE LIGUSTICO dei Padri Gesuiti, non è obbligato a puntigli d’onore », e di più perché « essendo le materie disputate.....le medesime nell’Aleandri, come nell’Arrigo, e per lo più essi rispondendogli le medesime cose, basterà che senza far due volumi, replichi ad un solo di loro, il qual sarà l’Aleandri ». Dopo questa dichiarazione lo Stigliani entra nella polemica a osservando nel replicare lo stesso ordine dell’ avversario » e rispondendo prima di tutto « a quattro scritturette tutte sotto nome del solo Aleandri, nelle quali s’ affermano molte falsità in pregiudizio della sua causa, ed in favor della loro ». Le scritturette », cui accenna lo Stigliani, sono quelle premesse alla Difesa, e cioè « una lettera scritta aH’Achillini, un altra dello Scaglia allo stampadore, un parer sopra il titolo del quarto Libro dell’ Occhiaie, ed un altro sopra la Prefazione latta a quello dal Balducci; » ad esso lo Stigliani risponde molto evasivamente, specie alla prima, nella quale l’Aleandri lo accusava d’aver fatto proibir l’Adone (i), perché osserva eh’ egli « lasciò correre esso Adone per le botteghe dei librai, eleggendo piuttosto di cadere in peccato che di denunziar quello »; che « non desiderava tal proibizione, ma (i) « Queste cose si come note sono allo Stigliani, cosi ben pemar potete, ch’egli amaramente ne roda il freno, havendo in più luoghi del suo Occhiaie a larghissima bocca detto, che VAdone come fuoco di paglia havea tatto una fine momentanea: ch’era totalmente morto; che niuno havea patienza di leggerlo: e si fatte filastrocche, le quali neanco egli stesso si credea ; benché i miserelli di leggieri si diano ad intendere tutto quello, che intensamente desiderano. Che se creduto veramente l’havesse, non haverebbe posto tanto studio e fatica in procurarne la proibitione dai Censori Ecclesiastici, nel che non si vedeva mai stanco, maneggiandosi hor da sé stesso, hor per via de’ suoi seguaci, si come è stato scritto da più persone, e non dubito, ch’a voi ancora non sia venuto all’orecchie, essendo cosa possiam dir nota a tutta Italia, e di cui va il medesimo Stigliani vantandosi come di gloriosa impresa », Difesa, lett. all’Achillini. GIORNALE LIGUSTICO bramava grandemente eh’ ella non seguisse, e ciò per suoi degni interessi, a fine che poi le sue risposte fattegli contra non trovassero intoppo intorno alla licenza dello stamparsi, dovendo alle volte allegarvisi i testi interdetti: » e finisce col dire : « L’accusator dell’ Adone è stato il lamento comune di tutta Italia (la quale si è bruttamente scandalizzata di si infame lordura) ed appresso è stata la giusta indignazione di un gran Cardinale di S. Chiesa, il quale l’ha tatto accusare », e confessa che « quand’ anche l’avesse fatto proibire sarebbe stato onorato vendicator de’ suoi oltraggi, mentre il Poema favella in tre luoghi sconciamente contro la sua riputazione ». Anche nella Replica il nostro si lamenta che il Marino abbia cosi di sovente messo a contribuzione i parti della sua fantasia; anzi quest’accusa egli la estende a tutti i marinisti. Osservammo già che l’Aleandri scrisse avere il Marino corrette le prime Rime dello Stigliani, quando fra i due poeti regnava ancora l’amicizia: nella Replica, oltre respingere quest’ affermazione, dice che in verità avvenne il contrario, e che fu lui il correttore (i); e cogliendo la palla al balzo aggiunge: «Ma di somiglianti servigi io per la mia semplice natura n’ ho fatti assaissimi in diversi tempi a questa rabbiosa canaglia di poetastri. Di che ho sempre riportato per premio inimicizie e malivoglienze, e persecuzioni e sconoscimenti. Perché la più parte di loro si come si vergognano (i) « Egli è tanto falso che il Marino correggesse mai sillaba delle mie prime Rime, o che mai dicesse d’averle corrette, che anzi per contrario fui io quello, che rividi le prime sue, e vi conciai tanti solecismi e barbarismi, e tanti errori e debolezze, che di qui esse uscirono più piacevoli e più plausibili, che non avrebbon fatto, s’io non m’impicciavo. Il che poi il Marini stesso parte pubblicò a bocca, e parte in carta. Che ’l pubblicasse a bocca in un suo discorso recitato per altro nell’Accademia dei Signori Innominati lo sa tutta Parma ». Replica c. 196. ιο8 GIORNALE LIGUSTICO della loro propria inerzia, cosi s’ hanno recato a scorno quanto appresso io ho manifestato a qualche amico essi aiuti lor dati, per lo pentimento c’ho avuto in vedermigli ribellati. Quante lezioni accademiche, quanti sonetti, quanti epigrammi, io ho lor fatti con permissione, eh’essi li recitassero per opere loro nell’Accademie, e altrove? » Questo lo Stigliani, perché l’Aleandri, dileggiandolo, aveva anche scritto nella Difesa che il poeta non frequentava mai le Accademie perché « ^patir non poteva di sentir tutto di recitar compositioni pieni di concetti a lui rubati. Sopra di che — aggiungeva, si lacean gran risate, sapendosi, non v’essere alcuno il quale molto meglio dello Stigliani non componesse, e molte cose non potesse insegnarli (i) ». Però il poeta frequentava spessissimo l’Accademia del card. Dati e quella del card. Pio di Savoia (2). La sola Accademia degli Umoristi non lo vedeva di buon occhio, e questo si comprende bene: di essa era stato Principe il Marino, i seguaci del quale erano tuttora in buon numero tra gli assidui frequentori. L’ antipatia per l’Accademia degli Umoristi era di lunga data, cioè dal 1611, anno in cui il Guarino ne era Principe (3) ; anzi gioverà qui riportare un curioso aneddoto, narrato dallo Stigliani nella Replica, e che meglio ci farà conoscere l’orgoglio di lui: « In quella degli Umoristi — scrive il poeta, — non sono stato mai, fuor eh’una semplice volta, a tempo che v’ era Principe il cav. Gue- (1) Difesa, pg. 88. (2) Replica, c. 355. E I’Affò, Vita del Pallavicino in Opere di S. P., Roma, 1845, I. Pg· 21: « Frequentava lo Stigliani, vivente il Cesarini, anche l’Accademia che quest’ ultimo teneva in casa sua, alla quale accorrevano il Ciampioli, il Mascardi, il Testi, il Barclay e Giulio Strozzi ». (3) Rossi, Battista Guarirli e il P. F., pg. 152. GIORNALE LIGUSTICO IO9 rini. La qual mia astinenza d’andarvi non procede dall’esser essa Accademia in questo tempo praticata dai d.d Marinisti involatori, ma da più vecchia origine, e da più alta e degna. La qual non sarà forse inopportuno, che qui da me si racconti, come per via di breve digressione. Sappiasi, che il detto cav. Guerini mi pregò un giorno caldamente a nome di tutti gli Umoristi, eh’ io mi contentassi d’ essere accettato per loro Accademico. Al che io risposi, che io avrei avuto per singoiar grazia, ed egli soggiunse: Faccia adunque V. S. il memoriale, e me Ί dia, ch’io nella prima ragunan^a il farò leggere. A questo altiero nome di memoriale io confesso che restai alquanto maravigliato. Pure non mi scomposi di nulla, ma allegramente replicai, che l’avrei fatto. Fecilo in effetto e diedilo il seguente giorno ad esso Cavaliere, il cui tenore era questo: Tommaso Stigliani servitore delle SS. VV essendo stato per parte loro pregato dal signor Cav. Guerini con molta istanza a consentir d’essere eletto, e scritto per loro Accademico, si fa intendere, e si dichiara, ch’egli non solo il consente ma lo riceve a grande onore. Il Guerini, letto che l’ebbe, m’alzò gli occhi al viso, e sorridendo disse: « Sig. Stigliani (per riferire appunto le sue parole), i memoriali, come V. S. sa, devono contener dimanda dal canto di chi gli fa, e non concessione. Al che risposi con sorriso: Se questa regola 'e vera, non deve dar memoriali chi concede, ma chi domanda. E poi soggiunsi: A parlar con V. S. liberamente e fuor di motti, io non avevo volontà d' essere accademico. Di che mi siete testimonio il non averlo mai chiedalo, portando opinione, che la vera Accademia degli uomini sia il proprio studio; e che più tosto consista in faticar fra le carte de’ morti, che in recitar componimenti fra le congregazioni de’ vivi. Ma poi che questi virtuosi cosi desiderano, mi ricevano senza memoriale ch’io verrò. Altrimenti non voglio essere, che pur del mondo son qualche cosa ancor io, benché picciola. Non posso farlo ( disse il Guerini) perché tra le no GIORNALE LIGUSTICO lor leggi v& n’ è una, che vieta il ricever nessuno per altro mezzo che per memoriale. Adunque (replicai io) questa hgg' vuol pre-gatori per accademici e non pregati. Ma io non sono al proposito, perché son pregato e non pregatore. Insomma, per abbreviarla, io non intendo di porgere memoriale, o vero se I’ ho da porgere, non mi piace cF esso sia d’altro contenuto, che di quello che costi si legge. Né già lo porsi agli Accademici della Crusca, i quali dopo avermi di lor motivo eletto, di lor cortesia me lo fecero sapere a Parma col meyjp di una lettera scrittamene da Monsignore Usimbardi (il quale è oggi in Roma, e può testimoniarlo) ed io con ringraziamenti vi scrissi loro il mio consenso. Cosi fanno e devono fare i degni collegij verso alcune sorti di persone e non andarsi mendicando adorationi, massima-mente senza mirar da chi. La qual cosa e atto di deità fallita, ed altrettanto superba. Orsù (disse il Guerini dopo essere stato alquanto sopra di sé, e dopo avermi renduto il memoriale) io ho pensato un mezano ripiego a questo e credo eh’ aggradera a tutte due le parti. Andiamoci adesso medesimo, che so che gli Accademici ci sono. E cosi senza dir altro mi condusse nel- 1 Accademia, la quale stava radunata non in sala ad atto pubblico, ma in una camera a consulta privata. Entrò il Cavaliere solo, e lasciò me in sala. Quivi non molto dimorato ritornò dove io ero, e mi menò dentro. Dopo i saluti ed il sedersi, parlò per me il Cavaliere a tutti in questa sentenza: Lo Stigliani desidera d’ essere nel nostro numero. E perché ciò torna a nostro acquisto, io Γ ho qui condotto a domandar loro questo favore, il quale a me pare, che senza memoriale si debba concedere, essendo egli la persona, che 'e. Tutti risposero con molto plauso che si contentavano. E io, se ben la forma della proposta m’era dispiaciuta, si come cosa non corrispondente all’ appuntato (anzi m’avea fatto alquanto adirare, e per isdegno arrossire) pure lo confermai cosi all’asciutto, per non iscornare il Cavaliere e per non far commedie in Ac- GIORNALE LIGUSTICO III cademia. Massimamente essendoci la presenza di due Prelati, cioè Mons. Corsini e Mons. Stella. Ma non tornai mai più a quel luogo, non ostante che molte volte fu ssi da poi invitato ad intervenire alle lezioni, ed a far di quelle ancor io. Dopo alcuni mesi m’incontrai fra via nel Guerini, ch’era in carrozza col Tassoni, col Paoli, collo Strozzi e col Mancini. I quali fermatisi, mi domandarono perché io non venissi alle funzioni dell’Accademia, ed io risposi: Dicanomi le SS. VV. non son io Accademico Umorista? Sì, dissero essi. Ed ogni Umorista (ripigliai io) non ha il suo umore? Si, risposero tuttavia. E Γ umor mio 'e (diss’ io) di non venirvi già mai insin eh’ io vivo, e servitore a tutti. Colle quali ultime parole, senza aspettare altra risposta, mi licenziai cortesemente da loro, e mi partii (i) ». In tutto questo racconto v’ è certamente molta parte di esagerazione: è un fatto però che l’Accademia degli Umoristi fu, come dicemmo, sempre composta di seguaci del Marino, il quale v’esercitò il principato per molto tempo, anche quando ritornò a Roma nel 1624. « Non voglio io negare — confessa lo Stigliani, —- che tra questi Accademici nuovi non sia qualche mio amico, e che tra i vecchi non m’ ami il Balducci con molta fede. Ma arditamente dico che nessuno mi ama degli altri antichi, eh’ oggidì sopravivono. De’ quali è il Falconio, il Vialardi, il Rossi, il Salviani, il Rocchi, il Tortelletti, il Paoli, il Mancini, ed altri (2) ». Nel 32 noi vediamo che il poeta è sempre malcontento che chi dovrebbe aiutarlo non riconosce, come dovrebbe, i suoi meriti; e come, sino alla morte, si raccomandò sempre a’ suoi protettori, cosi possiamo arguire che in vita egli (1) Replica, c. 356-59. (2) Ibìd. 1X2 GIORNALE LIGUSTICO fu sempre infelicissimo. « Sappia — scrive ad es. lo Stigliani al principe di Squillace addi 2 di febbraio 1632, — che ’l mio fisso attendere alla lunga composizione del Mondo Nuovo', mi ha distratto dalle mie cose domestiche per molti e molti anni di tal maniera, che me n’ ha fatto in tutto e per tutto tralasciar le cure. Le quali domestiche cose non son perciò camminate cosi bene, come avrei fatto con la mia soprain-tendendenza (1) ». Chiedeva quindi al principe che, essendo il « poema stato fatto in esaltazione della nazione spagnuola, ed essendo oltracciò dedicato a Sua Maestà medesima, sarebbe quasi il dovere, che quegli per gli quali onorare era caduto lo aiutassero a risorgere in piedi »: e terminava : « Per questo io non mi vergono di supplicare (come fo) ad esser servita d’impetrarmi dal Re alcuna pensione nel Regno di Napoli, la quale per più comoda esigenza fosse situata sull5 arcivescovato di Matera mia patria ». Però Filippo IV, come non aiutò lo Stigliani nel 28, all’ epoca della pubblicazione del poema, cosi fu sordo anche alle nuove preghiere, con grande amarezza del nostro, il quale, per tutto ciò, scriveva al Balducci, che gli chiedeva notizie della sua prossima partenza da Roma: « Rispondo esser verissimo, ch’io mi parto, e si come il donde è Roma, cosi il per dove è Matera. La causa della deliberazione non è una, ma son due. Perché ormai mi è venuta troppo a noia la lunga ingratitudine della corte, e dall’altro mi s’è troppo accresciuto il solito desiderio dell’ abitazion paterna, per rispetto alla mia soppravenuta vecchiezza, già bisognosa d’agi e di comodi. Voglio in tutti i modi contentar l’onesta inclinazione della natura, per dare i miei ultimi giorni a chi diedi i primi, e con aver la sepoltura ov’ ebbi la cuna, parendomi assai giusta cosa, ch'io restituisca le mie ossa a quel terreno da cui le ricevetti, e (1) Lettere, pg. 253. GIORNALE LIGUSTICO II5 che se non vi son dimorato, vivo vi dimori morto. Almeno non morrò in terra strana, ed in mano di servidori, ma nella patria, ed intorniato dai miei » (1). Questo nel febbraio del 35, cioè quando il poeta era al servizio di Pompeo Colonna principe di Gallicano con lo stipendio di quindici scudi il mese (2), somma in quel tempo certo non meschina; non ostante, però nell’ottobre dell’anno seguente lo Stigliani era a Matera, forse andatovi per tentar di regolarizzare i suoi interessi: e infatti a Tiberio Caraffa, principe di Bisognano, raccomandavasi in quell’ anno per ottenere giustizia in una causa intentata contro l’amministratore delle sue terre (3), e l’anno appresso lagnavasi col cardinale Ippolito Aldobran- * (i) Ibid., pg. 251. (2) Documento IV. (3) « Sappia V. E. che venuto eh’ io fui a Matera per voler fare al mio amministratore render conto del maneggio di quelle poche rendite, che v’ ho, trovai eh’esso, per sfuggire il Foro ordinario di Matera, s’è di fresco assoggettato alla Dogana di Foggia, ed assentatosi uomo d’arme, e fattosi fare eletto della Communità nostra. Ai quali tre sotterfugi) io rimediai con un solo espediente, che fu l’ottenere in Napoli una Delegazione Regia, la qual comandava che ’l debitore fusse riconosciuto e sommariamente giudicato dal Giudice di Matera, il quale oggi è il signor N. dipendente dal Signor Duca di Caiano. Davanti al qual Tribunale già son finiti sette mesi, che questa causa verte, ed io ho provato insin da principio, non solo per testimoni, e per iscritture, ma anco per li conti produtti da essa parte istessa, d’ esser liquido creditore di cinquecento quaranta ducati ». Lettere, pg. 278 Cfr. altresì il Mondo Nuovo, XIX, 31-35, in cui il poeta, ramentando le sue liti, esclama: Se bene a senno mio meglio saria Ch’ a un rogo istesso si bruciasse insieme Colle scritture anco la turba via Degli scrittor, di cui perisse il seme, Il che se fea Giustini'an da pria Quando diè i libri alle faville estreme • Non sarebbe da poi (chi ben considra) Repullulrta la pestiser’ idra. Giorh. Ligustico. Anno XIX. g ιι4 GIORNALE LIGUSTICO dini d’ un arciprete del luogo, che vantava delle pretese sopra un beneficato « conferito nella persona dal figliolo Carlo (i) »: insomma, il poeta aveva cambiato paese, la ma la sfortuna gli stava sempre ai fianchi. Vero è che nel 41 scriveva a Pompeo Colonna, che aveagli chiesto notizie della sua salute: « Io vivo qui con molta salute »; e aggiungeva che lo teneva oppresso il luogo studio che andava compiendo « attorno all* opere sue, le quali non sarebbero comparse alla luce dei mondo » senza che in esse fosse menzionato il principe « e fatte pompose delle sue lodi (2) ». In questo tempo lo Stigliani tornò nuovamente a Roma, dove lo troviamo il 4 settembre 1643, intento a spiegare al cardinale Orsini e al suo nipote due passi oscuri e controversi della Divina Comedia (3). É però certo che il poeta abban-. donò Matera l’anno avanti, come apparisce da una lettera, sino ad ora inedita scritta dallo Stigliani a Pompeo Colonna nel 1648, e nella quale è detto che sei anni prima egli si parti dalla sua patria (4); si potrebbe, d’ altra parte, stabilir tale data nel 41, perché con lettera del 17 marzo di quel-l’anno, inviando a Bernardino Regni un quadro del Dome-nichino, rappresentante i Dodici Apostoli, pittura « della seconda maniera, cioè della migliore », scriveva: « Soprattutto desidero d’ essere avvisato della libera risoluzione al più presto che si possa. Perché essendo in procinto di partire, vorrei a tempo sapere per quante some avrò da provvedere vettura (5). Giunto a Roma il poeta fu ricevuto ancora una volta, qual famigliare, dal principe di Gallicano, il quale ridusse però (1) Lettere, pg. 34. (2) Ibid., pg. 51. (3) Propugnatore, N. S., Ili, 281-85. (4) Documento VII. (5) Lettere, pg. 57. GIORNALE LIGUSTICO a dieci scudi i quindici che aveva pagato allo Stigliani a titolo di provvisione mensile prima dell’andata a Matera (ι). In questo tempo egli scriveva un panegirico in lode del nuovo papa Innocenzo X (Giambattista Panfili) elogio che insieme a poche altre poesie pubblicava nel 1645 (2); noi però (1) « Si deve ella ricordare che insin da quei principij che tornato da Matera a Roma per riverirla, e veduto ch’ella non mi proviggionava secondo il passato, ch’era di quindici scudi il mese, ma di soli dieci, feci intendere con lei per mezzo del Signor Cardinale Orsino, che non avrei potuto in questo modo vivere se non con disagio, e con travagliosa parsimonia, eziandio aggiungendovi quel che ho del mio nella patria ». Documento IV. (2) Un esemplare di questo rarissimo opuscolo è posseduto dallo Vittorio Emanuele, e si trova unito al panegirico del Marino in lode del Duca Carlo Emanuele I. Del Cavaliere \ fra Tomaso | Stigliani, | Sopra la nuova Creazione del N. Signore | Papa Innocenzio Decimo | E sopra alcuni altri soggetti | appartenenti | In Roma, | Nella Stamperia di Andrea Fei. I M. DC. XLV. Dopo il panegirico, composti di ventotto quartine, vi sono: due sonetti μ al medesimo in tempo ch’era cardinale », uno « dopo l’esaltazione», uno per « le nozze degli Eccellentiss. Signori Principe di Piombino e D. Costanza Pamphilij », una canzonetta « in lode del Card. Ludovisio », due « in lode del Principe Giustiniani » ed un sonetto, in lode della celebre Olimpia Panfili che vale la pena di riprodurre qui: Di varcar sopra il ver la Musa ha in uso, Qualor col canto celebra gli Eroi Si eh’ erge spesso al Ciel, cosa che poi Non è tal, qual avea ella diffuso. Tu sola, Olimpia, hai l’adular confuso, Tu sola lusingata esser non puoi, Che per molto eh’ uom vanti i pregi tuoi Sempre vede il tuo mento esser più suso. Cosi insieme hai dovizia, ed bai scarsezza Dico di lodi, che ciascun t’intesse, E nessun del dever giunge all’ altezza. Ma il non poter glorie esser espresse Per la loro invincibile grandezza T’è maggior gloria, che le glorie istesse. GIORNALE LIGUSTICO non sappiamo di quanto giovamento gli fosse tale componimento, perché ci è ignoto se il papa ricompensasse il poeta, il quale, ad ogni modo, seguitò a servire sempre il Colonna. E qui dobbiamo notare che il biografo dello Stigliani, in quelle poche notizie inserite nella Biografia Universale., arguisce, basandosi sopra una frase del Colonna, che il poeta adempisse ad umili uffici in casa del suo protettore (i); invece la minuta di un carteggio corso tra lo Stigliani e il Colonna, tuttora inedito alla Casanatente, ci porge il destro di illuminare un periodo molto oscuro della vita dello Stigliani (2). Il carteggio dura per lo spazio di tre anni, dal 46 al 49, nel tempo in cui il Colonna fu prigione in Napoli. È noto, infatti, che a tempo dei disordini del 1645 e 4^> quando cioè il Mazzarino volle dar Γ ultimo crollo alla potenza spagnola in Italia, il Colonna fu accusato di intrighi in favore dei Francesi, e, per ordine del Viceré, rinchiuso nel castello di Sant’Elmo (3). Durante la prigionia che, in verità, per riguardo al nome illustre che portava, fu per il Colonna (1) Biografia Univ., Voi. 64, pg. 102. La frase trovasi nella prefazione che il Colonna scrisse, come vedremo, ad un’opera postuma dello Stigliani, intitolata Arte del verso italiano·. « Accetta intanto, o lettore, il buon talento di giovarti, e credi che non per altro che per sommo affetto eh’ io conservo allo Stigliani, che visse e mori mio attuai servitore » ■ Subito dopo il Colonna aggiunge: « se tal nome possono meritare gl’ intelletti di quella sorte ». (2) È il codice segnato E, VI, 50, appartenuto già, come è scritto nella prima carta, al card. Pallavicino, che fu grande amico dello Stigliani. Contiene, oltre le lettere, alcune epistoln latine dirette dal Pallavicino al Ciampoli, un Index Librorum Prohibitorum, una canzone dello stesso Pallavicino « sopra le felicissime Nozze de’ serenissimi Principi Odoardo Farnese, Duca di Parma e Piacenza e Margherita De’ Medici », il Trattato della Scienza Meccanica del Galilei, ecc. (3) Coppi, Memorie Colonnesi, Roma, 1815, pg. 639. GIORNALE LIGUSTICO II7 molto mite (i), egli era in corrispondenza di lettere con lo Stigliani, che lo informava continuamente degl’ interessi di famiglia (2), delle voci che correvano sulla sua liberazione (3), e infine, essendo il Colonna letterato, per quel tempo di una certa rinomanza (4), gli inviava componimenti poetici (5) dandogli altresì utili consigli sulla composizione della Nuova Arcadia, libro che il Colonna andava componendo a imitazione dell’opera del Sannazaro (6) e nella quale al nostro pareva « di odorare un non so che di verità allegorica ». Questa era senza dubbio un’ allusione che il Colonna faceva del suo imprigionamento e delle cause che Γ avevano prodotto, perché come personaggio della Nuova Arcadia dovea comparire, oltre un pastore, Silvano, sotto cui adombravasi il Co- (1) « Con mio interno piacere io sento da V. E. eh’ ella costi dentro s’affligga poco della sua prigionia » Documento XVI. (2) Documenti XIV e XV. (3) « E potrebbe far conto che V. E. avesse un cavallo di più, e cosi somministrare insino alla liberazione di lei (la qual mi dice il Sig. Cardinale di Cueva esser vicina) ». Documento V ; e altrove : « Quanto alla prima materia sommariamente lodo la risoluzione di V. E. la qual credo si sia fino ora sospesa non per altro che per la speranza che di giorno in giorno s’ è avuta della liberazione ». Documento XII. (4) Del Colonna abbiamo a stampa: una canzone (La Nave, Canzone di Pompeo Colonna , Duca di Zagarolo, Dedicata alla santità di Nostro Signore Papa Urbano VIII. In Roma, appresso Ludovico Grignani, M.DC. XXXIX), un’ opera sull’ astrologia (Operette contro gli Astrologassi, ed a favore de’ buoni Astrologhi, 0 vero a favore dell’Astrologia fino a quel segno eh’essa deve trattarsi, di Don Pompeo Colonna; in Roma, appresso Angelo Bernabò, 1657) e le addizioni aW’Arte del verso italiano dello Stigliani. (5) Nel 1648, ad es., inviava al Colonna ir un giudizio in terza rima sopra il Furioso » e « tre canzonette musicali, fatte in modo semplice e corretto e con non molti concetti, essendo cosi più atte all’ esser cantate, che se fossero concettuose ed eleganti ». Documento XII. (6) Documenti II, V, VII, X, XIII. 118 GIORNALE LIGUSTICO lonna, lo stesso Stigliani col nome di Tommaso Porcacchi, il quale « dichiarasse Γ allegorie de’ velati accidenti, quando l’opera s’avesse a pubblicare ». Un’ altra volta lo Stigliani fu incaricato dal cardinal Colonna di far pervenire al Principe di Gallicano una copia delle Rime del Ciampoli, le quali, auspice il porporato, furon pubblicate per cura del Pallavicino. E infatti vediamo lo Stigliani compiere l’incarico, e dare altresì un giudizio abbastanza curioso sul valore delle poesie di colui del quale, in vita, era stato amicissimo. Ma, come dicemmo, non erano sole corrispondenze letterarie quelle che correvano tra protetto e protettore; anzi una volta lo Stigliani consigliò il Colonna di mutare « il nome di Tommaso Stigliani nella soprascritta » delle lettere in quella di Sempronio Vecchietti; oppure, quando al Colonna « non fosse piaciuto tale spediente » , di non aggiungere al vero nome « mio Gentiluomo, parola la quale indizia che la lettera non sia di persona privata, ma di principe, come è »; pregandolo altresì « di astenersi dal toccar i sopradetti tasti », i quali al poeta sarebbero stati pericolosi ed al Colonna « non utili Infine, nel 48, il Principe di Gallicano inviava allo Stigliani un discorso per provare innanzi ai giudici la sua innocenza, e il nostro ne lodava cosi il fine come il modo col quale era scritto. Durante la prigionia del Colonna amministrava la casa in Roma la moglie, Francesca Inigo d’Avolos, marchesa del Vasto, la quale non pagava puntualmente le mesate al poeta, che perciò rivolgevasi al suo Signore con lettere lagrimevoli. Si noti poi che in questo tempo la marchesa era in dissidio col marito, per cause forse simili a quelle che avevano cagionato la prigionia del Colonna, e oltre all’aver rinnovato tutta la servitù, trattava bruscamente lo Stigliani, il quale abitava ancora nel palazzo; il Colonna ingiunse pili volte al poeta di non considerar la marchesa quale sua padrona, ma GIORNALE LIGUSTICO II9 10 Stigliani non credeva opportuno Γ operato del Principe e osservava che in questo caso sarebbe stato cacciato via; anzi pregò più volte il principe di non risentirsi con sua moglie e di non procurargli nuove sciagure. Vero è poi che il Colonna fece quasi sempre buon viso alle preghiere dello Stigliani, al quale mandò sessanta scudi in conti di mesate arretrate, ed elevò a dodici i dieci scudi mensili; in questo tempo poi il nostro scriveva una lettera, tra il comico e il pietoso, in cui fingeva di raccomandare al Colonna un personaggio, nominato Bisogno, che a volte chiamavasi anche Necessità, e che lo assediava continuamente, infastidendolo con la sua presenza dovunque. Forse le sciagure finanziarie dello Stigliani terminarono nei primi mesi del 1649, con la liberazione del suo signore, al quale scriveva subito dopo ricevuta la notizia dell’ avvenuta scarcerazione una lettera, con la quale esprimeva la sua gioia, e che dimostra la devozione che il poeta nutriva per il Colonna ; anzi, a lode del primo, dobbiamo aggiungere che, durante la prigionia del Principe, il card. Farnese invitò lo Stigliani « a far parte della sua famiglia in qualità di gentiluomo »; ed egli rispose di non poter accettare 1’ invito, perché « essendo attuai servidore del Signor Principe di Gallicano 11 quale (come ognun sa) è prigione in Napoli di Sua Maestà Cattolica, non gli pareva opportuno accettar la detta grazia senza suo biasimo. Perché amando il detto signore per li suoi meriti e per essere da lui ottimamente trattato : se ora lo lasciasse non avrebbe potuto fuggir nota di sconoscente e d’ingrato (i) ». Vecchio di settantasette anni, lo Stigliani attendeva in questo tempo a ripulire il suo poema, per ristamparlo. A (1) Lettere, pg. 177. 120 GIORNALE LIGUSTICO Giovanni Angelo Maccafani che addi io agosto 1649 gli chiedeva conto di ciò, rispondeva : « Io non ho ancora cominciato a ristampare il Mondo Nuovo, poiché il Manelfi, con chi già m’ era accordato, è morto repentinamente in questo comune influsso (1). Nel qual volume si son fatti da me tanti miglioramenti, che non 11’è rimaso privo foglio alcuno, né facciata né forse stanza (2) »: però il « povero libro » navigava « colle vele basse, poiché il rabbioso vento del-F invidia degli emoli lo teneva combattuto non poco ». E diceva il vero, in quanto che né gli eredi del Manelfi, dai quali aveva ricevuto promessa, né altri editori, accettarono una nuova edizione del Mondo Nuovo; invece, miglior fortuna ebbero le lettere, le quali furon pubblicate nel 1651, vivente il poeta, che le dedicò al Colonna con lettera del primo d’ottobre 1650; nel qual anno lo Stigliani moriva, senza che lo seguisse nella tomba il solito compianto de’ letterati; senza che in alcuna Accademia fosse celebrata Γ orazione funebre in suo onore, senza, infine, lasciare il nome alla posterità, tanto che oggi dai più egli è dimenticato. Eppure questo fu Γ unico suo pensiero (che domina sempre negli scritti di lui), l’amore cioè alla gloria, che lo tormentò sino al sepolcro, costringendolo a lunghe vigilie per condurre a termine le sue produzioni, per le quali avea l’onore di essere da Lope de Vega amesso in compagnia, nel Laurei de Apolo, co’ più grandi poeti italiani antichi e contemporanei. Di lui il grande commediografo spagnuolo scrive: Estillani, à quien tanto Esparia debe, Describiendo la antàrtica conquista Del orbe nuevo indiano (3). (1) La peste che a qual tempo desolava l’Italia e che, come osserva lo St. « avea falciato tal numero di spighe, che quasi tutto il campo era ridutto a stoppa ». (2) Lettere, pg. 148. (3) Colleccion escogida de obras no dramiticas de Frey Lope Félix De GIORNALE LIGUSTICO 121 Morendo, lo Stigliani lasciava incompiute parecchie sue opere, alle quali accenna il Colonna pubblicando quella che poteva dirsi la più completa. « Tra le altre opere che lo Stigliani lasciò in idea — scrive il Colonna nella prefazione all Arte del verso italiano (i), — sono la grammatica italiana, la poetica e il vocabolario »; noi però ci occuperemo del solo volume a stampa (2) , che si pubblicò sette anni dopo la morte dell’ autore. Certamente, nella composizione dell Arte del verso italiano lo Stigliani rammentò la Poetica del Trissino e i Dialoghi della Volgar lingua del Bembo ; in fondo al libro poi, in cui dà un esteso rimario, non fece che amplificare quello del Ruscelli « al cui margine — dice 1 editore — aggiungeva quel eh’ ad esso sovveniva », L’opera dello Stigliani si scosta però in qualche parte da quella dei suoi predecessori e in essa osserviamo molte idee nuove e giuste. Ad esempio, discorrendo della natura del verso, e delle facilità di comporne, prova la sua affermazione osservando che « tutto il giorno si vede viva sperienza, non dico in Firenze solamente ne’ contrasti de’ marmi, e nelle Puglia e Sicilia, nelle contese de’ provisanti, ma in tutto il rimanente d’Italia, ove fino i contadini e i pecorai lo sanno fare ». Crede, naturalmente, che il Boccaccio sia stato Tin- Vega Carpio (Voi. 38 della Biblioteca de autores Espanoles) Madrid, Ri-vadeneyra, 1868, pg. 220. (1) Arte del verso italiano, con le tavole delle rime di tutta le sorti copiosissime del Cavalier fra Tommaso Stigliani, con varie giunte e notazioni di Pompeo Colonna, Principe di Gallicano, ecc. In Roma, per Angelo Bernabò Dal Verme, 1658. Conosco altre tre edizioni di questo libro: Bologna, per il Longhi, s. a.; Bologna, id., M.DC. XCIII; Venezia, appresso Tommaso Bettinelli, M. DCC.LXVI. In quest’ ultima è unito il Sillabario del Fiorenti (Udeno Nisiely). (2) Della poetica, della quale si conserva inedito un semplice abbozzo, toccammo già incidentalmente in principio di questo nostro studio. 122 GIORNALE LIGUSTICO ventore dell’ ottava runa ; ma subito dopo aggiunge: « Benché a parlar più proprio, egli debba dell’ottava più tosto eh’in-aventore, dirsi riformatore. Perché veramente la prese da’ Siciliani, mutandole la schietta chiusa. Che dove coloro la facevano (ed anco adesso la fanno) tutta di due sole rime; cioè accordando il settimo e 1’ ottavo verso alter nativamente co’ gli altri sei superiori, egli la fece di tre, accordando essi due ultimi vicinamente, come s’è detto ». Ognun vede come in quest’ osservazione il nostro volle discostarsi dai più che volevano assolutamente che per prima volta, nella Te-seide, si usasse l’ottava rima, la quale invece giustamente vien ricercata nello strambotto siciliano; e appare manifesto ch egli non sdegnò di abbassar l’orecchio e di prestar attenzione alla rozza poesia del popolo, dalla quale, come vedemmo, prese spesso concetti amorosi. (Continua) Mario Menghini. GALILEO GALILEI E IL P. ORAZIO GRASSI (*) Comparvero nell’agosto dell’anno 1618 tre comete, una delle quali, che si vedeva nel segno dello Scorpione, più delle altre cospicua per chiarore e durata: l’apparizione s era mantenuta fino al gennaio del 1619; e quantunque Galileo, (*) Riproduciamo, per cortese permesso del chiaro autore, di che gli siano rese grazie, dai Nuovi Studi Galileiani inseriti nelle Memorie del R. Istituto Veneto (v. XXIV) questa importante monografia che tocca specialmente i genovesi in relazione con Galileo. La Direzione. GIORNALE LIGUSTICO 123 impedito da lunga e pericolosissima malattia, poco (1) avesse potuto osservarle, pure vi fece intorno particolar riflessione, conferendo con gli amici quel che gli pareva di questa materia. L’arciduca Leopoldo d’Austria, che, trovandosi intorno a quel tempo in Firenze presso la sorella, moglie del Granduca, volle onorarlo con la propria persona, visitandolo fino al letto, tornato in patria gli scriveva da Innsbruck sotto il di 13 gennaio 1619: « essendomi consignato un discorso sopra la Cometa, ve lo mando con la presente, et vi prego avisarmi quanto prima il suo parere saggio, che aspetterò con desiderio » (2), (1) Questo « poco » asserisce il Viviani (Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo XV. Firenze, 1856, pag. 350); ma Galileo stesso affermò d’ essere stato in letto ammalato per tutto il tempo nel quale durò 1’ apparizione (Breve discorso della institutione di un Principe e compendio della Scienza Civile di Francesco Piccolomini con otto lettere e nove disegni delle Macchie Solari di Galileo Galilei. Pubblicava la prima volta Sante Pieralisi. Roma, tip. Salviucci, 1858, pag. 205), ed altrove espressamente asserì: a Per tutto il tempo che si vide la Cometa io mi ritrovai in letto indisposto; dove sendo frequentemente visitato da amici, cadde più volte ragionamento delle Comete.....nè poteva intorno a ciò risponder altro agli amici e padroni, che con istanza mi domandavano su tal materia, che qualche dubitazione, la quale anco non poteva, rispetto all’ infermità, mettere in carta s>. (Le opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo IV. Firenze, 1841, pag. 163) — Per la verità bisogna aggiungere che in questo tempo si hanno alcune osservazioni registrate tra quelle dei Pianeti Medicei ; ma sarebbe impossibile l’affermare con sicurezza, se quelle osservazioni siano state fatte, o soltanto registrate da Galileo. (2) Mss. Galileiani. Par. I, Tomo XIV, car. 146 — Lettere inedite a Galileo Galilei raccolte dal dott. Arturo Wolynski. Firenze, tip. del-l’Associazione , 1872, p. 50. — L’Albèri riproduce uno squarcio di questa lettera, attribuendola al Cardinale Leopoldo de’ Medici (!), e combinando insieme il desiderio espresso nella lettera con quello d’ un poscritto, nel quale si legge : « Saperia ancor volontiero il parer del P. Benedetto sopra quasta Cornetta. » (Le opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo V. Parte I. Firenze, 1846, pag. 167). 124 GIORNALE LIGUSTICO e di Francia (i) e da varie parti d’Italia a lui si ricorreva, come al solo che, e per avere più profonda conoscenza delle cose del cielo, e per essere provveduto di ottimi strumenti, avrebbe potuto pronunciare una parola autorevole in mezzo alle comuni incertezze. Crebbero le istanze nella occasione in cui il P. Orazio Grassi della Compagnia di Gesù tenne pubblicamente su questo argomento un discorso (2), onde Galileo, evitando, almeno in apparenza, di entrare personalmente nella questione, si valse dell’opera di Mario Guiducci, suo amico, scolaro e predecessore nella carica di Console dell’Accademia Fiorentina, facendogli tenere in essa, in due giornate del mese di maggio 1619 (3)» un discorso in cui venivano fatte conoscere le opinioni sue, tanto intorno a quelle esposte dal Matematico del Collegio Romano, quanto sull’argomento in generale. In questo Discorso delle Comete, dato in luce alla fine del giugno 1619 (4·)» ravvisa il Viviani la causa di tutte le « male sodisfazioni che (1) Veggasi fra 1’altre la lettera di Mons. Bonsi, Vescovo di Cesarea, a Galileo, sotto il dì 18 dicembre 1618 (Mss. Galileiani. P. I* T. XIV, car. 142). — Il Targioni-Tozzetti afferma, ma non sappiamo invero con qual fondamento, che « Galileo____ per render servito il Re di Francia, conferì i suoi pensieri a Mario Guiducci, per il Discorso sulle Comete ». (Notizie degli aggrandimenti delle sciente fisiche accaduti in Toscana nel corso d’ anni LX del secolo XV11, raccolte dal Dott. Gio. TaRGIONI-Tozzetti. Tomo Primo in Firenze MDCCLXXX, pag. 61). (2) De tribus cometis anni 1Vf. DC. XVIII. Disputatio astronomica publice habita in Collegio Romano Societatis Jesu, ab uno ex patribus ejusdem Societatis. Romae, ex typ. Jacobi Mascardi, 1619. ( 3) Fasti Consolari dell’Accademia Fiorentina di Salvino Salvini, Console della medesima e Rettore generale dello Studio di Firenze. In Firenze, M. DCC. XVII, pag. 388. (4) Discorso delle Comete di Mario Guiducci, fatto da lui nell’Accademia Fiorentina nel suo medesimo Consolato. In Fitenze, nella stamperia di Pietro Ceconcelli alle Stelle Medicee, 1619. GIORNALE LIGUSTICO 125 il signor Galileo da quell’ora sino agli ultimi giorni, con eterna persecuzione, ricevè in ogni sua azione e discorso (i). v> L’ accoglienza che s’ ebbe questo Discorso vedremo fra poco; ma intanto avvertiamo che esso, per quanto pubblicato sotto il nome del Guiducci, era veramente opera di Galileo, e come tale da lui stesso diffuso e riconosciuto, checché il Guiducci e Galileo stesso abbiano in contrario affermato. In fatti, nella dedicatoria all’Arciduca Leopoldo d’Austria scrive il Guiducci che nel consacrarlo a lui: « mi hanno reso ardito Γ eccessive significazioni d’affetto, che ella passando in Firenze si degnò di mostrare inverso il Sig. Galileo Galilei, matematico e filosofo di questa Serenissima Altezza, poiché non essendo altro il principal fondamento di questi miei scritti se non Γ opinioni eh’ egli ha tenuto delle comete, non ho dubitato punto di comparirle davanti con questa piccola offerta, come cosa nella quale ha sì gran parte quello ingegno sovrano cotanto stimato da Lei ». Di più deve avvertirsi che l’autografo del Guiducci, il quale si ha tra i manoscritti Galileiani (2), contiene numerose correzioni ed aggiunte di pugno di Galilao, che esso non è conforme allo stampato, sicché può credersi che le differenze rappresentino l’intervento del nostro filosofo sulle bozze stesse di stampa, per la qual cosa non soltanto nella sostanza, ma anche nella forma il lavoro può dirsi Galileiano (3). Come di scrittura sua mandava ancora Galileo esemplari del discorso, con due (1) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo XV. Firenze, 1856, pag. 350. (2) Parte III. T. XI, car. 3-21. Notisi poi, ciò che più importa, essere autografa di Galileo la parte più ragguardevole del discorso, e del Guiducci soltanto la introduzione. (3) Non mancarono tuttavia di quelli che vollero attribuire questo lavoro esclusivamente al Guiducci. Noto, fra gli altri, Alessandro Marchetti. Cfr. Fasti Consolari dell’Accademia Fiorentina di Salvino Salvini, ecc. In* Firenze, M. DCC. XVII, pag. 388. 126 GIORNALE LIGUSTICO lettere esattamente conformi, ai Cardinali Mafteo Barberini (i) e Federico Borromeo (2), e, come tale riconoscendola, gliene accusavano ricevimento i cardinali medesimi (3), ed oltre ad essi, il Cardinal d’Este (4), Mons. Virginio Cesarini (5), Γ Arciduca Leopoldo (6) ed il Muti (7). Il discorso fu accolto con molto gusto dagli amici ed ammiratori di Galileo, ma con altrettanto disgusto dai gesuiti, e ne lo informava il Ciampoli scrivendogli: «Ma poi ch ella mi domanda liberamente, le dirò bene una cosa, che qua non è finita di piacere ed è quel volerla pigliare col Collegio Romano, nel quale si è fatto pubblicamente professione di onorar tanto V. S. I Gesuiti se ne tengono molto offesi e si preparano alle risposte; e benché in questa parte io sappia e conosca la saldezza delle sue conclusioni, con tutto ciò mi dispiace che tanto si sia diminuita in loro quella benevolenza e quell’ applauso che facevano al suo nome » (8). (1) Breve discorso della institutione di un principe e compendio della scienza civile di Francesco Piccohmini con otto lettere e nove disegni delle macchie solari di Galileo Galilei. Pubblicava per la prima volta Sante Pieralisi bibliotecario della Barberiniana. Roma, tip. Salviucci, 1858, pag. 205. (2) Alcune lettere di Galileo Galilei, pubblicate ed illustrate da Gilberto Govi (Estratto dal Bulletlino di Bibliografia e di Storia delle Sciente Matematiche e Fisiche. Tomo XIV. Giugno 1881). Pubblicato il 9 Maggio 1882. Roma, tip. d^Jle scienze matematiche e fisiche, 1882, pag. 6. (3) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo Vili. Firenze, 1851, pag-427. — Lettere inedite a Galileo Galilei, raccolte dal Dottor Arturo Wolynski. Firenze, tip. dell’Associazione, 1872, pag. 52-53. (4) Lettere inedite a Galileo Galilei, raccolte dal Dottor Arturo Wolynski. Firenze, tip. delPAssociazione, 1872, pag. 52-53. (5) Lettere inedite a Galileo Galilei, ecc., pag. 54. (6) Ciò argomentiamo dalle lettere del Remo a Galileo, nel Carteggio Galileiano Inedito con note ed appendici per cura di Giuseppe Campori. Modena, coi tipi della Società tipografica, MDCCCLXXXI, pag. 162-167. (7) Carteggio Galileiano Inedito, ecc., pag. 170. (8) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Supplemento. Firenze, 1856, pag. 130. GIORNALE LIGUSTICO 127 E il disgusto forse fu tanto maggiore perciò che il Guiducci, il cui nome era stampato in fronte al Discorso, era stato egli stesso « per molt’ anni fin da fanciullo allevato e ammaestrato » nel Collegio Romano (1); sicché vedevano i Gesuiti sorgere contro di loro, un grande scienziato, il quale stimavano d’aver tanto accarezzato e adulato, ed un loro antico discepolo: in una parola, due ingrati. L’avviso dato a Galileo dal Ciampoli, che cioè i Gesuiti s’apparecchiavano alla risposta, eragli confermato da Carlo Muti, il quale gli annunziava che il Grassi erasi recato a Perugia per darla alle stampe (2), ed un esemplare gliene mandava il Ciampoli stesso, accompagnandolo con lettera sotto il dì 18 ottobre 1619, nella quale leggiamo: « Il Padre Grassi gesuita, tornato ultimamente da Perugia, ci ha questa sera portato il suo Discorso intorno alla Cometa. Non ho ancora potuto leggerlo, nè voglio differire di mandarlo a V. S. Dalla quale so che era aspettato. Diceva il Padre haver proposto le sue ragioni ; il meglio che haveva saputo, ma però che ha sempre trattato di lei honorandola. Ella potrà vedere il tutto infatti » (3). La risposta data alla luce con titolo di (' Libra astronomica ac philosophica » (4) e sotto (1) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo V. Parte II. Firenze, 1853, pag. 597, 601. (2) Carteggio Galileiano Inedito, tee, pag. 170. (3) Mss. Galileiani. Parte I. Tomo Vili, car. 91. (4) Libra astronomica ac philosophica qua Galilaei Galilaei opiniones de Cometis a Mario Guiduccio in Fiorentina Accademia expositae, atque in lucem nuper editae examinantur a Lothario Sarsio Sigensano. Perusiae, ex typ. Marci Naccarini, M. DC. XIX. La Collezione Galileiana della Biblioteca Nazionale di Firenze contiene due esemplari di questa opera, uno dei quali (Parte III, tomo XIII) è riccamente postillato da Galileo e porta sopra una guardia la annotazione seguente di pugno del Viviani: « Vincentius Galilaeus, Magni Galilaei filius, Vinc.0 Viviani dono dedit hunc librum, cujus notae manuscriptae 128 GIORNALE LIGUSTICO lo pseudonimo di « Lothario Sarsio Sigensano » (semplice anagramma di « Horatio Grassio Salonensi ») il quale finge essere un discepolo del P. Grassi, lasciato quasi completamente da parte il Guiducci, attacca direttamente Galileo, giustificandosene con Γ addurre : « Neque hic miretur Marius, Consule se praetermisso , cum Galilaeo rem transigi. Primum enim Galilaeus ipse, in litteris ad amicos Romae datis, satis aperte disputationem illam ingenii sui foetum fuisse profitetur; deinde cum idem Marius perigenue fateatur, non sua se inventa, sed quae Galilaeo veluti dictante excepisset, sumina fide protulisse, patietur, arbitror, non inique, cum Dictatore potius me de iisdem, quam cum Consule interim disputare » (i). Essa è divisa in tre parti, cioè : « Examen primum eorum quae disputationi Nostrae a Galilaeo objecta fuerunt »; « Examen secundum, quo Galilaei opinio de substantia et motu cometarum expenditur » ; « Examen tertium quarundam· Galilaei propositionum severius consideratarum ». Cosi per la sostanza, come per la forma, Galileo giudicò questa scrittura così povera e disgraziata cosa da non potersi indurre a credere che fosse uscita dalla penna del Grassi; ma glielo confermava il Ciampoli, scrivendogli sotto il dì 6 dicembre 1619: « Dalla ultima lettera che V. S. mi scrive, veggo che ella non può indursi a credere che il P. Grassi sia Γ au- sunt ipsiusmet Galilaei ». Fra le altre, nel frontespizio, la parola « e'xami-nantur ». è ironicamente corretta da Galileo con « exanimantur ». L'altro esemplare (Parte III, tomo XIV) porta alcune postille, le quali nel catalogo della Collezione Galileiana vengono attribuite al Guiducci; a noi però sembra che l’aggiunta del frontespizio: « in qua P. Horatius Grassius, dum aliorum inscitiam et rusticitatem insectatur, suam prodit » sia di pugno di Galileo. Per comodità dei riscontri, anziché all’edizione originale, noi ci riferiremo con le citazioni all’edizione curatane dalPALBÈRi. (1) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo IV. Firenze, 1844, pag. 64. GIORNALE LIGUSTICO Ι29 tore della Libra Astronomica; ma io torno a confermarle che sua Riverenza e li Padri Gesuiti vogliono che si sappia esseie opeta loro, e sono tanto lontani dal giudizio ch’ella ne fa, che se ne gloriano come di trionfo. Il padre Grassi tratta di V. S. con molto più riserbo che non fanno molti altri Padri, a’ quali è fatto molto famigliare il vocabolo di annichilare; ma la verità è, che dal padre Grassi non ho mai sentito usar simil vocabolo : anzi egli tratta tanto modestamente nel parlare, che tanto più mi fa stupire nell’aver latta la sua scrittura cosi gloriosa e con tanti scherzi mordaci. La risposta di V. S. s’aspetta con grandissimo desiderio, sapendosi orinai universalmente che dalla mano sua non escono se non gioie preziose, che sono incognite agli altri. E son certo che quanto più sarà copiosa di nuove conclusioni, tanto maggior meraviglia recherà, la quale sarà sempre accompagnata da quelle armi vincibili, che sogliono essere nei suoi discorsi .... Io non veggo 1’ ora di leggere la risposta, ch'ella dà intenzione di fare, perchè son certo che l’annichilare certe opinioni inconsiderate, talora ricevute con plauso è opera consueta de’ suoi ragionamenti » (1). Galileo adunque si preparava alla risposta; e ve lo incitavano i Lincei (2), che insieme con lui si stimavano offesi dalla Libra del Sarsi; erano tuttavia concordi nel giudicare che « non comparisse il nome suo tanto glorioso in contesa con persona mascherata » e sopratutto di non « mai nominare nè detto Padre Grassi e nè meno il Collegio di Gesù, fingendo di pigliarla solo con quel discepolo, perchè altri- (1) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo Vili. Firenze, 1851, pag. 430-431· (2) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo Vili. Firenze, 1851, pag. 431,436,437, 438, 442, 444. — Carteggio Galileiano Inedito, ecc., pag. 178. Giorn. Ligustico. Anno XIX, Q 130 GIORNALE LIGUSTICO menti saria un non mai finire pigliandola con quei Padri, i quali, essendo tanti, darieno da fare a un mondo intero, e poi, se bene hanno il torto vorranno non averlo; e a noi ciò non potrebbe che nuocere assai essendo essi in particolare poco amici delle nuove opinioni, come sono tutti i peripatetici ». Il Guiducci intanto, il quale dalla Libra erasi gravemente sentito offeso, rispondeva per suo conto con una lettera (1) al P. Tarquinio Galluzzi, gesuita, amaramente lagnandosi del modo nel quale s’ era visto trattato ; ma non sappiamo se e qual parte in questa scrittura abbia avuto Galileo, il quale continuava ad occuparsi dell’argomento, postillando la Libra e preparando la risposta ; ed anzi chiedeva consiglio ai collegh; Lincei intorno alla persona alla quale dedicai la. Il Principe Cesi era d’ avviso che F opera dovesse dedicarsi al Padre Griinbergr; ma di questa opinione non erano gli altri: a per non mettere in fastidio quel povero Padre », ed opinavano dovesse indirizzarsi a Mons. Virginio Cesarmi « porgendone occasione P istesso Lotario, che si vale nelli suoi scritti della testimonianza ed autorità di Sua Signoria Illustrissima »: concordi però erano tutti, e Galileo con essi, che avrebbe dovuto studiarsi ogni modo per non irritare la potentissima Compagnia (2). A compiere il lavoro venivano sollecitandolo il Ciampoli ed il Cesarmi (3); il quale ultimo (1) Lettera al m.° r.° p.“ Tarquigno Gallu^i della Compagnia di Gesù di Mario Guiducci, nella quale si giustifica dalle imputazioni dategli da Lotario Sarsi sigensano nella Libra astronomica e filosofica. In Firenze, nella stamperia di Zanobi Pignoni, 1620. — L’Albèri sembra non essersi accorto eh’ era questa la risposta alla quale accennava il Guiducci nella sua al Cesi del 19 giugno 1620. Cfr. Le opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo Vili. Firenze, 1851, pag. 445. (2) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo Vili. Firenze, 1851, pag-447-450. (3) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo IX. Firenze, 1852, pag. 5> 11-12, 16, 18. GIORNALE LIGUSTICO I3I aveva con vivissima gratitudine accettato che a lui venisse indirizzato; e finalmente nel novembre 1621 Galileo partecipa al Cesi di averlo compiuto (1): da una lettera di lui al Liceti parrebbe che ne avesse mandato il manoscritto a Roma addi 24 luglio 1622 (2); il quale però non fu effettivamente mandato, e al Cesarini, se non nell’ottobre successivo (3). Questi ne accusava ricevimento con lettera del 28 di questo mese (4), e lo mandava il 21 dicembre al Cesi, scrivendogli : « prego V. E., notate che avrà le cose gli pareranno forse troppo pungenti, e altri particolari di dottrina ch’ella non approvasse, ad inviarmelo qua subito, acciò possiamo farlo stampare quanto prima, senza essere impediti dai Gesuiti, che di già 1’ hanno penetrato » (5). Ed a questo proposito scriveva il Cesarini stesso direttamente a Galileo: « Di già la nuova di questa apologia è arrivata al Sarsi ed al Collegio Romano, essendo stati avvisati da persone di costì, eh’ essa (1) Le Opere de Galileo Galilei, ecc. Tomo IX. Firenze 1852, pag. 13. (2) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo VI. Firenze, 1847, pag. 285. (3) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo VI. Firenze, 1847, pag. 286. — In questa lettera al Cesi, sotto il dì 19 ottobre 1622, Galileo accenna ad una risposta alla Libra che s’ era allora allora pubblicata col titolo seguente: « Scandaglio sopra la Libra Astronomica e Filosofica di Lotario Sarsi nella controversia delle comete, e particolarmente delle tre ultimamente vedute l’anno 1618, del sig. Gio. Batista Stelluti da Fabriano dottor di Legge. In Terni, app. Tommaso Guerieri, 1622 ». Intorno a quest’opera veggasi ciò che ne scrive Francesco Stelluti, fratello dell’autore, a Galileo sotto il dì 16 agosto 1622. Cfr. Carteggio Galileiano Inedito, ecc., pag. 195. — In essa però non è nominato Galileo; se non per incidenza nella dedicatoria fatta a nome dello stampatore. (4) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo IX. Firenze, 1852, pag. 19. (5) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo IX. Firenze, 1852, pag. 20. — Per fermo importantissime lettere devono essere state scambiate intorno a questo argomento da Galileo e da altri con Mons. Cesarini; disgraziatamente non ne abbiamo trovata alcuna traccia nell’ archivio della famiglia Sforza-Cesarini di Roma, da noi a tale uopo diligentemente esaminato. 1 3 2 GIORNALE LIGUSTICO era venuta a Roma; ed oltre a ciò avendola io qui ad alcuni letta, hanno penetrato il tutto. Non però gli è arrivato alle mani, nè la vedranno se non impressa. Stanno essi sitibondi ed ansiosi, ed hanno anche ardito chiedermela; 1 ho io negata loro, perchè con maggiore efficacia avrebbero impedita la pubblicazione. Ha però questa difesa (benché occulta finora) operato molto appresso i mezzani letterati, ed appresso alcuni detrattori della gloria di V. S. che si credevano trionfai e del suo silenzio, perchè quelli, leggendola, e sentendo da me o da altri le ragioni di V. S., hanno conosciuto il veio, cd ora, sapendo che ella ha parlato, s’avvedono che la loio vittoria era vana, onde mi auguro che, imprimendosi, chiuderà la bocca ad ogni sorte di persona, e fors anco allo stesso Sarsi. Oltre la pubblicazione eh’ io farò della detta opera, penso di farla tradurre in lingua latina da pei sona molto idonea, per parteciparla di là dai monti a quegl ingegni avidissimi della verità e libertà filosofica, e presto comincici ò ad attendervi ». Accennando poi all’apologia del Campanella, ed alle difficoltà eh’ erano state opposte allo spaccio di essa, soggiunge : « Alcuni emoli si sono serviti di questa occasione per rinnovare contro di lei le calunnie tempo fa rifiutate e debellate, ma non mancano protettori ed amici a difendei e il nome e la riputazione di V. S.; e l’innocenza de suoi costumi, e l’obbedienza modestissima, con che ella ha mostrato sempre di riverire il decreto della S. Congiegazione, palesano al mondo quale sia la sua mente, pei 1 oche non posso credere che non s’ abbia a superare d ottenei licenza di stampare 1’apologia mandatami contro il Saisi, ed io mi adopererò tanto, che la farò riuscire, parendomi di molta ìipu tazione di V. S., che qui, nella faccia della Chiesa, avanti gli occhi della Congregazione, sia approvata la sua dottrina, e si faccia applauso alle novità filosofiche, ch ella adduce, benché nel Collegio Romano quei Padri in sul principio GIORNALE LIGUSTICO *33 degli studi quest’ anno abbiano fatto contro a’ trovati di novità nelle scienze, e con lunga orazione cercato di persuadere gli scolari, che fuori d’Aristotele non si trova verità alcuna, non senza biasimo e derisione di chiunque ardisse sollevarsi sopra il giogo servile dell’autorità. Non ostante, dico, questa scomunica fulminata con tanta eloquenza, spero che le nobilissime speculazioni di V. S. avranno per Roma libero corso, ed applauso » (i). Il grave scoglio della revisione potè venir superato, per essere essa stata affidata al P. Niccolò Riccardi, col quale Galileo doveva avere più tardi così numerosi ed importanti rapporti, e che conobbe di persona appunto in seguito a questa circostanza (2); e la stampa fu intrapresa e proseguì alacremente (3), non ostante che qualche opposizione non fosse mancata, ed anzi si fosse diffusa la voce, giunta anco a Firenze ed a Galileo stesso, che non s* era ottenuta la relativa licenza. Questo apprendiamo indirettamente da una lettera del Ciampoli al nostro filosofo sotto il dì 27 maggio 1623; nella quale leggiamo: « Mando a V. S. i due primi fogli del Saggiatore, acciò ella possa chiarir quelli, che, per ostinazione di malignità 0 per timor di gelosia, non voglion credere che se ne sia ottenuta licenza ». Ed anzi, porgendo (1) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tome IX. Firenze, 1852 , pag. 23-25. (2) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo IX. Firenze, 1852, pag. 25-26 — Quivi è pur riprodotta testualmente l’approvazione per la stampa. Che poi il P. Riccardi non avesse prima d’ora conoscenza personale con Galileo, apparirebbe dalla lettera che citiamo; ma non vogliamo passare sotto silenzio che essi erano già in corrispondenza tra loro, ed anzi nella occasione nella quale il P. Ricardi fu nominato Qualificatore del Sant' Uffizio, Galileo, che sembra avergli scritto anche per lo innanzi, gli mandò le sue congratulazioni. Cfr. Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Supplemento. Firenze, 1856, pag. 121. (3) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo IX. Firenze, 1852, pag. 27, 28, 38. *34 GIORNALE LIGUSTICO a Galileo, che non n’aveva di bisogno, nuovo eccitamento a procedere nella via, sulla quale doveva poi essere cosi bruscamente e fatalmente arrestato, proseguiva: « Questa sera in una lunghissima udienza di N. S. ho speso forse più di mezz’ ora in rappresentare a Sua Beatitudine le eminenti qualità di V. S. Il tutto è stato sentito volentierissimo. Se in quei tempi ella avesse avuto qui gli amici che vi sono adesso, non occorrerebbe forse di cercare le invenzioni per campare dall’oblivione, almeno come filosofiche poesie, quelli ammirandi pensieri coi quali ella porgeva tanti lumi a questa età » (i)· L’assunzione del Cardinale Maffeo Barberini al Pontificato doveva dare nuova esca alle speranze dei Lincei, che deliberarono di dedicargli la risposta di Galileo, la stampa della quale era compiuta addì 21 ottobre 1623 (2), dedica che fu accettata e gradita (3). Dell’ avere a questa sua risposta al Grassi imposto il nome di a Saggiatore » rende ragione Galileo stesso, scrivendo: « la quale ho voluto intitolare col nome di Saggiatore, trattenendomi dentro la medesima metafora presa dal Sarsi. Ma perchè mi è paruto che, nel ponderare egli le proposizioni del signor Guiducci, si sia servito d una stadera un poco troppo grossa, io ho voluto servirmi d una bilancia da Saggiatori, che sono cosi esatte che tirano a (1) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo IX. Firenze, 1852, pag· 3°· (2) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo IX. Firenze. 1852, pag. 43· (3) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo IX. Firenze, 1852 pag. 41· — La risposta però rimase indirizzata al Cesarini, come si rileva dal titolo inquadrato in un rame del Viiamena, e che dice: « Il Saggiatore nel quale con bilancia esquisita e giusta si ponderano le cose contenute nella Libra Astronomica e filosolofica di Lotario Sarsi Sigensano, scritto in forma di lettera all’ 111."10 et Rever.rao Mons. D. Virginio Cesarini Acc.° Linceo, M.° di Camera di N. S. dal sig.r Galileo Galilei Acc.° Linceo, Nobile Fiorentino, Filosofo e Matematico Primario del Ser.m° Gran Duca di Toscana. In Roma, M. D. C. XXIII, appresso Giacomo Mascardi ». GIORNALE LIGUSTICO *35 meno d un sessantesimo di grano. E con questa usando ogni diligenza possibile, non tralasciando proposizione alcuna prodotta da quello, farò di tutti i lor saggi, i quali anderò per numero distinguendo e notando, acciò, se mai fussero dal Sarsi veduti, e gli venisse volontà di rispondere, ei possa tanto più agevolmente farlo senza lasciare indietro cosa veruna » (ij. Grande diffusione ricevette questa risposta: fra i primi ad averne un esemplare fu il Grassi, e della prima impressione ch’egli ne ricevette venne Galileo ragguagliato da Francesco Stelluti, il quale gli scriveva sotto il dì 4 Novembre 1623: « il primo di questi libri, che si sia veduto in pubblico, fu uno di quelli che ebbe il Maestro del Sacro palazzo, che lo diede al libraro del Sole, e subito vi corse il Sarsi, dimandò il detto libro, e nel leggere il frontespizio si cambiò di colore, e disse che V. S. tre anni gli aveva fatto stentare quella risposta ; ma forse nel leggerla gli sembrerà troppo frettolosa. Si mise subito il libro sotto il braccio e se n’andò, nè ho poi inteso altro, se non che il Padre del Collegio, che lo lesse tutto, ha detto che il libro è bellissimo, e che V. S. si è portata troppo modestamente, e che il Sarsi averà da fare assai a voler rispondere. In somma li Padri si stimano ben trattati da V. S. » (2). Ulteriori ragguagli intorno allo stesso argomento forniva a Galileo il Rinuccini, scrivendogli sotto il 2 dicembre che il Grassi: « in un primo discorso fatto con un mio amico lodò assai V. S. dicendo che nella scrittura v’ era del buono, ma che con tuttociò voleva replicare, sebben fino alle vacanze del-l’autunno non poteva attendervi, e che poi V. S. aveva van- (1) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo IV. Firenze, 1844, pag. 156. (2) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo IX. Firenze, 1852, pag. 44-45. — Cfr. anche ciò che ne scrive il Rinuccini (Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Supplemento. Firenze, 1856, pag. 154). 136 GIORNALE LIGUSTICO taggio sopra di lui, che aveva chi le pagava le stampe. Disse ben di voler replicare senza mordacità (che in questo si lamenta di lei), e che se V. S. veniva a Roma voleva far seco amicizia. Di lì a pochi giorni, Γ istesso amico lo trovò tutto alterato, per aver visto una lettera scritta di Firenze a un suo amico qua, che diceva che costi era comparso il Saggiatore, il quale dovrebbe aver chiuso la bocca a tutti i Gesuiti, che non saprebbero che cosa rispondere; e seguitò il Sarsi con questa sciocchezza, che se i Gesuiti sapevano in capo a l’anno rispondere a tanti eretici, saprebbero anche farlo a un cattolico. Di lui non so più altro; ma stamattina ho sentito dire da un Gesuita, che fra loro c’è severo comandamento di non discorrere di queste scritture; ma perchè ebbi tempo di domandare dei particolari, non ho per adesso che dirle altro su questo proposito » (i)· Il Saggiatore intanto riceveva ovunque le migliori accoglienze (2): lo stesso Pontefice se lo faceva leggere a mensa (3), e con suo estremo gusto 1’ aveva veduto tutto intero (4). In questo tempo, e per motivi che altrove abbiamo posti in tutta evidenza (5), si recò Galileo per la quarta volta a Roma; e non sappiamo se in tale occasione il Grassi abbia potuto mandar ad effetto il suo disegno, di abboccarsi cioè col nostro filosofo e di stinger con lui « una intrinseca ami-cizia » (6); noi tuttavia siamo indotti a non crederlo, e se (1) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo IX. Firenze, 1852, pag. 49· — In questa lettera è alluso ad altra precedente sullo stesso argomento, ma che non è pervenuta fino a noi. (2) Carteggio Galileiano Inedito, ecc., pag. 211. — Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo IX, Firenze, 1852, pag. 50. (3) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo IX. Firenze, 1852, pag- 44· (4) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo IX. Firenze, 1852, pag. 5°> Supplemento. Firenze, 1856, pag. 154. (5) Cfr. a pag. 152-153 del presente volume. (6) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo IX. Firenze, 1852, pag. 52· GIORNALE LIGUSTICO IS? anche seguì qualche incontro fra loro, non avvenne certamente la riconciliazione, anzi da principio al Grassi non riuscì nemmeno di abboccarsi col Guiducci, con la mediazione del Padre Tarquinio Galluzzi, avendo il Guiducci dichiarato di non ne voler sapere; vi si indusse però più tardi, forse « sentendo crescere il rumore delle battaglie » (1) che minacciava il Grassi con le sue risposte, ed acconsentì a riceverlo mentr era ammalato (2). Ragguagliato di ciò Galileo dal Rinuccini, chiedeva al Guiducci notizie intorno al seguito abboccamento, le quali riceveva con lettera del 6 settembre 1624; da essa togliamo testualmente lo squarcio seguente: « Dal signor Tommaso Rinuccini m’è stato detto che V. S. aveva desiderio d'intendere in che modo s’ era concluso 1’ abboccamento col Padre Grassi, e da che motivi io fossi condisceso a quello, che tante volte io avevo ricusato. V. S. sa Γ istanze che mi sono state fatte più volte di ciò dal Padre Tarquinio: ci s’è aggiunto poi l’autorità d’ un prelato principalissimo, e mio singoiar padrone, che più volte e con molta energia mi ha richiesto del medesimo, al quale io non volli permettere, benché non gli disdicessi, e andavo prolungando il negozio. Ma finalmente, fermato dalla febbre nel letto, essendomi venuti a visitare più Padri Gesuiti, ai quali io ero obligatissimo (3), mi parve da non disdir più e così, senza metter tempo in mezzo, il giorno dopo il dato consenso, fui visitato dal prefitto P. Grassi con molta cortesia e affabilità, come se ci fossimo conosciuti prima un gran pezzo. Non s’ entrò punto nelle cose passate, ma fu ben gran parte del nostro ragionamento in lodare le scritture di V. S., e (1) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo IX. Firenze, 1852, pag. 63. (2) Carteggio Galileiano Inedito, eco , pag. 202. (3) Rammentiamo qui la circostanza che il Guiducci era stato già allievo del collegio Romano. 138 GIORNALE LIGUSTICO l’introduzione a tal discorso fu questa: che, parlandosi di molte opere di filosofia e d’ altre materie che si stampano, e delle opposizioni che ad esse fanno talvolta i revisori di dette opere, il P. Grassi, o fusse che la coscienza lo rimordesse, o gli paresse ch’io parlassi per lui, venne a dire che a’ giorni addietro aveva rivista e approvata quella bell’ opera dell’Arcivescovo di Spalatro del flusso e riflusso, e che sebbene non v’ era cosa veruna provata con ragione che valesse, non aveva potuto far di meno di non l’approvare, come fece. E laudando egli ed io concordemente la detta scrittura, soggiunse; Noi abbiamo però la scrittura del Galileo sopra la medesima materia, che è molto ingegnosa ; al che io replicai che il pensiero di V. S. di mostrare col moto della Terra le reciprocazioni dei flussi e riflussi, e la varietà de’ tempi ne5 quali si fanno detti moti, era veramente da commendare; ma che se la storia non era interamente vera di quel che avviene in uno o in altro paese, ciò non era colpa sua; e soggiunsi che tal discorso era anche imperfetto, ma sperava bene che dovesse, per quanto s’aspettava a lei, rendersi perfetto, con assegnare le cause d’altri effetti, che nel primo si tacevano. E qui cademmo a ragionare del moto della terra, del quale V. S. si serviva per ipotesi, e non per principio stabilito come vero, dove il Padre disse, che, quando si trovasse una dimostrazione per detto moto, converrebbe interpretare la Sacra Scrittura altrimenti che non s’ è fatto ne’ luoghi ove si favella della stabilità della Terra, o moto del Cielo, e questo ex sententia Cardinalis Bellarminj; alla quale opinione io prestai totalmente l’assenso, e così, e con cerimonie, si partì il predetto congresso » (i). H quale però non fu il solo: e Galileo, il quale intorno a questo tempo stava attendendo alla sua risposta all’ Ingoli, sembra (i) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo IX. Firenze, 1852, pag. 65-67. GIORNALE LIGUSTICO I39 annettesse grande importanza a conoscere il pensiero del Grassi intorno alla dottrina coppernicana; al quale proposito in una sua successiva del 13 settembre 1624, riferendo sopra altra conferenza avuta da lui col Grassi, e nella quale di ciò erasi espressamente tenuto parola, gli scrive il Guiducci medesimo: « mi pare che egli non abborisca molto il moto della Terra, quando ci siano ragioni buone per tal moto, e si levino le opposizioni che in contrario si arrecano » (1). Siccome però in tali congressi non s’ era mai parlato delle passate controversie, così non era stato peranco il Guiducci in caso di sodisfare la curiosità di Galileo rispetto alla risposta al Saggiatore, la quale da principio il Grassi aveva detto che avrebbe mandata fuori entro tre mesi (2); ma anche su questo proposito potè appagare il Maestro, che il Grassi in certa occasione ebbe a dichiarargli la sua intenzione di rispondere, aggiungendo « che era forzato a scrivere, e che gliene sapeva male » (3). Il seguito del carteggio del Guiducci mostra tuttavia che, anziché essere spinto a rispondere al Saggiatore il P. Grassi incontrava da parte dei superiori non poche difficoltà per ottenere la licenza di farlo (4), se pure, come (1) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo IX. Firenze, 1852, pag. 69; Cfr. anche: Supplemento. Firenze, 1856, pag. 163. (2) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Supplemento. Firenze, pag. 1856,154. (3) Carteggio Galileiano Inedito, ecc., pag. 216-217. (4) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Supplemento. Firenze, 1856 pag. 177. — Carteggio Galileiano Inedito, ecc., pag. 220. — Tutto però porta a credere essere stata questa una fina manovra per non essere a parte delle busse, nel caso in cui il Grassi n’avesse ricevute di nuove. Del resto pare che intorno a questo tempo il Collegio Romano imprendesse una campagna in tutte le forme contro Galileo, poiché da altri, e non già dal Grassi, come erroneamente afferma il Nelli (Vita e commercio letterario di Galileo Galilei, ecc. Volume I. Losanna, 1793, pag. 323), si pensava a fare opposizione alla scrittura galileiana intorno alle cose che stanno sull’acqua. Cfr. Carteggio Galileiano Inedito: ecc., pag. 222-223. 140 GIORNALE LIGUSTICO giudicava il Guiducci, che, per essere stato allievo dei Gesuiti, li conosceva, le voci che si facevano correre a tale proposito non erano sparse ad arte (1). E infatti sotto il di 8 febbraio 1625 scriveva a Galileo: « Intendo da un Padre Gesuita che il Sarsi non ha ancora cominciato a stampare la sua risposta, ma presto l’avrebbe mandata dove voleva che si stampasse. Io mostrai di averne dispiacere, cioè dell indugio, e che sapeva che anche a V. S. sarebbe dispiaciuta questa tardanza, desiderando ella sommamente questa replica, 0 per cedere ingenuissimamente quando avesse veduto la ragione per la parte del Sarsi; 0 per rispondere se non era miglior della Libra. E il Padre mi disse: ci sarà da dire per 1’una e per l’altra parte, perchè a molte cose il Sarsi non può contraddire, e in alcune ha mille ragioni. E domandando io inoltre della grandezza dell’opera, mi disse che sarà poco maggiore della Libra » (2). Non fu tuttavia per allora data alle stampe la risposta del Grassi, intorno alla quale, e ad un particolare assai piccante delle relazioni fra il Grassi e Galileo, porge notizia una lettera di Bartolommeo Imperiali al nostro filosofo sotto il dì 27 febbraio 1626, la quale, per essere inedita (5), pubblichiamo per intero, se anche contiene alcune cose estranee all’argomento principale del quale ci stiamo occupando. La lettera è del seguente tenore: — Intorno a questo stesso tempo poi era stata tenuta nel Collegio Romano « una prefazione, anzi un’invettiva, molto veemente e violenta contro a’ seguaci delle nuove opinioni contrarie alle peripatetiche ». Le Opeie di Gaìileo Galilei, ecc. Supplemento. Firenzi, 1856, pag. 169-170, 174 I7^)· (1) Carteggio Galileiano Inedito, ecc., pag. 221. (2) Carteggio Galileiano Inedito, ecc., pag. 224. — Veggasi anche a pag. 283 la lettera del Ciampoli posta sotto 1’ erronea data « 1629 » anziché « 1625 » come dovrebbe essere, 0 « 1627 » come pare di poter leggere nell’autografo. Cfr. Mss Galileiani. Par. IV. Tomo IX, car. 109· (3) Mss. Galileiani. Par. VI. Tomo XI, car. 15. GIORNALE LIGUSTICO I4I « Molto Illustre et Eccellentissimo Signor honorandissimo, « Il mio padre Santini che mi ama daddovvero, quando è certo di favorirmi straordinariamente non tralascia l’occasione, che al presente è stata delle più desiderabili che mi potesse offrire, nel dimostrarmi la gentilissima lettera di V. S. nella quale si compiace di far si cortese memoria di me, che le vivo tanto obbligato. L’ avrei preoccupata, Sign.r mio Galileo, come soleva prima, se le guerre e qualche cura pubblica me Γ avessero conceduto; il danno è stato il mio, perchè nel corso di questo tempo con l’occasione delle sue risposte sempre dotte, avrei imparato quel che non so, e da chi sa assaissimo; se ella cosi si compiacerà in Γ avvenire mi rifarò del disa-vantaggio, perchè del resto io faccio professione di esserle vero servitore, e parziale. « Io in tanto comincio a far triegua co’ libri, ma non co’ molti e vari) ; mi è saltato il capriccio d’intender le mirabili proprietà degli specchi, la dirò come l’intendo, non trovo autori che abbiano ex professo trattata questa bellissima scienza; Vitellione, come V. S. sa, ha trascurato molte cose : vorrei veder alcun moderno : Ella saprà il nome di qualcbeduni, di gratia, mi faccia gratia a scrivermene, perchè io li commetterò dove saranno. E se V. S. avesse alcuno scritto, 0 trattato, massime se fusse suo, mi sarebbe di grandissimo gusto per imparare, con averglielo a rimandare quanto presto comandasse: scasi l’incomodo, la curiosità e la sigurtà. Al padre Grassi ho fatto la medema richiesta, ma si è scusato che non s’intende molto di questa scienza. È stato tre giorni a Genova, e si è partito Γ altieri per Siena, non mi venne veduto altra volta; si parlò di V. S. et egli ne fece onorevolissima commemoratione, e mi disse che 1’ anno passato cercò di riconciliarsi con esso lei, ma che 142 GIORNALE LIGUSTICO ella non se ne compiacque; si duole del mostro (i) Ricardi, che, indovinando una risposta che altri diceva farsi del Grassi contro Γ oppositioni di V. S., disse: Vicisti Galilaee. Vuol fare stampare in Lione la risposta il detto padre, avendo ritrovate difficoltà in Roma, l’ho pregato a desistere insino a tanto che l’avisi; ho voluto dargliene parte, perchè se io fussi buono per questa riconciliazione mi terrei quasi felice; le penne, de’ religiosi particolarmente, non si denno aguzzare così acerbamente, io ne sento disgusto, e se bene so che V. S. sa risponder per le rime, tutta volta dispiacciono 1 occasioni. Io mi dichiaro in tutto per tutto del mio Sig.r Galileo al quale bacio le mani e son servitore fin che vivrò. Genova, 27 febbraio 1626. Di V. S. Molto Ill.re et Ecc.”a Aff.m0 ser.re Bartolomeo Imperiali. » La risposta che a queste aperture Galileo si affretto a fare andò disgraziatamente perduta; ma ne possiamo argomentare da quello della replica dell’Imperiali, nella quale leggiamo: « 11 motivo di V. S. di non aver voluto accettare la riconciliazione del P. Orazio Grassi prima che abbia dato alle stampe quel suo libro, ha del nobile e del generoso, come hanno tutte le azioni sue: nè punto mi duole della poca ventura del Padre, meritando di pagare il fio per essere stato il primo a provocare con opporsi così rabbiosamente alla verità. Suo sarà il danno, se con altra risposta per le rime (1) Questo sopranome ebbe il P. Niccolò Riccardi, genovese del quale abbiamo toccato anche superiormente, dal Re di Spagna: alcuni dicono a motivo della sua maravigliosa memoria, altri a motivo della sua straordinaria grassezza. GIORNALE LIGUSTICO MB sarà sferzato, onde una volta abbia a confessare: Vicisti Galilaee, come il Mostro in Roma ha di già profetato. Il Sig. Gio. Battista Ballano, servitore di V. S. ed intendente della profes sione, mi diceva l’altro giorno, conforme il parer universale, che aveva disgusto di non essersi abboccato con esso nel tempo che si fermò per alcuni pochi giorni in Genova, per trarlo e convincerlo d’ errore » (1). Veniva finalmente alla luce la risposta (2) del Grassi al Saggiatore e ne dava ragguaglio a Galileo da Pisa 1’ Aggiunti (3) sul finir dell’anno 1626; non parve tuttavia che il nostro filosofo n'avesse immediata conoscenza, poiché la prima traccia, che ne troviamo nel suo carteggio, sta sotto il dì 2 agosto 1627, giorno nel quale egli scriveva al Castelli : « Le staffilate non sono penetrate così al vivo, che il medesimo non abbia recalcitrato, e con una assai lunga risposta procurato di sostenersi: e credo che il signor Andrea Arri-ghetti la manderà alla P. V., avendo risoluto esso e gli altri nostri amici, eh’ io non ci stia a far altro, giudicando tal risposta esser troppo frivola e non metteva conto perderci tempo, conoscendosi apertamente che l’autore ha resoluto di voler essere P ultimo a parlare in tutte le maniere » (4). (1) Carteggio Galileiano Inedito, ecc., pag. 239. (2) Porta il titolo seguente: Ratio ponderum Librae et Simbellae; in qua quid e Lotharii Sarsi Libra Astronomica, quidque e Galilaei Galilaei Simbellatore de Cometis statuendum sit, collatis utriusque rationum momentis, philosophorum arbitrio proponitur. Auctore Lothario Sarsio sigensano. Lutetiae Parisiorum, sumptibus Sebastiani Cramoisy via Jacobea sub Ciconiis, MDCXXVI. — La Biblioteca Nazionale di Firenze ne possiede nella Collezione Galileiana (Div. II. Par. III. T. XVI) un esemplare riccamente postillato da Galileo. (3) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo IX. Firenze, 1852, pag. 110. (4) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo VI. Firenze, 1847, Pag- 319· *44 GIORNALE LIGUSTICO Rispondeva il Castelli (i) approvando questo proposito di Galileo, nel quale si confermò il nostro filosofo dopo aver avuto un consimile parere dal Cesi, dal Ciampoli e da « altri palatini e letterati » (2). Non possiamo tuttavia lasciare questo argomento senza ramemntare ciò che in altro luogo (3) abbiamo avuta occasione di avvertire, cioè che, oltre alle risposte avevano i Gesuiti tentato di trarre altre e maggiori vendette sul Saggiatore. Scriveva infatti il Guiducci a Galileo: «alcuni mesi sono, alla Congregazione del Santo Uffizio, fu da persona pia proposto di far proibire o correggere il Saggiatore, imputandolo che vi si lodi la dottrina del Copernico in proposito del moto della Terra. Intorno alla qual cosa un cardinale si prese assunto d’informarsi del caso e riferire. E per buona fortuna s’ abbattè a commetterne la cura al Padre Guevara, generale de’ Teatini, che credo si chiamino i Minimi, il qual padre è andato poi in Francia col signor Cardinal Legato. Questo lesse diligentemente P opera, ed essendogli piaciuta assai, la lodò e la celebrò assai a quel Cardinale, ed inoltre messe in carta alcune difese, per le quali quella dot- (1) Carteggio Galileiano Inedito, ecc., pag. 260. — Veggasi un giudizio del Castelli su questa replica del Grassi, nel Supplemento all’edizione alberiana, pag. 203-204. (2) Le Opere di Galileo Galilei, ecc., Tomo IX. Firenze, 1852, pag. 135· — Galileo tuttavia meditò di pubblicare più tardi le sue postille alla replica del Grassi, imperciocché trattando col P. Fulgenzio Micanzio della ristampa di alcune sue opere, gli scrive sotto il di 19 novembre 1634: « Saria forse bene aggiungervi le postille, che ho fatte alla risposta del medesimo Sarsi al Saggiatore, e si potrebbe figurar, che allo stampatore fusse dato per le mani un libro di detto Sarsi postillato con risposte alle obbiezioni che ei ia al Saggiatore: la Paternità Vostra ci penserà un poco, ed io ancora ». (Le Opere di Galileo Galilei, ecc. lomo VII. Firenze, 1848, pag. 55.) (3) Cfr. Nuovi studi Galileiani in Mem. Ist. Veneto, XXIV, pag. 157· GIORNALE LIGUSTICO trina del moto, quando fosse stata anche tenuta, non gli pareva da dannare, e così la cosa si quietò per allora » (i). E Fabio Colonna scriveva intorno allo stesso tempo a Francesco Stelluti, raccomandandogli « Di ammonire il Galileo a scrivere con prudenza e riserva intorno alle cose scritturali . . . poiché si andavano cercando col maggiore scrupolo motivi onde proibii le: e ciò massime dai Gesuiti, i quali non furono mai molto suoi amici e disputavano a lui la gloria di molte sue invenzioni per attribuirle a sè stessi » (2). Giovò moltissimo a Galileo, 1 avere in tale circostanza l’appoggio del P. Riccardi, il quale aveva già dichiarato al Castelli che gli bastava 1 animo di difender sempre la parte Galileiana (3), ed interrogato più specialmente intorno alle opposizioni del Sarsi, rispondeva conforme la relazione che ne dà a Galileo il Castelli nei termini seguenti: « In presenza del signor Ascanio Piccolomini parlai col Padre Mostro, ricercandolo che dicesse il suo parere intorno alle opposizioni del Sarsi; il quale disse che le opinioni di V. S. non erano altrimenti contro la fede, essendo semplicemente filosofiche, e che egli avrebbe servito V. S. in tutto quello che lei gli avesse comandato, ma che non voleva comparire per poterla servire in ogni occorrenza, che le fosse dato fastidio dal Tribunale del S. Uffizio, dove egli è qualificatore, perchè se si fosse prima dichiarato, non avrebbe potuto parlare. E raccontò ancora che aveva patito un poco di burrasca per V. S. da’ suoi frati. E in somma concluse che era tutto di V. S. » (4). (1) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo IX. Firenze, 1852 pag. 79. (2) Memorie istorico critiche dell’Accademia dei Lincei e del Principe Federico Cesi secondo Duca di Acquasparta fondatore e principe della medesima raccolte e scritte da D. Baldassare Odescalchi, Duca di Ceri. Roma, MDCCCVI, nella stamperia di Luigi Perego Salvioni, pag. 191, (3) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Supplemento. Firenze, 1856, pag. 204. (4) Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo IX. Firenze, 1852, pag. 124. Giorn. Ligustico. Anno XIX. I0 Γ4<5 GIORNALE LIGUSTICO L’incidente tuttavia, per allora, non ebbe seguito, c la nostra narrazione sarebbe compiuta, se non avessimo avuta la ventura di porre la mano sopra un importantissimo documento, il quale chiarisce, od almeno chiarirebbe, non essere il Grassi entrato per nulla nell’ inasprire la guerra fatta più tardi a Galileo per la pubblicazione del Dialogo, e ciò contrariamente all argomentazione del Reusch, il quale scrive a tale proposito: « Die ini J. 1616 zurc Siege gelangte Ansicht sahen die Jesuiten durch Galilei ’s Dialog bedroht, und da sie fiihlen mochten , dass keiner ihrer Gelehrten die rein wissenschaf-tliche Widerlegung des Bûches mit Aussicht auf Erfolg unter-nehmen kònne, so lag cs nahe, ein Einschreiten der kirchli-chen Behòrden zu provociren, zu welchem ja in der 1 hat das Buch Anlass bot. Ein wirksames Einschreiten gegcn dns Buch war aber, wie die Sachen lagen, nicht wohl mòglich, ohne ein Einschreiten çesen den Verfasser desselben, und o o diesen zu schonen , mochten Grassi und Scheiner nichts weniger als geneigt sein. Diese Beiden werden am eifrigsten gengen Galilei operirt haben » (i). Da quest’accusa non va immune lo Scheiner, ed anzi non potò difendernclo neppure un suo recente apologista (2); ma che anche il Grassi possa essere accusato d’ aver soffiato nel fuoco dovrebbesi escludere, se si presta fede al documento inedito che qui appresso pubblichiamo testualmente, e che consiste in una lettera autografa del Grassi stesso, assai probabilmente indirizzata al Dottore Girolamo Bardi, sacerdote e medico genovese, che fu per alcuni anni gesuita egli pure, e professore di filosofia nello (1) Der Process Galilei ’s und die Jesuiten. Von D.' F. H. Reusch. Bonn, Eduard Weber’s Verlag, 1879, pag. 234. (2) Christoph Scheiner als Mathematiher, Physiker und Astronom von Anton von Braunmùhl (Bayerische Bibliotek begrùndet und herausgegeben von Karl von Reinhardstoettner und Karl Trautmann. 24 Band). Bamberg. Buchnersche Verlagsbuchhandlung, 1891, pag. 72-73. GIORNALE LIGUSTICO M? Studio di Pisa. La lettera fu trovata nell’ Archivio di Stato di Roma, e precisamente fra alcuni mazzi di scritture del secolo XVII, appartenute agli Scolopi del Monastero di S. Pantaleo in Roma : essa é del seguente tenore : « Molto 111.™ Sig.re mio e Padrone Oss.m“ Dalla lettera di V. S., da me ricevuta 1’ altr’ hieri, scorgo quanto gran concetto ella habbia delle cose della Compagnia nostra, poiché anche le cose mie rimira con occhio sì affettuoso che le paiono di qualche stima. I! Sig. Galileo, che forsi non ha l’istesso affetto verso la madre, non è meraviglia se rimirando le cose del figlio con occhio più spassionato, si ride di quelle e le stima da niente, come le stimo anch’io. Resto ben obbligato alla cortesia di V. S. che si sia degnata tener di me quella protettione la quale però non meritavo. Quanto alli disgusti del sig/ Galileo gli dico sincerissimamente che n’ho sentito grandissimo dispiacere, perchè gli ho sempre portato assai maggiore affetto di quello che si sia degnato egli portare a me; et essendo stato richiesto in Roma 1’ anno passato che cosa mi paresse del suo libro intorno al moto della terra, procurai con ogni sforzo mitigare «li animi inaspriti verso di lui, e renderli capaci dell’ efficacia degli argomenti da lui apportati, tanto che si maravigliarono alcuni, come io, stimato da essi offeso dal sig.r Galilei e per tanto forsi poco ben’ affetto, parlassi per lui con tanta premura; ma egli si è rovinato da sè stesso con invaghirsi tanto del suo ingegno, e col non fare stima alcuna degli altri, e però non si maravigli se tutti conspirano a danni suoi. L’autor del libricciolo insieme col P. Cabeo sapranno render buon conto di sè stessi. Le opere, 0 risposte, del s.r Chiaramonte io non l’ho vedute, e, quando bene le havessi lette, poco buon giudice ne potrei essere, come manco mi son posto i48 GIORNALE LIGUSTICO ad esaminare i calcoli dal s.r Galileo posti ne’ suoi dialoghi: ben mi parrebbe cosa strana che questi havesse con tanto ardire pronuntiato contro Γ altro cosa che si facilmente si potesse dimostrar falsa: con tutto ciò alle volte i più arditi prendono più granchi. Quanto alli SS.ri Rovere, non trovo qui in Savona chi mi sappia dire specificatamente che strettezza di parentela ed amicitia habbiano con la S.r* Principessa d’Urbino, ben stimano tutti che vi passi assai buona intelligenza. Risaluto i mie cari SS.rl e Padroni Gio. Accarigi et Augusto Chigi, insieme con Mons.r Vicario, de’ quali vivo ricordevolissimo et a V. S. mi oifero per servo di cuore. Di Savona, li 22 di settembre 1633. Di V. S. M.*° 111." Servo humilissimo Oratio Grassi. » Altre traccie di relazioni dirette od indirette fra Galileo ed il Grassi non abbiamo trovate: al futuro biografo del gesuita savonese (1) vogliamo tuttavia indicare per fine otto lettere di lui a Giovanni Battista Baliani, i cui autografi si trovano nella Biblioteca Nazionale di Brera (2) Più ancora di una sua invenzione di un vascello insommergibile, sulla quale intrattiene il Baliani, ci sembra interessante lo squarcio della lettera sotto il 25 agosto 1652, che qui appresso riproduciamo : « il mio studio intorno alli colori vedo che (1) Un breve cenno ne fu dato dal signor Ottavio Varaldo. Cfr. Bibliografia di Orario Grassi. Savona tip. D. Bertolotto e C., 1888. (2) Busta segnata: « A. F. XIII. 13· η·° 4· * V’è anche una lettera del Baliani al Frassi, in risposta all’affare della barca insommergibile. GIORNALE LIGUSTICO I49 non potrà condurre il suo parto a luce, per li rigorosi ordini fatti Gome mi vien detto in queste ultime Congregationi Generali, nelle quali vien proibito a’ nostri Γ insegnare molte opinioni, delle quali alcune sono le sostanze del mio trattato, e dicono di proibirle, non perchè le stimino cattive o false, ma per essere nove e non ordinarie, talché mi converrà sacrificarle alla santa Obedienza, net che senza dubio guadagnerò più che mandandolo fuora. V. S. che non è soggetta a questi intoppi, ci lasci godere qualche novo parto dell’ ingegno suo ». Il bavaglio era all’ordine del giorno! VARIETÀ • UNA LEGGENDA BACCHICA. Il defunto dott. Mannhardtcon una serie di interrogazioni latte per iscritto a molti raccoglitori di canti e tradizioni popolari, ottenne di poter riunire ed ordinare non pochi documenti intorno al culto di Cerere ed alla coltivazione dei cereali, seguendone il progredire lento ma costante, dallOriente all’ Occidente, attraverso i tempi ed i popoli. Chi avesse denari e volontà, potrebbe lare altrettanto del culto di Bacco venuto colla vite dall’ Asia anch’ esso, e diffuso in tutte le regioni nelle quali 1’ uva può maturare. Alle falde del monte Meru nell' India, monte che, come Γ Olimpo dei Greci, era la sede di tutte le divinità, il parco o paradeison degli antichi croi indiani divinizzati, prosperava certamente la vite. Questa pianta fu quindi detta figlia del monte Meru. I Greci presso i quali meros vale coscia, inventarono la genesi 150 GIORNALE LIGUSTICO mitologica di Bacco, nato tre mesi prima del tempo normale, e tenuto vivo fino al nono mese in una coscia di Giove, suo padre, d’ onde il nome di Eira fio te e di Merorafe dato a Bacco. Mcros in greco vale però anche costa, costiera di monte, quindi la mitologia veniva ad indicare che le viti prosperano sui colli, nei luoghi aprici e sorrisi dal sole, ossia, come dicevano i Romani, Baccns aviat colles et aprica loca. Senza la religione le pratiche agricole non avrebbero potuto lungamente durare e prosperare, e non solo le agricole, ma anche le morali e le igieniche, come viene dimostrato da tutte le religioni. Quindi 1’ immaginosa mente degli Elleni inventò la favola di Eno, Sperino ed Elaja, figlie di Anio sacerdote di Apollo in Deio, l’isola sacra della Nazione, le quali cangiavano tutto ciò che toccavano nelle sostanze indicate dal loro nome, ossia che dove veniva Eno (oinos vino), potevan pur esser le altre due produzioni agricole del grano (spennos, semenza, cereali) e dell’olio (dajon). Gli effetti lieti, tristi e furiosi del vino, furono personificati nelle vittorie di Bacco sopra diversi popoli. Il male che le capre facevano ai tralci delle viti, che brucati da esse più non rimettono, condan-nole ad essere sacrificate nei sacrifici di Bacco, e 1’ otre di pelle di capretto che serviva a tenervi liquidi, diede origine alla favola del gigante Ascos (in greco significa o:re) cne vinto da Bacco fu da lui scuoiato; e la pelle del nemico servì al Dio, per farne un otre o fiasco da riporvi il vino. Nato il Dio, la leggenda, il soprannaturale, doveva avvolgere nei suoi giri anche la parte materiale del culto, imperocché senza soprannaturale anche questa viene a perdersi. Se Luigi XVI non avesse fatto cingere di palizzate il campo dove crescevano le prime patate portate in Francia, e mettere di moda, per mezzo dei nobili della sua Corte, il portare all’ occhiello del soprabito i fiori del tubero americano, questo non si sarebbe così facilmente diffuso per tutta Europa. GIORNALE LIGUSTICO La vite bisognava guardarla e difenderla dalle capre e dai cinghiali. Per ciò che riguarda le capre si inventò la leggenda di Asco; per i cinghiali si trovò quella di Anceo. Questi, figlio di Nettuno, e nipote per mezzo della madre Astipalea, di Fenice re dell’isola di Samo, fu il primo a far piantare nell isola materna, ora vinifera, le viti, trasportatevi dalla vicina Fenicia. Lo zelo che gli apostoli mettono nella diffusione dei culti novelli gli fece trattar male i contadini che mal sapevano obbedire ai suoi ordini. Uno di essi più degli altri angariato, maledisse Anceo, predicendogli che non avrebbe mai bevuto del vino di quelle viti novelle, costate sudori e lagrime. Anceo rise della maledizione ed a sbugiardarla, non appena maturarono i grappoli primaticci, li fece spremere e riempirne una capace tazza. Già Γ accostava alle labbra ridendosi della predizione, allorché vide un cinghiale che entrato nella sua vigna la distruggeva. Depose la tazza; chiamò i suoi contadini; combattè il cinghiale; ma da un morso di esso, ebbe a riportare tale ferita che ne mori, e non potè bere del vino novello. A questa leggenda bacchica allude il proverbio catoniano : multum interest inter os et offam, ricordato anche meglio dal verso di Orazio: multa cadunl inter calicem supremaque labra, parafrasato dal proverbio italiano: non dir quattro se non è nel sacco, e dal proverbio spagnuolo: non me digas oliva anles que non me veas cogida « non mi dire oliva prima che non mi vegga raccolta ». Dall’Oricnie e dalla Grecia la leggenda passò nell’Ungheria, terra ferace di vini, ed ecco come la racconta colla sua solita spigliatezza il Mantcgazza, nel vol. I, pag. 508 del libro Quadri della natura umana: « Il Tokay, vino mitologico, ha una origine olimpica. Una volta viveva un nobile ungherese, il quale dopo aver raccolto nelle sue terre quante viti gloriose e famose potè avere da 1)2 GIORNALE LIGUSTICO ogni parte d Europa, mandò a chiamare il suo astrologo, e mostrandogli una vigna «li disse : Signor astrologo, datemi Γ oroscopo di questa vigna, prospererà essa o no ? — Si, perfettamente. — E il vino sarà buono? — Eccellente ? — In quanti anni ? In quattro anni, ma voi non ne beverete mai. Che cosa dite, o briccone ? Morirò io forse prima di quel tempo ? No, ma nei miei oroscopi, io leggo che voi non beverete mai di questo vino. Scorsi i quattro anni, il cantiniere portò al gentiluomo di quel vino, e mentre questi stava per metterselo alle labbra, si ricordò delle predizioni dell’astrologo e mandò per lui. — O pazzo, direte ancora che io non beverò di questo vino ? Guardate questo bicchiere che sta nelle mie mani, quando io Γ avrò vuotato, vi farò frustare per i vostri falsi vaticinii. — Vi è molto cammino ancora fra la coppa e le labbra, disse P astrologo. Appena aveva egli pronunciato queste parole, che un servo irrompendo nella camera gridò : Signor padrone, tutto è perduto! tutto è perduto;! uno stuolo di cignali ha invaso la vigna, correte ! correte ! — Il gentiluomo afferrando una lancia, corse ad incontrare il nemico, attaccò il più grosso cignale, ma questi saltò sopra di lui e lo sbranò, adempiendosi così la predizione dell’ astrologo ». La leggenda bacchica, passata sul suolo di Toscana, a Firenze , si spoglia di tutta la rozzezza e la scoria antica, e attinge per opera del Sacchetti, alla festività del popolo presso cui è portata, terminando in un’ amichevole burla. Ed ecco come la racconta lo Sterne italiano : giornale LIGUSTICO 153 \ « Scolajo Franchi essendo buon bevitore, e visitando volentieri le taverne dove i buoni vini si vendeano, vendendosi una mattina un buon Trebbiano a una taverna di Firenze, luogo che si chiama al Fico ; e questo Scolajo andandovi a bere egli e uno Guido Colombi, e Bianco De’ Bonsi, essendo mesciuto una terzeruola, e avendo ciascuno i bicchieri in mano, e specchiando gli occhi loro nel vetro, e in quel Trebbiano che era buono e chiaro, di color d’oro, e Scolajo guatando nel bicchiere comincia a dire: O lavoratori, benedetti siate voi che lavorate queste vigne, e maledetto sia chi mai vi pose estimo, che le vostre mani si vorrebbono imbal-simare, ecc. E così col bicchiere in mano seguendo il ragionamento venne in su uno parlare divino dicendo ai compagni: Io vo’ che voi sappiate che nel principio del mondo fu deliberato che Scolajo bevesse questo bicchiere di Trebbiano. Era appresso dirieto a lui uno amico del detto Scolajo, chiamato Capo del Corso, il quale avendo udito la predica che Scolajo aveva fatto sul bicchiere, e in fine udendoli dire che ab eterno era stato deliberato che beesse quello bicchiere di Trebbiano, subito manda la mano oltre, e leva quel bicchiere di mano a Scolajo dicendo: Anzi fu deliberato che io il dovea bere io, e questo detto e bevutolo fu tutt’ uno. Scolajo si volse, e veggendoli essere stato tolto e bevuto il suo bic— chiero da Capo del Corso disse: Vatti con Dio, Capo, che io non dirò mai più queste parole, che io non lo bea prima ». E cosi colla burla fatta da Capo del Corso a Scolajo, finisce la leggenda bacchica ricordata dal verso del Venosino: Multimi interest inter caliccm supremaque labra. G. Ferraro. GIORNALE LIGUSTICO RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Bìbliographìa Bernardina qua S. Bernardi... operum cum omnium timi singulorum editiones ac versionts, vitas et tractatus de eo scriptos quot quot usque ad finem anni mdcccxc. reperire potuit collegit et adnotavit P. Leopoldus Ianauschek, Monasterii B. M. P. de Clara-Valle Austriae (Vulgo Zwettl) Ordinis Ci-sterciensis presbyter, etc. Vienna, Holder, 1891, S.° grande, pp. 558, Lire it. 9, 25. La « Bibliographia Bernardina » che qui annunziamo è la parte quarta dell’importantissimo lavoro, che col titolo di « Xenia Bernardina » pubblicarono i dottissimi PP. Benedetto Gsell e Leopoldo Ianauschek, a nome e per commissione dei loro confratelli i Monaci Cisterciensi della provincia Austro-Ungarica, nel faustissimo Vili centenario della nascita di S. Bernardo. Autore della « Bibliographia » è il sullodato P. Ianauschek (1), il quale, colla invitta pazienza di un Benedettino e colla critica profonda di un tedesco, si propose di raccogliere e di compilare tutte le notizie che riguardassero le edizioni delle opere, la vita e i singoli atti del mellifluo Dottore. Indagando perciò e raccogliendo in proposito quanto gli venisse fatto di rinvenire sia di manoscritti che di opere a stampa in ogni parte d’Europa, massime nelle pubbliche Biblioteche, potè darci la descrizione delle edi{ioui di tutte le singole opere genuine, o supposte del S. Dottore pub- (1) Di questo dottissimo Padre e del primo Tomo della sua grande opera, Originum Cisterciensium, fu ragionato in questo stesso Periodico nel-1’anno 1878, pp. 216-255. Tutta la collezione delle Xenia Bernardina nel medesimo formato ed edizione in sei volumi, costa Lire 62, 50. GIORNALE LIGUSTICO ISS blicate nelle diverse parti della Cristianità; presentare un cenno delle versioni, dei stinti e delle dottrine che altri da quelle seppe ricavare; compilare un ricchissimo catalogo dei lavori che dietro la guida degli scritti di S. Bernardo si pubblicarono nel decorso di questi ultimi secoli. Vi aggiunse inoltre un’ accurata bibliografia , come delle vite, che distesamente, 0 in compendio ci descrivono le gesta del Santo, cosi del racconto dei fatti singolari, onde il grande Abbate di Chiaravalle illustrò la Chiesa ed il suo secolo, come, ad esempio, le lotie da lui sostenute cogli eretici, la predicazione della seconda crociata, lo zelo spiegato nel difendere i combattuti diritti della sede Apostolica e dei legittimi Pontefici. Nò tacque degli scrittori, che, trattando la Storia Universale, 0 di qualche Nazione in particolare ci diedero il racconto delle relazioni di Bernardo col suo secolo. Seguono finalmente i panegirici più degni di memoria, gl’inni, i drammi ed ogni altro lavoro relativo alle azioni, al culto ed alle glorie del S. Dottore, che i Cisterciensi riguardano, e con ragione, quasi Fondatore e luce singolarissima della loro Congregazione. L’opera è preceduta da una dissertazione divisa in tre paragrafi, nei quali si discorre delle opere genuine e supposte del mellifluo Dottore; delle varie edizioni che se ne fecero nei secoli trascorsi e dei loro pregi e difetti, ed infine si dà un saggio dei manoscritti che trattano della vita 0 delle opere sue, 0 che contengono versioni 0 sunti delle opere medesime. Vien quindi la « Bibliographia Bernardina typis impressa » che in 385 pagine ci dà la notizia di quanto si pubblicò di S. Bernardo del xv al xix secolo. L’ordine tenuto dal Chiar.mo Autore è il Cronologico, sicché il lettore procedendo d’anno in anno, dal 1464 al 1890 trova disposto alfabeticamente quanto può desiderare a pascolo della sua erudizione, e ad un tempo ammirare in qual conto la vita e le opere del r5 6 GIORNALE LIGUSTICO S. Abate siansi tenute presso i suoi contemporanei, e presso i posteri di ogni tempo e di ogni nazione cristiana. E qui siam lieti di notare che Genova ancora, la quale non fu 1 ultima delle città italiane che provasse i frutti della sapienza e dello zelo di S. Bernardo e che si onora di annoverarlo tra i suoi Patroni, ha in questo lavoro la sua parte. Difatti a pag. χχχ, n. 73, vien segnato un, manoscritto, già della Biblioteca dell’Imm. Concezione all’Acquasola, de IP. Gio. Tomaso da Genova cappuccino, morto nel 1681, col titolo: Genova sollevata con li ricordi di S. Berti.ir do Abate, dedicato alla serenissima Repubblica di Genova; e nella « Bibliographia typis impressa » troviamo notato all’an. 1616 un sermo de S. Bernardo del B. Iacopo da Varagine pubblicato a Magonza con altri sermoni dello stesso B. Arcivescovo (p^g- r95> n. 875); all’a. 1842 una Fila di S. Bernardo Ab. Dott, di S. Chiesa e lettera del medesimo ai Genovesi edite dalla Stamperia Casamara (pag. 393, n. 2063); all’a. 1882 un Compendio della Vita di S. Bernardo del Sac. Domenico Ghigliazza edito dalla Tip. Arciv. (p. 470, n. 2622); all’a. 1883 « una prosa pubblicata in questo periodico (1883, pp. 354"59) ^ ch. Sig. V. Crescini, e che « è una redazione genovese della nota epistola attribuita a S. Bernardo diretta al Cav. Raimondo di Casteir Ambrogio » (pag. 473, n. 2637). Finalmente all’a. 1890 vi si fa pur cenno di un importantissimo lavoro pubblicatosi negli Atti della Società Ligure di Storia Patria, vogliam dire delle Tavole descrittive delle monete della Repubblica di Genova, e in particolare vien notata: « Descriptio numismatis argentei a rectoribus Reipublicae Genuensis in honorem et memoriam S. Bernardi excusi, quod in parte adversa exhibet crucem et verba sic abbreviata: Dux et Gub. Reip. Gen. annumque 1630, in parte reversa imaginem D. Bernardi pedum pastorale tenentis, circumscriptam verbis epistolae ab eo ad Genuenses scriptae: Non obliviscar tui ». giornale ligustico In un opera però, che di sua natura vuol tante ricerche c richiede notizie raccolte da ogni parte, riscontrasi qualche lacuna che di leggeri perdonerà chi consideri lo stato del-1 autore, che da ben quindici anni afflitto da gravissima ar-triride, dovette procurarsi le svariatissime notizie raccolte nel grosso volume per mezzo di corrispondenti da lui ricercati per ogni parte d’ Europa. E cosi avessero tutti corrisposto a suoi desideri; chè altre e non indifferenti indicazioni avreb-b’ egli attinte per adornarne la sua laboriosissima Bibliographia Bernardina. E qui mi piace notare quello che mi venne dato rinvenire nella mia microscopica libreria e che manca nel lavoro del P. Ianauschek. All’ anno 1819 mancano: — ( Butler. Godescard) — Vies des Péris, des Martyrs, et des autres principaux saints, tirées des Actes originaux, et des Monuments les plus authentiques; avec de notes historiques et critiques. Ouvrage traduit librement de ΓAnglais d’Alban Butler, par l’Abbé Godescard etc. Nouvelle édition revue, corrigée, et augmentée etc. par M. Nagot, ancien directeur du Séminaire de Saint Sulpice. Tome VII. — A Versailles de l’imprimerie de J. A. Lebel, Imprimeur du Roi 1819. — Ib. XX Jour d’Aôut, S. Bernard, Abbé de Clairvaux, Docteur de l'Eglise (pp. 305-364). All’anno 1842: — Semeria. — Secoli cristiani della Liguria, scritti da G. B. Semeria prete dell’Oratorio di Torino, V, 1. Tip. Chirio e Mina MDCCCXLI1I (Ibid. Documenti di religione del secolo XII. Lettera di S. Bernardo ai Genovesi, pag. 70-75). All’anno 1847: — Maffei, P. Gio. Pietro D. C. D. G. — Vite di diciasette Confessori di Cristo: Volume unico, Venezia. Stabilimento Tasso, Tipogr. Encicl. Ed. - MDCCCXLVII. -Ib. Vita di S. Bernardo, pp. 455-540. All’anno 1888: Hergenroelher (Card.). — Histoire de l’bglise (Traduction de l’Abbé P. Belet) Paris, Libraire Victor Palmé, 1888, Tom. IV. (Ib. passim). 15 S GIORNALE LIGUSTICO Queste aggiunte sebbene di poco rilievo, noi suggeriremmo all’ illustre Autore, ma più ricche assai e più preziose notizie noi vorremmo gli fossero state trasmesse da quei tanti ch’egli avea richiesti a cooperatori del suo lavoro e che neppur degnarono di risposta le sue dimande. Noi ne saremmo lieti non solo per la maggior perfezione del lavoro ma anche per 1 Italia nostra, che fornita a dovizia di manoscritti e di stampe di simil genere avrebbe certamente somministrato all’A. notizie più complete e più ampie per la sua a Bibliographia » e dimostrato così, che essa pure pigliava parte attivissima al Centenario di quel grande Abbate di Chiaravalle, che, se per nascita era francese, di spirito era profondamente Cattolico e Romano e con tutta la sapienza e lo zelo, onde riboccava il suo cuore, voleva il bene di ogni popolo e nazione d’ Europa. P. G. T. SPIGOLATURE E NOTIZIE All’Accademia d’Iscrizioni e Lettere di Parigi il conte di Mas Latrie ha letto una nota sull’ Officium Robariae, ossia l’ufficio della pirateria istituito a Genova nel sec. XIII. * * * È comparso nell’Archivio Storico Lombardo (IX, ii8) un articoletto anonimo col titolo: Fondamento istorico della notizia che Cristoforo Colombo studiò in Pavia. S’intende provare 1’ esattezza e la veridicità dei testi di Fernando e del Las Casas, là dove toccano di quella circostanza. * * * Col titolo: La patria di Giovanni Caboto, il prof. Francesco Tarducci pubblica nella Rivista storica (IX, 38) una importante monografia, dove, esaminate le varie opinioni, e discussi i documenti, conchiude nel ritenere veneziano il navigatore. Con ciò anticipa una pagina dell’ opera sopra 1 Caboto, da lui condotta ormai a termine e di prossima pubblicazione, la quale avrà singolare corredo di documenti del tutto sconosciuti intorno alla dimora di Sebastiano in Ispagna. giornale ligustico 159 Degno ili nota speciale è l’opuscolo seguente: L’Evangélisation de ΓAmérique avant Christophe Colomb (Parii, Picard, 1891) del sacerdote dalmata Luca Jalic , dove per mezzo di nuovi documenti illustra alcuni particolari della diocesi di Gardar, la quale comprendeva la Groenlandia ed il nord - est dell America, confermando cosi la leggendaria tradizione che voleva fin dal secolo X colonizzate quelle terre, e convertite al cristianesimo. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Manuale di Numismatica del Dott. Solone Ambrosoli. Il Manuale è ottimo specialmente come un avviamento allo studio della Numismatica , perchè sarebbe un’ utopia il voler condensare in poche pagine, non dico tutta, ma una sola parte della scienza. E quello infatti, come si rileva in principio del libro, era lo scopo che si prefiggeva l’autore e che egli ha saputo raggiungere nel modo migliore consentitogli in queste condizioni. Il Capitolo 1 comprende l’Introduzione, la quale dopo la definizione ed altre considerazioni, addita la convenienza che ogni cultore dopo uno studio generale, circonscriva il proprio campo di studi in una specialità. Avrei desiderato una variante nella definizione, quella cioè di non distaccarne completamente la parte tecnica ed economica, contrariamente all’opinione di alcuni moderni. Se l’economia politica comprende a buon diritto tra le altre sue parti, tutte le questioni attinenti alle vicende dei valori monetari, ciò non toglie a parer mio, che il numismatico possa ed anzi debba occuparsi di questi valori e dei loro cambiamenti secondo i tempi. Tutti i migliori scrittori in materia antichi e moderni, ce ne hanno dato esempi che non vorrei dimenticati, senza varcare tuttavia quei confini che dividono la Numismatica dalla politica economia. Dopo le nozioni generali sulla (orma, materia, nomenchtura, partizioni e loro serie clic formano oggetto del Capo II, ne abbiamo altri tre per la parte antica corrispondenti rispettivamente alla serie Greca, alla Romana della repubblica, ed a quella Imperiale e bizantina. Il principiante vi trova il mezzo di farsi un'idea di ciascuna serie: molte utili indicazioni pratiche : la citazione degli autori più adatti alla conoscenza di ogni serie speciale : le figure di molte monete 0 più importanti o più caratteristiche : nomi e valori : e finalmente l'indice delle genti Romane, quello dei monetarii, ed altri due della serie e delle leggende Imperiali. Le monete medioevali e moderne son comprese nel Capitolo VI, assieme ad un cenno sulle scienze ausiliarie : all’ elenco delle zecche Italiane coll' indicazione degli autori principali : all’ elenco dei Santi nominati o rappresentati su monete : e con le figure di alcune monete delle zecche primarie. La nostra è illustrata con i disegni di due monete, quelle del ι6ο GIORNALE LIGUSTICO Genovino dell’ultimo tipo anteriore ai Dogi e l’altro di uno scudo largo (o multiplo ?) dell’ anno 1689. La serie delle zecche Italiane è disposta topograficamente, e ben si appone 1’ egregio A. circa la convenienza scientifica di questo ordinamento in confronto di quello alfabetico. Tuttavia io vorrei mantenuto quest’ ultimo, non come una vera e definitiva classificazione, ma bensì come un ripiego provvisorio finché si possa attuare un metodo scientifico tale, da soddistare a tutte le esigenze topografiche storiche e cronologiche. Il Tonini (1) fu certo tra i primi a tentare 1’ordinamento topografico combinato colle dominazioni politicne, famiglie feudatarie ecc, ma non vedo che il suo od alcun altro dei successivi raggiungano l’intento, le difficoltà non son poche : le divisioni topografiche urtano quasi sempre colle denominazioni politiche mutabilissime ; le eccezioni si rendono indispensabili e fra queste principalissima quella di dover riunire sotto l’indicazione di Casa Savoia, tutti i prodotti di numerose zecche sia al di qua che al di là dei monti ; dopo di questa non so perchè non si debba farne un altro per la serie papale. Insomma, parmi preferibile per ora un ordine semplice, convenzionale, ma senza pretenzione alcuna, a qualunque altro che non sia perfetto o quasi. Dopo questa digressione, torno in careggiata, cioè all’ esame del volumetto, il quale termina il suo Capitolo VI con un brevissimo cenno della Numismatica estera. Il Cap. VII è dedicato alle medaglie e placchette. Il Cap. Vili è una miscellanea sui gettoni, tessere, pesi e sulle imitazioni e contraffazioni, seguita da un’ appendice sugli stemmi, simboli e contromarche, con molte altre pratiche indicazioni. Finalmente, dopo un indice generale, il nostro A. ha disegnate due tavole paleografiche ed altre due contenenti 300 stemmi rappresentati nelle monete. Pur troppo non sarà mai possibile da noi quello che si fa altrove (2) e specialmente nella Svezia, dove ogni scuola secondaria possiede la propria collezione numismatica ; ma chiunque desidera l’incremento di questi studi, non può a meno di esser grato allo Ambrosoli di questo manuale, che segna il primo tentativo per volgarizzare le nozioni numismatiche in Italia. Ed anche il Comm. Hoepli ha diritto alla nostra gratitudine per questo volumetto di più che 200 pag, 4 tavole e 186 zincografie intercalate, dato al pubblico per un prezzo insignificante. G. R. (1) Topografia Generale delle zecche Italiane — Firenze — I 869. (2) Non si può far a meno di esser pessimisti adirittura, quando nella maggior parte dei nostri cornimi minori, ed anche in qualcuno dei maggiori, si vedono ancora oggidì tenuti in poco conto gli studi e le collezioni numismatiche. Insigni raccolte locali che con poco si avrebbero potuto conservare in patria, andarono disperse. E mi duole che Genova nostra meriti questo rimprovero sopra ogni altra città, sia per la perduta collezione Franchini, che per la futura c forse prossima perdita di quella Avignone. Non sarà dunque possibile di scuoterla da questa inerzia ? Clic non valga neppur 1’ esempio di molte altre città italiane, e specialmente quello della vicina Milano, la quale seppe radunare nel civico Museo ai giardini una delle più importanti collezioni numismatiche per la serie cittadina? Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO 161 TOMMASO STIGLIACI CONTRIBUTO ALLA STORIA LETTERARIA DEL SECOLO XVII (Coiuinu&z. e fin« a pag. m), DOCUMENTI i. Al Sig. Principe di Gallicam) sopra la settimana di Natale. Dalla lettera di V. S. del 25 del passato veggo che ella s’ ha voluto riposare dalla fatica del comporre e Γ ho caro. Se bene il suo non è propriamente riposo ma è scemamento di fatica per rispetto che le bisogna far di conti, pure il manco male è in genere di bene. Starò aspettando per mercordi la quinta prosa e i quinti versi, ed intanto le fo sapere che ho avuto dal Sig. Luparducci l'esecuzion del suo ordine, di che torno a ringraziarla. Per conto della mia canzone Catta in lode del Sig. Cardinale di Lugo, non ha V. E. da invidiar quella, come soggiunge nella let tera, ma più tosto da compatirlo per la rozezza del lodatore. Pure qualunque io mi sia non devo se non pregiarmi, mentre son cosa di lei, e da lei pregiato. E perché de' cenni voglio essere buono interprete (massimamente quando gli ricevo da chi sa ben fargli) invio la qui inclusa canzone, la quale è indirizzata non a lei, ma a Monsignor Vulpio, perché cosi non si offende la modestia del lodato, e la lode data obliquamente trova più credenza. Π. Al Sig. Principe di Gallicano, in duhiaraiione delle parole Esser quasi d’accordo, k quali sono nella lettera antecedente a quella che vien colla quinta prosa. Non mi diffondo in avvisare a V. E. il fattosi di nuovo circa il negozio di Bracciano, sapendo bene che, per averlo io detto diffusamente a Luparducci, egli, che sempre gli scrive prima di me (perché si vale della staffetta) glie lo avrà a quest’ ora avvisato, ed il mio dire sarebbe qui super- Giom. Ligustico, Ann» XVHI. ,, GIORNALE LIGUSTICO fluo. La somma è che il Sig. Duca mi concluse nell’ ultima parlata eh’ io fece di ciò seco, che stando ormai per iscovar di giorno in giorno l’effettuazione della vendita del suo Palazzo, era bene che frattanto Lupar-ducci, col computista di S. E., per avanzar questo tempo tirasse in netto il preciso calcolo di quanto insino al presente V. E. è creditore, acciò che non restasse altro da farsi die sborsare il dinaro. Vegniamo ad altro. Ho gusto eh’ ella abbia gusto di essersi incontrata a convenir con me quasi in tutto intorno al concatenar queste si fatte favole che si dividono in giornate. Il che si fa per via dell’obbligo largo, il quale è quello che appartiene all’ integrità. Ma in quanto al volere ella sapere ora in che consista quel quasi, dico che io (se mal non mi ricordo) gliel notificai nell’istessa lettera all’istesso luogo, quando dissi che ’l far nascer le cose una dall’altra non era concession larga ma era stretta; ciò non è delle favole aggregate, ma dell’integre. Adunque il quasi viene a consistere nel volere ella che le parti d’ esso aggregato si possono non solo attaccare secondo tempi, luoghi e persone, ma secondo intrinseca natura, e nel voler io per contrario eh’ elle s’ abbiano solamente ad attaccare temporalmente, localmente e personalmente e non d’altro modo per non meschiare i generi delle favole un coll’altro che sarebbe mostruosità. Ma V. E. ha presupposto che l’integro e l'aggregato possano unirsi insieme, mentre prima dice d’aversi formato in mente un bamboccio, e poi esemplifica la disposizione delle parti di quello coll’attacco delle maglie. Il bamboccio è l’abbozzo dell’integro che è l’animale, e le maglie son l’abbozzo dell’aggregato che è la collana. Le membra dell animale bisogna che stieno ciascuna nel suo proprio luogo, ma le maglie della collana possono stare in qual luogo si voglia non essendo per se stesse cosa determinata più ad un sito eh’ ad uno altro. Ma io credo che V. E. per bamboccio abbia voluto metaforicamente intendere il mucchio delle maglie che è 1' abbozzo della collana, e non il mucchio delle membra che è l’abbozzo dell’animale. E cosi siamo d’accordo nella cosa ma discordiamo ne’ vocaboli, il che importa poco, essendo il disputar del nome questione assai frivola nelle scuole. Tanto più eh’ io confesso che non tutte le ligature delle favole Arcadiesche sono estrinseche, dico temporali o locali o personali, ma alcuna ne può essere intrinseca, dico latta per dipendenza integrale. La quinta Prosa m’ è paruta (voglia la verità) alquanto seccorella· Non già per sé, ma a rispetto dell’altre antecedenti che contengono avvenimenti spessi e mirabili, dove questa non contiene altro eh’ un fatto ed alcuni giuochi e la caccia d’una volpe, se bene il tutto è ben descritto , GIORNALE LIGUSTICO 163 e la caccia è oltracciò bene allegorizzata. L’egloga per se stessa (e massimamente doppia) mi piace, ma io non vorrei che nell’opera ne fossero altre che le composte finora, le quali son due, ma fussero canzone d’ altra testura. Perché le sestine son componimento poco grazioso oggidì e poco usato. Che però il Sannazaro ancor egli si contentò di due sole. Quanto alle composizioni mie, poiché ella cosi comanda, io continuerò a mandarne. Legga l’inclusa e me ne dica il suo parere. E per fine umilmente la riverisco. [Roma] 9, Gennaio 1649. III. AI Sig. Principe di Gallicano col giudicio del suo Discorso Politico. Ho ricevuto colla lettera di V. E. del 5 febbraio l’aspettato discorso, il quale (vaglia la veriti) non ha potuto in me trovar cosi grande aspettazione, che molto più grande non mi sia giunto esso medesimo. Parmi che propriamente possa chiamarsi oracolo politico, 0 più tosto compendio quintessenziato di Ragione di Stato. Quanto difetto gli si possa tribuire si è esso l'esser troppo buono, né so se sia spediente il mostrar di saper tanto, mentre stiamo premendo su lo schifar l’invidia, essendo piccolo e dubbio che l’applauso del Re diventi livor d’ alcun ministro. Ma già che esso è fatto piglisi il ben per bene senza specular più iti la, perché Iddio è poi quello eh’ aiuta il resto col mantener vivi nella memoria degli uomini i segni della fedeltà di V. E. mostrati nell* occasioni passate. Una cosa in esso discorso io non bene intendo, la quale in leggere m’ ha cagionato arrestamento di lettura. Cioè il veder che nell’ esaminarsi le forze e le volontà de’ signori c’ hanno i loro stati in Abruzzo si sia taciuto Del Guasto. Se però ciò non s’ è fatto perché quel che si dice di Gallicano si può anco intendere per detto di lui, si come d’unito a quello per parentado, per inclinazione, per interesse e per ogni altro rispetto e miracolo. Io non mando per questa volta poesie mie trovandomi esser tutto ab» bagliato e confuso dal troppo fier splendore del prefato discorso. Ne manderò alcuna per Γ altro procaccio ; e qui per finire la riverisco umilissimamente. Di Roma, (ebbraio 1649. 164 GIORNALE LIGUSTICO IV. Al Sig. Principe di Gallicano doni andando accrescimento 0 mutamento di paese. Io soti costretto di rappresentare a V. E. una imbasciata d’un mio compagno, il quale in altri tempi solea venire alcune rare volte a visitarmi, ma in quest’ anno s’ è voluto tanto addomesticar con me che per forza è diventato mio camerata, ed ogni di si trova meco a pranzo c tro-verebbesi anco a cena s’ io non mangiassi una sol volta il giorno, lamentandosi inoltre che 1 mio vivere gli paia troppo frugale. Egli è importuno a segno che può più tosto dirsi indiscreto ed impertinente. Ma quel eh’è peggio dubito eh’ egli sia stregone , perché spesso si tramuta di maschio in femmina, e conseguentemente di tristo in peggiore. La pratica sua non è veramente molto onorevole essendo egli avuto comunemente in dispregio, e quasi da ognuno. Si che se si sapesse eh’ io vi bazzico, resterei mezzo svergognato. Ma io uso in ciò gran cautela, né voglio eli’egli mai s’accompagni con me in pubblico, ma ogni volta eh’ esco di casa, lo serro dentro a chiave. Benché contra sua voglia egli vi stia, anzi resti con gran rabbia a rosicar quasi le serrature. Di più mi minaccia ogni giorno insino della vita, s’io non farò ottenergli da V. E. la sua domanda. Onde ancor io la supplico strettamente ad esaudirlo, acciò che egli non mi facesse qualche male. Perché non possendo io per la mia vecchiezza far più questioni, ed essendo egli uno schermidore leggierissimo (il quale ha ogni volta che voglia una stoccata franca nella gola) temo eh’ un giorno mi scanni, ovvero non m’ affoghi una notte nel mio letto, il quale egli s’ ha ancora accumunato con me, non bastandogli d’ aversi accumu-nato la mensa. Egli si tiene da me mal soddisfatto nin solo per lo mangiare, ma del dormire. Poiché non avendo il buon sciapello da sei anni in qua voluto farmi rifare i materazzi, me gli ha lasciati pietrificare, benché (vaglia la verità) il rifargli non avrebbe avuto luogo essendo essi pieni di lana di capra. Ma questo è nulla a rispetto delle lenzuola. Egli (già sono altrettanti anni ) ma ne dette tre paia per lo mio letto, e due per 1’ altro acciò che io me le facessi lavare a mie spese , come ho poi tatto, ed egli guadagnasse la spesa mettendola a conto di V. E.. Le tre paia mie erano insino allora vecchie, e trasparenti, e non avendomele egli voluto mai cambiare, io son venuto guastandone alcune, per conciarne alcune altre, si che finalmente esse si son tutte ridotte ad un solo paio ma stracciate più che la spoglia d’un fico brugiotto. Onde il mio GIORNALE LIGUSTICO detto ospite borbotta, perché dorme con me fra due cenci. So che V. E. già vorrebbe intendere chi sia costui, e come si chiami, e qual grazia da Lei pretenda. Le dirò il tutto. Egli non è persona vera, ma una fantasima, se bene par eh’ abbia corpo. Si nomina Bisogno, e qualvolta s’infemminisce, insieme col mutar sesso muta nome, e chiamasi Necessità. Quel eh’ egli da V. E. domanda è una grazia sola, ma esposta differentemente e variata di due condizioni, acciò che se non si può concedere in un modo si conceda in un altro. La qual grazia se ben si chiede da lui non è per lui ma per me. Si che quantunque paia eh’ io sia ambasciador suo, la verità si è eh’ egli è ambasciador mio, ma per mio istesso mezzo, che cosi ha voluto che si faccia. Non isdegni dunque V. E. di ascoltarmi, ma con quella solita flemma generosa che è proprio di lei. Perché se bene il proemio è stato lungo, il resto non sarà tale né si stenderà a proporzione di quello. Si deve ella ricordare eh’ io, insin da quei principi che tornato da Matera a Roma per riverirla e veduto eh’ ella non mi provvisionava secondo il passato eh’ era di quindici scudi il mese ma di soli dieci, mi feci inintendere con lei, per mezzo del Sig. Cardinale Orsino, che non avrei potuto in questo modo vivere se non con disagio, e con travagliosa parsimonia, eziandio aggiungendovi quel che ho del mio nella patria. Atteso che dove in mia patria mi bastava solo la propria entrata (benché picciola) per lo buon vivere che suole essere in Puglia, in casa di lei non m' era sofficiente 1’ entrata e la provvisione insieme per la dispendiosa stanza di Roma. E se ciò era vero in quelle buone stagioni di allora, può V. E. pensare che molto più vero sia adesso che tutti i vitti sono più incariti fuor di misura e intollerabilmente per uno che non sia ricco. Del che ella allora compatendomi, tentò di risarcirmi con farsi promettere sessanta scudi di pensione per me dal Sig. Cardinale Barberino. I quali, perché poi riuscirono in nulla, ella mi diede nuova intenzione di dover mettere i medesimi scudi sessanta sopra il vescovado di Vulpi. Ora io veggo che anco questo ripiego riesca per me infruttuoso a par dell’ altro, stante che il detto Vescovado ancor che sia promesso non si effettua , e non viene a luce. Onde io che, per la mia età già decrepita non conto più il mio tempo a lustri, né ad anni ma a mesi, ed a settimane, non son più abile a fare aspettazioni, non essendo poco l’averne fatta una lunga di sette anni, la quale veramente è stata la mia estrema ruina. Perché frattanto per la mia assenza da Matera le mie cose mi sono là tutte andate a male, e non riscoto un quattrino massimamente dal tempo in qua de’ tumulti del Regno, de’ cui danni è toccata anche a me una particella a propor- 166 GIORNALE LIGUSTICO zione della mia povertà. Ché i soldati del popolo mi tolsero cento tumula di grano, i quali s’ io avessi ora m’ importerebbono presso a 400 scudi, e potrei aiutarmene che non posso. A tutto questo ha pensato il sopradetto mio compagno ed ospite e vi ha immaginato rimedi, i quali con poco scomodo di V. E., o con nullo, si potrebbono porre in pratica. Uno è eh’ ella si contentasse di accrescermi due soli scudi il mese di piü, i quali io avrei più cari assai che se da altra parte n' avessi conseguito cinque o anco dieci, tanto stimo l’onoranza dell’ essere stipendiato da un Principe di Gallicano. Che alla fine ad un par di lei che è si grande d’ animo e di facoltà e che non ha successione di figli né altri eredi fuor che il fisco, pochissimo rileva la spesa di 24 scudi Γ anno di più o di meno. E potrebbe ella con questa bagatella tener contento il più cordial servidore eh’ abbia nel mondo, il quale oltre delle fedeltà né anco per altro è indegno affatto si come Ella ben professa di sapere. Oltre che egli dopo aver servito (ed in modo onorevole) il Duca di Parma, ed il Cardinale Borghese, si reca a grandissima gloria il vivere e morire in casa di lei e di lasciarle in sua morte i suoi scritti e i suoi libri. Potrei qui anco menzionare altro mio merito di’ io ho appresso lei, il quale se non è di debito è almeno di convenienza. Questo è che quando V. E. si parti da Napoli a tempo di Monterei, mi fece per tal sua partenza perdere il Governo di Aversa, del quale io avea già avuto il viglietto e stavo per averne d’ ora in ora la patente. Sciagura che mi levò di borsa tremila scudi almeno, i quali ad un par mio avrebbono sollevato la mia povera casa. Ma perchè V. E. nou ebbe in ciò colpa cagionativa, ma solo occasionale, io metto esser mio merito per nulla, ed assolvo lei da ogni debito domandandole da parte del mio prefato compagno questa meschina aggiunzione di due scudi per sola grazia e non con altro titolo. Se V. E. sarà servita di volermene consolare, si degni di scrivermelo, perché io ne sarò tanto contento che nor. mi curerò più né di pensione di Vulpi, né d’ altro rimedio che per me si potesse pigliare. Ma se ella per qualche suoi degni riguardi (1 quali io non voglio sapere) non potesse graziarmi di questo, il mio compagno le fa dimanda di nuovo minor d’ assai, cioè contentarsi eh’ io abiti in Matera con cinque suoi scudi di provvisione il mese, i quali mi avanzerei tutti perché là mi basta la mia sola rendita (come dissi) e la mia franchigia. Ma li spenderò in istampare in Lecce ed in Bari le mie opere che tutte saranno a lei dedicate. In ogni caso il servizio mio tanto a lei vale stando io in Roma quanto stando a Matera, mentre personalmente non la servo, ma solo col nome. Oltre che in Puglia non sarei sforzato a servir la principessa contro mia volontà, e GIORNALE LIGUSTICO 167 di V. E. medesima, la quale per una sua già me ’l vietò, ed io non posso totalmente osservare il divieto per non essere cacciato di casa. Mi faccia grazia di darmi sopra ciò risoluta risposta e pigli ogni cosa per lo suo verso. Ciò per parole d’ un suo fedelissimo servidore, il quale é necessitato a prender temperamento intorno ai fatti suoi se non vuol totalmente finir d’ esterminarsi e d’ andare in rovina. V. Al Sig. Principe di Gallicano, dando risposta alla lettera della polizza dei 60 scudi ed avvisando il tiro fattomi da Ronchino. Per la settimana passata io ricevetti una lettera di V. E. in risposta della mia, e per questa ne ricevo un’altra colla inclusa per lo Sig. Lupar-ducci e colla polizza di cambio per me. L' una ho recapitata e 1’ altra ho riscossa, se bene con assai difficoltà e con mezzi, mentre essa era fatta non a vista, ma ad uso. Sommamente La ringrazio della sovvenzione datami, la qual però ni’ ha trovato tanto ruinato e finito che poco tempo potrò goderne il ristoro, essendomi bisognato pagarne colla più parte alcuni debitucci già fatti, e poco restatomene da vivere. Con tutto ciò non mi piace che V. E. si scomodi tanto in mandandomi dinari costi. Perché· Ella per quanto io veggio può per 1’ avvenire aiutarmi in Roma medesima senza levarsi di mano un minimo quatrino di quelli eh’ esigge in Regno, già restando io ad avere perdute altre mesate cioè di agosto prossimo passato e d’ un’ altra che restò addietro quando la Sig.” Principessa cominciò a pagare la famiglia da principio che fu di dicembre. E dove in Roma non fusse altro ricapito (che pur vi sono i frutti del dinaro di Bracciano e di quelli di Rucellai, ed altri), Ronchino mantiene ora la stalla colle riscossioni eli’ ogni giorno vien facendo della vendita passata degli agnelli. E potrebbe far conto che V. E. avesse un cavallo di più e cosi somministrare insino alla liberazione di lei (la qual mi dice il Sig. Cardinale della Cueva essere vicina) alcun soccorso anche a me, il quale non sono men meritevole di compassione che si siano gli animali. Ma quanto egli non farà se prima V. E. non resta servita d" ordinarglielo per sua lettera in buona forma e con efficace comandamento. Atteso che io so in ciò quel che dico, mentr’ egli una volta che si pro-ferse di pagarmi, tentò di far con me quel che avea fatto con Lorenzo di Guardarobba, e con gli altri. Cioè di darmi doppie che calavano sette Giulij e cosi avanzarsi due scudi e più per decina. Usura non più caduta 168 GIORNALE LIGUSTICO (per mio credere) in niente umana. Io per necessità ne persi una e poi mi risolsi di scrivere a V. S. per aiuto come feci e ne sono per sua bontà stato consolato. Alla quale ho di lui voluto cennar questo, poco perché tocca al mio interesse, non per altro coni’ ella sa son persona da far simili ufficii. E per fine le fo umilmente riverenza. VI. Al Sig. Principe di Gallicano, sopra 1’ aver ricevuto la prima prosa e provasi a lungo non esser vero eh' io sia pagato sino a maggio del 46. Dopo aver io scritto e serrata la risposta da me fatta alla lettera Ar-cadiesca di V. E., la quale era senza data, me n’ è sopraggiunta un’altra del 29 di novembre mandatami da Monsignor Vulpio oggi che è sabato. Questa mi fa una domanda e mi dà due avvisi si che in tutto contien tre capi. A ciascuno risponderò. Alla dimanda (la quale è il voler V. E. da me sapere gli errori incorsi nella prosa finta e nel capitolo) dico che se bene io mi trovo aver soddisfatto anticipatamente nella già serrata lettera, qui aggiungo che alcuni fallucci o d’ ortografia o di durezza di versi, 0 di simili altre bagatelle si possono condonare alla bontà di che, per altro, il componimento è pieno nella parte prosaica e nella metrica, che nondimeno a suo tempo si conceranno tutti. All’uno de’ due avvisi (che è il volermi ella francar per l’innanzi le lettere e che già Γ ha incominciato a fare) rispondo che qui il ministro del procaccio ha cessata nel soprascritto la parola franca di porto e né più né meno mi fa pagare il che è una fraude. Onde converrà che V. E. procuri in Napoli che non s’ abbia a pagar due volte, ma una. 0 vero mentre la spesa non giova , non le franchi più, che in quanto a me la mia ruina non consiste nel pagamento di dieci scudi 0 di venticinque lire. Al secondo avviso (il quale è che la Sig. Principessa scrive d’ avermi pagato per tutto maggio prossimo passato) io son forzato di rispondere alquanto in lungo per pieno disinganno di V. E.. Il contradire ad essa signora sopra error di calcolo (per esser cosa che secondo i legisti non offende) si fa da me volontieri dove, in altra materia noi farei. Perché della casa di V. E. io riverisco insino gli scabelli, non che lei, che oltre 1’ esser moglie del mio padrone è anco gran Signora per sé stessa. Già in questo ultimo novembre sono (s1 io ben numero) finiti due anni che V. E. entrò in prigione. Iacinto mi pagò insino a tutto l’ottobre GIORNALE LIGUSTICO 169 del 1646 e me farà sempre fede egli medesimo. Ma la Signora, che dovea cominciare a pagar successivamente nel novembre seguente, cominciò nel dicembre, si che esso novembre mi restò non pagato né da Iacinto né da lei. Continuossi il pagamento per un mese del 46, che fu il detto dicembre e per tutto 1' anno seguente che fu il 47, e per due mesi del 48 che fu gennaio e febbraio. Ma detraendone uno per iscomputo del mese non pagato, io vengo ad esser soddisfatto per tutto gennaio. Si che i mesi di che V. E. m' era debitore quando mi mandò i 60 scudi erano sei, cioè febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno e luglio, se bene ella mi pagò d’ agosto. Devo io dunque avere per cinque altri mesi, cioè per agosto, per settembre, per ottobre, per novembre e per dicembre. Perciò di questi 50 scudi io supplico V. E. che mi sovvenga questo Natale per non farmelo fare asciutto. Nel modo c1 ho detto e non in àltro zuffa la verità del fatto e se ne può 1’ E. V. chiarire col farsi dalla Signora mandare le ricevute di mia mano, e contarle. Glie l'ho domandate da 4 mesi in qua io medesimo cento volte per poterle inviare a V. E. ed ella 1’ ha sempre promesso e mai non date. Mi vuole in questo modo levar 40 scudi, di che io non mi curerei per non disgustarla, se non fosse che sto in bisogno grandissimo ed in istato al quale pia si converrebbono grazie di donativi che defraudamenti di paghe. Che ciò sia vero 1’ altra volta eh' eravamo in Napoli a tempo di Monterei, e che V. E. era absente, essa Signora nel mio partir me per Matera mi dovea pagar per cinque mesi e non mi pagò se non per due, restandomi a dar per tre che a ragion di 15 scudi 1’ uno son 45 e me ne fece uno ordine al Sig. D. Tiberio Bucca ponendovi una clausola di mio danno cioè che ’l pagamento fusse finale. Di che lamentandomi io seco , ella rispose che pigliassi quello 0 nulla. Ma perché allora io non ero nella necessità che sono adesso e potevami aiutar del mio, pigliai quel eh’ ella mi diede e volsi più tosto restar colla perdita che scriverlo poi a V. E., come forse alcun altro avria fatto. Perché a me è sempre parato vile ufficio il cagionare in qualsivoglia modo disgusto 0 discordia tra marito e moglie. Si che ora a rigor di ragione io ho da avere da V. E. 45 altri scudi, i quali aggiunti ai $0 d’adesso fanno la somma di 95. Atteso du- né allora né ora io fui mai servitore della Sig. Principessa ma di V. E., da lei e non da altri mi si deve supplire dove mi sia stato mancato. Io non parlo poi dell'avermi V. E. dopo alcuni anni richiamato di nuovo al servizio ed avermi dato per sei anni continovi non i 15 scudi di prima ma solo dieci. Cosa la quale s’ io avessi potuto antivedere non mi sarei partito di Matera, non tornandomi lasciar le mie cose GIORNALE LIGUSTICO per si poco avanzo. Aia perché ho conosciuto benissimo eh’ ella ha sempre avuto intenzione d’ aiutarmi, si come mostrò quando senza mia richiesta domandò a Barberino 60 scudi di pensione per me ed appresso, vedendo che 1’ eftetto della promessa non era riuscito, mi diede intenzione nuova di farla sopra il Vescovado di Vulpio. Né meno parlo dell’ avermi V. E. colla sua partenza di Napoli fatto perdere il Governo d’Aversa del quale avevo già avuto il viglietto e stavo per avere di ora in ora la patente. Perché di questo ella non ebbe colpa cagionativa ma solo occasionale, se bene è anco vero che poi in Roma nella tornata eh’ io feci al servigio ella avrebbe in qualche parte potuto risarcirmi col farmi qual-qualche volta grazia d’ alcun de’ governi del suo stato, il quale io avrei venduto a qualche luogotenente e cavatene un poco d’ utile, come ho veduto fare agli altri. Insomma per conclusione io mi contento di tutto quello che V. E. farà, e se ho parlato troppo arditamente non ho detto parole mie ma dettatemi dalla miseria in che mi trovo, come mi scusai un’ altra volta con seco. VII. Al Sig. Principe di Gallicano, sopra la terza Prosa, pregalo che la verità delle ricevute non si chiarisca per adesso. In risposta alla gratissima di V. E. degli 8 dicembre dico che ho letto la terza prosa e terzi versi della Nuova Arcadia. La prosa è dilettevole assai per gli strani accidenti di Silvano, ne’ quali mi pare adorare non so che di verità allegorica, ma non distinguer quale. I versi poi di Tirsi e di Carino che sono i terzi, sono migliori che i primi e che 1 secondi. Insomma insino ad ora caminano bene, ma io desidero tuttavia d’ aver qualche informazione di tutto il fingimento dell’ opera. Quanto a quello che V. E. mi scrive del mio conto delle mesate 10 torno a dirle che del tempo che ha amministrato Jacinto io sono in tutto soddisfatto, fuor che d’un solo mese che è il novembre del 46· L’ importanza sta nel tempo che ha maneggiato la Signora Principessa. Dalla Signora io son soddisfatto per tutto il 47 e per gennaio e febbraro del 48. Restano d’ esso anno 10 mesi, ai quali aggiungendo il detto novembre di Jacinto sono undici. Degli undici me n’ ha V. E. pagati sei. Restano dunque da pagarsene cinque e di questi io son creditore e questi domando. Ma perché all’ incontro veggo che la Signora nel conto mandato a V. E. scrive nella mia partita del 48 eh’ io sia pagato per tutto maggio e con mie ricevute di tutti, tutto il punto del discifrar la verità I7I consiste in una sola cosa. Cioè cb’ esse mie ricevute si mostrino, o a V. H. o a Jacinto, o a me. Ma come si potrà mai mostrare quel che non fu mai fatto? Adunque se essa Signora sarà richiesta o da me, o da Jacinto o da V. E. a far tale imposaibil mostra si piglierà collera, e non potendosi risentire contro V. E. si risentirà con noi. Jacinto, per quanto ni’ ha egli detto, ha paura di farle questa domanda, ma io Γ ho assai maggiore. Perché dove egli già stato cacciato di casa con tutti gli altri, solo io son quello che resto ancora da cacciare. Il che in niuna maniera vorrei perché ciò sarebbe 1’ ultimo compimento della mia ruina. Ché dove adesso in tanti miei bisogni io ho almeno franca la stanza , e i mobili, se questi mi si levassero non potrei più stare in Roma, ma sarei necessitato a venirmene a Napoli. Perciò non è bene che Γ esibizione d’ esse mie imaginarie ricevute sia richieduta per ora né da Jacinto, né da me, né meno da V. E. istessa, ma riserbarlo ad altro tempo. Atteso che questa ritenzione a me fatta di paghe non si può più onestar col vocabolo d’ error di calcolo, mentre essa Signora si trova aver già scritto eh’ io del tutto abbia fatto le ricevute. Si fatte prove si faranno poi da me con più ardire quando V. E. sarà libera e che io, spalleggiato dalla sua ombra, non abbia paura. Al presente il tempo non è a proposito. Desidero francamente che V. E. sia servita di darmi i detti cinquanta scudi senza dilazione, acciò che io possa sostentarmi e tirare innanzi. Poi che in ogni modo venti ne sono già indubitati, secondo qualsivoglia lettera, e trenta ne restano in disputa , i quali mi si possono dare come a buon conto, eh’ io le prometto eh’ ella troverà eh’ io son uomo da bene interamente. Quanto all’ altre mesate che Γ altra volta restavano indietro in Napoli, io giuro a V. E. per 1’ amor che le porto (ché maggiormente non potrei fare umanamente parlando) eh’ io nella mia lettera notificai a lei quelle quasi impensatamente c non me ne accorgendo. Perché sopraggiunto dall’ improvvisa occasione che allora allora me ’l suggerì, lo dissi per esemplificare il poco dominio che l’interesse ha sopra di me quando io mi posso aiutar col mio. Ma poi che pur detto si è e che già V. E. lo sa, non possiamo più far di meno, io di non gli pretendere, ed ella di non gli dare, stante il reciproco dovere di tutte due le bande. Mi contento (questo si) che ciò si faccia a tempo più commodo per V. E. se bene più scommodo per me. Finisco la mia prosa per fin della quale fo a V. E. umilissima riverenza. Di Roma, 19 dicembre 1648. GIORNALE LIGUSTICO Vili. Al Sig. Prìncipe di Gallicano. Gli affetti, quando sono intensi, meglio si sentono nell’ animo che non s esprimano colla lingua, o colla penna. Perciò 1' allegrezza eh’ io ho conceputa, in udir dal Luparducci 1’ avviso della liberazione di V. E., quanto è maggiore tanto è più muta. Dunque non aspetti Ella da me in questo foglio diffusa congratulazione, perché io le scrivo non per esplicare il mio giubilo ma solo per dirle eh’ esso è inesplicabile , sperando che più sarò da Lei inteso col silenzio che non sarei colle parole. E per fine. IX. Al Sig. Principe di Gallicano. Ho letto due volte il Setaccio. Trovolo non poco eloquente ed arguto, oltre il presupporvi per dentro gran dottrina astrologica, e dico presupporvi perché, se bene non so 1’ arte, mi par d’odorarvi un certo che di recondito e di bizzarro. Anzi credo eh’esso sarà per piacere grandemente non solo a quegli interessati, a favor de’ quali è composto, ma in genere ad ogni altra sorte di persone per lo grand’ odio in che Osmur da sé medesimo si mette colle sue tante e si arroganti giattanze. Vero è che ’l povero Setaccio è assassinato dalla stampa (che con altro vocabolo non saprei come meglio dirlo) ma a ciò sarà facile rimedio il ristamparlo in Roma. Nel qual caso non pure si correggeranno gli errorij impressorij, ma gli si farà qualche miglioramenta in materia di lingua se bisognerà, pur che V. E. lo comandi, o almeno lo permetta, perché una delle due cose a me basterebbe. Col qual fine le fo umilissima riverenza. X. Al Sig. Principe di Gallicano, sopra la quarta prosa. Per 1’ altro Procaccio io feci a V. S. un altro poco di diceria sopra le mie supposite paghe ed aeree ricevute. Siano state quelle mie parole Γ ultime in questa materia e non se ne parli più per adesso a fin di non noiar lei. Ora ricevo la gratissima di V. E. del 15 d’ottobre insieme GIORNALE LIGUSTICO m colla quarta prosa e quarta canzone. E perché in fin della lettera ella conclude che vorrebbe esser da me avvertita apertamente e non per via di cenni, le dico che gli avvertimenti miei avrebbono non veramente a discorrere ma a cennare, stante che si parla con padrone che sa. Nulla-dimeno io giudico esser giusto che il servitore serva non nella maniera usitata dagli altri, ma in quella eh’ aggrada al servito. Onde ragionerò alquanto più chiaro non perché non conosca il debito de’ miei ufficii, ma perché conosco che ’l principal debito ed il maggiore è 1' ubbidienza. Dirò prima della lettera e poi della quarta prosa e quarti versi. Le cose che V. E. discorre per soddisfare all’ averle io domandato qualche luce dell’ universale innanti che vedessi i particolari mi piacciono tutte, si come confacenti alla mia opinioni. E veggo eh’ ella connette essi particolari colla comessione di quell1 obligo largo eh’ io additai senza dichiararlo, presupponendo ch’ella il sapesse, si come poi trovo eh’ effettivamente il sa, mentre 1’ esemplifica colla collana che è un tutto di particolari aggregati e non coll’ animale eh’ è un tutto di particolari integrali. Il qual largo obligo non ha (secondo Aristotele) altro glutino da attaccar le cose disgiunte che quello del luogo, del tempo e della persona, perchè unisce non per via d‘ integrità, ma par via d’ aggregazione o locale, o temporale, o personale. Vero è si bene che quando le cose nascono successivamente l’una dall’ altra per loro natura (si che non potrebbe quel che per sé è primo porsi in secondo luogo, né quel eh’ è secondo in terzo e via discorrendo) appartengono non al detto obbligo largo ma allo stretto. Perché si come (10) Die IViederhelcbung der griechischen Literatur in Italien, Lipsia, 18 5 (11) L’ héllénisme en France, Parigi, 1872. (12) Σχεδίασμα περί τής έν τω Έλληνικψ εθνει καταστάσεως τ~ γραμμάτων άπώ άλώσεως Κωνσταντινουπόλεως μέχρι των αρχών ής ένεστώσης (I θ’) έκατονταετηρίδος, Costantinopoli, Coromila, 1Η67· (13) Νεοελληνική φιλολογία, Atene, 1868-7°· ^'· Demetracopoulo , Προσθ-ήκαι καί διορθώσεις εις την Νεοελλ. φιλολ. Κ. Σάθα, Lipsia, Metzger , 1871. (ΐ4ΐ Ελλήνων όρθ-οδόξων αποικία έν Βενετί?, Venezia, 1872. (15) Graecia Ortodoxa, Lipsia, List und Francke, 1872. (16) Beitràge zur Geschichte der classichen studi en im Mittelalter, nelle Sit yjingsberichte della R. Accad. di Baviera, classe filosofica filologica, del 1873. (17) Aide Manuce et I’hellénisme à Venise, Parigi, Didot, 1875. (18) L’ ellenismo nello studio di Padova, Padova, Randi, 1876. (19) Della vita e delle opere di Antonio Urceo detto Codro, Bologna, Fava e Garagnani, 1878. 243 los (i), Gidel (2), Legrand (3), Tougard (4), Eckstein (5); eppoi tutti gli studiosi in genere dell’età della Rinascenza: Charpentier (6), Zeller (7), Geiger (8), Symonds (9), Burckhardt ( io),Invtrnizzi (11), Voigt (12),Muntz (13), Gaspary(i4), e cento altri che sarebbe troppo facile, ma inutile rammentare. Tuttavia giace ancora nelle biblioteche e, sovratutto, negli archivi un ricco materiale inedito e sconosciuto che non viene alla luce che a poco a poco, in seguito a diligenti e pazienti, molto pazienti, ricerche, sicché, tratto tratto, il lavoro fin allora più compiuto, la biografia meglio fatta, la sintesi più geniale e profonda, ha d’uopo di essere ripresa (1) Histoire de la civilisation hellénique, Parigi, Hachette, 1878. (2) Les études grecques en Europe depuis le IV siecle après J.-C. jusqu'à la chute de Costantmoples, ne’ suoi Nouvelles études sur la littérature grecque moderne, Paiigi, Maisonneuve, 1878, (x) Bibliographie hellénique ou description raisonnée de ouvrages publiés en grec par des Grecs au XV et XVI siècles, Parigi, Leroux, 1885. (4) L' hillénisme dans les écrivains du moyen âge, du VII au XII siècle, Parigi, Lecofl're, 1886. (5) Lateinischer und griechischer Unterricht, Lipsia, Reisland, 1887. (6) Histoire de la Renaissance des lettres en Europe au XV siècle, Parigi, Maire-Nyon, 1843. (7) Italie et Renaissance, Parigi, Didier, 1869. (81 Renaissance und Humanismus in Italien und Deutchland, Lipsia, 1872 (versione italiana nella Storia Universale dell’ Oncken). (9) The R naissance in Italy, Londra, 1875-77. (10) Die Cultur der Renaissance in Italien, 3.* ed., Lipsia, 1877-78 (una versione italiana della 1.· ed. e una francese della 2.*). (11) Il Risorgimento, Milano, Vallardi, 1878. (12) Die IViederbelebung des classichen Alterihums oder das erste Iahrliun-dert des Humanismus, 2.* ed., Berlino, 1880-81 (trad. it. del Vaibusa). (13) La Renaissance en Italie et en France ά l’époque de Charles VIII, Parigi, Didot, 1085. (14) Die Italienischen Literatur der Renaissance \eit, Berlino, Oppenheim, 1888. 244 GIORNALE LIGUSTICO ad esame ed in gran parte rifatta o per le molte inesattezze ed errori o per le troppe deficienze. Oggetto del presente lavoro é di raccogliere le notizie biografiche di uno di quei Greci venuti in Italia nel secolo XV, eh ebbero tanta parte nella vita letteraria italiana e nella storia della civiltà europea del tempo loro. Abbiamo cercato di rendere il nostro lavoro pel momento il più compiuto possibile, non solo utilizzando tutto il materiale edito, disperso o trascurato e vagliando le asserzioni anche de migliori scrittori col confronto degli uni cogli altri, ma ancora portando un contributo non ispregevole, parci , di documenti inediti milanesi. Non ci proponemmo di trattare dell opera intera del Calcondila, che ci avrebbe costretti talvolta ad uscir troppo dall5orbita de’ nostri studi, ma di rifarne soltanto la biografia; donde il titolo stesso del nostro scritto. Questo riuscirà forse, anche per questo lato soltanto, inferiore a’ desideri nostri ed al bisogno degli studiosi , ma possiamo dire che abbiamo cercato con tutta coscienza di non trascurar nulla per riuscir meno male, animati dall’ amore del nostro tema e dall’ ideale di questi studi di storia letteraria, impiccioliti forse dalla gretta esagerazione di alcuni, ma pur sempre gloria della presente generazione italiana. GIORNALE LIGUSTICO 2'ÌS CAPO PRIMO. Il Calcondila prima del suo secondo soggiorno in Padova. I. Tra le convulsioni spasmodiche in cui si dibatte la Grecia dell’ età di mezzo, agonizzante sotto i colpi replicati de’ Franchi e degli Osmanli e straziata dalle discordie intestine non mai ben quete dai tempi classici all’eroica lotta per F indipendenza, appare nella storia dell’antica città dell’iddia Atena il nome di una famiglia animata ancora dal sacro ideale della patria e dell’arte. La chiesa dei Tariarchi nel portico de 1 Ginnasio di Adriano era innalzata o, almeno , restaurata per opera di un Michele Calcondila (i), ed un (ι) Il nome di questa famiglia appare scritto con molta varietà: nei documenti troviamo le forme intiere Χαλκοκανδήλης, Χαλκοκανδύλης , Χαλκοκονδήλη ς, Χαλκοκονδύλης, e le contratte Χαλκόδυλος, Χαλκόδηλος e Χχλκονδόλης, la qual ultima prevalse, sebbene fossero più esatte le d ue prime intere. Non solo il patriota è detto Χαλκοκονδύλης, ma Michele Apostolios, che, come vedremo, ebbe una fiera polemica coll' Lima nista Demotrio, in una diatriba contro di lui, pubblicata da G. K. Hyperide, Μιχαήλου Άποίΐόλη πονήματα τρία, ρ. 43, Smirne, 1876, cosi 246 GIORNALE LIGUSTICO altro Calcondila, che fu arconte in Atene, prigione di Murad II ed esule a Costantinopoli, tenne a lungo la direzione del partito nazionale nella sua città al tempo del duca Antonio Acciaiuoli e della sua vedova , colla quale sembra tosse unito da stretta parentela (1). E figlio di questo Cai-condila fu lo storico De origine et rebus Tureorum, Laonico, del quale prossimo parente, e forse a dirittura fratello — e figlio quindi del patriota — P umanista Demetrio (2). Se apriamo qualcuno dei più insigni critici e letterati del Quattrocento o del Cinquecento, troviamo molte lodi di Demetrio Calcondila, salutato de’ principali ristoratori del- 1 ellenismo in Italia. Senza parlare di Giano Parrasio, che, avendone poscia sposata una figlia, può sembrare ed essere scherza poco urbanamente su quel nome : Ουδ’ αυτός αν αίσχυνδείην, γρομφίδος οίέ, μή κανδύλην σβέσας χαλκην, άλλ’ ύέλινον καί σαθ·ράν, την μέν θ-ροαλλίδα παχείαν, τό φως ολίγον καί ToSXatov έχουσαν. Sappiamo poi da un documento esistente nella Laurenziana , Pluteo XXXI, cod. 28 (Cifr. Bandini, Cat. cedd. Grate, bibl. Laurent, t. II , col. 103) che nel 1466 Demetrio firmava Χαλκοκανδύλης, e Χαλκοκονδύλης troviamo ancora in una sua lettera del 5 maggio 1492, di cui parleremo più innanzi. Per contro, il codice parigino n. 2783 dell’antico fondo greco ed i libri a stampa dànno sempre Καλκονδύλης ο Χαλκόνδυλος come appunto il citato codice parigino. (1) Gregorovius, Geschichte der Stadt Athen im Mittelalter, t. II, pp. 3 '8» 321, 418, Stuttgart, 1889. Cfr. anche Laonico Chalcondyla , De rebus turcicis, 1. VI, p. 320, e Finlay, History of Greece ecc., t. IV , p. 162, Oxford, 1877. (2) Antonio Kalosynas, calligrafo e medico cretese del secolo XVI, in una biografia greca, per altro assai magra , di Laonico e Demetrio Calcondila, li afferma recisamente fratelli. La biografia del Kalosynas , pubblicata dall’HoPF, Crhoniques gréco-romanes, pp. 243 e segg., Berlino, Weidniann, 1873, è cosi riboccante di errori che non può non nascere qualche dubbio, sebbene la cosa sembri probabile anche per un’altra ragione, di cui Ira poco, in altra nota. GIORNALE LIGUSTICO testimonio sospetto (i), Paolo Giovio tesse di lui amplissimo elogio (2), Raffaele Volaterrano lo ricorda come insegnante « magna nominis ac famae celebritate » (3), Lilio Gregorio Giraldi lo dice « virum profecto in interpretandis auctoribus celeberrimum » (4), Marsilio Ficino « disputatorem argutis-simum » (5), e Pietro Alcionio « Atticae eloquentiae, sua memoria, facile principem » (6). Altri encomii sono dati a lui dal Campano (7), da Bernardo Nerli (8), da Giovanni Reuchlin (9), da Giovanni Manardo (10), da Pierio Valeriano (11), e vedremo via via in qual conto lo tenessero Lorenzo De’ Medici e Lodovico il Moro, il cardinal Bessa- (1) De rebus per epistolas quaesitis, syll. IV, Parisiis, MDXL : « Suffragatur huic opinioni Demetrius Chalcocondyles, ut Atheniensis et Graecus, homo doctissimus, et quem Gazae discipulum studiorumque successorem possis agnoscere ». Cfr. Cataldo Jannelli, De vita ct scriptis Auli Jani Parrhasii, Napoli, 1844. (2) Elogia doctorum virorum, c. 29 , p. 20, Venetiis, apud Michaelem Tramezinum, MDXLVI. (3) Commentariorum Urbanorum, 1. XXI (Anthropologia), p. 642 : « Ex discipulis reliquit Theodorus Gaza Demetrium, qui hodie praecipit Mediolani magna nominis ac famae celebritate » (ed. Lugduni , apud Seba-stianum Gryphium, MDL1I). (4) Dialogus de poetis suorum temporum, in Opera, t. II, p. 550. (5) Theologia platonica, VI, 1, in Opera, p. 157, Basileae, Ex officina Henricpetrina, MDLXXVI. (6) Medices legatus, sive de exilio, Venetiis, MDXXIL (7) Opera omnia: Epist, 1, II, 9 e 10, f. 11-12, Venetiis, per Bernar-dinum Vercellensem, MCCCCC1I. (8) Praefatio ad Homerum, nell' edizione che di Omero fece il Calcondila stesso, Florentiae, MCCCCLXXXVII1. (9) Rudimenta hebraica , 1. Ili, p. 547-548 , Phorce , in aedibus Tho. Anshelmi, MDVI. (10) Epistol. medicinales, Venetiis, apud Petrum Schoeffer, MDXL1I. (11) De infelicitate litteratorum, 1. II, p. 335, ed Mencken. — Veggasi pure Guazzo, Cronica, f. 334 r.°. In Venetia, appresso Francesco Bindoni, MDLIII. GIORNALE LIGUSTICO rione e papa Leone X, Angelo Poliziano e Giovan Giorgio 1 rissino, principi, pontefici, poeti, i più dotti, i più insigni, i più arguti del tempo loro. E fin parecchi anni dopo la morte di lui, il Trissino per l’appunto, con memore pietà di discepolo amantissimo, gli fece porre nella Chiesa di S. Maria della Passione, ove fu sepolto, Γ epitaffio : P. M. Demetrio Chalcondylae Atheniensi In Stvdiis Litterarvm Graecarvm Eminentissimo Qvi Vixit ANNOS LXXXVII. MeNS. V. Et obiit anno Chkisti mdxi Ioannes Georgivs Trissinvs Gasp. Filivs Praeceptori Optimo Sanctissimo Posvit. (i). Nacque Demetrio Calcondila in Costantinopoli nell’ agosto dell anno 1423, ma sembra che in Atene conducesse la miglior parte di sua giovinezza (2). L’antica città di Pericle, di (1) Argelati, Bibliotheca Scriptorum Mediolanensium, t. II, parte II, p. 2091, Mediolani, in aedibus palatinis, 1745; Castelli, Vita di Giovan Giorgio Trissino, p. 5, Venezia, Radici, 1753; Calvi, Biblioteca e storia degli scrittori vicentini, III, p. 232, Vicenza, 1775; Legrand, Op. cit., t. I, p. 100 ; Morsolin, Gian Giorgio Trissino 0 monografia di un letterato del secolo XVI, p. 54-55, Vicenza, Burato, 1878. (2) La data della nascita si deduce da quella della morte nell’iscrizione ora riferita. (Vedi l’opuscolo del Badini, Giorgio Merula e Demetrio Calcondila, p. 7, n. 3, Torino, « La Letteratura λ, 1887, cfrtata colla determinazione più precisa del Motta, Morti in Milano dal 74/2 al i}i2, in Arch. Stor. Lomb., s. II, t. VIII, p. 268-269: 9 gennaio 1511). — Rispetto al luogo, fu detto e ripetuto ancora dal Sathas , Op. cit., p. 63. che Demetrio nacque in Atene e non in Costantinopoli, come aveva detto qualche vecchio scrittore, per es. il Boissard, Op. cit., p. 160. Argomento GIORNALE LIGUSTICO 249 Demostene, di Fidia, cadeva in isfacelo : i monumenti rovinavano, convertiti in fortezze ed esposti a tutti i pericoli delle militari difese; le colonne e le statue erano prostrate al suolo o adoperate anch’ esse come materiale di difesa e di offesa nelle lotte intestine ; queste , c la miseria che ne proveniva, laceravano o disperdevano la cittadinanza dolorante. Pure gran parte del superbo Partenone si ergeva ancora , e gli avanzi, le rovine stesse degli antichi edifizi , il cielo di Atene, il mare del Pireo, 1’ ambiente tutto, spiravano sempre la dolcezza dell’ arte, ed i Greci là ed a Costantinopoli si sentivano ancora, di fronte alla conquista franca ed all’ incalzare, al premere, al sovrastare de’ Turchi, tra il pettegolume teologico della corte e le rivalità de’ principotti feudali, i discendenti de’ vincitori di Maratona e di Salamina, o, meglio, di quei cantori, parlatori , pensatori immortali , che furono Omero ed.Eschilo, Aristofane e Menandro, Pericle e Demostene,, Socrate e Platone, Aristotile ed Epicuro. Ed essi chiamavano .sempre « barbari » .gli stranieri, e la civiltà loro passata, prima di emigrare per sempre, dalle dolci spiagge, dell’ Egeo, dalla terra bagnata dalle lacrime di Saffo ed incantate dalla cetra di Orfeo, gettava ancora, come il principale del Bof.rner, Op. cit., p. 181 ; del Legrand , t. I, p. 94, etc. era che il Nerli ed il Campano, li. cc., lo dicono « Atheniensis». Egli però si disse sempre « Costantinopolitanus », e, se‘è'vero che fosse figlio del patriota (il die riceverebbe nuova conferma appunto iialla nascita in Costantinopoli), si ha una forte ragione per inclinare a quest’ultimo luogo di nascita, giacché sappiamo che quegli fu, dopo la sua fuga di prigione, alcun tempo esule a Bizanzio (Gregorovius , 1. c.). Badisi poi al modo in cui era intesa la «patria» in Italia nel secolo XV, cioè come il luogo d'origine, non di nascita casuale (Cfr. Gabotto, Gias»n del Maino e gli scandali universitari nel Quattrocento, p. 20-2r, Torino, « La Letteratura », 1888). — Che vivesse poi Demetrio in Atene si deduce e dal perdono concesso pili tardi da Murad lì a suo padre e dall'affermazione del Campano che venisse direttamente da Atene a Roma. GIORNALE LIGUSTICO sole al tramonto, Γ ultimo raggio di luce vivida in una ricca letteratura storica e religiosa, (i) Nulla di più naturale che il patriota fosse padre dello storico e dell’ umanista : in Grecia patria e poesia furono Muse sorelle. Né la natura provvida, nè Γ eterna legge dell’ universale progresso e dell’ umano incivilimento era stata avara ai Greci di una stella cortese che additasse loro il cammino fra la tenebra imminente. Un nuovo orizzonte, largo e sereno , s’apriva loro dinnanzi : di là del Jonio e dell’ Adriatico appariva bella e fulgida la stella salvatrice. Era 1’ Italia del Quattrocento, ridesta dal genio di Dante, dall’ erudizione viva del Petrarca, dall’entusiasmo fecondo del Boccaccio, del Bracciolini, del Valla, di tutta la lunga schiera de’ nostri grandi umanisti rinnovatori dell’antica cultura romana. A quella volta , da Barlaamo e da Leonzio Pilato, era cominciato 1’ esodo de’ Greci, e vi accorreano a mezzo il secolo XV il Bessarione, il Gaza, l’Argiropuio, Gemisto Pletone, Michele Apostolio, Andronico Callisto e, fra tanti, anche Demetrio Calcondila. IL Era l’anno 1447 (2), e saliva appunto allora sulla cattedra pontificia col nome di papa Nicolò V un umanista di pro- (1) Gregorovius, 1. c., Cfr. pure Laborde , Athènes au XV, XVI et XVII siècles, Parigi 1854. (2) Il Campano in una delle lettere citate scrive del Calcondila « Soluni iam hunc triennium migravit in Italiam ». Ora perché in queste lettere stesse, che sono consecutive, il Campano, che si sa nato nei 1427, dice che aveva allora 23 anni; « tres enim et viginti annos natus sum », esse sono del 1450 e la venuta di Demetrio in Italia risale al 1447. GIORNALE LIGUSTICO 251 fessione, Tommaso Parentuccelli da Sarzana (1), uomo schietto, liberale, « aperto », « largo », dottissimo, verso il quale », scrive il buon libraio Vespasiano da Bisticci (2), « grande obligo hanno tutti i letterati per lo favore che ha dato loro e per avere data tanta riputazione a’ libri e a tutti gli scrittori ». Recatosi direttamente da Atene a Roma (3), il giovane Calcondila veniva dunque in un ambiente favorevolissimo , tanto più che appresso al pontefice mecenate era tutta una schiera di dotti uomini, Latini e Greci, fra i quali primeggiava per coltura propria e favore alle lettere il cardinal Bessarione, vescovo di Nicea (4). Intorno al Bessarione era un’ altra corte non meno eletta di quella del papa, e ne frequentavano la casa il Valla, Poggio ed il Gaza, col qual ultimo Demetrio entrò subito in istretta relazione. 11 Calcondila, venendo di Grecia in Italia, non conosceva nulla o ben poco di latino e d’italiano, mentre, almeno dal 1429, già vi dimorava e v’insegnava Teodoro (5). Demetrio si fece dunque scolaro del Gaza (6), e da lui sembra fosse introdotto appunto presso il Bessarione (7). Il (1) Sforza, La patria, la famiglia e la ginvinejja di Nicolò V, Lucca, Giusti, 188 4.. (2) Vite, di uomini illustri del secolo XV: Nicolò V, c. 8, p. 27, ed. Bartoli, Firenze, Barbèra, 1859. Non abbiamo ancora potuto procurarci il primo volume della nuova edizione del Frati. (3) Campano, /. c.. (4) Vast, Le Cardinal Bessarion, Parigi, Hachette, 1878. (5) Legrand, Op. cit., t. I, pp. 30 e segg.. (61 Volaterrano e Parrasio, 11. cc . (7) Gaza, Epist. ad Demetrium (Chalc.), in Boissonade, Anecdota graeca, t. V, pp. 408 e segg., Parigi, 1833. Che queste lettere siano dirette al Calcondila, sebbene nessuno se ne sia finora accorto, comprova la concordanza colla notizia del Campano sul primo soggiorno padovano dell’ellenista, per la prima; per la seconda, la rispondenza di contenuto con lettere certamente del Calcondila (quelle edite dal Noiret), come apparirà meglio più innanzi. 252 GIORNALE LIGUSTICO Vast (1), confondendo tempi e cose, vuole che fin d’allora il Calcondila contraesse amichevole relazione con Nicolò Perotto da Sassoferrato, insigne umanista del secolo decimo-quinto, del quale ci occorrerà altrove discorrere con qualche larghezza (2), e che il Perotto gli ottenesse dal Bessarione un ricco beneficio a Perugia; ma nel 1447 l’ellenista marchigiano era ancora a Ferrara alla scuola di Guarino Veronese ed al servizio di Guglielmo Gray, vescovo di Ely in Inghilterra (3). Chi piuttosto avrebbe giovato molto al Calcondila nel primo periodo della sua vita in Italia, sarebbe stato a dirittura lo stesso pontefice Nicolò V, che gli avrebbe commesse alcune versioni di greco in latino e ricompensate poscia colla consueta larghezza, se a lui, e non a qualche altro Demetrio, si dovesse riferire un passo molto conosciuto di Enea Silvio Piccolomini, il futuro papa Pio II (4). Ma che qui si tratti del nostro è cosa più che dubbia: troppi altri Demetrii greci appaiono in Italia a quel tempo (5). Vedremo fra poco come il giovane Ateniese iniziasse rapporti con Michele Apostolios, poi suo acerbo nemico, scri- (1) Op. cit., pag. 308. (2) Nella nostra Vita di Giorgio Mirala. (3) Vespasiano Da Bisticci, Vite : Vescovo Sipontino, p. 210, e Vescovo di Ely, p. 214. (4) De Europa, c. 58, in Opera, p. 459, Basileae, Ex officina Henricpe-trina, MDLXXI ; « Acceptissimi ei Nicolao V » fuerunt in trasferendis operibus Georgius Trapezutitius, Laurentius Valla, Petrus Candidus December, Georgius Castellanus, ikm Demetrius natione Graecus, qui, soluta oratione utentes, cum pontificis aures mirifice oblectarent, nihil ex eo quod peterent non abstulerunt». (5) Per es. un Demetrio, che certo non è il Calcondila , é ricordato più volte ne’ documenti editi dai signori Müntz et Fabre, La Bibliothèque, du Vatican au X siècle, Parigi, Thorin, 1887; però anche nell’indice di questo libro il Demetrio Greco del passo di Pio II é distinto dall’altro, custode della biblioteca pontiiicia. GIORNALE LIGUSTICO vendogli una lettera tutta garbata ed encomiastica ; vedremo ancora come sapesse destramente insinuarsi nelle grazie del Campano, mercè quello che nel Quattrocento era talento indispensabile, il fine ed arguto spirito di adulazione delicata e sottile. Pure nel cara'tere del Calcondila doveva essere in quella sua età giovanile qualcosa di ruvido e di agreste , qualche asprezza e qualche angolosità che il tempo fece poi mirabilmente scomparire. Facile ai sospetti, era pure Facile ai litigi, né sempre in questi portava la dovuta moderazione , ma precipitando subito alle ultime estremità, garriva con fidi amici e spiaceva ad incliti protettori. Fu co i che disgustò il Bessarione, già freddo verso il miglior amico di Demetrio, Teodoro Gaza, per cagione della polemica filosofica tra platonici e aristotelici, sebbene di quel peripatetico moderato il gentile academico avesse stima non piccola e sapesse distinguerlo molto bene dall’ intemperante, violento, maligno Giorgio da Trebisonda (i). Che cosa succedesse allora non ben sappiamo tra gli scarsi ed oscuri documenti che ci rimangono : il Gaza appunto, in una sua lettera al Calcondila, parla di un’ altra lettera violentissima ed ingiuriosissima, che questi avrebbe scritta al cardinale, dopo riuscite infruttuose tutte le laudatorie prima inviate (2), e ci fa sapere come Demetrio fosse a quei tempi a Ferrara, a Padova, a Milano, sempre cercando, e sempre invano, una tavola di salvezza a cui appigliarsi in quel pauroso naufragio dal quale si vedeva minacciato (3). Certo tra il 1449 ed il 1450 la vita del giovane Ateniese, venuto forse con tante speranze in Italia, (1) Boivin, in Mémoires de littérature de Γ Académie des Inscriptions, t. II. p. 775 791. (2) Forse a questo medesimo scopo Demetrio aveva incominciato allora a spacciarsi come « ex recentiore Academia » e « Platonis atque Academie acerrimus aemulator ». Campano. Le.. (3) Gaza, Epist. ad Dem. Chalc., I. c. GIORNALE LIGUSTICO fu delle più travagliate ed angosciose : se a Milano conoscesse fin d allora Francesco Filelfo, eli’era gii in relazione con • o un altro Demetrio, il Castreno (i), non possian dire; a Ferrara ebbe buone parole ed un affettuoso abbraccio dal Gaza, che scrisse poi inoltre all’ Aurispa, noto umanista siciliano di quel tempo, « dicendo di lui tutto ciò che conveniva per raccomandarlo e farlo ben volere » (2), ma anche stavolta l’effetto non corrispose all’aspettazione. Solo a Perugia ebbe fortuna migliore, chè, entrato in relazione con Giovan Antonio Campano, seppe cosi bene ingraziarglisi da diventarne maestro ed amico. Il Campano ne fu davvero entusiasta e, tutto gonfio delle lodi che ne riceveva, pur dubitando « se lodasse per adulazione, gran vizio di Grecia, o veramente di cuore », lietamente scriveva: « Venne qui un tal Greco, di cui non ti scriverei quanto sia addentro nelle lettere greche e latine e quanto gentile e saggio, se non sperassi che tu ne sentissi assai presto parlare anche da altri. Egli ha preso ad ammaestrarmi con grande diligenza ed amore, ed io mi diletto di averlo a maestro, sovratutto perchè è Greco, perchè è Ateniese, perché possiede quel sapere, quei costumi, quell’ insigne eleganza che si narra fosse ne’ (1) Una lettera greca del Castreno al Filelfo nell’Archivio di Stato di Milano: Autografi: Calcondila. Che sia del Castreno appare da altre lettere di questo datate pure da Urbino e dirette allo stesso Filelfo. Cfr. Klette, Beitràge \ur Geschichte der italienischen Gehrhten-Renaissance, t. Ili, Greifswald, 1890. (2) Gaza, Ep. cit.. Sull’Aurispa, vedi il recente libro del Sabbadini, Noto, Zammit, 1891, colla recensione del Cesareo in Natura ed arte, I, 9, 1892, e gli articoli del Salvo-Cozzo, in Giorn. Star. Lett. lt., t. XVIII, pp. 303 e segg., e dello stesso Sabbadini, ibidem., t. XIX, pp. 357 e se^g. Il Demetrio ricordato dal Sabbadini, biografia, pp. 17 e 34, non ha che fare con quello di cui si parla nella lettera del Gaza e che secondo noi é il Calcondila, perché le notizie del Sabbadini si riferiscono a tempi troppo anteriori (1424-26). GIORNALE LIGUSTICO 2)5 più eccellenti dei Greci antichi ». E poco dopo: « Ti saluta Demetrio, che di cuore è tutto tuo, come dev’ essere chi é tutto mio. Egli non è quel Demetrio che tu pensi : da tre anni soltanto è venuto in Italia, e, benché amicissimo di Teodoro, non fu tuttavia con te mai, né con Teodoro stesso traversò il Ionio, né passò in Sicilia, ma venne per terra , per quanto è possibile, direttamente da Atene a Roma.... È uomo di senno e di esperienza maturo, acuto, buon parlatore e facondo » (i). Con lui stabiliva pertanto di recarsi a Padova (2) ; e forse vi furono insieme, perchè sappiamo che in questi tempi il Calcondila dovette farvi alcuna dimora. Ma in ogni caso non fu lunga coabitazione, perocché poco dopo, ancora nel 1450 (3), o nel seguente anno 1451, al più tardi (4), troviamo di nuovo Demetrio a Ferrara, inteso a perfezionarsi nelle lettere latine sotto la disciplina amorevole e paterna di Guarino Veronese (5) e scolaro anche di Girolamo Castello (6). (1) Epist., II, 9, 10. (2) Ibidem : a Costitueram Patavium proficisci : tamen hic quem dixi Demetrius demorabitur ». Alcuni parlano d’un publico insegnamento del Calcondila a Perugia in quest’ epoca e gli danno colà come allievi non solo il Campano, ma ancora 1’ Antiquario ed il Diplovatazio. Di tale publico insegnamento 11011 si hanno prove; inoltre per il Diplovatazio v'ha impossibilità cronologica. (}) Vedi per la data dei rapporti del Calcondila col Campano p. 12, n. 2. (4) Nella lettera del Gaza al Calcondila già citata si accenna come recente la partenza del Bessarione per la legazione di Bologna, partenza che ebbe luogo nel 1450 per l’appunto. (5) Intorno a Guarino veggansi De Rosmini, Vita e i.isciplina di G. V. e de' suoi discepoli, Brescia, Bettoni, 1806, e Sabbadini, G. V. 1 il suo epislohrio edito ed inedito, Salerno, Tip. Nazionale, 1885, e Vita del Guarino, nel Giorn. Ligust. del 1891. (6) Gaza, £/>. cit., "Ou 5έ καί εν τη Φε^αρί? νυν διατρίβεις, περί λόγους σπουδάζων, καί Ίερωνύμ,ω καί Γορίνφ χρώμενος διδασκάλοις, εδ §χοι. Intorno a Girolamo Tifernate 0, piuttosto, Castello, vedi Gabottü, 256 GIORNALE LIGUSTICO III. E’ al tempo del soggiorno del Calcondila a Ferrara che appartiene quella notevole lettera del Gaza a lui, alla quale avemmo già occasione di accennare poco addietro. Teodoro, n suo dire, nulla aveva lasciato d’ intentato per riconciliare il Bessarione con Demetrio, ed a voce e per iscritto non aveva cessato di raccomandare al primo il secondo, tantoché se il cardinale « non avesse voluto piuttosto esser giusti) die clemente, avrebbe fra loro tolto ogni rancore ». Ma Demetrio, t? invece di osservare come il Niceno cominciasse ad adirarsi col Gaza, appunto perchè questi insisteva troppo vivacemente e troppo liberamente in favore del suo discepolo , cominciò a pigliar sospetto dell’ ottimo maestro , a diffidarne gravemente, a mettersi in capo eh’ egli anzi sparlava di lui e gli faceva mali uffici presso cui avrebbe meno dovuto. Anche ' in tale circostanza sembra che il fervido sangue meridionale conducesse il Calcondila a quelle acerbe irruenze a cui noi accennavamo poc’anzi. L’asprezza del suo carattere si fé manifesta da prima in un’amara invettiva contro Teodoro, diretta ad un monaco Antonio; poi scrisse a dirittura a lui nel medesimo senso e colla medesima veemenza ed acerbità, « talune cose alterando, altre rinfacciando », a detta del Gaza (1), in modo da diventare « di amico nemico, di lodatore accusatore, come se avesse patito da lui i maggiori mali, non ricevuto ogni possibile beneficio ». Accusava Teodoro di essersi adoperato a suo danno in Roma, poco prima Ancora un letterato del Quattrocento : Publio Gregorio da Città di Castello, p. 8, η. ι, Città di Castello, Lapi, 1890, e Un nuovo contributo alla storia dell'umanesimo Ligure, p. 150, Genova, Sordo-muti, 1892 (estr. dagli Atti della Società Ligure di Storia Patria). (1) Epist. rit. GIORNALE LIGUSTICO 257 che il Bessarione partisse per la legazione di Bologna, gridavaio sua peste e sua rovina, mandavalo in malora, chiamandolo « cane cerbero » e peggio. Tuttavia, accorgendosi forse egli stesso dell’ esagerazione in cui cadeva, e comprendendo che, solo e senz’ amici, in paese straniero, era meglio riguadagnarsi l’affetto del Gaza piuttosto che alienarselo affatto, la lettera, dopo tutte le ingiurie, pigliava un tono più dimesso e terminava con offerte di perdono e di amicizia, che a vero dire, come ben gli osservava poi il Gaza stesso, si riducevano in ultima analisi ad umili scuse. Noi non possediamo più la lettera di Demetrio, o, almeno, essa non fu ancora ritrovata, e bisogna accontentarsi di saperne ciò che Teodoro medesimo ne dice nella sua risposta. Ma l’onestà del buon Tessalonicese è così fuor di dubbio, che gli si può credere in parola; tanto più che, riconciliatosi sinceramente col Calcondila, continuò sempre a giovargli, e lo vedremo ad una cert’ epoca dividere persino il suo pane con lui, mentre 1’ Ateniese ha sempre sospetti, diffidenze , malumori. Il Gaza replicava in tono paterno di ammonizione e di rimprovero, dicendogli che « nessun uomo di senno cerca di farsi nemici, od almeno odia difficilmente e non senza gravissime ragioni », e biasimava l’inconsideratezza colla quale Γ amico aveva prestato fede alle calunnie di qualche invidioso mettimale, 0 di proprio cervello immaginato ingiusti fantasmi senz’alcun fondamento di realtà. Alle accuse, poi, di aver tentato di nuocergli, contraponeva i buoni uffici resigli veramente e come già prima il Bessarione fosse molto ofìeso per il mal modo di comportarsi di Demetrio, nè perciò volesse tener conto della sua opera rappacificatrice. « Quando adunque dici che io sparlai di te ? » lo incalzava, « quali lettere li ho io scritto contro ?... Nulla, mi pare, tu hai potuto addurre a prova delle tue accuse, pur dicendomi vitupero senza ragione e cercando, come rabbiosa fiera, ogni Giorn. Ligustico. Anno XIX. 258 GIORNALE LIGUSTICO modo di farmi dispiacere ». In qualche espressione un po dura rompeva pure a sua volta, come quando gli gettava 111 viso sprezzantemente: » Ma io, o Demetrio, non mi curo delle tue sguaiate grida più di quello che mi possa curare dell abbaiare d’ un cucciolo di donna », ma, perchè parevagli che (c non è d’uomo dignitoso e d’alto sentire replicare ingiurie ad ingiurie », si raffrenava tosto, ed invitando il Calcondila a procedere più cautamente nell’ avvenire, a chiedere spiegazioni amichevoli prima di trascorrere a male parole e ad insulti, finiva per lasciarsi rabbonire dalla richiesta di nuova e più salda amicizia, e: « Dal momento che ora la pensi così », conchiudeva, « gradisco questo tuo cambiamento in meglio. E come prima mi adirava pel tuo modo di comportarti e ti compiangeva per la tua dissennatezza, così ora mi rallegro vedendo che hai riacquistato il senno ed appiovo i tuoi modi e ri ridivento amico. Io ti amerò dunque finché rimarrai fermo in queste buone disposizioni, e, come aniko, ti esorto a perseverar sempre nel bene e ad operare lagio-nevolmente e convenientemente, a badare alle parole e non lanciare ingiurie 0 villanie, ma lodare piuttosto tutto ciò che 1 · è buono, utile e grato agli uomini. Credi pure che chi opeia così è amato da tutti, e quando abbisogni di qualcosa, tutti lo aiutano a gara, mentre gli spacconi e gl insolenti sono fuggiti ed odiati. Perchè sei povero, straniero, senza aluino che ti aiuti, non devi per questo insultare chi possiede e gode autorità e possanza, ma come la vite e 1 edera, abbracciandosi al tronco d’un olmo o d’un ontano, cresce e vive e germoglia sostenendosi ad esso, cosi tu devi appoggiarti al più ìicco ed al più potente, e della forza loro usare a tuo vantaggio » (1)· (i) "Nella stessa lettera il Gaza raccomanda al Calcondila di conservare con cura l’amicizia di un « Lodovico », cne è torse il Casella, e lo saluta da parte di un « Atanasio », che poco dopo fu anch’egli a Ferrara, come appare da Poggio, Hpist., XI, 37, ed. Tonelli. GIORNALE LIGUSTICO 259 IV. Negli anni che seguono il suo dissidio e la sua riconciliazione col Gaza nulla sappiamo finora di preciso intorno al Calcondila. Dov' egli vivesse, se in Ferrara od altrove, e che propriamente facesse, tacciono i documenti finora noti intorno a lui. Partecipò per altro ancor esso alla polemica platonica e, più esattamente, al secondo periodo della medesima (1). Frequentava la casa, ossia la corte letteraria, del Bessarione un altro giovane greco, d’ingegno vivo ed audace, Michele Apostolios. Tra il 1456 e il 1462, questi pubblicava uno scritto contro il Gaza, mirando a denigrare in lui il più convinto degli ellenisti aristotelici. Egli credeva forse di piacere con un tal atto al cardinale, ma non fu così: era avvenuta piena ed intera la riconciliazione tra il dotto mecenate, il Gaza ed il Calcondila, e questi 0 fondavano 0 stavano per fondare nel primo ogni loro speranza (2). Il Bessarione, ingegno eminentemente eclettico, non poteva del rimanente approvare qualsiasi esagerazione, fosse aristotelica o platonica: disapprovò quindi l’opuscolo dell’Apostolios, contro il quale sorsero pure validi oppugnatori Andronico Callisto e quel Demetrio che già s’ era spacciato come convinto academico e dal Campano era stato salutato « emulo di Platone » (3). Non è compito nostro ritesser qui la storia — abbastanza nota — di questa terza fase della polemica platonica ed accen- (1) oui periodi di questa polemica cfr. Gabotto, L'epicureismo di Marsilio Ficino, p. 3. Milano, Dumolard, 1891. (2) Nel 1472 il Gaza scriveva al Calcondila (Ep. II, in Boissonade, Op. cit., t. V, p. 402-407): Οίχομένοο Βησσαρίωνος, έφ' ώ πάσα ψ ήμίν ή έλπίς ». (3) Vedi ρ. 253, η· 2· 26ο GIORNALE LIGUSTICO nare anche soltanto tutte l·* repliche più ο meno violente dell’ Apostolios ed il suo posteriore acquetarsi al giudizio del Bessarione. A noi importa ora notare come a lui dovesse cuocere sovratutto l’intervento del Calcondila, che in altri tempi gli aveva chiesta la sua amicizia con larghissime lodi, e n’era stato ricambiato di lettera cortese, in cui Michele di quell’ a-micizia e di quelle lodi mostrava assai compiacersi e rendeva grazie a Mercurio padre comune de’ dotti (i). Contro Demetrio fulminò pertanto una feroce invettiva, delle solite del Quattrocento, in cui riboccano le ingiurie più atroci ed oscene, i sofismi più grotteschi, gli assalti più velenosi e micidiali (2). Non consta se Γ Ateniese, ornai fatto, col crescere degli anni, più saggio e prudente, replicasse a quel-F iracondo libello': ad ogni modo, n’ebbe la migliore e più onesta vendetta nella soddisfazione che potè godere poco tempo appresso, quando fu chiamato professore di lettere greche nella celebre Università padovana. fi) Lettera greca dell’Apostolios al Calcondila, in Legrand, Op. cit., t. II, App., p. 255, lett. 40. (2) L'opuscolo dell’ Apostolios è quello stesso di cui già ci occorse citare alcune frasi e s’intitola precisamente Μιχαήλου Αποστόλη του Βυζαντίου πρός τάς δπέρ θεοδώρου κατά Γρήγορου περί οίισίζζ Δημητρίου τοΰ Χαλκοκανδύλη άντιλήψεις. Eccone un altro passo caratteristico: « Σύ δέ, γρομφίδος υίέ, τίς ών ή τίνι θ-αρρών Πλή9·ων« βεβλασφήμηκας, ουδέ συνιδείν εχω . τί γάρ κοινόν σοι καί Πλή&ωνος φο’.τεταίς, ινα μη κακώς λέγοιμι Πλήθ-ωνι παραβάλλων; τί ξυνφδον; τί λόγον σώζον καί δπωσοΰν, ή ο τι κοινόν τυφλψ καί ήλίψ. — Nulla sappiamo dell’opuscolo del Calcondila a cui questo risponde. giornale LIGUSTICO CAPO SECONDO Il Calcondila a Padova I. Addi 13 ottobre 1463 la Serenissima Repubblica di San Marco, insignoritasi felicemente di tutta la Terraferma Veneta e di parte anche della Lombardia e della Romagna, epperò reggitrice di Padova e della sua Università, emanava una provvigione con cui istituiva la « lectura de littere grece » e vi chiamava primo insegnante l’Ateniese Demetiio Calcondila (1). Venezia, che il Voigt (2) accusa ingiustamente di aver trascurato ufficialmente le lettere e partecipato in troppo scarsa misura al grande movimento .della Rinascenza, attendeva in realtà con ogni mezzo a rialzare la coltura ne’ suoi domini, e nelle scuole pubbliche della capitale e nello studio padovano procurava di raccogliere quanti migliori ingegni di umanisti fossero allora in Italia, Giorgio Merula, Gregorio Tifernate, (1) Ferrai, Op. cit., p. 29. (2) Op. cit., t. I, p. 410. (trad. it.). Vengasene la confutazione 111 Gabotto, II trionfo dell' Umanesimo nella Venezia del Quattrocento, Venula. Fontana, 1890. Sull’opera del Voigt vedi in genere Gabotto, Di una storia deir Umanesimo, Torino, Bocca, 1891. 2Ô2 GIORNALE LIGUSTICO Pietro Perleone, il Trapezunzio, Mario Filelfo, il Maino, il Campeggi, letterati non solo, ma medici, giureconsulti, scienziati. La chiamata di Demetrio non era un fatto isolato, ma faceva parte di un piano saggiamente maturato per accrescer lustro, decoro e ricchezze allo Stato, coll’educaz'one della gioventù veneziana e veneta ed il concorso di forestieri da ogni parte d’Italia e fin da estere contrade. Se si paragona lo stipendio che avevano allora alcuni giure-consulti, lo stipendio ch’ebbero poi il Merula ed il Calcondila stesso a Milano ed altri dotti avevano in altre città, non appare molto largo quello assegnato all’ umanista greco a Padova, fissandolo il Facciolati (i) da’ registri appena in 400 fiorini, ma senza contare che sono appunto gli ultimi decennii del secolo decimoquinto quelli ne’ quali gli stipendi de’ professori cominciarono a salire a somme veramente rilevanti (2), Demetrio nel 1463 era appena agl’ inizi della sua vita di publico insegnante, troppo lontano ancora dalla fama che ottenne più tardi. Fu anzi in Padova, precisamente, che incominciò a formarsi e a crescere la sua riputazione pel magistero del suo insegnamento, per le numerose relazioni contratte e pei notevoli scolari eh’ egli ebbe e che diventando illustri essi medesimi, resero pure chiaro il nome del loro maestro. (1) Facciolati, Fasti gymnasii patavini, Parte I, p. LIV, Padova, Tip. del Seminario, 1757, dice 400; il Ferrai, I. c., 403. (2) Gabotto, Giason Del Maino, pp. 88 e 268. Del resto che uno stipendio sifatto fosse già, per quei tempi ed in proporzione della moneta di allora colla nostra, abbastanza cospicuo, ha mostrato il Gloria, 1 più lauti onorari degli antichi professori in Padova e i consorti universitari ir» Italia, Padova, Giammartini, 1887. GIORNALE LIGUSTICO 263 II. Dell’insegnamento del Calcondila in Padova nulla sappiamo, se ne togliamo il rapido profitto degli allievi e le lodi che, invero generiche per tutti i luoghi in cui fu professore, gli sono date dai discepoli stessi. Meglio note assai sono le relazioni sue con questi, fra i quali un vecchio storico di quella Università, il Papadopoli (1), collocherebbe anzitutto il Campano, che già vedemmo scolaro di lui a Perugia, e forse anche a Padova stessa, ma nel primo soggiorno fattovi dal letterato ateniese (2). Il Pnpadopoli dice che « tx albis gymnasticis constat » che il Campano frequentasse allora tre anni la scuola di Demetrio; ma si tratta di un grosso equivoco finora non chiarito. In un passo notevole di un altr’uomo insigne in istretta relazione col Calcondila, sul quale avremo fra breve occasione di tornare e di insistere alquanto, si parla di certe cene che si tenevano in Roma coll’intervento di Pomponio Leto, del Partenio e di altri parecchi che ricorderemo a suo tempo. Il (1) Historia gymnasii patavini, t. II, p. 174, Venetiis apud Sebastianum Coletium, 1728. Anche I’Oldoino, Athenaeum Augustum, p. 24, Perusiae, 1678, pone il Campano fra gli scolari di Demetrio in Padova (s’intende nel secondo soggiorno, perchè il primo era finora ignorato). (2) Cfr. sopra, p. 255. Il Ferno, Vita Campani (premessa all’edizione Campani, Opera, 1495, e riprodotta nella citata edizione di Venezia, Bernardino da Vercelli, 1502), f. IX, scrive pure: « Et cum Perusiae vir eruditus nemo esset, iam Patavium traiicere consilium inibat, cum Demetrius quidam e media Graecia, vir spectatus doctusque et, quod illi (Campano) semper placuit, Achademicus, Perusiam forte appulit. Hunc confestim in domum herilem suscepit, graecumque doceri coeptus, mirum quod brevi doctissimus evasit. ». Non faccia meraviglia il quidam, perchè è troppo chiaro che il Ferno trae la sua notizia dall’ epistolario del Campano stesso, senza sapere chi fosse il Demetrio ivi accennato. 264 I laiina (1) si tratta di lui — nomina fra i presenti anche Septumuleio Campano, che sarebbe appunto lo scolaro di Demetrio nel suo secondo soggiorno in Padova, epperò non può essere certo Giovali Antonio, come fu erroneamente supposto (2). Questo Septumuleio Campano è figura pressoché sconosciuta, nè gran fatto noti sono Agostino Baldo ed An-diea Stenta, che in Padova appaiono pur essi allievi del CaLondila (3); ma illustri, per contro, sono oggidì Giano Lascaris (4), Giovanni Lorenzi (5) e Varino Favorino Camene (6), tutti discepoli di lui. Giano Lascaris fu mandato a studiare sotto Demetrio a spese del Bessarione, che si scorge quindi, dopo l’avvenuta riconciliazione, averlo tenuto sempre in maggior conto. Tra maestio e discepolo si stabili mutua corrispondenza di affetto, (1) De honesta voluptate et valetudine, I. V. (2) Cfr. Rossi, Nicolo Lelio Cosmico poeta padovano del secolo XV, in Giorn. stor. lett. it., t. XIII, pp. 102-104, Torino, Loescher, 1889. (3) Pel Baldo v. Giano Parrasio, De rebus per epistolam quaesilis sylloge, III, ep. 7, in Grutero, Lampas sive fax artium liberalium, t. I; pel Brenta, una lettera di Bartolomeo Fonzio a Giovanni Acciainoli, in data Roma, 13 febbraio 1483, in cui dice: « Demetrio nostro Chalcocondilo me plurimum commendato, immaturumque ei obitum Andreae Brentii, discipuli quondam sui, nunc vero collegae familiarisque mei, peste perendie absunti nuntiato ». (4) Papadopoli, Op. cit., t. II, p. 187. Sul Lascaris, oltre il Legrand, t. I, pp. 131-162, e II, pp. 322-336, veggansi Vasi-, De vita et operibus Jani Lascaris, Parigi, 1878; Κ. K. MOller , Neue Mitlheilungen iiber Janos Lascaris und die Mediceische Bibliothek, in Centralblatt fur Bibliothekswesen PP· 333*412, Lipsia, 1884, e De Nolhac, La bibliothèque de Fulvio Orsini, pp. 156-159, Parigi, Vieweg, 1887, e Inventaire des mss. grecs de J. Lascaris, estr. dalle Mélanges d' archéologie et d'histoire de ΓÉcole française de Rome, t. VIII. (5) De Nolhac, Giovanni Loren^i bibliothécaire d'Innocent Vili, in Mèi. d' arch. et d’hist, cit., t. VIII. 16) E Mestica, Varino Favorino Camerte, p. 31-23, Ancona, Morelli, 1888. GIORNALE LIGUSTICO 265 e durò per tutta la vita di Demetrio, afforzandosi e crescendo, anzi, col tempo. Dopoché, come vedremo, il Calcondila si fu stabilito a Firenze, Giano Lascaris venne a trovarlo colà e dovette iorse a’ suoi buoni uffici la cara accoglienza fattagli da Lorenzo de Medici (1). Recatosi in seguito a Costantinopoli, di là affettuosamente scriveva all’antico maestro, narrandogli il lungo e difficile viaggio, consolato dal desiderio di vedere 1 illustre città de’ Cesari Bizantini, allora pur troppo diventata capitale dell’ impero osmanlo, parlandogli della morte del Camarioti, dell’amicizia contratta con Demetrio Castreno (2), « uomo veramente filosofo e di nome e di fatto », della partenza d’un altro dotto greco pel Peloponneso, della poca speranza di vedere il vecchio Piropulo, dei libri trovati, delle altre ricerche che intendeva fare ad Adrianopoli ed in Creta, insomma di ogni suo affare, e mostrando cosi tenerezza e rispetto verso colui al quale doveva il suo sapere (3). Più tardi ancora, molto più tardi, negli ultimi mesi della vita del Calcondila, questi ospitava ancora nella propria casa in Milano 1 affezionato discepolo, che ne mandava la notìzia, co’ saluti di lui, al celebre Budè (4). (1) Legrand, t. I, p. CXXXII. (2) Di tutti questi Greci si parla nelle citate opere del Sathas e del Legrand. In particolare veggasi una lettera del Castreno ad un amico in Roma pubbl. dal Riemann, Une lettre d'un Grec au XV siècle, in Annuaire de l Association pour lencouragement des études grêcques en France, anno XIII, pp. 121-125, Parig', 1879. Cfr. sopra, p. 254, n. 1. (3) Questa lettera è publicata dal Piccolomini, Due documenti relativi ad acquisti di codici greci fatti da Giovanni Lascaris per conto di Lorenzo de’ Medici, in Rivista di filologia e di istruzione classica, pp. 401 e segg., Torino, Loescher, 1874. (4) La lettera del Lascaris al Budè, del gennaio 1510 o 1511, è in Legrand, Op. cit., t. II, Append., p. 230: « Mediolani sum et apud Demetrium, qui tibi salutem dicit ». Cfr. Yriarte, Regiae Biblioth. Matritentis Codd. Grnec. mss., Madrid, 1769. 266 GIORNALE LIGUSTICO Del Lorenzi, i rapporti col Calcondila non ci appaiono meno stretti e duraturi, anzi essi ci sono noti anche meglio per otto lettere di Demetrio allo scolaro ed amico, recentemente scoperte e pubblicate dal Noiret (i), e per qualche altro documento anccra. Fin dal 1466, cioè tre anni prima della laurea del Lorenzi (2), professore ed allievo attendevano insieme ad emendare Y Antologia di Pianude, come appare da nota originale del codice che contiene quelle importanti corre-· zioni (3). Nel 1469, poi, il Calcondila assisteva come testimonio alla laurea « in utroque iure » di Giovanni (4), e più tardi, dopo la loro separazione, mantenne sempre con lui amichevole corrispondenza. In un luogo gli dice che le lettere dell’ amico, per quanto brevi, gli sono sempre di grande consolazione e conforto (5); in un altro mostra vivo dolore del suo silenzio e più della malattia che n’è cagione, ed afferma: « Allora soltanto io sarò l'uomo più felice del mondo, che io vedrò una breve lettera di tuo pugno, prova di tua perfetta guarigione (6) ». Nè tralasciava di dargli utili avvisi e consigli: « Ora io credo che tu debba massimamente curare la tua salute, non solo adoperando gli opportuni rimedi e preventivi, ma cercando ancora a tutto potere ogni cosa che ti possa giovare. Col progredire dell’età, si fa men valida la salute, e più facilmente cadiamo ammalati: bisogna quindi (1) Huit lettres inédites de Démétrius Chalcondyle, in Mèi. d'hist. et litt., t. VII, Roma, 1887. (2) Ferrai, l. c. (3) Bandini, Cat. mss. graec. libi Laur., t. II, col. 103, Firenze, 1768. (4) L’originale del documento è nell’Archivio Vescovile di Padova. Fu pubblicato (di sopra una copia fatta dal Gennari, Memorie storiche di Padova, t, III, p. 1154, ms. nella Comunale di quella città) dal Rossi, Op. cit., p. 106. (5) Noiret, lett. VIII. (6' Idem, lett. II. GIORNALE LIGUSTICO 267 prevenire il male con ogni sforzo » (1). E altrove, con un ammonimento di cui egli stesso troppe volte si dimenticava con altri: « Sii felice nella scelta degli amici, non solo trattandoli bene e pensando sempre di loro il meglio che tu possa, ma mostrando anche col fatto di essere uomo generoso e nobile e lodatore del bello non a parole soltanto » (2). Con lui, vedremo, confidava ogni più importante segreto, ogni più delicata impressione (3), e, passato già a Firenze, n’ebbe allievo anche il fratello Angelo, come avremo poi occasione di dire. In più d’ un’ occasione, Demetrio si valse assai del Lorenzi, non solo accolto da lui amorevolmente in Roma (4), ma ancora in altre circostanze. Così dovendosi render vacante l’ufficio di protopsalto in Creta, e desiderandolo un tale Antonio, fratello del calligrafo Demetrio Damilas di quell’isola e uomo « dotto e onesto, ma povero e malaticcio » (5), il Calcondila pregava Giovanni di adoperarsi in favore di lui presso il cardinal Barbo, di cui era segretario, stimando utile tale appoggio, sebbene al Barbo stesso avesse scritto diretta-mente in quel senso Lorenzo de’ Medici (6). Ed altra volta, volendo « uno de’ potenti » di Firenze, probabilmente il Medici stesso, aver copia più corretta dell’ Europa di Strabone, Demetrio chiedeva al Lorenzi il suo testo, promettendogliene in ricambio altro esemplare e Y Asia pur di Strabone e gli scritti morali di Plutarco copiati di proprio pugno; ned è a dubitare che 1’ amico non lo soddisfacesse appuntino di ogni cosa (7). (1) Ibidem. (2) Noiret, lett. I. (3) Idem, lett. V. Cfr. lett. III. (4) Idem , lett. VII. (5) Su costui v. Sathas, Op. cit., t. , p. iob. (6) Noiret, lett. IV. (7) Idem, lett. III. 268 III. La relazione del Calcondila col Lorenzi è occasione a dire anche di alcuni altri rapporti del primo in Padova con dotti uomini di quella città, od in essa almeno allora dimoranti. In una lettera di Demetrio a Giovanni (i), invero del 1488 e da Firenze, è ricordato un « Bartolomeo fratello di Leonico », ma vi è qualche argomento per credere che questo Leonico sia una figura ben più nota che non apparirebbe da quel cenno, e fosse conosciuto dal letterato ateniese fin dal tempo in cui insegnava nell’ Università padovana. Certo in un’altra lettera (2), dell’agosto 1472 stavolta (3) e in data precisa-mente di Padova, il Calcondila saluta il Lorenzi a nome del Cosmico, noto poeta latino del Quattrocento, che ritroveremo di nuovo con Demetrio a Roma alle cene di Pomponio Leto nel passo già accennato del Platina. E anche con Lodovico Odasi, fratello di Tifi — l’autore della Macbaronaea (4) — appare fin da quest’epoca in relazione il professore greco, che quegli mandava più tardi a salutare in Firenze da Angelo Poliziano (5). Ora, se si ricordano le osservazioni fatte altra (1) Idem., lett. IV: « Αγγελος... Βαρθ-ολομαίίρ δέ τω Λεωνίκοΐ) άδελφφ διαλεγόμε/ος, ελαθ-ε τοιοΟτον έκβαλών λόγον ». Cfr. lett. III, dov’è pure ricordato questo Leonico. Secondo il Giovio, Op. cit., f. 57, sarebbe il celebre Laonico Tomeo. (2) Noiret, lett. V. (3) Rossi, Op. cit., p. 108. (4) Idem., Di un poeti maccheronico e di alcune sue rime italiane, e Recensione del libro 1 I precursori di Merlin Cocai » di G. Zannoni, in Giorn. Stor. lett. it., t. XI, pp. i e segg., e t. XII, pp. 418 e sef>g. (3) Poliziano, Epist., Ili, 3, Amstelodami, Impensis Johannis Jansonii, MDCXLII : « Demetrium, virum eruditissimum Petrumque imprimis discipulum tuum... nomine meo salvos facito ». (La lettera è dell’Odasi al GIORNALE LIGUSTICO 269 volta da uno di noi (1) intorno alle società segrete in Padova appunto verso questi tempi, ed i rapporti intercedenti tra gli Odasi, il Cosmico ed un Leonico , può parere che anche il Calcondila si trovasse a parte di quell’ ambiente singolare, intorno a cui ci restano cosi poche notizie e l’oscurità comincia appena a diradarsi, e che il Leonico della lettera da Firenze sii una stessa persona con quello della Ma-charo mca. Ma questa è una mera ipotesi e nulla più, sebbene ipotesi che ci spiegherebbe pure un’ espressione , altrimenti affatto oscura, dell’altra lettera di Demetrio da Padova, che cioè il Cosmico unisce anche « γράμματα τής βασιλίδος ». Il Rossi confessa di non aver saputo spiegare chi fosse questa « regina » : avverandosi la nostra ipotesi, se ne potrebbe forse cercare qualche notizia a proposito delle « magnae pittiniae » ddla Machuronnea. Quella società astrologica ed eretica, poteva coniare nel suo seno delle donne che così caratterizzava l’irrisione incredula di Tifi, ma che avrebbero invece avuto nomi solenni da parte degli adepti entusiasti. IV. Nella prima quindicina di maggio dell’anno 1472, il cardinal Bessarione era in B doglia, avviato verso Francia, dove andava legato straorJinario del pontefice Sisto IV per trattare con Luigi XI u:i concordato (2). A bella posta per vederlo, si Poliziano e quindi appartiene all’epoca fiorentina della vita di Demetrio, ma poco prima Γ Odasi stesso in quella lettera medesima aveva detto di conservare con cura le amicizie contratte a Padova « superioribus annis »). ( r) Gabotto. Per la si'riti deh’ astrologia nel Quattrocento in rapporto colla civiltà, pp. 17-21, Milano, Dumolard, 1889, estr. dalla Rivista di filosofia scientitica, voi. Vili. (2) Vast, Op. cit., p. 409. ιηο GIORNALE LIGUSTICO recava pure da Padova a Bologna il Calcondila, ma di nuovo sembra fossero rinati fra loro gli antichi dubbi e le antiche diffidenze: a sentir Demetrio, il cardinale l’accolse « con grande freddezza e disdegno » , concedendogli breve udienza « come a chi s’incontra per caso sulla piazza », e appena appena proferendone il nome. Epperò egli ne scriveva iracondo all amico Lorenzi : « Se già prima io lo teneva in conto di persona da poco e come vecchio superbo e imbecillito, tanto più lo disapprovai allora e, se ho da dirti il vero, 10 disprezzai. Egli sconta caramente i suoi difetti col rendersi presso tutti, come già di altri diceva Eschine, degno di riso e di disprezzo. E la sua vergogna sarà anche maggiore, quando tutti conosceranno a prova ch’egli è un asino colla pelle di leone: allora sarà mandato meritamente alla malora (i) ». A Bologna il Calcondila ebbe occasione di abboccarsi anche con Andronico Callisto, dal quale ebbe notizie del Gaza. Questi era rimasto a Roma vivendo di qualche sussidio datogli dal Bessarione e d’una tenue rendita di cento scudi all’anno assegnatagli dal pontefice, e, sebbene fosse ridotto a tale da scrivere a Demetrio « che se nulla avesse avuto dal papa, non avrebbe potuto vivere in Roma per mancanza del necessario » , tuttavia non tralasciava di occuparsi anche del-l’amico, la cui condizione verso quest’epoca si era singolar- (i) Noiret, lett. Y. In principio si parla di due lettere scritte dal Lorenzi al Calcondila, di cui una da « Νέας Πόλεως », e di un re. Il Noiret crede che si tratti di Napoli e di Ferdinando o Ferrante I d’Aragona, ed 11 Rossr, Niccolò Lelio Cosmico, p. 107-108, ed il Cian, in Giorn. stor., t. XI, p. 306-307, non si addiedero del suo errore. Ma è agevole capire che la lettera V è diretta al Lorenzi in Ungheria (notare l’opposizione tra Γ « έν βαρβάροΐς » e Γ « ‘Ημείς δέ περί των έν Ίταλί^) dov’è appunto una città di nome Novi-Grad (Città Nuova, Νέα Πόλις), ed ovvio ravvisare nel. βασιλεύς non Ferrante di Napoli, ma il celebre Mattia Corvino (Cfr. La Letteratura, V, 2, Notizie, 15 gennaio 1890, forse troppo acerba nella forma). GIORNALE LIGUSTICO mente aggravata. Quale fosse precisamente non consta, ma dalla stessa lettera del Calcondila al Lorenzi ora accennata, appare chiaramente che quegli si trovava in male acque, sebbene « per molti indizi » sperasse che la « questione del suo affare », non ancor risolta, « volgesse ornai verso il termine », e confidasse di « veder presto la luce della salvezza ». Porse fin d’ allora gli era stato disdetto Γ ufficio di professore dell’ Università padovana, per qual ragione non sapremmo dire : c’ induce a crederlo una lettera del cardinale Iacopo Am-mannati all’ arcivescovo Sipontino Niccolò Perotto, dalla quale appare come, già nell’ottobre dell’anno precedente 1471, Demetrio si era rivolto all’ ellenista e prelato marchigiano affinchè lo raccomandasse all’ Ammannati, legato a Perugia , per ottenergli una cattedra in quella città. La pratica a quel tempo era fallita, poi;hè, nonostante il buon volere del cardi-dinal Pavese pel Calcondila, il posto era già stato conferito a Lilio Archilibelli da Città d' Castello: l’Ammannati aveva però promessa l’opera sua per l’anno dopo, il 1472 per l’appunto (1). Confidava forse il dotto Ateniese in questa (1) Ammansati, Epistolae, f. 212 V.-213 r., Mediolani, in aedibus Minu-tiani, MDXXI ( prima ed. 1506): « Tuo testimonio de Demetrio nostro apprime sum delectatus, neque enim iudicio falleris : epigrammate autem imprimis, cui et gravitas et nitor et diffluens latinitas inest. Gratulor in viri huius cognitionem venisse, et tibi gratias ago. Ero posthac non amicus tantum, sed doctrinae suae laudator atque ingenii. Ut tu mihi eum dedisti, ita vicissim illi nos sponde. Doleo in hunc annum conduci eum non posse. Cathedrae omnes iam sunt destinatae et dicta salaria. Si admonitus desiderii huius non dies multos ante fuissem, erat virtuti suae non incommodus locus. Hunc multorum suffragio tulit Lilius quidam Tiphernas, ad doctrinam quantum video dexter. Si veniens annus me legatum .· Demetrium idipsum optantem habebit, implebit accumulate, quod quaerimus. Perusiae, ad 14 diem octobris 1471 ». Intorno all’Archilibelli cfr. Gabotto, Ancora un umanista del Qualorocento (Publio Gregorio da Città di Castello)1 p. 245-46 n.; intorno ai rapporti dell’Ammannati col Perotto la nostra Vita di Giorgio Merula. GIORNALE LIGUSTICO promessa quando rifiutava Γ offerta del Gaza di recarsi a Napoli ad insegnare la lingua greca ad Aurelio Caraffa , nipote del cardinale Oliviero di quella famiglia, nè consentiva pure a recarsi subito a Roma presso Teodoro che ve lo chiamava ? Certo è che al Gaza rispondeva « non che gli spiacesse la cosa », ma « adducendo alcuni gravi impedimenti » ; in realtà perchè desiderava di « vivere senza servire o piegarsi innanzi ad alcun potente, incontaminato da ogni vile e serva adulazione », coni’ egli con troppa presunzione si vantava presso l’amico Lorenzi (i). Ma se verso la fine dell’agosto del 1472 era ancora in Padova, dov’era ritornato da Bologna (2), non tardò molto il Calcondila, fallitagli ogni speranza di racconciarsi in quello Studio, a dover seguire i consigli degli amici e recarsi in Roma presso Teodoro. Dimorò col suo antico maestro quarantacinque giorni , vivendo delle sostanze di lui e cercando seco e con tutti gli altri suoi protettori, ogni mezzo di ottenervi un posto « lucroso », ma senza frutto (3). Fu a quest’ epoca senza dubbio (4) che Demetrio intervenne alle cene frugali di Pomponio Leto col Platina, col Cosmico, col Partenio, con Fabio di Narni, col suo discepolo Settumuleio (1) Noiret , lett. V. (2) La lettera V edita dal Noiret ha appunto tale data da Padova. Cfr. p. 2ò8, n. 3. (5) Lettera del Gaza al Calcondila, in Boissonade , Op. cit., t. V, pp. 402 407. (4) La certezza viene dalla data della lettera citata nella nota precedente, per la quale data cfr. p. 272. Non ha quindi rag'one il Rossi, Cosmico, p. 105, quando vuole che il passo del Platina riferito nella nota seguente appartenga alla prima redazione dell’opera De honesta voluptate et valetudine, cioè sia stato scritto prima del 1467, non aggiunto tra il 1471 e il 1475. Difatto il Calcondila dal 1463 al 1472 era a Padova, ed a Roma invece sulla fine del 1472 stesso. GIORNALE LIGUSTICO 273 Campano ed altri (1). Da ultimo, esaurita ogni ricerca (2), dopo infinite e vane escogitazioni, egli decise di recarsi a Firenze, come già aveva prima fatto disegno, tanto più che la morte del Bessarione, avvenuta nel novembre del 1472 (3), dava P ultimo crollo a tutte le sue più care speranze. Il Gaza lo confortò e fornì, a suo dire, come meglio poteva secondo la sua scarsa fortuna, e così il Calcondila si recò nella città de’ Medici sul principio dell’anno 1473 (4). (1) Platina, /. c. : « Cepam et alium mecum devoret Pomponius, adsit Septimius et Septumuleius Campanus, nec extra triclinium pernoctet Cosmicus ; hunc sequatur Parthenius et podagrosus Scaurus; Fabium Narniensem, Antonium Ruffum et Mecenatem non reiicio, qui paupertatem sponte amplectuntur. Et ne mihi succenseat Cincinnatus, hunc quoque Demetrius ad cenam olitariam vocet, quandoquidem ita fortunae placet, quae, relictis industriis, ignaviae favet ». (2) Gaza, lett. cit.: « Ή οδ μέμνησαι ώς, συχνά διαλεγόμενοι καί παν είδος ενδυμοϋμενοι πόρου, οΰδέν εύρίσκομεν δυνατάν ; ». (3) Vast, Op. cit., p. 430. (4) La lettera del Gaza al Calcondila ora citata è appunto di quest’epoca: si accenna difatto come non remota la morte del Bessarione. Sembra pure da essa che fosse avvenuta di recente la separazione dei due letterati greci. Giomn. Ligustico, Anno XIX 274 GIORNALE LIGUSTICO CAPO TERZO. Il Calcondila a Firenze. I. Il nome di Firenze e di Medici (i) richiama tosto alla mente tutto uno splendore di vita letteraria ed artis'ica , un rigoglio ed un fervore di studi, una corte dotta, elegante e geniale più di qualunque altra dell’ Italia del Quattrocento. Firenze appare come la terra promessa di ogni umanista, dove il genio del popolo ed il mecenatismo del pi incipe dà onore e ricchezze a chiunque mostri solo di partecipale in qualche modo a quel sentimento del bello e del buono che anima la società fiorentina di allora. Là crescono all arte Angelo Poliziano e Luigi Pulci, là pensano e disputano platonicamente Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, là insegnano dalle cattedre dello Studio i più cospicui letterati d’Italia e di Grecia. Lorenzo de’ Medici, poeta egli medesimo, raccoglie a gran dispendio magnifiche biblioteche, e se al- ti) Paccard, Les Medicis ou la Renaissance politique, des lettres, des sciences, Parigi, 1812; Castelnau, Les Medicis et la Renaissance, Parigi, 1879. giornale ligustico cuno si presenta con un codice di antico autore è certo di trovare presso di lui la più desiderabile accoglienza, il più appassionato compratore (i). Cosi si rappresenta la Firenze del secolo XV, e così è stato facile ripetere vecchi errori e cumularne nuovi da parte di tutti i biografi del Calcondila , anche de più recenti e ddigenti , come il Legrand (2). Doveva infatti, con quel concetto della corte medicea, sembrar cosa impossibile che il maestro del Campano , del Lorenzi , del Lascaris, l’Ateniese ch’era già stato parecchi anni nel-l’Università padovana, l’amico di Teodoro Gaza, di Andronico Callisto, di Pomponio Leto, del Platina, del Cosmico, potesse rimanere molti mesi nella città del gran mecenate della Rinascenza, povero, oppresso dalle angustie della vita, incerto del domani, costretto a vivere del lavoro manuale di calligrafo e della carità degli amici. Pure i documenti più irrefragabili, conosciuti da un pezzo 0, almeno, da un pezzo editi, e da un pezzo pure, anzi sempre, deplorevolmente trascurati , ci mostrano appunto Demetrio Calcondila in tale condizione, mentre è interamente leggenda quella che lo rappresenta chiamato a grande onore in Firenze per succedere all'Argiropulo nella cattedra di lingua greca in quella città e professore quindi fin dal suo arrivo (3). li) Roscoe, Vita di Loren\o de’ Medici (traci, it.), Pisa, Peverata, 1799; Reumont, Lorenxo de’ Medici il Magnifico, Lipsia, Duncker, 1874. (2) T. I, p. XCVI. Cosi il Noirbt, l. c. (3) Causa dell’errore era anche il credere che l’Argiropulo avesse abbandonata la cattedra fiorentina solo nel 1473· L’Argiropulo invece fu chiamato a Roma nel 1471 per opera del Bessarione (Ammannati, Epist., 200 e 201. Cfr. Prezzinf.r, Storia del pubblico Studio e delle Società scientifiche e letterari? di Firen{e, t. I, p. 138, Firenze, Carli, 1810). Però il Tiraboschi, Op. cit., t. VI, parte IV, p 1084, anticipa la venuta del Calcondila al 1469, e lo Schoell, Op. cit., t. VI, p. 72-74, al 1471, mentre 1’ Hody, Op. cit., p. 211, il Roscoe, Op. cit., t. I, p. 90, e il Piccolomini, Due documenti etc., p. 403 nota, la ritardano al 1479. È a notare come già 276 GIORNALE LIGUSTICO Il Calcondila, come già avemmo a dire, era uomo di carattere sospettoso e diffidente, facile troppo a’ litigi ed alle ingiurie. Angustiato dalle difficoltà della vita, vieppiù s’irritava ed usciva in recriminazioni violenti. La miseria da cui si vide oppresso in Firenze, ne’ primi mesi del suo soggiorno colà, produsse il solito effetto, e ne sono testimonio le tristi notizie che scri- il Giovio,, El. doct. vìr., c. 29, scrivesse: « Demetrius Chalcondyles, diligens grammaticus, et supra Graecorum mores, cum nihil in eo fallaciarum aut fuci notaretur, vir utique lenis et probus, scholam Florentiae instauravit, desertam ab Argyropylo, et a Politiano, deficientibus Graecis, occupatam. » Il Bayle , Dictionnaire critique et historique, t. III: Poli tien Ange, Rotterdam, 1720 ; il Mencken, Historia critica vitae et in litteras meritorum Angeli Politiani, p. 65, Lipsia, 1763 ; il Roscoe, Op. cit., t. Ili, p. 91-92, ed il Legrand, t I, p. XCV1I1, rigettarono il racconto del Giovio, osservando che questi, per avversione al Poliziano, prosegue narrando di fiere inimicizie tra il Poliziano ed il Calcondila, mentre per altre fonti (e avremo pur noi occasione di accennarvi) appaiono amici. (Cfr. anche Bandini, Specimen florenlinae litteraturae saeculi XV, t, II, p. 43, Firenze, 1747» Bonafous, De Angeli Politiani vita et operibus disquisitiones, Parigi, 1845; Mahly, Vita del Poliziano, p. 34 (trad. Brunetti), Venezia, 1^65). Si è già avuto altrove ad osservare (Op. cit., p. 8-9) che bisogna distinguere due parti nel racconto del Giovio , e mentre si deve ritenere falsa quella che riguarda l’inimicizia del Poliziano e del Calcondila, non è improbabile che sia vera la seconda, e che il Poliziano tenesse alcun tempo la cattedra di greco in Firenze. È fuor di dubbio poi che tra l’Argiropulo e il Calcondila, occupò tale cattedra Andronico Callisto. Non solo il Volaterrano, Comm. Urb., 1. XXI, dice che Andronico insegnò in Firenze « aliquot annos », e già il vecchio Hody , Op. cit., p 227 , lo pone come predecessore di Demetuo, ma nella lettera V edita dal Noiret (agosto 14.72) è detto: « ‘Ο δε ήμέτερος καθ-ηγεμών Θεόδωρος, ώς έ^ύθ-όμην èv Bovcuviqc παρά του Ανδρονίκου (ήλθ·ε γάρ καί αυτός έκ Φλωρεντίας έκεισε διά τήν αυτήν αιτίαν ήν καί ήμεις) εμεινίν âv Ρώμΐβ, etc. ». Altra prova inoltre è che se il 23 luglio del 1471 l’Argiropulo era ancora a Firenze, stava però per recarsi in Ungheria, anzi a tal fine si faceva pagare la rimanenza del suo stipendio ; nel gennaio del 1472> Γ0'» era a R(,nia· Cfr Cappelli, Giovanni ed Isacco Argiropulo, in Arch. Stor. Lomb., S. II, t. Vili, pp. 168 e segg. giornale ligustico 177 veva al Gaza, e le accuse che di nuovo gli moveva di averlo gettato in un mal passo per levarselo dattorno, mentre avrebbe potuto procurargli in Roma facilmente un ottimo collocamento. Anche stavolta manca la lettera di Demetrio , ma la schiettezza che appare in tutta la risposta di Teodoro, convince subito della verità del riassunto da lui fattone. Erano di nuovo accuse avventate, ingiuste: l’antico maestro del Calcondila non aveva lasciato nulla d’intentato per giovare al discepolo, ed era stata la necessità che avevaio mosso a consigliarlo di recarsi a Firenze. Ma l’Ateniese, nell’affannoso travaglio dell’istante, dimenticava ogni cosa, e si lasciava sobillare da non si sa qual mettimale fiorentino, che si compiaceva ancora di punzechiarlo ed irritarlo vieppiù contro il Gaza. « Che vi sia in Firenze qualche calunniatore » , scriveva questi, « non mi fa meraviglia: bensì che tu così presto ti lasci vincere da tali calunnie. Tu, dopo essere stato 45 giorni a Roma, senza mai accorgerti del mio mal animo o della mia trascuratezza a tuo riguardo, senza sentirne buccinar nulla da alcuno di qui, non dovevi poi credere in nessun modo a quelle menzogne. Se io ti avessi potuto aiutare, e tu stesso te ne saresti accorto, e te l’avrebbero fatto osservare 1’ Argiropulo e gli altri comuni amici. Eppure tu ritieni più degno di fede un calunniatore invidioso che te stesso e tutti i tuoi amici di Roma (i) ». Tatta la lettera di Teodoro a Demetrio spira un senso di paterno affetto dolorante per l’ingratitudine del figlio, ha in sè una dignità mesta così profonda e così alta, che affascina e soggioga. Il Calcondila si lasciava troppo facilmente abbattere dalle difficoltà : invece di operare per superare e rimuovere gli ostacoli, perdevasi in lagni ed in pianti, dimentico del saggio proverbio di Gesù : Aiutati, chè Iddio (i) Gaza, lett. cit. GIORNALE LIGUSTICO r aiuta. Il Gaza , per quanto rìtitnto in disparte dal mondo, mostra molto maggior senno pratico , quale venivagli dalla vecchia età e dalla lunga esperienza. « Mi pare fuor di luogo », egli dice all’ amico , « quel tuo accusare continuamente la fortuna: non tutto dipende da essa; molte cose sono conseguenza dell* abilità , molte altre della prudenza di un uomo. Tu non devi dunque lasciare ogni cosa in balia della fortuna stessa , ma giovarti della tua destrezza e avvedutezza , degli occhi e delle mani, nè mai venir meno alla fatica, nè star li a guardar un altro e , colle mani alla cintola , lui di negligenza rimproverare ». lE giustificatosi dell’accusa di aver messo in un mal passo l’amico coscientemente, facendogli osservare ch’egli non solo non sapeva tutte le cose di Firenze, ma neppur quelle tutte della propria casa, « anzi molte trappolerie e molti sotterfugi faceva il suo servo senza di’ egli ne avesse cognizione », ricordavagli poi il proprio esempio, per incorarlo alla costanza e al lavoro: « Io stesso, mancando assolutamente di tutto il necessario alla vita, mi adattai a lavorare un mio poveretto, e così procacciandomi le cose più indispensabili, non mi resi molesto altrui con preghiere su preghiere, querimonie su querimonie. » I’eodoro attribuiva la difficoltà di trovarsi un’ adatta occupazione da parte del Calcondila allo smodato amore o, meglio, orgoglio di patria di lui, pel quale trascurava le lettere latine, solo dilettandosi delle greche, tantoché non sapeva parlare convenientemente con Italiani: però fin dal 1471 vedemmo ΓAmmannati lodare ia « latinità » di un epigramma di Demetrio (1), e più tardi lo vedremo scrivere correttamente non solo in latino, ma in volgare. Forse gli ammonimenti del buon Gaza produssero il loro frutto: il Calcondila gli si conservò amico , ne pianse la morte e ne ereditò poi anche (i) Vedi p. 271, n. 1. GIORNALE LIGUSTICO 279 la biblioteca (ι). E quegli, « non potendo far di più a causa della sua povertà » , lo incaricava di copiargli le opere di Pausania contro una a conveniente mercede (2) ». Così Demetrio poteva campare e intanto, dandosi attorno, trovare un buon posto. Però nell’agosto 1475 egli era ancora senza fissa occupazione: raccomandavasi allora al Filelfo, ch’era sempre influente presso la corte sforzesca, affinchè gli ottenesse i.na cattedra in Milano; ed il Filelfo infatti lo raccomandava, e s’iniziavano pratiche, tantoché il 16 di quel mese il Consiglio segreto scriveva al duca: « lll.m0 S.re N.r0, Messer Francesco Philelfo ne ha facto uno ricordo per sue lettere , quale mandiamo qui alligate a 1’Ex. Vostra, preponendone uno Demetrio greco constantinopolitano per legere qui publice in la facultà grece littérature, in la quale se dice essere peritissimo. Nuy credemo eh’ esso d. Francisco se mova fidamente, ricordando quelle cose che siano honore et exaltatione de vostra sublimità et utile et ornamento de questa vostra citi. Pur ad nuy non è parso su questo prendere altra deliberatione senza licentia de vostra S.ri‘, la quale conio sapientissima potrà comandare quello sij de suo piacere et voluntà. Cuius gratiae nos commendamus etc. (3) ». Pare che in quel tempo il duca di Milano — era il feroce Galeazzo Maria — non trovasse opportuno di chiamare il Calcondila e affidargli una cattedra; a ogni modo, non andò molto che, anche senza di quella, l’esule Ateniese trovò finalmente ove posare: nel (1) Vedi più innanii pp. 180, 287. (2) Gaia , teli. cit. (3) Archivio di Stato di Milano: Autografi: Letterati: Francesco Filelfo. Tutti i documenti non particolarmente indicati sono inediti in que-st'Archivio. Potrebbe però nascere il dubbio che la lettera possa riferirsi ad altro Demetrio, sebbene Γ indicanone « Costantinopolitano » per noi significhi il Calcondila. 28ο giornali; ligustico settembre dello stesso anno 1475, egli era nominato professore in Firenze medesima, collo stipendio di 168 fiorini (1). • II. A turbare la gioia che dovette senza dubbio provare il Calcondila in seguito alla sua nomina, sopravvenne appunto in quei giorni la morte del Gaza (2). Michele Marnilo (3), Costantino Lascaris (4) ed altri ne piansero la perdita e lo lodarono in epigrammi greci e latini : naturalmente De- (1) L‘ epoca della elezione del Calcondila alla cattedra di lingua greca in Firenze ci è data dal seguente documento pubblicato dal Fabroni, Historiae Academiae Pisanae, t. I, p. 163, η., Pisa, 1791 ·’ κ Die 2 oct. 1492. Quo tempore D. Officiales conduxerunt Joannem Georgium La-scharum Graecum ad legendum in studio Florentino lectioncs duas graece in philosophia et poetica facultate cum salario florenoruni CLXVIII, quot liabuic Demetrius Graecus cum primum fuit conductus ad eandem lecturam de anno 1475 de mense Septembris. » Cfr. anche Prezziner, Op. cit., t. I, p. 152. Più tardi, nel 1485, lo stipendio del Calcondila sali a 200 fiorini. Vedi Fabroni, Op. cit., t. I, p. 375, e Prezziner, Op. cit., t. I, p. 163. (2) Legrand, Op. cit., pp. XXX-XLIX, riconfermando la vecchia opinione del Baillet, t. Il, p. 223, n. 306, contro coloro che ne tardano 1^ morte al 1476 o al 1478· Errore grave commise il Gregorovius, Storiai della città di Roma nel medio evo, t. VII, p. 651, ritardandola anche più, fino al 1484. L’Hody, Op. cit., p. 66-67, da un epigramma del Poliziano al Calcondila, che ricorderemo fra breve, vorrebbe dedurre che il Gaza, poco prima della sua morte, lasciata Roma, insegnasse ancora in Firenze, ma i contemporanei Filippo Bergomate, Supplent. Chron., e Trittemio, De script eccl. , fanno morto Teodoro in Roma, e Matteo Palmieri, Opus de temporibus suis, in Rerum ital. scriptores ex Florentinarum bibliothecarum codicibus, t. I, col. 259, Firenze, 1748, nella Lucania, (3) Hymni et epigrammata, f. 3, verso, Firenze, 1497. (4) Yriarte, Regiae bibliothecae Matritrnsis codices Graeci manuscripti, p. 257, Madrid, 1769. GIORNALE LIGUSTICO 281 inetrio unì alle altre la sua voce, ed in un epigramma greco pagò anch’egli il suo tributo di compianto all’antico ed affettuoso maestro, che gli era stato di scorta ne’ momenti più difficili della sua vita (1). A confortarlo venne la fama ogni dì crescente, vennero gli scolari numerosi ed insigni. Meritano di essere ricordati fra questi la celebre Alessandra Scala (2), Bernardo Nerli (3), e i due inglesi Guglielmo Grocyn e Tommaso Linacre che portarono poi gli studi greci in Inghilterra (4). Ma non furono ì soli : il Lorenzi mandava alla scuola di lui in Firenze un certo & fratello Angelo », ed il giovane faceva mirabili progressi. Che se alcuna volta gli dava a pensare e lo costringeva a scriverne al-Γ amico notizie non troppo buone (5), in altre circostanze meritava le lodi del maestro, il quale poteva dire al suo Giovanni: « Angelo si applica agli studi delle lettere più che mai intensamente, e a poco a poco, parmi, cambia in meglio la sua indole e diventa più urbano; al qual scopo gioverebbero certo lettere tue a lui di quando in quando (6) », e, (1) In Yriarte, /. c., ed in Legrand, t. I, p. XLI. Cfr. sul Gaza, oltre il Boerner , pp. 121-1)6, anche la biografìa del Maurophrydis, nel Φιλίατωρ di Alene, t. Il, 1862. (2) ternus, De Altxanìra Scala commentatio, Lipsia, 1769. (3) Nerli, I. c. Il Nerli fu poi tra i padrini di un figlio del Calcondila. (4) Latimi-.r , Episl. αΊ Erasmum, in Erasmo, Opera, t. Ili, p. 294; Crusio, GermanoGraecia, 1. V, p. 23s, Basilea, 1 j8s ; Burton, Historia graecae lingiute, p. 56. Londra, [657 ; WarTON, History of englisb poetry, t. I; Wood, Atlwuic Oxonirnses, col. 15, 19, 21, Londra, 1721. Cfr. Aldo Manuzio, Episl. de Aie Statii ad Musurum, Venezia, 1502: « Gro-cinum Sacerdotem et Tliomam Linacrum, viros undecumque doctissimos, qui olim Florentiae sub Demetrio Chalcondyle, viro clarissimo et graecae facunJiae instauratore magnoque decore, graecis litteris incubuerunt ». Veggasi anche Johnson, Life of Thomas Linacre, Londra, 1835. (5) Noiret, lett, IV: «Εδ μέντοι έπίατβοο ώς 6 Άγγελος ούκέχ·. προσίεται τήν in' έμο9 παραμι><Μ«ν, etc. ». (6) Noiret, lett. Η. 282 GIORNALE LIGUSTICO allorché il giovane si recò a Roma « per varie ragioni » , raccomandarlo « come degno di essere amato e di ottenere una conveniente protezione (1) » e capace non solo di dilettare colle sue parole savie e dotte, ma di prestarsi ancora in molte occasioni a chi se ne volesse valere (2). Frequentò pure la scuola del Calcondila in Firenze il celebre Giovanni Reuchlin, già allievo dell’Argiropulo a Roma , il quale segui poi ΓAteniese a Milano, e mantenne sempre con lui amichevoli rapporti. Il Reuchlin, venuto per la prima volta in Firenze nel 1482 con Everardo Probo (3), mandò poi anche all’antico maestro il fratello Dionigi, il quale , accompagnato da Giovanni Straehler , rimase colà due anni ad apprendere il greco, ospitato in casa di Giorgio Vespucci (4). Rimangono del Calcondila due lettere al maggiore dei Reuchlin (5), e di questo un bell’elogio di lui (6). Nè sembra improbabile che (1) Idem, lett. VI. (2) Idem, lett. I. (3) Reuchlin, Epist. dedicat. Cnbalat. ad Leonem X. (4) Maius, Vita Johannis Reuchlini, pp. VI e segg. e CXL e segg., Durlac, 1687. (5) Queste due lettere (colle rispettive date 11 giugno e 16 giugno 1491) furono edite da prima in Illustrium virorum epistolae ad Joannem Reuchlin, Hagenau , 1519, poi ristampare dal Legrand , Op. cit., t. II, App., p. 308-309. (6) Rudimenta hebraica, I. Ili, pp. 547-548: « Non apud lonas neque ulla in Graecia, sed Basileae primum ab Andronico Contoblaca; deinde Parisiis a Georgio Hermonymo Spartiata ; post Romae ab Argyropulo By-zantliio, publice in Vaticano Thucydidem legente, Xisto quarto pontifice; ad extremum Florentiae Mediolanique a Demetrio Chalcondyle, Graecorum linguam frustillatim et quasi micas de mensa Domini cadentes, accepi ». Veggansi pure sul Reuchlin, Mayerhoff, Johann Reuchlin und seine Zeit, Berlino, 1830; Geiger, Johann R., sein Leben und seine iVerke, Lipsia, 1871, e nella Vierteìjahrschrift fùr Kultur und Litteratur der Renaissance, t. I, pp. 116-121, Lipsia, 1885, e ancora Johann Reuchlins Briefwechsel Tubinga, 1875, nonché Horawitz, Zur Biographie und Correspondent Joh Reuchlin’s, nelle Sitiungsberichte Akad. IVissensch. del 1877. GIORNALE LIGUSTICO 283 ascoltasse le lezioni di Demetrio, Piero di Lorenzo de’ Medici, quel medesimo che fu poi cacciato di signoria nella calata di Carlo Vili , mentre abbiamo altronde notizia di relazioni intime del Calcondila con lui (1). Ma il più dotto discepolo eh’ egli avesse in Firenze fu senza dubbio P altro figlio del Magnifico Lorenzo, Giovanni, poi papa Leone X, col quale lo vedremo fare un viaggio a Roma nel 1489 e da cui ricevette più tardi non piccoli benefizi (2). Di molte amicizie di Demetrio all'epoca del suo soggiorno in Firenze rimane notizia. Dalle sue lettere al Lorenzi, appare in rapporto coi cardinali Marco Barbo (3) e Pietro Foscari (4), con un « Copasso Cupazio » e con un « Gregorio », latore appunto di una di tali lettere, del quale dice che non gli pare affatto « talis qualem nonnulli islic existimant, cum et studiosus sit et natura liberior u (5) ed è probabilmente quello stesso che Giovanni Lascaris da Costantinopoli incaricava appunto il Calcondila di salutare con parole di affetto (6). Dalla stessa lettera del Lascaris si scorgono in relazione coi due Greci un « Girolamo », forse il vecchio Castello già maestro di Demetrio a Ferrara (7), allora qualificato come « Ηφαίστου απόγονον » ; un 0 Pietro Damalifago » e Michele Marullo, celebre letterato del tempo, che PAteniese ricorda pure come comune amico suo e del Lorenzi (8) e sappiamo di fatto aver frequentato col Gaza, co! Trapezunzic e coi due Rhalles Ca- (1) Dedica dell’ Omero, di cui diremo fra poco, il) Roscoe, Vita e pontificato di Leone X, 1.1, pp. 54 e 171, traduzione Bossi. Milano, 1S16. ()) Noiret, le». VII. (41 Idem, lett. Vili. (5) Ibidem. (6) In P1CCOLOMIN1, l. c.. (7) Vedi sopra, p. 255. (8) Noirbt, lett. VII 284 GIORNALE LIGUSTICO baces il palazzo del Mecenate di Giovanni, il cardinal Marco Barbo (1). La relazione del Calcondila col Marnilo dovette certo essere più stretta che con quegli altri , e ne abbiamo certa testimonianza in un affettuoso ed encomiastico epigramma del secondo al primo (2). Nondimeno è leggenda sciocca inventata dal Giovio, ciò che si racconta degli odi di Demetrio col peggiore e più potente nemico di Michele: non solo restano del Poliziano due epigrammi in lode del professore Ateniese (3), ma gli è per mezzo di messer Angelo che vedemmo 1’ Odasi salutare in Firenze il Calcondila (4), e cosi Pomponio Leto e Demetrio si ricambiano auguri e saluti sempre per mezzo di lui (5). Ottimi rapporti sembrano anche essere trascorsi tra il professore greco e Michele ed Ugolino Verini (6), mentre « De- (1) Mazzuchelli , Scrittori d’Italia, t. II, parte I, pp. 518-319; Degli Agostini, Scrittori Vinili ani, t. I, p. 450. (2) Marullo, Hymnì et epigrammata, f. 31 verso, Florentiae, 1497: Dura per Hymctium diu necquicquam apis quaerit vaga, in os sacrum ClulconJvli et labia suaviflua incidens: « Heus, inquit, aequales bonae, huc huc adeste s.-duUe, matrem videtis Attida. Le poesie del Marullo furono ripubblicate dal Sathas, ΜνημβΙϊ 'Ελληνικής 'Ιστορίας, Documents inédits relatifs à l'histoire de ia Grice au moyen âge, t. VII, p. 173-235, Paiigi, Maisocneuve, 1888. (3) Si veggano in Del Lungo, Prose italiane inclite e poesie greche t latine di Angelo Poli\iano, pp. 190 e 192. Firenze, Barbèra, 1887. (4) Vedi sopra, p. 268. 15) Poliziano, Epist., I, 17 e 18. Nella prima, che é di Pomponio, questi dice: « Deinde plurimam salutem Demetrio impartias »; nella seconda, del Poliziano, rispondesi: « Demetrius autem salutem sibi a te dictam totidem verbis renumeratur ». (6) Veggansi le epistole di Michele Verini nel codice laurenziano Pluteo XXX, codice XXVIII. GIORNALE LIGUSTICO 285 metrius Byzantins » è pure ricordato tra’ suoi famigliari da Marsilio Ficino (1), che già vedemmo chiamarlo in altro luogo « disputatorem artutissimum » (2) ed in un terzo passo lo pone fra i censori della sua traduzione di Platone, come uomo « non minus philosophia et eloquio, quntn genere, attienili » (3). Di Bartolomeo Fonzio vi sono a dirittura lettere manoscritte al Calcondila (4) e ricordi di lui in altre ad altri , nonché in varie opere ( 5), mentre del Calcondila stesso lettere a Lorenzo de’ Medici furono segnalate fin dal secolo scorso dal Bandini (6). Il Fonzio medesimo ci apprende la comune amicizia con Giovanni Acciajoli (7), che r.troveremo collaboratore di Demetrio nell’ edizione di Omero e de' padrini di suo figlio Teolìlo Trifone (8); ed altre fonti ancora ci mostrano il nostro Ateniese in relazione col Landino (9), con Matteo Bosso (10), col canonico Giorgio Vespucci ( 11), con Pietro Dati (12), con Lorenzo (1) Ep:slalar familiares, 1. XI, Martino Uranio, f. 182. Venetiis, Capcasa, MCCCCLXXXXV. (ì) Vedi sopra, p. 247. (}) Pr itf. iid versionim Platonis. (4) Per esempio, vedi II, 2, in data Roma 31 dicembre 1483, e cfr. sopra, p. 26], 11.). Cerei (limo di consultare il codice Laurenziano indicato dal Bandisi, come contenente queste lettere, ma il dotto prefetto della Lau-renzuna, Comm. Anziani, rispose non esistere più colà. (}) Opera exquisitissima. Francolorte, 1621. (6) Specimen liti, fit'r., t. I, p. 109 {Cfr. t. 11, p. 43-44^). Il codice che le conterrebbe, sarebbe lo strozzano CCClXVIU, ma neanche questo ci fu dato trovare. (7) Vedi la lettera del Fonzio citata sopra, p. 264, n. 3. (8, VcJi l'aito di nascita di Teofilo-Trifone p. 288, n. 3. (9) Cfr. più innanzi in questo stesso $, in fine. (10) Bosso, Epist.. (ti) De' padrini di Teodora e di Teseo, figli del Calcondila. (12) De' padrini di Teodora. 286 GIORNALE LIGUSTICO Tornabuoni (r), con Alessandro Farnese (2), con Pietro Bibbiena (3) e con Pandolfo di Luna (4). Un « Blando » (j), e un « Lodovico di Cipro » (6) sono da lui stesso ricordati nelle sue lettere al Lorenzi, da una delle quali si scorge pure che egli conobbe il celebre Giovanni Pico della Mirandola (7), che d’ altronde sappiamo essere stato anch’ egli de' padrini della figlia di lui Teodora (8). Ci occorrerà dire più tardi di una sua notevolissima lettera a Marcello Virgilio Adriani e quindi della loro amicizia, e già avemmo ad accennare ai rapporti suoi con un altro Demetrio, il Cidonio (9), su cui dovremo ancora tornare fra poco. Nè soltanto son note relazioni del Calcondila con letterati, ma ancora con artisti, perocché si sa eh’ egli lu raffigurato dal Ghirlandajo in Santa Maria Novella (10), mentre un’altra pittura conservata nella publica biblioteca dell’Accademia di Lipsia, lo rappresenta sui colli fiesolani, in amichevole conversazione col Poliziano, col Landino e col Ficino (11). (1) De’ padrini di Teofilo-Trifone. (2) De’ padrini di Teseo. (?) De’ padrini di Gian Basilio-Romolo. (4) De’ padrini di Gian Basilio-Romolo. (5) Noiret, lett. II e Vili (6) Idem, lett. III. (7) Idem, lett. VII. (8) Vedine 1’ atto di nascita p. 288, n. 3. (9) Vedi sopra, p. 254. (10) Vasari, Vita del Ghirlandajo. Cfr. Bocchi, Delle belle^e di Firenze. (11) Mencken, Vita Politiani, p. 450. 287 III. Acquistata cosi in Firenze onorevole ed agiata condizione, potè Demetrio Calcondila attendere serenamente agli studi, riposando de’ passati travagli. La sua attività non si consuma, non si esaurisce tutta nell’ insegnamento: egli rilegge e commenta gli antichi classici greci, e quando i testi gli fanno difetto, ricorre per imprestito alla ricca biblioteca Medicea, dalla quale, per esempio, ottiene un Platone in pergamena ed un’ Elica di Aristotile, già posseduta dal Filelfo, colla traduzione di Leonardo Bruni d’Arezzo, che poi rende il 20 aprile 1486, oppure — il 13 gennaio 1489 — un « Proclum supir Timaeum », tre orazioni di Eschine, un Polibio, un Diodoro, una Lt'gica di Aristotile, che rende solo dopo due anni e mezzo, il 3 ottobre 1491 (1). Per compenso, egli regala 0 vende alla biblioteca stessa, de’ libri suoi, un « bellissimo » Plutarco in pergamena, un Cleomede ed Euclide in papiro «con le figure », forse le Terapeutiche di Galeno, eh’ erano state del Gaza, sebbene in certe occasioni se li faccia di nuovo dare e li tenga a più tempo » (2). E la quieto della vita gli fa pur nascere il desiderio della lamiglia. Solo, lontano dalla patria, con molte relazioni letterarie, ma forse nessun’ amicizia di cuore, egli sente il bisogno di un affetto intenso, dell’affetto di una donna che abbia anche cura della casa, mentr’ egli è intento a ristudiare gli antichi filosofi, storici e poeti. Così avviene il matrimonio (1) PiCCOLOMtxi, Rirercht intorno alle condicioni e alle vicende della libreria Mtdnea privala dal 1494 al tfoS, in Archivio Storico italiano, Serie III, t. XXI, p. 287, Firenze, 1875. (2) Ibidem, p. 286. 288 giornale ligustico del Calcondila, si può congetturare dalla nascita del primo figlio, nell’estate del 1484 (i). Il Giovio (2), mala lingua, la dice donna « mire foecundam » ed aggiunge di’ essa reggeva « virili industria r> tutta la famiglia, donde la « fama » — poveraccia lei — stimolla « dubia pudicitia », quantunque tre de figliuoli « ipsam veri patris effigiem ore graeco penitus referrent ». Giurare per la pudicizia d’una donna é cosa assai arrischiata ; epperò non v’ lia modo di ribattere il Giovio, che, certo, dice la verità quando parla della fecondità della moglie di Demetrio, perocché ebbe dieci figli, di cui quattro a Firenze e sei a Milano (3). (1) Teodora, la prima dei nati del Calcondila, vide la luce il 29 maggio 1485. Riporteremo or ora l’atto di nascita. (2) EI. vir. ili., pp. 55-57. Basilea, MDLXXVII. (3) Nacquero in Firenze Teodora, Teofilo-Trifone (9 novembre i486), Teseo (7 aprile 1489) e Gian Basilio-Romolo (18 settembre 1490). Gli atti originali di nascita, di pugno del Calcondila, esistenti nel codice parigino 2073, furono pubblicati dal Legrand, Op. cit., t. I giova recarne il testo, per la parte che riguarda le nascite in Firenze; più innanzi daremo anche il rimanente che si riferisce alle nascite in Milano. Έν Φλωρεντίο: [1] Τη κθ’ του μαίου μηνάς, 1485 ετει τφ από χής χόυ Χρίστου γεν-νήσεως, σελήνης άγούσης περί έκκαιδεκάχην πρωί, ήμέρ? κυριακη, περί ένδεκάχην ώραν έγεννήθη μοι θυγάχριον όνομασθέν θεοδώρα, φ δαίμων άγαθός παρείη καί διεξάγοι διά βίου πανχός. Σύνχεκνοι κόνχος Ιωάννης ό εκ Μιρανχούλης, Γεώργιος Βεσπούκιος πανονικός, Πέτρος Δάχης. [2] Έχι χη θ" του νοεμβρίου μηνός, i486 Ιτει σελήνης άγούσης περί ιγ’, ήμέρ£ πέμπχη, πρωί, περί χεσσαρεσκαιδεκάχην ώραν, έ/εννήθη μοι παιδίον δνομασθεν Θεόφιλος Τρύφων, φ ή θεία πρόνοια παρασχαίη σύν άγαθφ χφ δαίμονι. Σύνχεκνοι Βέρναρδος Νέρλιος Νηρίλιος, Ιωάννης Άκιόλης, Λαυρέντιος ό Τορναβόνος. [3] Έχι τη ζ' του άπριλίου μηνός , ήμέρ? τρίχτ^ , 1489 εχει , σελήνης άγούσης περί ένδεκάχην ήμέραν , έγεννήθη μοι παιδίον άρρεν , όνομασθέν θησεύς, ο ειη θεί$ μοίρ$ γεννηθέν καί χραφέν εΰ πράξαι κατ ’εύχήν των GIORNALE LIGUSTICO 289 Soddisfatto il suo desiderio di affetto e liberato insieme delle cure di casa, il Calcondila pose tutto Γ animo suo nel-1 edizione dell antichissimo fra i monumenti della greca lette! atura. L edizione di Omero — la prima — usci nel 1488, a spese dei fratelli Bernardo e Neri Tanai de’ Nerli, coll’aiuto di Giovanni Acciajuoli e coi tipi di Demetrio Cidonio ; la dedica era a Piero de’ Medici, e 1’ editore vantavasi nella prefazione, sebbene a torto fi), che fosse il primo libro a stampa in caratteri greci (2). Lorenzo dovette essere lusingato dal-l’idea che la sua Firenze avesse l’alto onore di publicare prima i poemi omerici, e saperne grado non piccolo al Calcondila, che fu appunto allora incaricato con Pietro Egineta di erudire nel greco il giovanetto Giovanni, destinato prossimamente al cardinalato. E quando il 9 marzo 1489 questi ebbe l’aspettata porpora, non cessò per questo di portare amore al maestro, anzi non disdegnò, il 7 aprile seguente, di essere fra i padrini del figlio di lui Teseo, come fu poi di nuovo tra quelli di Gian-l3asilioRomolo, il 18 settembre 1490 (3). A sua volta, i! Calcondila accompagnò a Roma il nuovo cardinale, quando questi si recò a ringraziare il Pontefice, e, in una sua lettera al Lorenzi scritta subito dopo il ritorno a Fi- γονέων. Σύντεκνοι Ιωάννες Μεδίκης ό τού Λαυρέντιου ό ψηφισθείς καρδι-νάλις, Αλέξανδρος Φρενέζης καί Γεώργιος Βεσπούκιος. [4Ì Έτι τί) ιη1 τού σεπτεμβρίου μηνός, ήμέρ$ σαββάτψ 1490 ετει, περί Ϊωδεκάτην ώραν, σελήνης άγούσες δ', έγεννήθη μοι παιδίον άρρεν, όνομα-σθέν Ιωάννες Βασίλειος 'Ρώμολος, φ ή θεία χάρις ύπάρχοι σώζουσα αυτόν ούν άγαθ$ χύχ-Q. Σύντεκνοι δ ψηθείς Ιωάννης Μεδίκης, Πάντοηλφος δ έκ Αούνης, καί Πέτρος δ έκ Βιβιαίνης, γραμματεός τού Ααορεντίοο Μεδίκοο. (ι) Già nel 1481 era stato stampato in Milano un salterio per cura di Giovanni Crastono e nel i486 a Venezia la Balrocomiomachia, in caratteri greci. (2) Ne vedemmo un magnifico esemplare nella Biblioteca di Brera. (}) Vedine gli atti di nascita p. 288, n. 3. Gioii. Ligustico, Anno XIX. ια 290 GIORNALE LIGUSTICO renze, narra appunto le accoglienze « oneste e liete » fatte loro dal Barbo e da papa Innocenzo Vili « per la sua amicizia e parentela con Lorenzo de’ Medici », e poi de nuovi complimenti avuti al ritorno dal Magnifico stesso (i)· Sembra però dalla lettera medesima che Demetrio profittasse del-Γ occasione per vedere di farsi chiamare, mercè i buoni uffici del Lorenzi, alla corte del Pontefice e già disponesse d inviare segretamente i suoi libri a Roma, quando cadde ammalato di grave terzana (2), ciò che rovinò i suoi disegni. Falliti, per altro, rispetto alla corte romana, egli, guarito, tornò a formai li per altra corte eh’ era in fama di essere ancor più munifica che quella de’ Medici o di papa Cybo, e stavolta essi riuscirono pienamente (3). (1) Noiret, lett. VII. (2) Idem, lett. VII e VIII. (3) Affermano quanti hanno scritto intorno alla vita del CaLondila, <-he egli rimanesse in Firenze fin dopo la morte di Lorenzo, avvenuta 1 8 apr. i~,92> ma in realtà a quella morte egli era già da più mesi in Milano, dove eia stato onorevolmente invitato a’ suoi servizi da Lodovico il Moro. È da notare che fin dal 1752 il Bandini, Collectio veterum aliquot monumentorum ad historiam praecipue litterariam perlinentium, pp. 22-24> Arezzo, 1 752» aveva pubblicata una lettera di Demetrio in dafa Milano 4 niaggio 1192' in cui si parla, come vedremo, della notizia comunicatagli da Marcello Virgilio Adriani della recente morte del Medici, lettera che avrebbe dovuto far conoscere come il Calcondila era venuto a Milano prima di detta morte. Lo stesso Legrand (t. Il, app,, pp 310-311), che ripublicò questa lettera, ed altrove (t. I, p. c.) fissò il passaggio di Demetrio a Milano tra il 16 giugno 1491, data della seconda lettera del Calcondila da Firenze al Reuchhn, e il 4 maggio 1492, data della lettera all’Adriani, tornò poi a ripetere anch’egli che l’Ateniese Lisciò Firenze dopo la morte di Lorenzo, nè si sa per qual ragione l’abbandonasse. Uno di noi ebbe già (Bad;ni-Con-falonieri, Op. cit., p. io) ad elevar dubbi su tale erronea opinione ed emise l’ipotesi (che i documenti che verremo citando confermano inteia mente) che Demetrio passasse a Milano essendo ancora vivo il Medici. GIORNALE LIGUSTICO 291 IV. Non è qui il luogo di rappresentare nuovamente il quadro della vita letteraria in Milano ed in Pavia sotto la reggenza, e poi sotto il ducato di Lodovico Sforza, sopranominato il Moro. Ma gli è certo che la corte letteraria di quel principe accorto e spiritoso, grande dilettante di poesia e, a volte, poeta ancor egli, non cedeva per nulla a quella di Lorenzo de’ Medici in Firenze, anzi forse la superava. D’ogni parte vi accorrevano dotti uomini, umanisti e verseggiatori, italiani, latini, greci, e se nella storia occupa un luogo meno cospicuo, gli è solo perchè fra i letterati che la costituirono, mancò un Poliziano od un Pulci, un Ficino od un Landino od un Pico della Mirandola, sebbene vi fossero uomini come il Maino, PAntiquario, il Minuziano, il Merula, il Pistoia, i Calchi, il Corio, Gaspare Visconti, Galeotto del Carretto ed altri veramente insigni, ma che, per la natura di lor dottrine, furono meno popolari e quindi meno celebri de’ frequentatori delle case medicee (1). Lodovico il Moro non trascurava nulla per trarre a sè e far venire a Pavia od a Milano quanti si erano acquistata riputazione maggiore nella poesia, nella storia, nel-1’ erudizione, nella giurisprudenza, e nell’ arte era riuscito non solo a compiere la Certosa, ma ad avere presso di sè il genio italico più grande dopo ΓAlighieri, Leonardo da Vinci (2). Per poco non riuscì ad ottenere dal Poliziano la dedica del· Γ edizione riveduta delle Pandette, e non fu cosa che non fa- fi) Per tale quadro veggasi Gabotto, Giason Dei Maino, pp. 165-169. (2) Uzielli, Leo,tardo da Vinci e la sua famiglia, 2.* edizione, Torino, Loescher, 1890. 292 GIORNALE LIGUSTICO cesse al riguardo (1): se gli andò fallito il disegno, non fu certo sua colpa, ed almeno a Firenze potè togliere l'uomo che, dopo la morte del Gaza e prima della fortuna del Musuro, era divenuto a poco a poco il più insigne rappresentante dell’ellenismo in Italia, Demetrio Calcondila. Fallite le speranze di trarre di nuovo a Milano il vecchio Costantino Lascaris, che era riparato nel clima più caldo e benigno di Messina (2), L.odov co volse subito gli occhi sul Calcondila, mossovi forse da qualcuno di quei suoi dotti segretari, l’Antiquario od il Calco, che tanto avevano a cuore l’incremento della corte letteraria sforzesca. Ben è vero che una petizione di venticinque ragguardevoli personaggi, fra cui figurano i nomi dello stesso Bartolomeo Calco, di un Lodnsio Crivelli (3), di Filippo Firoffini, di Bonino Mombrizio, chiedeva insistentemente che fosse conferita ancora la cattedra di lettere greche ad un altro « Costantino Constantinopolitano, quale fin al dì d’ hoggi se trova haver lecto circa quatro anni continui cum grande fructo ed utilità de li auditori, non perdonando ad vigilie, fatiche e sudori dì et nocte per legere et componere cum boni et reali fundamenti cosse utile ad li audienti et ad qualunque desyderoso imparare littere grece », ma, nonostante tutte quelle preghiere, nonostante il fervorino finale con cui supplicavasi « devotissimamente la benignissima Signoria del Duca che, deliberando condurre persona che iega greco, dignasi che dicto Constantino non sia scordato nè posposto, il quale per le fatiche, doctrina, virtute et meriti suoy degnamente merita essere havuto in memoria et singularmente (1) Gabotto, Una relazione sconosciuta di Angelo Poli{iano colla corte di Milano, Torino, La Letteratura, 1889. (2) Vedi la risposta del Lascaris in Gabotto, Tre lettere d’ uomini illustri dei secoli XV e XVI, pp. 8, 9 e 18, Pinerolo, Tip. Sociale, 1890. (3) Sui Lodrisii Crivelli cfr. Gabotto, R'cerche intorno allo storiografo quattrocentista Lodrisio Crivelli, Firenze, Cellini, 1891. GIORNALE LIGUSTICO 293 preposto » perchè « etiam de ciò reussirà laude et gloria immortale alla S. Ill.ma S.na et ad tutta quella sua città di Milano » (1), prevaleva il concetto di farvi venire il Calcondila, dal quale si ripromettevano cose maggiori. Era allora ambasciatore del Moro a Firenze Angelo Talenti, uom dotto e di dotti fautore e mecenate, poeta forse ancor egli e grande amico certo del Pistoia, delPAntiquario, di Mar-chesino Stanga, di Ermes e Gaspare Visconti, di Girolamo Tuttavilla e di altri uomini di lettere e di affari della corte milanese (2). Fu egli Γ incaricato di trattar la condotta di Demetrio a Milano; epperò, saputosi dallo Sforza ch’era finito il tempo di quella da lui stretta per Firenze, scriveva al suo ambasciatore in data Pavia, 6 luglio 1491: « Essendo noi desiderosi di non inanellare in cosa alcuna quale possa prestare utilità alli ingetiij de li gioveni nostri milanesi quali sono inclinati alli studi de Immanità, havemo deliberato de condure qualche homo valente ne la litteratura greca. Et perchè intendiamo che Demetrio, quale al presente sta in quella cità, deve bavere finita la conducta sua cum quelli Ex.mi S.rt, et che essendo da noi richiesto facilmente porrìa succedere che acceptaria la invitatione nostra, havemo deliberato de ricercarlo de questo, per esserne significato non solo lui es- (1) Archivio di Stato di Milano: Autografi: Crivelli Lodrisio. (2) Nel codice sessoriano 41} della Vittorio Emanuele di Roma, sono alcuni sonetti del Pistoia ad « un Angelo da Firenze ». Il Cian, Recensione del » Pistoia » del Renier, in Rivista Storica Italiana, t. V, pp. 78 e segg., pensò trattarsi di Angelo Poliziano. Il Renier in una nota aggiunta al suo articolo Poeti sforzeschi in un codice di Roma recentemente segnalato, in Rassegna Emiliana, t. I, p. 68, combattè quest’ ipotesi, e poi in altra nota nel Giorn. Stor. lett. it., t. XI, p. 485, propose con maggior ragione l’identificazione dell’u Angelo da Firenze » col Talenti. Cfr. anche Gabotto, Girolamo Tutlavilh uom d'anni e di lettere dtl secolo XV, pp. 7-8, estr. dall’Archivio storico per le province napoletane, anno XIV, fase. Ili, 1890. GIORNALE LIGUSTICO sere multo erudito in greco, ma etiam ornato de boni costumi et virtù » (i). Ed avendo già per mezzo di messer Branda Castiglione saputo che il Calcondila avrebbe appunto avuto carissimo di venire a Milano, il reggente, ornai quasi sicuro di non fare un passo inutile, ingiungeva all’ ambasciator Tacenti di fargli la proposta ufficiale, raccomandandogli però di soggiungere al Calcondila « che la intentione nostra è chel habia prima bona licentia dal M.c0 Laurentio, perchè altramente non lo admeteressimo, per non fare cosa quale havesse a dare offensione alla M.,!* sua » (2). La qual cosa vuol essere notata, perchè avremo a tornarvi sopra fra poco. Alla lettera all’ ambasciatore era unita un’ altra pel Calcondila stesso. Presentavagliela il Talenti, ed egli rispondeva: « Illustrissime et excellentissime Princeps, etc.. Ho recevuta una lettera de la 111.”1 S. V/*, la quale m’ è stata non solamente gratissima, ma anche 1’ 0 reputata in mio grande benefìcio per essere stato iudicato degno de reccvere lettere de tale e tanto Prencipe », e continuava lodando il suo disegno d’istituire una cattedra di greco a Milano « la qual cosa me pare che sia de animo Cesareo et de vero et naturale Pren-cipo, el quale non solamente provede al commodo et ornamento de la iuventù de la terra, ma inseme aquista immortale laude et gloria (3)». E venendo a toccare più direttamente dell’offerta del Moro, dopo avergliene rese le maggiori grazie, diceva: « Et del salario mio lasso a l’arbitrio et liberalità de la Ex.tU V. », ma tosto aggiungeva ch’era certo « che essa non patirà di darme meno de quello che I10 in questa excelsa republica ». Spiegavagli poi da ultimo come non cre- (1) Archivio di Slato di Milano: Autografi: Letterati. Calcondila: lettera ducale a Giovan Angelo Talenti in data 6 luglio 1491. (2) Ibidem. (3) Lettera del Calcondila a Lodovico il Moro in data 13 luglio 1491· GIORNALE LIGUSTICO 295 deva incontrerebbe difficoltà per la licenza, avendo egli regolarmente compiuto il suo tempo, che scadeva appunto col finire di quel mese. Tuttavia, a questo riguardo, egli dubitava realmente che lé cose potessero non passar così liscié. La repubblica fiorentina era avvezza ad usare anche la violenza per trattenere i professori che le convenivano: non erano ancor passati due anni che il celebre giureconsulto Bartolomeo Soccini, avendo tentato di fuggire dall*Università di Pisa, era stato arrestato é costretto a rimanervi per forza (i), ed a Giason Del Maino non era toccata la stessa sorte, solo in grazia della parentela che legavaio cogli Sforza (2). Ma se Lodovico il Moro si poteva mostrar pronto a sostenere il Maino fino a giuocare gli ambasciatori fiorentini, non era probabilmente disposto a fare altrettanto pel Calcondila: altro era un cugino, altro un semplice retore greco, per quanto riputato e meritevole. E del suo timore d’incontrar difficoltà per la licenza, il Calcondila, pur tacendo nella lettera al Moro, aveva fatto parola col Talenti, che scriveva lo stesso giorno 13 luglio al suo signore che, ad ogni buon fine, « s’ è resolto de differire ad farne mentione alchuna del levarse de qua al dicto tempo » (3) , cioè alla fine del mese per 1' appunto. Nè questa difficoltà era la sola che si presentasse, perocché Demetrio si preoccupava vivamente della questione finanziaria. Egli aveva esperimentata un giorno la miseria, nè più voleva ricadérvi : se bramava mutar soggiorno, era certo per migliorare la sua condizione, non per peggiorarla. E del rimanente ornai aveva famiglia, moglie e figli da mantenere, e sarebbe (1) Gabotto, Giason Del Maino e gli Scandali Universitari nel Quattrocento, p. 159-141, e gli autori ivi citati. (2) Idem. Op. cit., p. 1,12-145· (5) Lettera del Talenti al Moro in data 15 luglio 1491. 29^ GIORNALE LIGUSTICO stata assurdo non pensare allo stipendio. Che se nella lettera al Moro diceva che « del salario suo lassava a 1’ arbitrio » di lui, coll ambasciatore non avea più ragione di esitare a porre chiaramente e nettamente la questione, e dicevagli aver « questo scrupolo de venire a Milano, che la informatione eh è iacta de la, eh’ el suo stipendio da sig.n Fiorentini sta de ducati ducento, è male intesa, perchè 1’ è de ducati ducento d oro ». Il Talenti cercava di tranquillarlo ed assicurarlo con dirgli « che non prendesse affanno, chè credeva che li suoi Ill.m' Principi non mancheriano de farlo contento, saltem ch el habia de là tanto quanto el haveva de qua » (i) ; pure pensava eli’ era meglio avvertirne il reggente « adeiò O OD che la M.tia Sua, intendendo el tutto, gli desse quello rimedio gli paresse essere conveniente ». Ma il Moro non lesinava: troppo premevagli avere presso di sè il Calcondila; epperò, riscrivendogli in latino il 19 di quello stesso mese di luglio, fra i complimenti, non mancava di largii notare: « Ouod autern ad nos pertinet, non negligetiir ut neque de stipendio, ncque de benevolentia aliquid ex eo quod istic habuerit mutatum esse apud nos sentiatur » (2). E stavolta Demetrio era contento, e mostrava la sua soddisfazione in un’ altra lettera allo Sforza, in cui profondevasi tutto in riverenze, inchini ed attucci (3), dimentico affatto di quelle superbe parole che vedemmo altra volta da lui scritte all’ amico Lorenzi (4). Giungeva così la fine del mese. Il Calcondila intanto, man mano che s’ appressava il termine di pigliare un partito, ritornava ai dubbi, alle esitazioni: era 0, almeno, si mostrava incerto più che mai. Prima dell’ 8 del seguente agosto afìer- (1) Lettera del Talenti a Bartolomeo Calco in data 13 luglio 1491. (2) Lettera del Moro al Calcondila in data 19 luglio Ι49Γ. (3) Lettera del Calcondila al Moro in data 27 luglio 1491. (4) Vedi sopra, p. 272. GIORNALE LIGUSTICO mava al Talenti di aver ottenuta « bona et grata licentia dal M.co Laurentio per venire di qua », e forse non era vero(i): diceva per contro eh’ era « sollicitato et instato da alcuni cavalieri d epso M.co Laurentio ad volere restare a Fiorenza, cum dirli che per rispecto de la promessa ha facto de venire di qua non ne habia altro pensiero, perchè fariano talmente con S. Ex. che la fariano restare contenta di questo » (2), e, sebbene queste premure e queste insistenze siano tutt’ altro che improbabili, sembra pure che Demetrio in qualche parte esagerasse, forse per farsi valere di più. Ad ogni modo, il 1 alenti scriveva in proposito al Calco, primo segretario ducale, ed il Calcondila vi univa un’ altra lettera nel medesimo senso: entrambe il Calco mandava al Moro il giorno 8 agosto appunto, e Lodovico domandava tosto schiarimenti. Il 17, il Talenti rispondeva al Calco di non poter ancora dir nulla « perchè non iiaveva anchora satisfacto », ma prometteva che « per la prima lo aviserebbe del tutto » (3). Finalmente, il 20, gli ufficiali dello Studio fiorentino rilasciavano per iscritto il desiderato commiato a Demetrio (4), e questi avrebbe potuto subito partire. Ma la menò ancora in lungo per tutto il mese di settembre, e solo dopo il 3 ottobre, restituiti in detto giorno i libri che ancor teneva della biblioteca medicea (5), partì alla volta di Milano, dove lo seguì tosto una commendatizia per lui, del Magnifico al Moro (6), e già Γ8, otteneva un’ anticipazione sullo stipendio, 0, almeno, in seguito (1) La licenza scritta, che si trova nell’Archivio di Stato di Milano: Carteggio generale, 1491, foglio staccato, é invero datata 20 agosto 1491. (2) Lettera del Calco al Moro in data 8 agosto 1491. (3) Lettera del Talenti al Calco in data 17 agosto 1491. (4) Vedi sopra, n. 1. (?) Piccolomini, Ricerche, p. 288. (6) La notizia è data dal Reumont, in Archivio storico italiano, Serie III, t. XIX (a. 1874), p. 418. 298 GIORNALE LIGUSTICO probabilmente alle rimostranze da lui fatte riguardo alle strettezze in cui si trovava per le spese del viaggio, una lettera del Moro al Consiglio segreto che ordinava tale anticipazione (1). (Continua) VARIETÀ LA NOVELLA CCXII DEL SACCHETTI e UNA « PARISTORIA » SARDA. Come ho già notato altra volta, la trama sulla quab i novellieri intessono le loro novelle, è fornita dalla tradizione vaga, incerta, multiforme, che corre per le bocche del volgo. Chi sa narrare un fatto udito, con garbo, in buona lingua, variando di poco le circostanze, è certo di darlo ad intendere come nuovo, colla massima facilità: è un gioielliere che disponendo abilmente in foggia diversa gemme vecchie, e ripulendole, ne forma una collana che egli dà per nuova fiammante. Così, per tacer d’altri, hanno fatto il Boccaccio ed il Sacchetti, ai quali rimane però sempre il merito grandissimo, di avere (nel caleidoscopio della loro fantasia) disposto vecchi fatti, a nuovo. Queste osservazioni calzano a proposito della seguente pciristoria o novellina sarda, raccolta a Ghilarza, circondario di Oristano, prov. di Cagliari, dalla bocca di un contadino (1) Lettera del Moro al Consiglio segreto di Milano in data 8 ottobre 1491 · GIORNALE LIGUSTICO illetterato. Eccola nel dialetto logodurese, misto di campidanese,· che si parla a Ghilarza. Custos fuinti tres cumpanzos, e fuinti fainde unu cuntrattu, e ’ìanta postu una posta, de andare a furare una cappa de unu préide. Unu de custos fudi unu furone mannu, e sos àtteros ddj ànta nàu: Marranu ca non dda furas! E marranu ca dda furo ’ia issu. — Assoras est andàu a si cuffes-sare e su cuffessore ddi à nàu: Fàe sa rugho e nara s'attu de cuntrizione. Appustis ddi à nàu: Ebbene, de ite ti accusas? — Zeo mi accuso ca tenzo unu viziu malu, ed este de iscùdere a chie agàto; a babbu, a mania, a préide, a para, no dda prappo a nessunu. — Troppu malu viziu tenes, ar-respor.de’ su cuffessore, e ti nche ddu depes ’ogare. Ih 1 ma no mi nche ddu pozzo ’ogare, e s’iscàppada: allòddu allòddu, allòddu — fainde sos coddos. Su prèide assòras, po sa timorìa si neh’ e’ fuìu, ei cuddu ìntrada i-ssu cuffessionariu e nde furat a sa cappa. Ecco sa pari-storia finida e binta sa posta. A mie anta jàu una pàriga de iscrappas de papèri, chi no minch’ ànta arribàu a domo. Questi erano (oppure si racconta che c’erano) tre compagni, ed eran facendo (stavano) un disegno, e avevano stabilito (fatto) una scommessa di andare ad imbolare una cappa di un certo prete. Uno di questi tali era un ladrone grande, e gli altri due gli hanno detto: sei marrano oppure: scommettiamo, che non la rubi!-E scommettiamo che la rubo aveva detto egli. Allora egli è andato a confessarsi ed il confessore gli ha detto: Fa(tti) il segno della croce e di’ 1’ atto di contrizione. Poscia gli ha detto: ebbene, di che ti accusi? — Io mi accuso che ho un cattivo difetto, ed è di bastonare chi trovo; (sia) il padre, (sia) la madre, prete, frate, non la perdono a nessuno. — Hai un difetto troppo cattivo, risponde il confessore, e te lo devi togliere. Eh ! ma non me lo posso levare — e s’alza a corsa dicendo: eccolo! eccolo! eccolo! e facendo vèrsacci per battere. Il prete allora, per la paura se n’è fuggito, e colui entra nel confessionale e ruba la cappa. Ecco finita la novellina e vinta la scommessa. A me hanno dato un paio di scarpe di carta che non mi son durate (fino) a casa. Coddu significa collo, omero ; faghere coddos dimenare le braccia. Nel Sacchetti due novelle, la 152."“ e la 212.™% accennano alla paristoria ghilarzese: Nella 1. « Popolo d’Ancona, 300 GIORNALE LIGUSTICO buffone, per grande improntitudine e con nuova sottigliezza, cava una cappa di dosso al Cardinale Egidio, quasi contro il suo volere e vassi con essa ». Nella 2.“ si narra « di una grande sperienza che il Gonnella buffone fece al tempo del Re Roberto, traendo da uno ricchissimo e avarissimo abate, quello che mai da alcuno non fu possuto trarre, e per questo n ebbe dal Re e dai suoi Baroni grandissimi doni ». — Il Sacchetti dipinge il fatto da maestro. « Il pellegrino dice: messer l’abate, io ho una natura o condizione sì perversa, che spesse volte divento lupo, con sì gran rabbia, che qua-lunche persona mi è dinnanzi io divoro, e non so da chè, nè donde proceda ecc. L’abate udendo costui si cominciò tutto a cambiare, avendo grandissimo timore. Il Gonnella che aveva gli occhi d’Argo, come ciò vede, comincia a tremare e sbadigliare forte, dicendo: oimè! oimè! che io comincio a diventar lupo; aprendo la bocca verso 1’ abate. All'Abate non parve scherzo, levasi in piedi e fugge verso la sagrestia. Il pellegrino come accorto aveva afferrato la cappa, e non lasciandola sull’ entrare dell’ uscio della sagrestia, l’abate sfibbiandosi il cordone, lasciò la cappa di fuori e ser-ròssi dentro 1’ uscio. Il pellegrino messasi la cappa sotto se ne va quanto più puote nella corte del Re. — Ed ecco binla sa posta. — Ecco vinta la scommessa dice la panstoria ghi-larzese. G. Ferraro. I PIGMEI. Il mito dei Pigmei, molto antico e diffuso nelle popolazioni indoeuropee e nelle semitiche, dapprincipio indicò la prisca popolazione di un paese che ritiratasi davanti agli invasori guerrieri e mercanti, continuò ad attendere all’agricoltura: poscia fra popoli bellicosi e conquistatori, indicò la classe degli artigiani attendente a lavori manuali creduti meno GIORNALE LIGUSTICO 3°I nobili ed onorifici; da ultimo il mito (’ondendosi insieme questi due diversi significati) rappresentò in aspetto bonario e quasi di satira, le persone di bassissima statura, i bambini, o gli animali, che per la loro piccolezza e per la sociabilità, potevano assomigli ire ad una popolazione di nani. Tuttavia è bene ricordare che esistevano nell’ antichità ed esistono anche oggidì, popolazioni di statura così piccola da pctere essere prese come movente della creazione fantastica dei Pigmei. I Telchini di Etiopia; le grosse formiche (o gli uomini del Thibet) scavatrici d’ oro, ricordate da Erodoto nell* Alca-India ; i Cabiri; nell’antichità — gli Eschimesi, i Lapponi, gli Akka (popolo affricano) dei nostri giorni, provano che la detta creazione è fondata in parte sul vero. Ma da queste popolazioni vive e vere, a quella dei Pigmei, secondo la immaginosa creazione dei Greci, ci corre. Alti non più di un pugno (pigme) o di una spanna (spitame) i Pigmei o Spitamei, erano in continua guerra colle gru, dalle quali proteggevano cogli eserciti le messi, e queste tagliavano coll’ accetta, come pure battevano i baccelli secchi delle fave colle pertiche. Abitavano in case dal tetto formato di un guscio d’ uovo: le loro donne erano madri a tre e vecchie ad otto anni, uscivano dai buchi della terra, quando andavano in villa, quasi fossero formiche uscenti da un formicajo. Questa tradizione era nata in Grecia per opera degli invasori Egizi o Fenici, che coll’ alfabeto importarono fra gli El leni la civiltà; infatti sorge primieramente in Samotracia, isola del mare Egeo, famosa pel culto che in essa si rendeva agli Dei Cabiri — (gli antichi figli di Sydich, navigatori venuti dall’ Egitto, confusi poi cogli Dei Penati dei popoli orienali) a Cerere ed a Proserpina; poscia nella Tracia propria. La mitologia greca che convertì in graziose creazioni le esagerazioni enfatiche degli (Orientali mentre ne narrava le immigrazioni nell’ Eliade e nelle regioni dell’ Occidente), ricorda 302 GIORNALE LIGUSTICO Piga, regina dei Pigmei, trasformata in gru da Giunone per aver osato di paragonarsi alla regina degli Dei, ossia mostra lo sprezzo che gli stranieri forti ed armati bene, e civili, avevano per gli indigeni disarmati. Fra le imprese d’Ercole (Tirio, Egizio e Greco) è quella del suo combattimento coi Pigmei. Questi omiciattoli lo assalirono mentre egli dormiva, attaccando la sua persona parte per parte come una fortezza, ma egli svegliandosi si scosse quelli incomodi ospiti, e come se fossero topolini, ne empi una cocca della pelle del leone che gli pendeva dalle spalle e li portò all’ amico Euristeo. Variante di questa tradizione sarebbe quella dei Cecropii trasformati da Giove in scimmie, perchè assoldati nella guerra contro i Titani, avevano tradito il Re degli Dei, rifiutandosi di combattere dopo aver ricevuto il soldo. Due di essi — Acmone e Passalo, avevano insultato Ercole dormente. L’ eroe svegliatosi li acchiappò colle mani poderose, e legatili per le estremità inferiori alla sua clava, come un pajo di polli, li portava a suo bell’ agio. In quella strana positura vedendo le natiche nere e vellute di Ercole dissero: ecco il Melampige dal quale ci avvertì di guardarci nostra madre. L’eroe udilli, si mise a ridere, e li lasciò andare. La formica attributo e simbolo di Cerere, ricordata dai proverbi di molti popoli per le sue abitudini di risparmio, offrì ai conquistatori un’ immagine per quel disprezzo dei popoli vinti che abbiamo sopra ricordato: questi erano neri, piccoli, laboriosi come le formiche; andavano al lavoro in lunga riga; si intendevano nel loro linguaggio (ignoto agli stranieri) si radunavano nelle grotte naturali o scavate artificialmente, si soccorrevano a vicenda. Ecco la Nazione formica ! I vecchi caporali, non esprimono diversamente, anche ai giorni nostri, il loro disprezzo verso i contadini se non chiamandoli mangia/erra, rospi da terra (bagg da tera in Monfer- GIORNALE LIGUSTICO 303 rato) scarabei stercorarii (rabatabòsie in Moni.) Il quale disprezzo mostrarono pure i Barbari per gli Italiani, quando nelle ricorrente dei tempi come le chiamerebbe il Vico, i primi, non per civiltà, ma per la conquista, mostravano di essere ciò che furono gli eroi dei prischi tempi nella Grecia. I Celti, accennando forse agli Iberi antichissimi abitatori della Francia, ritiratisi dinnanzi ad essi invasori, dissero i Pigmei vermi nati dalla terra e dalle viscere marcie del gigante Ima (1). La mitologia greca, una volta che ebbe adottata Γ immagine della formica per indicare i popoli vinti, continuò a servirsene. Mirmex — la formica, la buona massaia, fu data per moglie ad Epimeteo, lo stolto, colui che non rifletteva se non dopo il fatto, e che al pari dei Cecropii, fu cambiato in scimmia — Ad un’altra Mirmex Minerva (Mnerva in lingua egizia vale telajo) aveva insegnato a costruire un aratro; Mirmex ne tolse il vomero, e poi si vantò di averlo alla stessa inventato. — Minerva per punirla la cambiò in formica, ma Giove, pregato da Eaco, la cangiò in uomo. Mirmidoni furono detti gli Egineti, perchè venivano dalla Tessaglia montuosa, dove si erano ritirati. Eaco, Re di quel-l’isola, dopo una fiera pestilenza, aveva chiamato molti Tessali a ripopolarla ed a renderla produttiva mediante 1’ agricoltura. Ma che il nome dei Mirmidoni prima indicasse i vinti in generale, e non particolarmente i Tessali, noi lo desumiamo dal fatto che Mirmidoni eran detti tutti coloro che riparavano sotto l’egida di qualche principe valoroso della Grecia antica quali furono : Epigeo figlio di Ipsisto (Γ altissimo, (1) Commines nel parlare dei contadini della Francia del suo tempo, mette quasi in dubbio che siano uomini, e li dipinge come una razza d’ uomini inferiore a quella dei nobili. — Cosi i superbi spagnuoli credettero che fossero gli indigeni d’America, e li trattarono in relazione del loro disprezzo — Altrettanto dicasi degli Zingari (fabbriferrai) e degli Schiavi della gleba in Russia ed in Polonia. 304 GIORNAI.K LIGUSTICO il Dio) od Elòim e di Berut, chiamato poscia Urano (il cielo) fratello di Gea (la terra); Licofrrne, Re dell’ isola di Citera, ucciso da Ettore; Achille, capo dei Mirmidoni Tessali, Teoclimene indovino, capo di Mirmidoni Itacesi ; Patroclo, Γ amico di Achille ecc. I Tessali avevano per le forimene la venerazione che gli Ateniesi mostravano per le cicale; come i Pitocchi d’ Olanda, si erano fatto un vanto del nome spregiativo ricevuto dagli stranieri. Quando finiti i tempi eroici cominciano gli storici, il mito dei Pigmei si modifica: le formiche industri sono gli operai, i manifatturieri, i tessitori, i contadini, dai quali disdegnosi, nobili e ricchi torcono il guardo. La dura vita, il lavoro continuo impedivano quello sviluppo di membra che si trova nella gente agiata, e questa ciò notando, chiama i primi, uomini di bassa mano, di bassa estrazione, nati di umile genere, e se stessa, gente di alto lignaggio ; e profonde ai Principi ed ai Capi, i titoli di : Altera, di Eminenza, di Sovrano, Padrone che si trovano in tutte le lingue. Infatti si attribuiva bassa statura ai Pani, agli Egipani, alle Driadi, alle Amadriadi, ai Satiri, ai Genii locorum, dei o padroni delle foreste, dei campi, delle miniere; alle Fane, o Fate, o Ninfe, ai Silvani, ai Genii presso i Romani, esseri che vengono sempre rappresentati piccoli, deformi, contraffatti, simbolo di maleficio. In Sardegna il volgo si immagina che siano cosi le lanas o Fate, e dice che esse abitano nelle vecchie fabbriche dei misteriosi Nuraghi, coi loro mariti — sos ominettes de nuraches, gli omicciatoli dei Nuraghi, intenti a tessere su telai d’ oro le loro vesti, ed a guardare (tentare) nascosti tesori. Vulcano Re dei Siderurgi era dipinto piccolo e zoppo, come gli Dei Cabiri e Cureti. I Persiani nelle Gin ne o fate (abitanti nel Ginnistan paese favoloso soprastante alla Persia) ripetono il mito dei Pigmei: i popoli Germanici lo hanno nella creazione fantatisca dei Coboldi (Golfes dei Russi), de- GIORNALE LIGUSTICO 305 gii Gnomi, dei Silfi; come noi lo abbiamo nelle fate, nei maghi, nell orco, nelle streghe. Quest’ ultimo anello della catena mitica si riannoda co’ primi per la superstizione popolare della metamorfosi delle fate, delle streghe, in qualche rettile od insetto (bruchi, farfalle, serpi, rospi), durante un ceito tempo dell’anno. Come pure il ricordo della seconda fase del mito nei suoi aspetti agricoli noi lo troviamo nei seguenti • raffronti. — I greci chiamarono per disprezzo Cipselo (stajo-lino) il figlio di un certo Ectione, fattosi tiranno di Corinto, occupando la città per sorpresa. Anche oggidì per indicare la statura bassa di qualcuno si ricorre al paragone della misura per i cereali. A Carpeneto d’Acqui, ad un uomo piccolo dicesi che è un Zurne oppure un scuplin, da jornellus che fu piccola misura pei cereali nel Medio Evo, e da scupè 0 coppello, che è attualmente la I2.a parte di uno stajo. Nella Provincia di Sassari una persona piccola è detta cuccu-redda, da cuccuru, stajo. Arrivato a questo punto, il mito dei Pigmei perde il suo significato etnico e sociale : non si tratta più del popolo dei Pigmei, ma degli individui nani 0 pigmei, dei Tersiti, secondo 1 Greci, dei moriones, secondo i Romani, mantenuti nelle Corti 0 nelle Case dei Grandi, per spasso delle brigate. Ma siccome la tradizione non si può rompere d’ un tratto, in questo tempo si viene a trasformare, coll’ attribuire ad animali piccoli e graziosi, topi, rane, vespe, api, zanzare ecc., le azioni dei Pigmei. Omero nella Batracomiomachia; Esopo nelle sue favole ; Aristofane nelle sue Commedie (Le rane, gli uccelli ecc); Virgilio nella Georgiche e nel Cyris (zanzara), Fedro pure nelle sue favole, danno vita a questa trasformazione del mito accennato. Col diffondersi del Cristianesimo e colla venuta dei Barbari, il mito suddetto non si perde ; si altera soltanto. Fate e maghi nelle novelline popolari sono ancora creduti esseri Gioì*. Ligustico. Anno XIX. io 3o6 GIORNALE LIGUSTICO piccoli, aggraziati come in antico, albergano sotterra; guardano i tesori ivi nascosti; lavorano i metalli; ma son considerati come posti sotto la protezione del demonio. A Car-peneto d'Acqui il solo mago Pantin (da pauta fango) che ricorda nel nome i ranocchi, non sta sotterra: egli è posto nella luna, dove secondo il volgo, è sempre in atto di salire sopra una pianta di ceci per bacchiarli. I canti popolari mantengono però la tradizione antica nel suo ultimo stadio, ri-, cordato dalla Batracomiomachia. È diffusissimo per tutta Europa il canto del Maritino e quello delle No^je del grillo e della formica, o della farfalla, nei quali è messo in ridicolo un amante inviso di piccola statura. Il Sig. Prof. Vittorio Cian nel Periodico: La Vita Nuova --anno x.°, n. 26-27-29, ricorda un canto popolare in dialetto logudorese, raccolto a Torralba, nel quale un amante rifiutato mette in ridicolo, secondo dice il sig. Cian, un fortunato rivale detto Barbareddu Biosa. Benché il cognome di Biosa sia comune nel Logudoro, credo che il nome di Barbareddu o Balbareddu (il piccolo zio), mostri, come si vede anche in seguito, che nella poesia si tratta del Maritino, ricordato nei Canti del Continente. Infatti Biosa è alto come un fungo est cantu unu cugumeddu;o come un cesto di vimini — tnojù de friia ecc. Tu lo vesti, dice il canto, con un palmo di panno sardo, senza stiracchiare sulla misura — con unu prammu’e fresi — Lu ’estis gioga-gioghende: — se vuoi, lo puoi portare in tasca come un ditale; egli vi può tirare di scherma ece. In busciacca che didale Lu pòdes giùgher cherfende, In busciacca de seguru Bi pòdet’ ischertiare. Un canto popolare da me udito a Lucera, presso Foggia, l’amante lagnasi della piccola statura del suo damo: GIORNALE LIGUSTICO 307 Ch’ aggio fatt1 ie a la fortòun’, Ch’ aggio fatt’ ie a la fortòuna, Chi m’ ha mannàt’ un omm’ tante base’ Vene lu fornarell’ e se l’inforna. U11 canto popolare da me raccolto presso Salsomaggiore nella I rovincia di Parma ripete i connotati del damo sardo e pugliese : Vagh a sercar al raorosen. — Sotta j ali dì mossen, Mo tant eral piccinen ! Con ’na gùcia disculàda. — I ghi fi munter la spada E con quel eh’ a ghe vansi. — Ghi fi fer on cortelen Mo tant eral piccinen ! Con do brassa di parais — Ghi fi fer mila camis, E con quel eh’ a ghe vansi — Ghi fi fer on tuajolen Mo tant eral piccinen ! Al baiava zo ala granda — Sotta ’n cupolen ad gianda Al fava tanti bei salten — Ch’ al toccava al tessalen. Mo tant eral piccinen ! Vado a cercare il morosino, sotto le ali dei moscerini, come egli era piccolo ! — Con un ago scrunato. — Glie ne trassero una spada e con quello che avanzò, gli fecero fare un coltellino, Egli era cosi piccolo ! Con due braccia di pernice (un tessuto di cotone) gli fecero mille camicie, e con quel che avanzò, gli fecero un tovagliolino ! com’ era piccolino ! Ballava a tutto suo agio, alla grande, sotto un cupolino di ghianda faceva tanti bei saltini, che toccava P impalcato, il cielo della camera, come egli era piccolo; — (Confronta — Nigra — Canti popolari del Piemonte — pag. 431). Nel Canto popolare delle No{{e del Grillo e della Formica noto, come quello del Maritino, tanto presso i popoli neolatini quanto presso i Germanico-Scandinavi, noi troviamo quasi il seguito di que- 3o8 GIORNALE LIGUSTICO st’ ultimo. — Riporto qui la variante Reggiana raccolta a Montericco, e pubblicata, che io sappia, per la prima volta : Grell’ bel grell — Sovra un linzol ed lein, Pasa la furraiga — Ghin taja un tajulein. A ghe dis al grell — Cossa vot-to far? Scoffiâ e camisà — Che mi em voj maridàr. Quand al fo in cesa — Per mettergli 1’aneli. Al casché in tera — Al s’ è rott, al servell. La furmighina — La va dedlà dal mar La va tor edl’ unt — Ch’ al fàga mitigar La furmighina — la s’ fa immez ala porta L’ era pena rivada — Che al grell’ a 1’ era mort. Grillo bel grillo — Sotto un lenzuol di lino — Passa la formica e ne taglia un ritaglio — Le dice il grillo — Che ne vuoi tu fare ? Cuffia e camicia, che mi voglio maritare. Quando ei fu in chiesa — Per metterle Γ anello — cascò in terra — e s’è rotto le cervella — La formichina — va di là dal mare — Va a pigliare dell’ unto — Per far guarire la ferita, mitigare il dolore — La formichina si fa in mezzo la porta (si affaccia) — Era appena arrivata — Che il grillo era morto. Nè il soggetto fu trattato soltanto dalla poesia popolare: nella Nanea del Grazzini, e nel Viaggio di Gulliver al Regno di Lilliput, vediamo che fu trattato anche nella poesia dotta e nel romanzo. G. Ferraro. GIORNALE LIGUSTICO 309 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Ferdinando Gabotto. — Lo stato Sabaudo da Amedeo Vili ad Emanuele Filiberto I, (1451-1462) — Tip. L. Roux. V ha di tali che tengono per la sentenza, di vecchia data però, libri pochi ma buoni: vi sono altri di maniche più larghe, i quali non condannano sino a certo limite 1’ operosità e la tecondità degli scrittori, ma vi fanno poi molte e molte eccezioni, che vengono a paralizzarne il libero arbitrio. Non parliamo di coloro che in mezzo alla farragine di libri che d’ ogni canto ci piovono giù, e c’ ingombrano, esclamano : ma sarebbe ornai tempo di finirla con libri di ogni specie ! In mezzo a cosi disparate opinioni la sola via di mezzo è quella che devono seguire gli assennati e i prudenti, e quanti poi non si lasciano cogliere all’ amo dalla partigianeria. Gli amici della riservata parsimonia di libri sembra che dovrebbero essere quelli che sono assistiti da maggior ragione; intatti a che prò’ accrescere il già dovizioso patrimonio delle lettere e delle scienze di materiali che possano ritenersi men buoni ? Ma siccome potrebbe darsi che costoro avessero a peccare dello stesso difetto di quei dottrinari conosciuti che in altre materie tenevano ugual ragionamento per coprire il vero loro fine, che era di non voler alcuno di quel genere di’ essi fingevano di pretendere rado, ma eletto, cosi si potrebbe accettare di preferenza l’avviso dei secondi, supponendo sincero il fondamento delle eccezioni che fanno alla larghezza ed all’ inclinazione di far gemere di soverchio i torchi. Una delle eccezioni di costoro risguarda 1’ utilità del tema preso a trattare, altra 1’ opportunità di esso, una terza il sistema seguito dall’autore nello svolgere il soggetto che ha per le mani. Non tutti costoro però sono affatto disinte- 310 GIORNALE LIGUSTICO ressati, poiché v’hanno fra loro dei barbassori che pretenderebbero dirigere la penna del povero autore e prescrivergli il limite del racconto, altri imporgli l’argomento vagheggiato da loro o che possa servire ai loro fini e svolgerlo col criterio e coi giudizi impostigli. Addio la libertà e 1’ indipendenza che gli uomini di vaglia ambiscono di conservare a qualunque prezzo ed a costo di qualsivoglia sacrificio. Altri ancora, pronti a dar il passaporto a lavori tediosi anzichenò di pretta erudizione, che si procacciano sempre scarso numero di lettori, e nulla influendo sui costumi, sull’intelletto e via dicendo, finiscono per lasciare il tempo che trovano , si dimostrano poi eccessivamente severi ed ingiusti contro gli autori meno eruditi, ma che sanno mettere la mano sulle piaghe, che fanno germogliar certe magagne sociali. Ora in mezzo a siffatte strettoie, e non trattandosi di scritti letterarii i quali devono essere giudicati con un criterio più rigoroso, 1 operosità di chi da quando a quando vi ammanisce qualche nuovo manicaretto non vuol essere di troppo condannata. Il professor Gabotto adunque, del quale abbiamo già annunziato una storia di Bra, e che forse è medesimamente autore in questo stesso momento di altri scritti, nemmen da noi conosciuti, consegnò di questi giorni alle stampe della torinese tipografia Roux l’indicato libro di pagine n8. Egli in questo nuovo scritto ci dà un lavoro sintetico della storia del decadimento della dominazione sabauda (ed amiamo meglio far uso di questo vocabolo a preferenza dell’ altro di monarchia usato dall’ autore, poiché la monarchia propriamente detta cominciò nel solo secolo XVIII) principiato dopo gli splendidi tempi di Amedeo VIII. Il Gabotto fece tesoro delle opere del Cibrario che variamente s’intrattenne di questo periodo, nonché di quelle de’ migliori scrittori che o di proposito, o per accidente ebbero a discorrerne. Nè pago di co- GIORNALI! LIGUSTICO 311 deste fonti egli ricorse agli archivi di Torino e di Milano; compulsò parecchie categorie di documenti e libri non molto comuni pubblicatisi in Italia e fuori. Per non intralciare ia speditezza del racconto egli ebbe la cura di confinare in note le numerosissime citazioni, cosichè si può dire che non siavi pagina del suo libro che ne sia priva, anzi alcune eccedono persino la metà. Ma queste note attestano la diligenza dell’ autore che non risparmiò fatica per illustrare il suo tema e garantire Γ autenticità della narrazione. Nè si creda poi ch’egli siasi limitato a copiare il detto dagli altri: no ; ora giudiziose osservazioni richiamano alcune volte sul retto cammino coloro che ebbero a deviarne un momento ; tal altra egli addita sbagli nei quali incorsero alcuni: così corregge in Gaspardo o Gasparo il nome del Varax, favorito della duchessa Carlotta di Cipro consorte del duca Ludovico, erroneamente scambiato in Giorgio dal barone Bollati nella edizione della cronaca francese anonima. Fece specie al Gabotto che il conte Cais di Pierlas nei suoi Documents inédits sur les Grimaldi et Monaco et leurs relations avec les ducs de Savoy e abbia posto come teste alla donazione ed ail’ in-feudazione di Mentone e Roccabruna, Antonio di Romagnano, gran cancelliere. Egli avverte che in quell’atto seguito, secondo la vulgata, il 19 dicembre 1448, non poteva già il Romagnano comparire con quella dignità, conferitagli con patenti del 25 aprile 1449, mentre ne! 1448 era ancor cancelliere Pietro Marchiandi che nelle patenti del Romagnano or citate si dice viam universae carnis ingresso. A questo proposito così soggiunge l’autore « due spiegazioni si possono dare di questa contraddizione singolare, cioè da una parte, ricorrere all’ ipotesi che di uno dei due documenti la data sia errata, nel qual caso molti argomenti interni ed estrinseci assicurano che 1’ errore non è nel documento del 25 aprile 1449, ma nell’altro: dall’altra parte ri- 3 12 GIORNALE LIGUSTICO tenere che il decreto di nomina sussegua di parecchi mesi il cancellerato effettivo del Romagnano. Or siccome si è ve-dato che nel dicembre appunto del 1448 questi era inviato ambasciadore a Venezia; e nell’atto di nomina a cancelliere si ricordano i servizi da lui resi in ambasciate, inclinerei piuttosto alla prima che alla seconda ipotesi » (p. 42). Ma si possono conciliare codeste discrepanze, che a dir vero sono solamente apparenti. Il Romagnano venne proprio nominato gran cancelliere il 25 aprile 1449, ma il 14 novembre del-1 anno precedente era stato eletto luogotenente nella cancelleria. E colla qualità unicamente appunto Anthonio ex eiusdem marchionibus Romagnani in cancellarla Sabaudie locum-tenente » ci. compare nel documento 19 dicembre 1448, edito pure dal Saige nella sua grand’ opera Documents historiques relatifs a ìa principauté de Monaco (I, 201). Pur troppo quest’Antonio di Romagnano, anche con tutte la dignità che teneva non era scevro da passioni : e pochi sapevano in quei tempi essere'immuni da tali errori e mondi da siffatta labe. Egli erasi unito coi nemici di Jacopo Val-perga di Masino che teneva i sigilli del gran cancellierato, perchè 1’ elezione di esso Romagnano a quella carica era stata disdetta da Amedeo Vili; essendogli solamente stato promesso tacitamente che altre volte l’avrebbe ottenuta. I casi del Valperga sono molto noti, ed il Gabotto li riassume in pagine, che sono la sintesi di tutte le persecuzioni patite da lui. Ed anche qui egli con la scorta dei documenti corregge il Cibrario che scambiò il siciliano Andrea Barbazza reputato giureconsulto, avvocato del Valperga, con un dei Bartolomei: e nota pure, caso singolare, la parzialità del Cibrario pel Valperga, che, innocente 0 reo de’ delitti imputatigli da’ suoi nemici, era dopo tutto un poco di buono, venduto al Delfino, poi a Re Luigi VI, a danno della sua patria e del suo signore (p. 51). GIORNALE LIGUSTICO 313 In questa prima parte del suo lavoro il Gabotto ci presenta al vivo il decadimento dello stato Sabaudo sotto i tralignati discendenti del saggio Amedeo Vili. La prosecuzione, che darà uguali resultanze, servirà ad attestare sempre più il suo risorgimento, opera dell’ immortale Emanuele Filiberto. E come in altri scritti, cosi in questi il nostro autore si dimostrò seguace di quel sistema di realismo che gli storici odierni antepongono, al pari dei letterati e degli artisti, al vecchio sistema delle narrazioni accademiche, degli elogi convenzionali di coloro che, torreggiami dall’ alto dei loro piede-stalli , non dovevano mai essere esaminati nel loro abito semplice e nella veste famigliare, ne avesse pur ad essere sacrificata la verità storica. G. C. SPIGOLATURE E NOTIZIE Le pubblicazioni della R. Commissione Colombiana. — Allorquando per singolare fortuna venne assunto a Ministro della pubblica istruzione nel febbraio del 1888 Paolo Boselli, il quale alla soda cultura, alla niente eletta accoppia 1’ operosità e la tenacia della razza ligure, pensò immediatamente come l’Italia non poteva per niun modo restare seconda nello apprestare degne onoranze al Grande Navigatore, e pur riconoscendo che centro precipuo delle festività, doveva essere Genova e la Liguria, volle dar carattere nazionale alla solenne ricorrenza, provvedendo ad una pubblicazione che doveva, secondo il suo intendimento, costituire il monumento imperituro innalzato a Colombo dall’ingegno e dalla intelligenza. Il concetto ristretto messo innanzi dall’Harrisse, e allargato poi dalla Società Geografica, venne man mano elaborandosi nella mente dell’egregio uomo, ed assorse a vedute più vaste. Ma conscio e ben persuaso che l’impresa uscir doveva da mani italiane, istituì una Commissione, la quale era deputata a curare la progettata impresa. In fatti il reale decreto 17 maggio 1888 stabiliva che a spese dello Stato si sarebbe pubblicata « una raccolta degli scritti di Cristoforo Colombo, di tutti ì documenti e di tutti i monumenti cartografici, i quali valgono ad illustrare GIORNALE LIGUSTICO la vita ed i viaggi del sommo navigatore, la memoria ed i tentativi dei suoi precursori, e le successive trasformazioni dell’opera sua pel fatto di altri navigatori italiani » ; a corredo della quale raccolta doveva seguire « una bibliografia degli scritti pubblicati in Italia sul Colombo e sulla scoperta dell America da’ suoi primordi fino al presente ». Di questa guisa, mercè la sagacia ed il patriottismo del Ministro, sorretto dal consiglio di uomini savi, l’Italia prendeva il postoche le competeva « nel ricordare in modo degno il fausto avvenimento », (così il Boselli nella relazione al Re), « che celebra la virtù di uno tra i suoi figli più insigni, e richiama al commosso pensiero quegli esperti esploratori dell’Oceano, nella storia dei quali è da cercare per gran parte il processo intellettivo donde Cristoforo Colombo fu condotto alla sua meravigliosa intrapresa ». Come tutte le cose buone, anche il provvedimento lodevolissimo del Boselli ebbe ad incotrare ostacoli a difficoltà; ma egli fu sempre pronto, non senza lotta, a sgombrare la via, affinchè l’opera, della quale giustamente si compiaceva, giungesse al fine desiderato. E alla sua avveduta perseveranza si deve, se oggi possiamo già annunziare con sicurezza che la pubblicazione, fermata in ogni sua parte, procede alacremente cosi da porgerci speranza che tutti, o quasi, i volumi onde si compone, abbiano a vedere la luce in non lungo lasso di tempo. La Raccolta di documenti e studi pubblicati per cura della Commissione Colombiana si divide in sei parti. La prima comprende tre volumi, ne’ quali si contiene la collezione degli scritti autentici conosctuti di Cristo-foro Colombo messi in luce sopra i testi originali. Vi attende Cesare De Lollis, il quale illustra queste carte preziose con ampie notizie storiche , bibliografiche e paleografiche. Ne cresce il pregio la riproduzione eliotipica, riuscita veramente splendida, di tutti i documenti e delle postille autografe di Colombo, con il corredo della trascrizione paleografica. Anche la seconda parte consta di tre volumi. Il primo racchiude il Codice diplomatico. È noto come fin dal 1823 ne producesse una stampa, non del tutto corretta, Giambattista Spotorno, secondo l’esemplare che si conserva dal Municipio di Genova; ma la recente scoperta dell’altro esemplare già esistente nell’archivio della Repubblica, e trasportato a Parigi l’anno 1811 per ordine di Silvestro de Sacy, manoscritto che si credeva perduto, consigliò a condurre su di esso la nuova edizione, pur tenendo a riscontro il municipale, e perchè più ricco, e perchè assai più corretto. L’altro volume raccoglie tutti quanti i documenti privati editi ed inediti, risultato di lunghe e pazienti ricerche. Le illustsazioni di tutta questa importantissima suppellettile storico-biografica, è affidata GIORNALE LIGUSTICO a Luigi Tomaso Belgrano ed a Marcello Staglieno. Il terzo volume è riservato a quattro distinte monografie. Cornelio Desimoni sotto il titolo di Questioni colombiane discorre di alcune controversie che si sono lungamente dibattute intorno alla patria del grande scopritore, ai suoi viaggi, ai luoghi d’approdo, alle sue cognizioni geografiche, ed altre sì fatte. Riprendendo un argomento già toccato dall’ Harrisse e dallo Staglieno , Alberto Salvagnini espone abilmente le notizie sopra 1 Corsari Colombo del secolo XV, giovandosi del risultato di nuove e più diligenti ricerche. Alla iconografia appartengono gli altri due lavori con i quali si chiude il volume; raccoglie ed illustra Le medaglie di Colombo Umberto Rossi, mentre chi scrive queste pagine si occupa dei ritratti. Ed eccoci alla terza parte destinata a raccogliere le Fonti italiane per la storia della scoperta dell’ America, secondo i carteggi diplomatici e le narrazioni sincrone. I due volumi onde essa si compone sono commesi alle cure di Guglielmo Berchet, il^quale rileva nelle sue illustrazioni l’importanza così dei carteggi come delle narrazioni, essendo riuscita molto ricca e curiosa la materia pazientemente ricercata e in un sol corpo riunita. La parte quarta può ben dirsi del tutto scientifica; poiché sono argomento del primo volume Le costruzioni navali e Γ arte della navigazione al tempo di Cristoforo Colombo, esposte con ampiezza di dottrina da Enrico De Albertis ; e del secondo La declinazione magnetica e la sua variazione nello spazio scoperte da Cristoforo Colombo, trattazione fatta con molta competenza dal P. Timoteo Bertelli, a cui tengono subito dietro le Notizie (telle più antiche carte geografiche che si trovano in Italia riguardanti l’America, lavoro diligente di Vittorio Bellio. Le speciali Monografie riguardanti i precursori e i continuatori dell’ opera di Cristoforo Colombo e i narratori sincroni italiani, costituiscono la quinta parte. Formano il primo volume le vite di Paolo dal Pozzo Toscanelli, e di Pietro Martire d'Anghiera, narrate con cura ed amore rispettivamente da Gustavo Uzielli e da Giuseppe Pennesi, essendosi tolto il carico Giovanni Celoria di intrattenere in modo speciale gli eruditi Sulle osservazioni di comete Jatte da Paolo Toscanelli e sui lavori astronomici suoi in generale. Discorrono poi nell’altro volume, Luigi Hugues di Amerigo Vespucci, Giovanni Vcr razzano, e Battista Genovese; Vittorio Bellemo di Giovanni Caboto; Prospero Peragallo di Leone Pancaldo; di Antonio Piga-fetta il Da Mosto; e di Gerolamo Benzone 1’Allegri. La parte sesta, con che si chiude la Raccolta, porge la Bibliografia i-taliana delle opere a stampa riguardanti Cristoforo Colombo e la scoperta 3i 6 GfORNALE LIGUSTICO dell America·, lavoro di non piccola mole e di non lieve fatica, a cui attendono con alacre diligenza Giuseppe Fumagalli e Pietro Amat di S. Filippo. Dalla breve o sommaria notizia che abbiamo dato dell’ opera apprestata dalla Commissione Colombiana, non è lecito dubitare della serietà ed importanza della impresa, siccome della buona esecuzione: tanto più quaudo si pensi che vi presiede con illuminata operosità Luigi Tomaso Belgrano, λ-ice Presideute della Commissione stessa. Onde se, com’é dato sperare, la pubblicazione riuscirà cosa degna dell’uomo e del fatto Jie intende celebrare, si potrà ben dire che fu buono l’indirizzo, e armonico il concerto de’ chiamati a cooperarvi; di guisa che mentre ad essi ne verrà debita lode, con riconoscenza sarà ricordato il nome di quel ligure benemerito che ne fu il primo e più efficace promotore. (Dalla Rassegna Nazionale). * * * Nell Archivio Stor. Ital. (IX, 347) Antonio Medin pubblica una lettera di Filippo Guaiialotti nella quale si tocca della battaglia combattuta il 24 settembre 1379 dai Genovesi contro la Compagnia della stella. Egli s interessa specialmente della sorte toccata a due toscani fatti prigionieri dai genovesi ; essi sono un Andrea benissimo identificato dal M. con Andrea Guazzalotti biscugino di Filippo, e Giovanni Mangiadori chiuso da Carlo del Fiesco nel suo castello di Montoglio (Montobbio) con imposizione di taglia. * * * Fra le carte di Giuseppe Canestrini donate recentemente alla Biblioteca Nazionale di Firenze esiste un manoscritto che contiene le Memorie sul commercio dei Genovesi e dei Veneziani a Trebisonda ed in Armenia. * * * Segnaliamo due notevoli scritti intorno a Colombo comparsi nella Rassegna Nazionale (fase, del 16 agosto) e sulla Nuova Antologia (fise, del 16 agosto). Il primo è dovuto alla penna di Federico Donayer e reca il titolo : Le origini di Cristoforo Colombo, 1’ altro di Cesare de Lollis discorre La niente e l’opera di Cristoforo Colombo. * * * In una monografia intitolata: 1 primi anni di Ferdinando d’Aragona e l’invasione di Giovanni d’Angib (Arch. Stor. per le Prov. Napol. a. XVII, p. 299 e segg.), Emilio Nunziante espone le vicende della guerra di re Alfonso con Genova, giovandosi di nuovi documenti. GIORNALE LIGUSTICO 317 Il conte L. de Mas Latrie pubblica nella Bibliothèque de l’ècole des chartes (Vol. LUI, p. 264. e segg.) un’importante scrittura sopra « L’Officium robarie ou Office de la piraterie à Gênes au moyen άζε ». BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Antonio Restori, Palais. — Cremona, tip. Foroni, 1892; per nozze Battistclli-Cielo. Uno dei più oscuri trovatori, che scese in Italia a vivere della vita nostra nel principio del dugento, è questo Palais, di cui prese a trattare il R. in questo grazioso opuscoletto. Di Palais non si conserva notizia alcuna. Terramagnino da Pisa nella sua Doctrina de cori ricorda due volte un Andrians del Palais, trobaire bos e verays, ma neppure uno dei versi di Andrians ivi citati, si trova nelle poesìe rimasteci di Palais. Il R. ritiene più probabile che egli sia stato giullare in Provenza e forse, prima del 1195, al servizio di Fol-chetto di Marsiglia che, nella tornada di una canzone si accommiata da un Palais come dal messaggiero. Dopo sarebbe passato in Italia, dove, come si rileva dalle sue poesie, ebbe rapporti coi marchesi Del Carretto, Ottone ed Enrico, che fiorirono tra il 1190 e il 1230. Il patrimonio poetico rimastoci di Palais è assai modesto; sono cinque poesie in tutto : un estribot, che con espressioni crudamente turpi vorrebbe essere un esempio morale per quei chierici, che perdono l’anima pei piaceri sensuali ; due coblas in cui dà libero sfogo all’ ira contro i giullari , che sfruttano la liberalità de’ signori lombardi ; una canzone amorosa nel solito frasario convenzionale e infine un’altra canzone, più importante storicamente, perchè vi si attesta la presenza di Palais alla corte dei fratelli Enrico e Ottone del Carretto. Il R. esanima ciascuna delle poesie e naturalmente si sofferma più a lungo su quest’ ultima, raccogliendo in un elenco cronologico i documenti dal 1179 al 1255, che riguardano Ottone e Enrico, figli di Enrico il Guercio marchese di Savona, personaggi celebrati-fra i trovatori. Prezioso 3lS GIORNALK LIGUSTICO contributo adunque è questo per la storia della possia trovadorica in Italia. E anche per quanto riguarda l'illustrazione della poesia , felice è l’interpretazione del R. che al verso, ove Palais infuria contro aqels qe dinoti de non, osserva non potersi assolutamente intendere quelli che dicono di no, cioè rifiutano doni ai trovatori, ma doversi intendere una casa o una famiglia, che la gente dice di non, cioè del castello di Non o Annone, il quale può essere o quello a poche miglia da Asti appartenente ai Lancia, oppure Non o None a dodici miglia da Pinerolo appartenente ai signori di Piossano. Non altrettanto chiaro ci pare il significato, che il R. dà alla poesia, di elogio a entrambi i marchesi, mentre parrebbe che volesse piuttosto contrapporre 1’ astuzia di Enrico alla franchezza e liberalità di Ottone. Anziché una riproduzione paleografica dei mss. sarebbe stato meglio che il R. ci avesse dato un testo definitivo, tanto più che le poesie sono tutte soltanto nel cod. estense (=DA), tranne le collas, che appaiono pure, ma anonime, nel riccardiano (=D); e quindi non v’é occasione a gravi divergenze di lezione. Con tutto ciò 1’ opuscoletto, come già dicemmo, è prezioso, ed è reso ancora più attraente dalla veste tipografica graziosa ed elegante, ond é rivestito. Antonio Restori. Per un sirventese di Guilhem de la Tor, Nota estr. dai Rendiconti del R. Istituto Lombardo, Ser. II, Vol. XXV, fase, λ , Milano, 1892. Tra i più acerbi e violenti serventesi politici, che i trovatori pro\en zali scesi tra noi, divulgarono per le corti e le piazze d Italia sul principio del sec. XIII, è eerto quella che incomincia : Un sirventesi farai d’ una trista persona, che è contenuto in due soli canzonieri, il cano 5232 (= A) e l’estense (=DA), il primo dei quali lo attribuisce a Guglielmo de la Tor, l’altro a Palais. Il R. dà qui un’ illustrazione storica e filologica del serventese, senza soffermarsi sulla quistione dell’autore, la quale egli ritiene di secondaria importanza , essendo entrambi i trovatori egualmente oscuri. Ma veramente poi pare eh’ egli lo ritenga del de la Tor, perchè di lui solo tocca particolarmente e rileva le attinenze delle altre sue poesie col serventese e colle persoue che vi sono ricordate. Con tutto ciò la quistione della GIORNALE LIGUSTICO paternità resta insoluta, e a noi pare che meriti più riguardo che il R. non creda. La sua memoria si può dire consti di due parti, quella che si riferisce all’ illustrazione storica, e quella che contiene la ricostituzione del testo, la traduzione e le note filologiche. Vediamo la prima. Dopo aver combattuto Γ opinione dello Schultz , seguito dal Casini e rincalzata dal Merkel, che i! serventese sia diretto contro Manfredi li Lancia, passa a ricercare chi possa essere il Porc Atmat, contro cui si esercita la lingua per vero affilata e tagliente del trovatore. Con una felice trovata ii R. lo identifica in Pon\io Amato, ragguardevole cittadino di Cremona, podestà in diverse città di Lombardia e contrario ai da Romano. E, congettura che Guglielmo de la Tor cercasse fortuna alla corte dei (rateili da Romano, e che presso di loro componesse il suo serventese verso il 1224, quando Ponzio Amato stava in Vicenza non bene tractando pariem dominorum de Romano. A conforto della sua ipotesi reca tutte le notizie che ha potuto raccogliere intorno a Ponzio Amato, e prende in esame le poesie che ci restano di Gugli de la Tor, una quindicina in tutto, la più parte amorose, delle quali soltanto quattro toccano di persone a noi note. Studiando appunto queste il R. procura ricavare notizie e schiarimenti intorno alla vita del trovatore, che avrebbe cercato fortuna alla corte dei fratelli da Romano, tra il 1215 al 1230, che è il miglior momento della gaia poesia presso loro, poiché più tardi furono travolti dalla tempesta delle fazioni. Nell’ esame di queste poesie sono notevoli alcune osservazioni intorno alle persone; che occorrono nella famosa treva stipulata tra due gentili combattitrici Beatrice e Selvaggia. Tra le dame della treva è una donna Adonella della Bresciana e il R. domanda se sia la stessa una de Bressiana del serventese. Il sospetto è legittimo, tanto più che Ponzio Amato può averla conosciuta , quando vi fu podestà nel 1213 e la stessa dama sappiamo aver accolto con onore Ugo di Saint Circ. Soltanto invece di ammettere col R. che il vituperoso serventese sia stato scritto contro Ponzio verso il 1224, cioè intorno allo stesso tempo, a cui sarebbe da riferirsi la tenzone di lui con Sordello, ci pare più probabile che esso sia stato composto quando Ponzio era podestà a Brescia ; e inoltre ci pare che il motivo degli improperii sia da cercarsi, anziché nella parte politica di Ponzio avverso ai da Romano, nella sua avarizia per la quale sarà stato troppo scarso donatore del trovatore, che se ne vendicò in malo modo. Tanto più che crediamo indubbio che nella strofa 3.* si dica eh’ egli mena vanto d'una della Bresciana, quando ha bevuto, cioè ch’egli, quando 320 GIORNALE LIGUSTICO è preso dal vino, si vanta di godere i favori d’ una damj della Bresciana, la quale invece vorrebbe eh’ egli giacesse quattordici anni colla febbre quartana piuttosto che essergli cortese come egli desidera. La cosa dunque si dà come presente, come avvenga quando si componeva il serventese, il quale perciò deve essere del tempo in cui Ponzio era podestà di Brescia, cioè del 121 3. L inesattezza dell’interpretazione di questo passo della 3.“ strofa, dovuta al non aver badato che qand el a prò he g ut, è un inciso, che va chiuso tra due virgole, ci porta a considerare l’altra parte della memoria del R. Mentre 1 illustrazione storica è condotta con tanto acume e diligenza, non altrettanta cauta e sicura ci sembrano la ricostruzione del testo, la traduzione e le note. Ma non è qui il luogo di scendere a minuzie soverchie, e a noi basti avere additata questa memoria ai cultori degli studi provenzali, ai quali, comunque essa sia, riuscirà sempre preziosa. p. e. g. Rapporti fra Genova e Orvieto nei secolo XIV. Documenti tratti dall’ Archivio storico Orvietano da Luigi Fumi, Orvieto, Tosini, 1892; in 40. Dieci sono i documenti che l’erudito istorico orvietano ha posto in pubblica luce. I due primi, l’uno dell’11 febbraio 1300 e l’altro del 28 ottobre 1308, riguardano danni patiti da mercadanti genovesi e orvietani per ruberie di merci avvenute in mare, per i quali si fa ragione agli uni e agli altri, vuoi con la concessione dei diritti di rappresaglia, vuoi col deliberare il risarcimento dei danni stessi. Con atto del 17 giugno 1309 il Consiglio dei sette Consoli d’ Orvieto concede a Carlo Fiesco, fratello del card. Luca, 25 cavalieri perchè gli fossero di scorta nel suo ritorno a Genova, il che chiarisce meglio la data delle turbolenze avvenute in questa città, e riferite dallo Stella al 1310. Segue una lettera agli orvietani di Gherardo Spinola, Senatore e Capitano del Popolo a Roma del 27 settembre 131 5 con la quale chiede l’invio di due giudici. I documenti del 16 e 17 febbraio 1319 si riferiscono alle feste fatte in Orvieto appena ebber la nuova della vittoria riportata da Re Roberto in Genova contro i Ghibellini. Il 7 marzo 1369 è nominato Vicario papale in Orvieto Guglielmo Saccasappa genovese; con bolla del 25 giugno 1379 Urbano VI conferisce al card. Giovanni Fieschi il Vicariato Generale del Patrimonio di S. Pietro ed altre città, e con atto 9 febbraio 1380 il card. Giovanni innanzi nominato elegge suo Vicario Antonio Fieschi. Finalmente con lettera 24 ottobre 1379 lo stesso cardinale invita gli uomini di Perugia a sospendere le rappresaglie contro Orvieto. L’ egregio raccoglitore ha preposto a questo mazzetto di documenti una piena e conveniente illustrazione, rilevando assai opportunamente le ragioni storiche che il contenuto di quelle carte suggerisce. Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO 32I NOTIZIE BIOGRAFICHE DI DEMETRIO CALCONDILA (Cuntinuaz■ e fine vedi num■ 208) CAPO QUARTO. Il Calcondila a Milano. I. Durarne P epoca del suo soggiorno in Milano, che coincide con l’ultimo ventennio della vita sua, la fama del Calcondila toccò l’apogeo. Egli tenne la sua prima lezione colà il 6 novembre 1491, alle ore 21, ed il Calco descrive molto bene in una lettera a Lodovico il Moro il concorso di gente ad udire Demetrio ed il successo oratorio da lui conseguito: « Ill.m0 Sig.re mio. M. Demetrio greco hogi alle XXI hore ha facto principio al legere suo, dovi se li è retrovato alcuni consilieri et altri cortesani cum gran numero de persone quale danno opera alli studij. El principio suo è stato una oratione in laude de lettere, cum laudare etiam la Sig. vostra, et maxime per el gran studio quale epsa mette in fare che li gioveni milanesi siano eruditi. Epsa oratione è stata molto elegante et ha portato singulare satisfatione a tucti li auditori cum lassare evidentissimo argomento che in in. Demetrio non solo sia grande eruditione et cognitione de littere grece, ma etiam in latino sia excellente. Tutti ringratiano la Signoria vostra che ci habia proviso de uno simile lectore, dal qual se spera ne habia reuscire grande frutto, sì per la doctrina quale ha demonstrato havere, corno anche per la bona gratia quale ha nel explicare le cose, il che è una Giorn. Ligustico. Anno XIX. »i 322 GIORNALE LIGUSTICO de le precipue parte quale se soleno desiderare da simile persone. Alla Sig. vra ex corde me ricomando (i) ». E subito accorrevano a lui nuovi scolari anche più illustri di quelli avuti in Padova ed in Firenze, quali Baldassar Castiglione (2) e Giovan Giorgio Trissino (3). Il Trissino, specialmente, si mostrò sempre affezionatissimo al suo maestro di greco: lo ricorda nell’Italia liberata da Goti, e ne’ « Ritratti » dice di lui che « in dottrina, in candidissimi costumi et in santità della vita non ebbe a questi tempi pare » e lo chiama « santissimo vecchio » (4); più tardi fu suo ospite a Milano, ricompensandonelo poi largamente (5), e fin del genero del- 1 ateniese, Giano Parrasio, si rese benemerito, caldeggiandone, 1 elezione a publico insegnante in Vicenza e quivi accoglien- (1) .Lettera del Calco al Moro in data 6 novembre 1491 — Già il Boerner, Op. cit., p. 183, aveva rilevato il vecchio errore del Zeltner, Theatrum virorum eruditorum qui speciatim typrographiis laudabilem operam p. restiterunt, p. 155, Norimberga, 1720, che faceva soggiornare lungamente a Venezia il Calcondila presso Aldo Manuzio, dopo esser stato a Firenze e prima di venire a Milano. Dei rapporti di Demetrio con Aldo diremo fra poco. (2) Serassi, Vita di Baldassar Castiglione, in fronte all’edizione delle sue Opere, Padova, Cornino, 1766, ristampata in fronte al Cortegiano, ed. Rigutini, Firenze, Barbera, 1889; Salvadori, Il « Cortegiano » del Conte Baldassar Castiglione, p. X, Firenze, Sansoni, 1884. (3) Castelli, Vita di Giovan Giorgio Trissino, Venezia, per Giovanni Radici, 1753; Roscoe, Vita e pont, di Leone X, t. X, pp. 155-160; Mor-solin, Gian Giorgio Trissino, 0 monografia di un letterato del secolo XVI, c. 3. passim, Vicenza, Burato, 1878. Il Morsolin dice che il Trissino si recò a Milano a studiarvi la lingua greca sotto il Calcondila nel settembre del 1506 (Op. cit., p. 24); ma fu da altri osservato che il Castiglione ed il Trissino furono insieme scolari del Merula, e questi morì il 19 marzo 1494 (Gabotto e Badini-Confalonieri, Atto di morte di Giorgio Merula, in La Letteratura , III, 4, 15 febbraio 1888). (4) In Opere, p. 270, Verona, Vallarsi, 1729. (s) Roscoe, l. c. GIORNALE LIGUSTICO 323 dolo in casa sua e grandemente beneficandolo in molte guise (1). Altri allievi del Calcondila furono allora un amico appunto del Trissino, Cipriano Senile di Ancona, che poi a Giovan Giorgio affettuosamente scriveva del comune professore (2), ed il celebre Lilio Gregorio Giraldi ferrarese (3), di cui già riportammo l’encomio in più avanzata età tributatogli (4). E s’ aggiungano ancora Benedetto Giovio, fratello di Giambattista e storico e letterato anch’egli di qualche valore (5); Gian Maria Cattaneo di Novara (6); Giovan Agostino Caccia della stessa città (7); Stefano Negro di Casalmaggiore, amico dell’ Alciato ed autore di molte opere in cui mostra il gran profitto fatto nel greco sotto Demetrio (8), e finalmente il Reuchlin, che già vedemmo discepolo di lui in Firenze (9). (1) Morsolin, Op. cit. c. 3.0 passim. Cfr. Parrasio, De rebus per epistolam quaesitis, l. c., e Lettera del Parrasio al Trissino, in Roscoe /. r. (2) Morsolin, Op. cit. p. 29-30, nota. (3) Giraldi, Opera, p. 624, Basilea, 1580. (4) Vedi sopra, p. 247. (5) Giovio, Op. cit., f. 67. Giornale di Modena, t. XXVI;Raccolta di elogi italiani .Venezia, 1783. Cfr. G. B. Giovio, Gli uomini illustri, della Diocesi Comasca. (6) L. Giovio, /. c. (7) Lazaro Agostino Cotta, Museo Novarese.... diviso in quattro Stanze, n. 347, p. 144, In Milano, per gli heredi Ghisolfi, MDCCI. (8) Specialmente nelle versioni da Plutarco, nel Dialogus de reconditis Graecarum litterarum penetralibus e nel curiosissimo De nimio vitae luxu sive Collectanea ex Athenaei Symposiario, nempe de heluonikus et bibacibus, de generibus poculorum, de inventione coronarum convivalium, de unguentis, de musicis instrumentis, de bellariis, de saltationibus, de parasitis, de generibus placentarum, de scortis insignibus, de vino, etc. Vedi pure Pierio Valeriano, De infelicitate litteratorum, 1. II; Maltraversi, Delle cose più notabili di Casalmaggiore, Parma, per il Vigna, 1655, ed Arisi, Cremona literata, t. I, pp. 396-398, Parma, Pazzoni e Monti, 1702. Il Negro nel Dialogus cit., f. 42, in cui pone tra gli interlocutori il Calcondila stesso, ricorda con amore l’antico maestro : « Stephanus Niger qui ei tot annos assiduam operam dedit, quique inter intimos eius familiares extitit, tantam ait esse Demetrio integritatem, tantam eiuditionem, tantam frugalitatem, tam candidos mores, ut aetatis nostrae mortalium nemini postponendus videatur » Mediolani (ex officina Minutiani, MDXVII). Cfr. 1'elogio sopracitato del Trissino. (9) Vedi sopra, p. 282. GIORNALE L1GUSTIGO Crebbero anche le sue relazioni, perocché conservò le antiche e ne contrasse di nuove. Col Bellincioni e con Lancino Corti, poeti sforzeschi, che lo ricordano nelle opere loro, dovette certo avere amichevoli rapporti. Come negli ultimi mesi della sua vita ospitasse in Milano Giano Lascaris si è detto (i): dalla lettera del Budè al Lascaris che ci fa nota tal cosa, appaiono esistiti rapporti fra il Budè stesso ed il Calcondila (2). Di Aldo Manuzio, se non collaboratore suo e correttore nella tipografia (3) e tanto meno membro del- 1 academia aldina (4), fu però certamente amico: il dotto editore dedicò al professore l’Euripide del 1503, chiamandolo, poco diversamente daU’Alcionio (5), « Graecorum aetatis suae facile principem » (6). Con Antonio Motta, Giovanni Bissolo, Benedetto Mangio di Carpi ed i suoi due antichi allievi Stefano Negro e Gian Mario Cattaneo, lo vedremo attendere ad importanti lavori critici, mentre Bartolomeo Squasso, Vincenzo Aliprandi e Bartolomeo Rozono, segretari ducali, saranno indicati come quelli che gli fornirono il denaro per la stampa (1) Vedi sopra, p. 27, testo e nota 265. (2) Al periodo riferito più sopra, 1. c. aggiungansi questi altri: « Demetrio nostro, cuius contubernio felicem te iudico, verbis meis salutem plurimam dices; cui utinam ipse quoquo modo commodare possem, quandoquidem mihi tam longe ab se distracto commodare ipse non potest... Magnopere hoc a te contenderem, ut, si diucule in otio esse te contigerit, nonnullos Galeni libros excribendos mihi cures, si tamen apud Demetrium extant, τον τού καθ·’ ήμάς άιώνος κα-9-ηγεμόνα. ». Cfr. Rebitté, Guillaume Budé restaurateur des études grecques en France, essai historique, Paris, Durand, 1846. (3) Come sostenne a torto il Renouard, Annales de Γ Imprimerie des Aides ou histoire des trois Manuces et de leurs éditions, p. 386, Parigi, *834 > 3·* ed., seguendo il Manni, Vita di Aldo Pio Romano insigne restauratore delle lettere greche e latine, in Venezia, 1795. (4) Come volle il Didot, Aide Manuce, pp. 150 e 414, dove chiama il Calcondila « 1’ un des plus savants Grecs réfugiés à Venise » ! ! (5) Vedi sopra, p. 247. (6) Praef. ad Euripidem. GIORNALE LIGUSTICO di altri. E notevolissima è una lettera del professore ateniese, già ricordata (i), a Marcello Virgilio Adriani, letterato di qualche nome da lui conosciuto a Firenze, cancelliere del pubblico dopo il 1498 e traduttore di Dioscoride. Nell’ aprile del 1492, 1’ Adriani dava notizia al Calcondila della morte del Magnifico Lorenzo e del medico di lui Pietro Leoni, e recava a Milano la lettera (2) Bernardo Riccio, il grande agente del Poliziano (3), che vediamo così in relazione anche con Demetrio. Il 5 maggio, gli rispondeva il Calcondila colla detta lettera, in cui accennava copertamente a sospetti di morte non naturale a proposito del Medici, e più chiaramente a proposito del suo medico, e scusavasi di non aver avuto tempo a cercare ed a mandargli un libro di Ermia, augurandosi eh’ egli lo potesse aver presto altrimenti (4). Ma sovra-tutto in stretta relazione coll’ illustre Greco, si scorgono coloro che furono padrini di uno o più de’suoi figli, Iacopo (5) (1) Vedi sopra, p. 286. (2) Fa publicata dal Vermigligli, Noti{ie di Iacopo Antiquari, pp. 266-68, Perugia, Baduel, 1813. (3) Intorno a Bernardo Riccio vedi Gabotto, Una relazione del Poli-ZÌano, pp. 9-11. (4) La lettera, che già dicemmo edita dal Bandini, Collectio, pp. 22 e segg. fu poi riprodotta dal Reumont, Lorenzo de’ Medici il Magnifico, t. II, p. 591-592, Lipsia, Duncker, 1874. Sulla morte di Pier Leoni c(r. pure Roscoe, Lorenzo de' Medici, App., n. LXX1V, e Fabroni, Vita Lattr. Meiì. t. II, p. 397, Pisa, 1784, nonché Pietro Crinito, De honesta Disciplina, 1. III, 9; Alamanno Rinuccini, Ricordi, p. 146, e Marini, Archiatri pontifici, t. I, pp. 197-199, Roma, 1784. Recentememte poi, nuove testimonianze in Propugnatore, S. II. Intorno all’Adriani vedi Maz-zuchelli, Scritt. il. t. I, parte I, p. 156; Tiraboschi, St. lett. it. t. VII, parte III. p. 795-796, e Rilli, Notizie dell’Academia Fiorentina, p 258. (5) Iacopo Antiquario, in una lettera a Iacopo Paolini da Perugia (cir. Epistolae, lib. I. n. 20, Perusiae, 1519) dice del Calcondila che era « de eloquio iucundissimo, philosopho copioso, in disputare acutissimo, homo di singulare doctrina et experientia ». 326 GIORNALE LIGUSTICO e Nicolò Antiquario, Bartolomeo Calco, Giovanni da Bellin-zona, Paride Ceresara da Mantova, Giovan Giacomo degl’Ar-ìigoni da Mantova, Nicolò Lazarino, Giovan Angelo Rubino(?), un « Gugliemo » e Branda da Castiglione, forse quel « Blando » che già avemmo ad accennare come ricordato nella corrispondenza tra il Calcondila ed il Lorenzi (i). II. Neanche in fatto di stipendio il Calcondila stava male, e da questo punto di vista aveva fatto egregiamente a tramutarsi da Firenze a Milano. Fin dal 1492 appare dai Rotuli dell’ Uni-veisità pavese, a cui erano aggregate le scuole di Milano, com egli avesse 562 fiorini, i quali nel 1495 furono aumentati a 750 e nel 1497 a 1162 (2). Bisogna però notare che sebbene tale somma, equivalente oggidì a circa 4600 lire e· forse più, fossegli sempre assegnata nel bilancio preventivo del 1498 (3), le deteriorate condizioni dello Stato Milanese furono causa che in realtà fosse ridotto di nuovo a 750 fio- (1) Vedi sopra, p. 286. — Il Calco appare fra i padrini di Maria, di Polissena e di Cassandra; Giacomo Antiquario fra quelli delle medesime; Nicolò Antiquario, di Giovanni Alessandro; Giovanni da Bellinzona , di Maria; Blando da Castiglione, di Polissena e di Cassandra; l’Arrigoni, di quest ultima; Paride Ceresara, di Maria; il Rubino, il Lazarino e Guglielmo, di Giovanni Alessandro. (2) Rotuli dell’Università Pavese, mss. parte nell’Archivio di Stato di Milano, parte nella Biblioteca Universitaria di Pavia, fra le carte del Giannrini, un erudito del secolo scorso che lasciò ms. un rifacimento molto importante del Syllabus del Parodi. Cfr. anche Magenta, I Visconti e gli Sforma nel castello di Pavia, t. I, p. 587 n., Milano, Hoepli, 1883. (3) Porro, Pianta delle spese per V Università di Pavia nell’ anno 1498-99 (tolta da un codice miscellaneo della Trivulziana), in Arci). Storico Lombardo, Serie 1, t. V, p. 510, Milano, 1878. GIORNALE LIGUSTICO 327 rini, e già prima del 1494, aveva dovuto sottostare più di una volta a ritenzioni di salario insieme con altri professori, quali il Minuziano, il Lazzaroni ed il Merula (1), e nel maggio 145-7 non aveva ancor tocco un quattrino di quel- I anno e restava sempre creditore di trecento lire del precedente, benché fosse stato condotto « cum grandissima instantia de Fiorenza... alla professione de lettere grece » ed ogni giorno si trovassero più contenti di lui « per il gran fructo che reusciva de l’opera sua », come dice un documento ufficiale di quei giorni (2). Per la qual cosa erano continui lagni e querimonie e fitte istanze e richieste d’aiuti da parte di Demetrio, che invero non si mostra mai contento. Il 16 marzo I494, tre giorni innanzi che morisse Giorgio Merula (3), il Calcondila, già agognandone le spoglie, si faceva raccomandare dal Calco al Moro come « huomo di gran bontà et doctrina » affinchè, morto il Merula, a lui si degnasse « del suo stipendio darli quella particella li pare per susten-tamento de la onerosa famiglia sua di molti fioli et fiole » (4). II giorno seguente, da Vigevano, Lodovico Sforza rispondeva al Calco : « Siamo molto contenti de augumentare salario a meser Demetrio Greco de la provisione che se daseva a Zorzo, perchè sij remunerato de le fatiche eh’ el dura, et per questo corno saremo lì, che sarà al lunedì santo, ne lo recordareti , perchè lo faremo come havessimo dicto » (5), cosichè pare gli toccasse l’aumento desiderato. Pure non quetava, e, poco dopo, supplicava la buona duchessa Beatrice d’Este, moglie del Moro, per qualche aiuto da lei promessogli in passato: (1) Rotuli cit. Cfr. Gabotto, Miserie e suppl. di prof., Alessandria, 1891. (2) Lettera del Calco ad Ambrogio Mantegazza, in data 29 maggio 1497· (3) Vedi sopra, p. 322, n. 3. (4) Letteta del Calco al Moro, in data 16 marzo 1494, già publicata nel citato opuscolo del Badini-Confalonieri, p. 13» n· i· (5) Lettera del Moro al Calco in data 17 marzo 1494. 328 GIORNALE LIGUSTICO « Illustrissima et Excellentissima mia Madonna, supplicando ricoida alla Ex.*1·· v.ra il suo fidelissimo servitore Demetrio da Costantinopoli, come altra volra havendovi supplicato del mio bisogno mi rispondeste per Anseimo vostro cancellerò benignamente et che mi voli ve (sic) provedere de ciò che dovevo avete pel passato, ma volive sapere per che via passava il mio pagamento. Onde io aviso la S. V. che io sempre era pagato per le mane del R.m0 Monsignor di Parma. Ma da quel tempo che tali denari non perveniano più in le sue mane, io non ho receuto più il pagamento usato. Onde a\iso la Ex.t,a v.ra che io debbio havere cinquanta et Juj ducati. Sapete io son forestiero et povero, et non ho altro modo da vivere se non quanto per la Ex.tla v.ra io sia aitato. Et pei tanto humilrnente suplico et prego vi dignate provedere che io sia satisfacto o in tutto o in parte de li dicti cinquan-tadui ducati, o sia per il debito che io debbo recevere 0 per vostra misericordia ef compassione, la quale havete sempre usata in ciaschun gentilhuomo di Grecia discacciato di la sua patria. Et questo dimando di gratia spetiale (1) »; e di nuovo : « Illustrissima et Excellentissima Madonna.... io resto ad havere ducati cinquanta della mia provisione.... Et perchè al presente io sono in grande necessità sì per voler togliere casa et provedere alle altre cose necessarie all5 inverno, come anche per el vestirmi, pertanto supplico alla Ex.“4 Excellentia \^ostra ve dignate provedere che io sia pagato. Et se non potete in tutto di denari, almeno di panno da vestirmi et d’ogni altra cosa che vi piace. Et farete non meno limosina [che] cosa meritata 0 (2). Anche stavolta (1) Publicata dal DAdda, Indagini storiche, artistiche e bibliografiche sulla libreria Visconte-Sforzesca del Castello di Pavia, t. I, doc. 55, p. 141, Milano, 1875. (2) In r’4.DDA; Op. cit., t. I, doc. 55 bis, p. 141-142. giornale ligustico 329 Demetrio dovette raggiungere il suo scopo, come lo raggiunse nel 1497, quando, in seguito alle sue doglianze pel sospeso pagamento, Bartolomeo Calco scriveva ad Ambrogio Mantegazza, tesoriere di Pavia, che aveva l’incarico di pagar lo stipendio ai professori, ordinandogli di soddisfar subito il debito suo al Calcondila e dandogli per giunta una severa ramanzina: « De la quale cosa havendone preheso grande molestia, te dicemo che lo faci satisfacere de quanto è creditore senza dilatione; altrimenti te faremo cognoscere che manchi del debito tuo et questi toi modi ne sono, come debeno, meritamente molestissimi, essendo messer Demetrio mai tractato così similemente inante che ne havessi la cura de pagarlo » (1). Ma non per questo ancora si mostrava contento, e sempre lagnavasi delle strettezze finanziarie in cui diceva trovarsi e della miseria sua e della numerosa famiglia. III. Né tuttavia cessava di crescere il numero de’ figlioli, dei quali sei gli naquero appunto in Milano, tra il 9 dicembre del 1492 e il 23 giugno 1501 (2). Ma gli è che le sue querele (1) Lettera citata del Calco al Mantegazza in data 29 maggio 1497. (2) I figli del Calcondila nati a Milano sono Maria (9 dicembre 1492), Polissena (12 gennaio 1494), Cassandra (6 luglio 1496), Giovan Alessandro (1 settembre 1497), Alessio (4 aprile 1500) e Tolomeo (23 giugno 1501), il qual ultimo è ricordato dal Giovio, 1. c., col nome di Seleuco (Non figurando questo nome nella lista autografa del Calcondila, dovrebbe reputarsi erroneo quanto il Giovio dice di lui, se non fosse più semplice supporre un equivoco di quello scrittore tra Seleuco e Tolomeo, nomi di due celebri re dell’ antichità). È a notare che parecchi de’ figli di Demetrio premorirono al padre, ed uno, Teofilo, tragicamente, in quanto fu ucciso a Pavia in una rissa. (Avvertasi però che il Giovio , che ciò 330 GIORNALE LIGUSTICO movevano piuttosto da quel desiderio di godere non solo agiatezza, ma comodità, ch’era proprio di tutti gli umanisti racconta, dice che il vecchio Calcondila non lo riseppe, essendo già egli stesso in fin di vita). Basilio fu chiamato ad insegnare in Roma da Leone X (Roscoe, Leone X, t. I. p. 171), e Teodora andò sposa a Giano Parrasio (cfr. sopra, Capo I, § 1, e Capo IV, §. 1). Ecco anche pei figli nati in Milano gli atti di pugno di Demetrio (cfr. sopra, p. 288, n. 3): Έν Μεδιολάνψ. [5] Τή έννάτιj τού δεκεμβρίου μηνός, 1492 έχει τφ άπό της κυριακής γεννήσεως, ήμέρ<£ κυριακή, περί τεσσαρεσκαιδεκάτην ώραν , σελήνης άγούσης... έγεννήθ·η μοι έν Μεδιολάνφ παιδίον θ-ήλυ , φ όνομα έτέθ-ε Μαρία, αγαθή τινι τύχη. Σύντεκνοι Βαρθολομαίος Χάλκος, ό τοίς ήγεμο-νικοϊς γραμματεΰσιν, έπιντατώσ Ιάκωβος Άντικουάριος , Ιωάννης εκ Βελιζώνης, Πάρις εκ Μαντούας. [6] Τη ιβ' τοΰ ίανουαρίου μηνός , 1494 τΦ απ° τ^ τ0® Xptoxo® γεννήσεως, ήμέρ^ κυριακή , περί ένδεκάτην ώραν, σελήνης άγούσης περί έκτην ημέραν, έγεννή&η μοι παιδίον θήλυ, φ όνομα Πολυξένης, συν άγαθφ καί εύμενεΐ δαίμονι. Σύντεκνοι Βαρθ-ολομαΐος Χάλκος, ό έπί των ήγεμονικών γραμματέων, Βλάντος έκ Καστελίσινος, Ιάκωβος Άντικουάριος. [7] Τη έκτη τοϋ ίουλίου μηνός, 149^ έχει τφ άπό τής Χρίστου γεννήσεως, ήμερα;. .., Περί ένδεκάτεν ώραν έγεννήθη μοι ·9·υγάθ·ριον , φ όνομα Κασσάνδρα, άγα-8-ή χύχη δαίμονος ϊλεω καί έυμενοΰς ύπάρχοντος. Σύντεκνοι Βαρθολομαίος Χάλκος, ό έπί των ήγεμονικών γραμματέων, Βλάντος δ έκ Καστελίωνος, Ιάκωβος Άντικουάριος, Ιωάννης Ίάκοβος <5 εξ Αρη-γόνων έκ Μαντούας. [8] Τή α’ του σεπτεμβρίου μηνός, 1497 έχει τΦ &πό τής Κριςχόυ γεννήσεως , ήμέρ^ παρασκευή, περί είκοστήν ώραν, σελήνης άγόυσης περί έκτην ημέραν, έγεννήθ-η μοι παιδίον άρρεν έπί τρισίν έφεξής θυγατρίοις επικουρί^ δαίμονος άγαθ·όυ, φ όνομα Ιωάννης Αλέξανδρος. Σύντεκνοι Ιωάννες "Αγγελος 'Ρουβΐνος, Νικόλαος ’Ανχικουάριος ιατρός, Νικόλαος Ααζχρίνος έταίρος καί Γουλίελμος. [9] Τή τοΰ άπριλΐου μηνός, 1500 έτει τφ άπό τής Χρίστου γεννήσεως, ήμέρς: σαββάτφ, κερί δεκάτην ώραν, έγεννήθ·η μοι παιδίον άρρεν, σελήνης Ικτην άγούσης, φ όνομα Αλέξανδρος. [ίο] Τή κγ' τοΰ ίουνίου μήνός , 1501 ϊτει, ήμέρςε τρίτη, ώρα δεκάτή, σελήνης άγούσης έβδόμην, έγεννήθ·η μοι παιδίον άρρεν, φ όνομα Πτολεμαίος. GIORNALE LIGUSTICO 331 del Quattrocento, che da vero bisogno: per poco che fossero stati più economi, avrebbero potuto essere molto meno accattoni. Tanto è vero che il Calcondila poteva sempre continuare ad attendere serenamente agli studi, non solo insegnando, ma ancora publicando edizioni di scrittori antichi da lui riveduti e lavori originali, e leggendo assiduamente i classici greci, dei quali tanto era innamorato, che davasi alle volte attorno con grande ardore per procurarsi il testo del-1’ uno o dell’ altro che gli mancasse. Dell’ amore di Demetrio pe’ libri greci è specialmente testimonio una lettera di Taddeo Vimercati al Calco, in data Venezia, 30 aprile 1494, da cui appare che il Calcondila cercava con intenso desiderio Γ opera di Eliano Sulle proprietà degli animali. Il Vimercati incaricava il suo cancelliere di trattare con un Giorgio Ferigo da Corone, il quale rispon-devagli che v’ era Γ Eliano desiderato, e se il Calcondila voleva copia di qualcuno 0 anche di tutti i libri di cui si componeva quell'opera « ne farebbe far copia molto volontera, essendo apparecchiato a gratificarlo in molto mazor cossa ». Però la libreria di San Marco, dov’era Γ Eliano, era molto disordinata e mal tenuta (1), ed il Vimercati doveva appunto deplorare che si fosse « lassato a quella Signoria tanta bella copia di libri », mentr’essa nè sapeva « prendere partito o da reponerli in una qualche libreria 0 darli a qualche relli-gione corno è tractato, aciochè ciaschuno possa havere copia et adito di studiarli et vederli », e li teneva invece in « certi forceri senza ordine ne le mane in procuraria d’ uno strano et senza cognitione et amore de lettere » (2), parole in cui si sente tutto Γ uomo di quella corte sforzesca, così tenera de’ libri, l’inviato di quel Lodovico il Moro, che ne faceva (1) Cfr. in proposito Γ ultimo capo del Vast, Op. cit. (2) D’Adda, Op. cit., t. 1, doc. 66, p. 154-155- 332 GIORNALE LIGUSTICO continua ricerca (i) per sè e per tutti gli studiosi, come precisamente in quest’ occasione pel Calcondila. Ma se tale documento è forse il più importante testimonio della ricerca di testi antichi anche da parte di quest’ultimo, non è il solo: un altro inedito, di poco anteriore, mostra Demetrio tutto intento a procurarsi un altro libro a Firenze per mezzo di Giovan Stefano da Castiglione, genero del Calco, il quale addi 23 febbraio 1494, scriveva allo suocero di aver mandato all Ateniese l’opera da lui desiderata insieme con lettere di Giano Lascaris, e chiedeva se ogni cosa fosse giunta, non avendo ancor ricevuta risposta dall’ interessato (2). Quanto a publicazioni fatte dal Calcondila durante il suo soggiorno in Milano, appartengono forse al 1492 gli Ερωτήματα συνοπτικά των δκτώ του λόγου μερών μετά τίνων χρήσιμων κανόνων, senza indicazione di luogo nè di data, uniti agli Ερωτήματα di Emanuele Moscopulo e Gregorio da Corinto (3), e al 1493 appartiene certo 1’ Isocrate, di cui fecero le spese i tre segretari ducali Bartolomeo Squasso, Vincenzo Aliprandi e Bartolomeo Rozono (4). Del 1499, invece, è 1’ edizione importantissima del Lessico di Suida, di cui Demetrio emendò il testo scorretto e diresse la stampa fatta più propriamente per opera di Giovanni Bissolo e Benedetto Mangio di Carpi. Fu quella un’edizione veramente splendida: precedevano due epigrammi di Antonio Motta, altro discepolo suo poco noto ed editore anche di Apicio (5); seguivano un dialogo greco (1) Idem, t. I. doc. 62, p, 149-150; doc. 63, pp. 150-152; Magenta, Op. cit, t. I, p. 154. (2) Lettera di Giovan Stefano Castiglione al Calco in data 23 febbraio 1494. (3) Cfr. Legrand, Op. cit. t. I, p. 17-18; Sassi, Hist. litt. lyp., p. 421 e Mattaire , Annales typogr., t. IV, p. 753. (4) Cfr. sopra, p. 324. (5) L’Apicio del Motta fu stampato in Milano circa due anni prima del Suida, «per Guilermura Siguerre Rothomagensem, die XX mense Ianuarii GIORNALE LIGUSTICO 333 fra un bibliopola ed uno studioso, di quello Stefano Negro di cui già si è fatto cenno, ed un'epistola dedicatoria di Giovan Maria Cattaneo ad Alberto Pio signore di Carpi, dove si facevano grandi elogi del Calcondila stesso (i); veniva per ultimo il testo col commento in bellisima stampa. Anche un trattato ed un opùscolo di Galeno, furono tradotti dal dotto professore ateniese, probabilmente negli ultimi tempi della sua vita (2), ma non videro la luce che parecchi anni dopo la sua morte (3); mentre di una traduzione in latino delle 1498 ». Il Suida è così indicato dai bibliografi: « Suidae Lexicon, Anno ab incarnatione MCCCCLXXXXVIIII die XV novembris. Impressum Mediolani, impensa et dexteritate D. Demetrii Chalcondyli, Ioannis Bissoli, Benedicti Mangii Carpensium », Il Botfield, Praefationes et Epistolae editionibus principibus auctorum veterum praepositae, Cambridge, 1861, p. 230-233, riporta uno de’ due epigrammi del Motta: Demetri, aeternos debet tibi mundus honores, quod dignum, quod tam nobile tradis opus. Debet Motta magis, caro cui tanta resultat gloria discipulo, te duce quanta datur. (1) « Latebat in tenebris, paucorum factus, tam preciosus auctor (Suida) et ab omnibus in dies desiderabatur. Nullus opem ferebat nec poterat. Tandem ad hanc provinciam reservatus vir Atticae facundiae princeps, Demetrius Chalcondyles, praeceptor noster, non, ut caeteri Graecorum studiosis tantam felicitatem invidit, sed, ducem se constituens, egregios huius artis et industrios artifices, Ioannem Bissolum et Benedictum Man-giuin, Carpenses, accersivit, et praeter conditionem et aetatem suam, pluribus multocies collatis exemplaribus, emendatum, immo excolendum et renovandum Suidam aggreditur, tanto studio et diligentia usus, ut obscura detexerit, inversa correxerit, manca suppleverit et, ut demum quod sentio dicam, in illo expoliendo autorem ipsum superaverit ». (2) Cfr. sopra, p. 324, n. 2. (3) De anatomicis aggregationibus, stampato in Bologna nel 1529; cfr. Hofmann, Lex. bibi., t. II, p. 265. Vedi anche Liber primus seu particula prima libri Galeni de oculis a paucis annis translatus de graeco in latinum a Demetrio Graeco, stampato in Lione nel 1512 in fine della Epithome Galeni di Sinforiano Champier. Potrebbero forse essere opera di un altro 334 GIORNALE LIGUSTICO Vite dei Cesari di Dione fatta da Demetriò è cenno in una lettera del Parrasio a Giovanni Battista Pio, che dalla lettera stessa appare essere stato egli pure tra gli uditori del Calcondila (i). IV. Giungeva intanto Γ epoca fatale in cui crollava la potenza di Lodovico il Moro e disperdevasi la brillante corte letteraria sforzesca. Appunto nel 1499 scendeva in Italia Luigi XII, re di Francia, sicché quando fu pubblicato il Suida, Milano era già terra francese. Tornava bensì il Moro sul principio dell’anno seguente, ma per poco tempo. Tuttavia anche in quel brevissimo intervallo di restaurazione sforzesca, è memoria d’una relazione del Calcondila con lui. Aveva Demetrio affidata la vendita del suo Suida a due noti librai di Milano, Giovanni Angelo Scinzenzeler e Giovanni da Romano. Questi, profittando dello sconvolgimento prodotto dagli avvenimenti politici e dalla dominazione francese, cercarono di vender i libri unicamente a proprio vantaggio, ed all’Ateniese che, accortosi del loro disegno, procurava impedirne Γ attuazione, prima intimavano di ritirar tutte le copie entro un mese, sotto pena di essere considerato come scaduto da ogni diritto, poi, avendo egli mandato a prenderle, gliele rifiutavano affatto. Donde seguiva che a sua volta il Calcondila, tornato lo Sforza, gl’indirizzava una supplica (2), a cui il Demetrio, ma paiono realmente del Calcondila per la ragione accennata nel rinvio della nota precedente. (1) Jannelli, De vita et scriptis Auli Jani Parrhasii, pp. 168 e [70, Napoli, Banzoli, 1844. (2) Supplica del Calcondila al duca, marzo 1500. GIORNALE LIGUSTICO 335 duca apponeva in calce da Novara il 23 marzo 1500, cioè pochi giorni prima della sua totale rovina, un « Senatus noster secretus superius exposita intelligat et eam provisionem adhibeal que ei videbitur ». Ma seguiva la catastrofe, ed al povero Demetrio, che era ricorso al Moro, toccava fuggire dinanzi alle armi vittoriose di Francia: una lettera del Vi-sdomino veneziano in Ferrara ce lo mostra in questa città il 28 maggio di quell’ anno (1). Era morto in Venezia fin dal 23 gennaio, sempre del 1500, messer Giorgio Valla (2), lettore in detta città dopo la partenza del Merula. Fin da quel tempo, qualcuno voleva chiamare il Calcondila come successore del Valla, mentre altri proponeva chi Raffaello Regio, chi Costantino Lascaris, chi altri ancora (3). Venuto a Ferrara, Demetrio si raccomandava vivamente per ottenere il posto (4), ma non riusciva (5). Sappiamo che verso quel tempo era realmente invitato dagli Ufficiali dello Studio di Pisa, per la cattedra di etica, ma neppur colà fini per recarsi (6), e tornò invece a Milano, dove il 6 marzo 1501 Giorgio di Amboise, cardinale di Rouen e luogotenente generale di Luigi XII in Italia, con lettere patenti date nel castello di Porta Giovia, confermavaio nuovamentente come professore di greco, confidando nella « doctrina, tuoribus el integritate » del vecchio profugo di (1) Sanudo Diarii, t. Ili, p. 353. (2) Vedi Gabotto, Il processo di Giorgio Valla a Venezia nel 1496, Venezia, Visentini, 1891. (3) Sanudo, Op. cit., t. Ili, p. 90-91. (4) Idem, t. Ili, p. 353: « Da Ferrara, dii vicedomino, di 28 (maggio 1500)... Item che ivi si ritrovava Demetrio Greco, leze a Milano, voria venir a lezer a Venecia, si piace a la Signoria, in Iodio dii Valla defonto ». (5) Gabotto, Il processo, l. c. (6) Fabroni, Hist. Ac. Pis., t. I, p. 323, dice nel 1498, ma il Prezziner, Op. cit., t. I, p. 189, corregge nel 1500. seppure non si tratta di due distinti inviti, lino da Pisa nel 1498 e un altro da Firenze nel 1500. 336 GIORNALE LIGUSTICO Costantinopoli e di Atene (i). A Milano il Calcondila passò il resto di sua vita sempre inteso a’ suoi diletti studi (2), beneficato dal cardinal Giovanni de’ Medici (3), visitato dal Trissino e da Giovanni Lascaris (4), ma travagliato dalle disgrazie famigliari (5) che lo accompagnarono fino alla morte, avvenuta, come già si è accennato, l’anno 1511 (6). Anche dai moderni cultori della letteratura greca, il nome del primo editore di Omero non è dimenticato, mentre la sua famiglia sembra esista ancora attualmente nell’ antica terra sacra di Atena (7). UN SOCIALISTA DEL CINQUECENTO APPUNTI SULLA VITA E SUGLI SCRITTI D’ ANTONFRANCESCO DONI. Sommario. — I. Il Doni e i suoi biografi — Uscita dal convento — Suoi costumi. II· La guerra al Domenichi — L’ animo del Doni — Cause della guerra — Contegno del Domeniche — III. La moralità letteraria del Doni — Il Doni e i Signori. — IV. Il Doni e la sua critica sociale — Traccie d’opinioni socialiste in quasi tutte le sue opere — Ardimenti e bizzarrie del suo ingegno — Professioni esplicite di comuniSmo. — V. Il dialogo tra il Ρα,ζζΟ e il Savio — Il Doni e la storia del socialismo — Il Doni e T. Moro — Esposizione del-Γ utopia del Doni. I. Fra gli ingegni eterocliti, come dicevasi allora, del cinquecento , singolarissimo fu certamente Antonfrancesco Doni. (15 13-74)· (1) Ms. nella Bibl. Univ. di Pavia, fra le carte del Gianurini. (2) Roscoe, Vita e pontif. di Leone X, t. X, p. 144. (3) Cfr. sopra, p. 285. (4) Vedi sopra, pp. 265 e 322. (5) Vedi sopra, p. 328, n. 2. (6) Vedi sopra, p. 248. (7) Legrand, t. I, p. 101. GIORNALE LIGUSTICO 337 Di questo « cervellaccio bizzarro e fantastico » (i) sufficientemente nota è la vita, dopo l’erudito lavoro del Bongi (2); al quale, conviene notarlo, accadde forse il rovescio di ciò che si é visto succedere tanto spesso ai biografi: innamorarsi dei lor soggetti, e tramutarsi di critici in sottili avvocati. Il Bongi, a dir vero , non fu più inclemente degli altri accusatori del Doni (3), nè potrebbero onestamente negarsi tutte le colpe che gli rimprovera; esagerazione sarebbe però il ritenerlo pari in bassezza a Pietro Aretino, « del quale era degnissimo di rimanere amico ed ammiratore » (4), od anche, come scappò detto al Grion, «più tristo di quel tristissimo paladino di Giuda » (5). Dell’Aretino, dell’esecrato Aretino, fu tentata la riabilitazione più volte, mentre il Doni aspetta ancora il suo difensore; e non sarò io a prendermi questa briga, benché in fondo non sarebbe molto difficile scoprire la necessaria origine e la scusa di parecchi traviamenti di questo frate scocollato, prete scostumato, sollecitatore sfrontato, persecutore implcaato e letterato di ventura, nell’ indole de’ tempi suoi, eh’ egli non sorpassò certamente in corruzioue e in malizia. Anzi, anche a giudicarlo dall’opere, che paion quasi caste in mezzo a tante altre sudicerie contemporaneej sembrerebbe (1) A. Zeno: Note al Fontanini\ I, 236. (2) La Vita di Antonfrancesco Doni fiorentino fu premessa dal Bongi al-l’edizione delle Novelle (Lucca, 1852), e poi con nuove aggiunte ristampata nell’edizione fiorentina dei Marmi (Barbera, 1863) per cura di P. Fanfani. Questa è l’ed. che citerò in seguito. (3) Molti; e primi i veneziani, i quali non seppero perdonare al Doni, che fu poi grande amico e lodatore della loro repubblica, il tiro della famosa epistola dantesca a Guido da Polenta. (4) Bongi: Vita. L1V. (5) G. Grion: La cronaca di Dino Compagni, opera di A. F. Doni. Verona, 1871, pag. 49. Gions. Ligustico. Anno XIX. 22 338 GIORNALE LIGUSTICO che alcune malizie del suo secolo non gli si attaccassero all’ ossa; nè abbiamo altre prove sicure per apporgliele. È fuor di dubbio che per un certo tempo della sua giovinezza Antonfrancesco, col nome di fra’ Valerio, vesti in Firenze 1’ abito dei Serviti, ed è ancora fuor di dubbio che intorno al '40, gettata la tonaca alle ortiche, uscì di convento, per cominciare, in abito di prete, la serie delle sue lunghe peregrinazioni. Il Gioannini, primo biografo del 00111(1589), spiega il fatto coll indole irrequieta di lui, intollerante del giogo monastico, repugnante alla vita contemplativa (1); spiegazione convincentissima per chiunque conosca l’umore del Doni, che molto più tardi, di frate mutatosi in prete, ricalcitrava anche alla larghissima disciplina del clero secolare, s’ arrabbiava di portare «una berretta e una giornea», e avrebbe voluto sbarazzarsene, « per non disturbare il gusto dei savi, che in verità è perfetto aborrendo dalle berrette ». Già egli « non faceva l’amore con le sepolture e con l’asperges», anzi non s accorgeva d’esser sere- « salvo che a legger la scrittura sacra e a cantare al sacrifìcio, per non essere eretico » (2). Con Salvestro Macchia si doleva delle « quattro corna », che era costretto a sopportare in capo, e soggiungeva: «Io ho un capriccio di farmi scomunicare, per non cantar più Domine labia, e trar via queste corna e questo segno d’osteria, e spretarmi, per non esser a noia a tutte le persone.... Se voi mi fiutaste, non so nulla di prete, ma puzzo piuttosto di pazzo ». Figurarsi poi di frate!.... « Chi mi facesse far amicizia d’un convento, mi farebbe venir lunatico », scrive nella stessa lettera al Macchia; e tra gli altri luoghi ove esprime tutta la sua avversione allo stato religioso è indimenticabile (1) Vedi le notizie sul Doni contenute nell 'Anatomia delia Zucca. Io cito quella di Venezia. Farri. 1592. (2) Doni: Lettere. Venezia, Marcolini, 1552, p. 4 5. GIORNALE LIGUSTICO 339 la lettera a Baldassarre Stampa, in cui descrive ie furie pazzesche, che talvolta sfogava sui poveri suoi abiti sacerdotali, messi « sopra un uomo di legno », a ricevervi una tempesta d’ingiurie e di busse. Che un soggetto simile abbandonasse il chiostro, per la semplicissima ragione che il chiostro non era fatto per lui, avrebbe dovuto sembrar naturale; ma lo Zilioli registrò la diceria, chi sa dove attinta, che il Doni « si partisse dalla Religione per tema di castigo, essendo incolpato d’aver corrotto i fraticelli de’ quali era custode »; e la testimonianza parve subito grave. Perché? Perchè, si notò, il Doni non fece mai menzione della sua vita claustrale, e questo silenzio avvalora il sospetto eh’ egli abbandonasse quella vita per una causa turpe. Menzione esplicita, è vero, non fece; ma un’ allusione abbastanza chiara ognuno lo può trovare nella lettera del '43 a fra’ Bonaventura Terrigiani, dove, celiando sulla beata condizione dei frati, « i quali hanno sempre una dozzina di beghine pronte ad impinzarli come salsiccie », esce in queste notevoli parole : « Mi è venuta alcuna volta fantasia di farmi frate e di fare la vita vostra » (1). Cosi può dirsi che abbia risposto anche alla importuna cicala la quale domandava « se il Doni era stato frate » (2); e pretendere che si spiegasse più chiaro, è pretender troppo. Già si lagnava con l’Aretino d’essere, per sua disgrazia, prete e di non potere perciò far fortuna nel mondo: « S’io non fossi prete, e’ mi starebbe bene 1’ esser virtuoso..... 1’ esser colla chierica puzza a tutti »; s’ imagini dunque che interesse poteva avere a darsi a conoscere anche per frate ! « A mio gusto — scriveva al Macchia nella lettera già ricordata — i frati sanno (1) Lettere. Ed. cit., p. 7. (2) Lettere. Venezia, Scotto 1545; CXXXVI. In un certo aneddoto giocoso della Zucca (ed. cit. c. 9) ricorda un «irate Valerio fiorentino dei Servi », che potrebbe anche essere il Doni stesso. 340 GIORNALE LIGUSTICO di vieto »; e non a gusto suo soltanto, convien soggiungere; anzi quest’era, può dirsi, il gusto del tempo. Sul disprezzo dei frati, che gli umanisti del quattrocento, per non risalire al Boccaccio, come il Poggio, il Filelfo, e poi Erasmo, avevano coperti di ridicolo e di contumelie, si può vedere ciò che scrisse il Burckardt nella Cultura del Rinascimento in Italia, ed il Graf nello studio su frà Martino, buffone di Leon X (i). Il frate nel cinquecento divente prototipo di sudiceria, di goffaggine, di giottoneria, d’ignoranza, d’ipocrisia, di viltà; un essere spregevole insomma, che si presta meravigliosamente alla satira, che tutti fuggono e di cui tutti ridono; e con tali caratteri ci si offre nella letteratura d’allora, anche nell’ opere più gravi. Cosi nel Cortigiano del prudente B. Castiglioni, il buffone della brigata é un frate, fra’ Serafino (2). Ora, se questo è vero, che difficoltà ad ammettere che il Doni spogliasse spontaneamente — come attesta il Gioannmi — l’abito screditato ed inviso? So bene; se nel cinquecento fu comunissimo il disprezzo al quale Antonfrancesco volle sottrarsi, fu altrettanto diffuso il vizio del quale lo Zilioli l’accusa; nè sarebbe meraviglia che frate e virtuoso della virtù d’ allora, vi fosse caduto. Vi caddero ben altri! Ma, domando io, se è vero eh’ egli si contaminò di quel vizio e che « per tema di castigo fuggì dal convento », come va eh’ egli potè presto tornare, senza essere molestato, a Firenze; ottenere, prima di tornarvi, il favore di Cosimo, e poi dedicare il secondo libro delle sue lettere (1547) appunto al generale dell’ordine dei Servi, frate Agostino Bonucci? (3). (1) A. Graf. Attraverso il cinquecento. Torino Loescher, 1888, p. 369 e segg. (2) Cortegiano. 1. I, cap. IX. (3) Da costui abbiamo la più antica testimonianza che il Doni appartenne alla religione dei Servi ; e se lo scandalo di cui parla lo Zilioli GIORNALE LIGUSTICO 34I In sostanza, di certo intorno a’ suoi costumi noi sappiamo assai poco. Volubile, come fu certamente, possiamo ben credergli quando ci assicura di non esser « mai stato tanto innamorato, eh’ ei non si sia saputo sviluppare in tre ore » (1); e senza dubbio meno sincero è dove protesta che : « delle donne fu schiavo e porlo sempre Γ onestà loro sopra il capo nonché nel core, e non le ha mai biasimate se non per burla, e come si suol far talora, per cacciar le mosche dei fastidi con la rosta delle ciancie. Ma dolergli vedere che taluno, per voler prosuntuosamente acquistare la grazia delle donne, entri, senza un proposito al mondo, a ragionare della nobiltà loro,...... perché quando le lodi di questo valoroso sesso entrano in bocca degli uomini volgari, elle piuttosto perdono qualche cosa, che non vi facciano alcun guadagno » (2); nelle quali parole io non scorgo che uua botta indiretta al Domenichi, autore appunto, coni’ é noto d’un libro Della nobiltà delle donne. Come scrittore il Doni verso le donne fu sempre scortese, anzi brutalmente cinico: Casta est quam nemo rogavit, At si rusticitas non vetat, ipsa rogat (3) ; fosse avvenuto, non si comprende come il Bonucci abbia voluto registrare un nome del quale l’ordine suo non poteva menomamente gloriarsi. Il Poccianti poi, che pure appartenne all’ordine dei Servi, registra tra gli scrittori fiorentini il Doni e, senza scrupolo alcuno, a titolo d’onore. Il P. Arcangelo Giani ne’ suoi Annali de’ Servi (1618) non fece ricordo del Doni, ma inferirne che ne tacesse per pudore, non credo si possa. Non era necessario che ne parlasse trattando degli scrittori Serviti, poiché il Doni non cominciò a pubblicare dei libri che dopo la sua uscita dall’ordine; e in ogni modo non dovè sembrargli opportuno parlarne dopo che il Doni era stato segnato all’ Indice, come scrittore irriverente alla Chiesa romana. (1) Doni: Pistolotti amorosi. Venezia, Giolito, 1558, p. 77. (2) Zucca-, Lettera ad Alberto del Carretto. (3) Doni: 1 Mondi. Venezia, Cavalli, 1568, p. 264. 342 GIORNALE LIGUSTICO quest’ è per lui la donna; tra Γidealismo trascendentale dei petrarchisti e il realismo triviale degli antipetrarchisti — letteratura di maniera sì il primo che il secondo — egli stette Coll’Aretino, col Franco, col Landò, col Berni, dal quale è imitato evidentemente il sonetto: La mia donna ha i capei corti e d’ argento La faccia crespa e nero e vizzo il petto (i); ma non soltanto per dar la baia ai petrarchisti dice male delle donne e ride dell' amore ; ne sparla e ne ride anche senza intenzioni parodiche e mostra d’averne lo stesso basso concetto che n’ ebbe in fondo il Rinascimento, non ostante le platoniche idealità mal rifiorenti in tanti dialoghi e rime (2). Tuttavia una donna — chi fosse non importa sapere — visse con lui, come moglie, a Piacenza e a Venezia (3), e un figlio, nato probabilmente da costei, Silvio, stava ancora con lui negli ultimi suoi anni a Monselice (4). Da ciò si potrebbe anche indurre che i suoi sentimenti e i suoi costumi, non come prete, ma come uomo almeno, furono meno corrotti di quanto si è creduto. II. Abbiamo ricordato il Domenichi, e non sarà inutile toccare adesso della lunga guerra mortale che, per sciagura della sua fama, gli giurò il Doni. Fu un odio feroce, fu guerra ad armi corte; e gli scrittori di cose letterarie, narrandone le vicende, (1) Marmi. Ed. cit., v. II, p. 84. (2) Pistolotti amorosi. Ed. cit., 72-77. Gli esempi abbondano; alcuni avremo occasione d’allegarne in seguito. (3) Mogliema, la chiama. Vedi Prima libreria; lettera a Girolamo Fava, bolognese. (4) Mondi. Ed. cit. in fine; lettera a Caterina Malipiero. GIORNALE LIGUSTICO 343 trovarono giuste ragioni di biasimo contro l’implacabile Antonfrancesco. Qui gli esempi d’altre consimili lotte, sostenute prima, in quel secolo e poi da altri uomini di lettere men biasimati del nostro, sarebbero inette scuse. Animo sorbido e astioso ebbe indubbiamente il Doni (i); benché, a sentirlo, non paia. « Io sono uno di quegli uomini a caso che si ritrovino nel mondo; ma prima di tutto non mi dà allegrezza nè dispiacere se gli altri portino la penna da questo canto o da quell’ altro. ... Sopratutto mi meraviglio quando uno mi vuol male, perchè non ho roba da potermela torre, non ho lettere, dottrina o sapienza da essere maggiore d’alcuno, nè reputazione, nè credito, nè nulla. Se un mio nemico diventasse re, non mi darebbe un fastidio al mondo, perchè io son certo che in capo di questa strada, noi ci abbiamo da attestare insieme e farci eguali.....Son pronto e parato a far piacere a tutti eh’ io possa e che me ne richiederanno » (2). Quest’ « omettolo » bonaccione, che vive e lascia vivere, a sentirlo, non ha fumi, « non si cura di messere, d’eccellenze 0 di maestranze; anzi quattro lettere l’empiono e ne ha assai : Doni! » La boria letteraria par che sia lontana mille miglia da lui, eh’ è « un frà Lorenzone, che la poca fatica gli era sanità; lo scriver baie lo ingrassa, il rider di chi dice che le son belle lo diletta, il farsi beffe di simil ciancie gli è un’ allegrezza inestimabile.....Delle cose sue se ne (1) Nota è la sua guerra coll’ Aretino; men celebre quella con Giulio Albicante, la quale ebbe presto termine, anche perchè, il bestiale Albicante, tranne un tal Moretto da Lucca, non trovò altri ausiliari contro il Doni. Il Caro che aveva promesso soccorsi, (Lettere di XIII Uomini Illustri. Venezia, Bonelli, 1571, p. 176) non scese in campo, e Luca Contile, chiamato in aiuto, dava all’ Albicante miti consigli di pace. (L. Contile , Lettere. Pavia, 1561, p. 124), esortando l’Albicante ad aver riguardo alla « virtù » del Doni. (2) Zucca . Ed. cit. p. 220. 344 GIORNALE LIGUSTICO ride e se ne macca il naso » (i). Se una cosa gli dispiace è appunto il vedere tanta gente lacerarsi spietatamente a vicenda: «O poetacci bestie, che sempre dite l’un dell’altro male, o scrittoracci infami che scoprite i vostri occulti vituperi, raffrenate tanta insolenza____» (2); e par tutto pieno di sante e pacifiche intenzioni quando pensa, che « poca fatica ci vorrebbe a viver bene, e lasciar la vendetta in inano a chi ha cura di noi, a vestirci di pazienza per tutte le cose che può il mondo tormentarci; usare verso ciascuno una ragione amorevole e non una forza disonesta, fare che la pietà vincesse, ed operare si fattamente che noi non fossimo ripresi, ma lodati in tutto il corso della nostra vita ». Ma, per disgrazia, « chi fìa colui che dia principio, di dove verrà quell’uomo che incominci a far questa strada? » (3) Egli certo non fu un cosi esemplare cristiano, e possiamo soggiungere che non si curò nemmeno di parerlo; tante e si aperte (4) e gravi sono le testimonianze d’odio contro il Domenichi, disseminate ne’ suoi scritti. Non mise ad effetto la terribile minaccia, ma nell’ardore della passione, s'innebriò la fantasia di sangue: « Io ti sarò un giorno alle tempie in persona, 0 per mia commissione, con un man dritto d’un pistoiese, per trattarti in quel modo che meriti » (5). Dopo averlo accusato al card. Farnese e a D. Ferrante Gonzaga, dopo averlo saputo, forse per opera sua, bench’ egli lo neghi, preso dal bargello a Roma e poi (1) Marmi. Ed. cit., I. p. 303. (2) Mondi. Ed. cit., p. 395. (3) Ivi., p. 337. (4) Non è vero, come fu detto, che solo dopo il ’jo il Doni rompesse in guerra aperta contro il Domeuichi, perchè una delle più fiere diatribe si legge nel Disegno — Giolito. 1549, 59. (5) Librerie, 15 51, 221. GIORNALE LIGUSTICO 345 pericolante in un processo di religione a Firenze, gli promette nuove persecuzioni: « Insegnerotti____ che cosa sia scherzar con 1’ onore degli uomini che hanno sentimento, e tanto più con il Doni! » (i) Il boia deve fare un giorno o Γ altro le sue vendette, « frutto di grande apparecchio »: il boia e non altri, perchè, gli dice, «essendo in podestà d’alcuno mio amico di darti, fuor dell’opinion tua, dopo averti bastonato, d’un buon pistoiese sul petto, non ho voluto che si eseguisse, perchè ti cureresti poco d’ esser tratto di questa vita con tanto onore »; e al padre stesso del nemico scrive: aState sicuro che la tardità del castigarlo, che io farò, fia compensata con maggior pena, danno e vituperio » (2). Più si vendica e più sente crescere la sete di vendetta (3); è lotta senza tregua c senza quartiere: « Renditi certo — dice al perseguitato — che non è loco sotto la luce del sole dove 10 ti lasci riposare! » (4). Ora, se non lo sapessimo per altri documenti, questo stesso accanimento del Doni proverebbe che i due campioni erano stati amici un tempo. Non s’ odiano cosi che gli amici ripudiati; e amici strettissimi questi due furono infatti per lo spazio di cinque anni (1543-48). S’incontrarono a Piacenza, appartennero insieme alla godereccia accademia degli Ortolani, sorta nel 1543, « per giuoco e per riso », senza pregiudizio però della «filosofìa, logica, rettorica, poesia latina e toscana » (5); c dove, « sotto la protezione del Dio degli Orti », 11 cui simbolo osceno s'eran tolto per impresa, col motto: il) 1Zu.ua, Vcticm, Rampmcito. 1565, 217. (ï) Op. cit. Lettera ai paire iti Domenicbi (j) Marmi. Ed. cil. !, 292. (4) Seconda Libreria, 1551, 87. (*) L. Domekichi: Dialoghi, Veneria, 1574, 2J9 346 GIORNALE LIGUSTICO SeT umor non vien meno, « si facevan di belle cose » (i). Furono amici e presto divennero come inseparabili; caldissime parole d’ affetto; sincera stima, intera confidenza (2); e non soltanto parole, ma fatti. Avviene che il Domenichi sia costretto ad abbandonare Piacenza; e il Doni, che non sa vivere lontano dall’ amico, corre a Venezia a raggiungerlo (3); poi gli procura il pane accomodandolo col Giolito come correttore di stampe; indi gli riesce di metterlo in casa del Montluc, ambasciatore francese presso la Serenissima, in qualità di segretario o storiografo che fosse; da ultimo se lo prende con sè a Firenze, in casa propria, e lo mantiene per due anni; finché questa bella intimità è rotta a un tratto, e la guerra furibonda scoppia dopo una « pistola invettiva » pubblicata dal Domenichi contro il Doni, verso il principio del 1548. Sono innumerevoli le ingiurie e le accuse con cui il Doni lo ripagò; come nelle arti per perderlo, cosi nelle parole per infamarlo non conobbe misura; ma contro « l’amico finto, doppio, falso, bugiardo, traditore, insolente, dappoco, ignorante e tristo » (4), più frequente d’ ogni altro rimprovero, ripete l’accusa d’ingratitudine. «Io tocco delle bastonate (5), ioti lievo dal vitupero; sta qui, non ci posso vivere; va là, non ci trovo cosa che faccia per me; muta, stramuta; provati e riprovati; cerco di metterlo innanzi, egli è un bue; fagli far (1) Zucca, 1565, 23. Vedi anche G. Betussi: Raverta, I544> 7X> e Poggiali: Memorie per la stor. lett. di Piacenza, I, XVII. (2) Doni: Lettere , 1552, 144 e altrove. (3) Notisi specialmente la lettera del '46, con cui il Doni invia al Domenichi il Comento alle Rime del Burchiello. (4) Marmi. Ed. cit. I, 298. (5) Si finge che parli il Dominichi e il Doni risponda e comenti. Le bastonate il Domenichi le avrebbe ricevute da un tal Clario, famigliare di Montluc. GIORNALE LIGUSTICO 347 delle suppliche, e’ si caca sotto di paura: mandagli diçci scudi, son gettati via, chè gli stava meglio in compagnia de’ furfanti e delle meretrici; vestilo di velluto, eccolo un asino a fatto » (i). Tante persecuzioni e tante accuse potevano essere del tutto immeritate? Non credo si possa pensarlo. I motivi della rottura fra il Doni e il Domeniehi, il Bongi li credette impenetrabili; io rimando il lettore al dialogo tra Agnol Tucci, Vittorio e Barone, che leggesi nei Marmi (2). Quel dialogo, a mio avviso, chiarisce e conferma molt’ altre parole contro il Domeuichi sparse nell’opere del Doni, che ivi parla sotto il nome di Vittorio. Sappiamo da una lettera già citata, che il Doni, usava consultare 1’ amico su tutti i suoi lavori : « Ora, signor Ludovico mio, come sempre voi avete rivedute le cose mie, così questa non son per dar fuori senza il consiglio vostro »; ed ecco ora un passo del dialogo: « Mettiamo che io avessi per amico qualche Dottore..... (3) che io avessi opinione che sapesse più di me, se ben non fosse così. Ma acciocché meglio sappiate, 0 intendiate, invaginatevi che io non facessi professione di componitore, ma di persona che scrivesse per passar tempo e non istimassi le cose mie più che io mi facessi la spazzatura, sì come fo ancora;.... (4) e mi forzasse a tenere copia, e le copiasse di man sua, parendogli che le fussino da qual cosa; e brevemente mi tirasse a farle stampare, e per sorta l’avessin credito». Ma ecco subito l’amico Dottore arrogarsi il merito (1) Marmi. Ed. cit. I, 299. Il velluto e i denari rinfacciati anche altre volte: « Meglio farai a rimandarmi il velluto mio e i miei denari—-» {Seconda Libraria, 1/51, 58. (2) Ed. cit. 292 e segg. Cfr, Marmi, I, 188, (3) Cosi dal Doni di solito è designato il Domeniehi. (4) Quest’ è la sua solita canzone. 348 GIORNALE LIGUSTICO del successo, dicendo a questo e a quello: « Io l’ho fatta quella commedia, egli non sa nulla ». Ma chi ha voglia può continuare da sè la lettura di questo eh’ è tra i più vivaci dialoghi dei Marmi; intanto, a riscontro, allegherò ancora un passo dei Mondi : « Io mi ricordo ora d’un dottoricchio arrogante, che stette per mio copista alcuni anni, ch’era tanto bufalo ebe a pena s’accorse eh’ io sapessi leggere; e per essere io nello scrivere trascuratissimo, siccome colui che non posso rileggere le mie storielle, sì le mi puzzano; volete voi altro che diventò tanto insolente, arrogante, presuntuoso e temerario, ehe diceva far egli di suo capo, e l’ha grosso, ciò che trascriveva di mio cervello! » (i). Questa, secondo me, l’origine della contesa, non onorevole certo per il Domenichi; e ne avremmo sicura conferma, se non fosse andata perduta la famosa « pistola invettiva », che diede il travaso alla bile del Doni e lo fece urlare al « tradimento ». Peccato che non s’attenesse poi a questo onesto proposito di veudetta: « Io vo’ far conoscere al mondo che costui è un ignorante, perchè farò delle opere, senza i suoi giudizi, migliori e più belle: lui ne farà delle più goffe, ergo e’ fia tenuto un pedante giusto giusto, e un pedantissimo ignorante » (2). Che alcuni poi falsamente abbiano preteso d’aver composto in parte l’opere del Doni — dò la testimonianza per quel che vale — è affermato anche dal Ghilini : « la qual cosa — egli dice — in breve si chiarì con lor grandissimo scorno » (3). E d’una mariuoleria letteraria era ben capace il Domenichi, del quale il Tiraboschi registra gli innumerevoli plagi (4); strano, anzi inaudito plagio è per- ii) Mondi, Ed. cit. Inferno dei Dottori. (2) Ivi, 301. (3) Teatro dei letterati it., I, 20, (4) Storia della lett., VII, 1048. GIORNALE LIGUSTICO 349 fino Γ unico luogo delle sue opere in cui osò, benché fiaccamente, assalire il Doni (i). Non avesse mai risposto, avesse sempre mostrato di non curarsi del Doni, con magnanima pazienza degna d’ un santo, o con magnanimo orgoglio degno d’ un savio, e sarebbe giusto ammirare col Bongi codesta « prova della maggiore moderazione e d’ animo mite » (2), di cui il Domeniehi avrebbe offerto al secolo, non raro, ma unico esempio. Volle invece rispondere, sia pure per una volta, e rispose, come s’è veduto, tra goffo e impudente. Il suo silenzio di tanti anni, ad esser giusti, significa dunque ben altra cosa che virtù evangelica od anima nobilmente sdegnosa (resterebbe sempre da dimostrare che di tanto egli e 1 età sua fosser capaci) ; significa piuttosto accorgimento o viltà, (1) L. Domenichi. Dialoghi, 1562,384 e segg. Il Bongi non ne fa cenno, ma è risaputo che il Dialogo della stampa in cui si legge la diatriba contro il Doni, è copiato dal Ragionamento sulla stampa, uscito nei Marmi dieci anni innanzi (1552); e il furto è tanto evidente che il Poggiali, per carità di patria molto parziale verso il Domeniehi, non seppe trovare un argomento per negarlo. Vi si provò Scipione Casali (Annali della tipografia di F. Marcolini. Forlì, 1861, 139) ma con poca fortuna. E infatti se il Doni si fosse qui appropriata la roba altrui, perebè il Domenichi, nè prima, nè pubblicando i Dialoghi, non denunziò il furto? Sì bene accusa il Doni di plagio per la traduzione delle Epistole di Seneca (peccato che realmente il Doni commise, a danno di Sebastiano Manilio); e poi non trova da fargli rimprovero più aspro di questo : « Non vi par egli cosa empia et scellerata, et proprio da lui il dir male de gli uomini morti, come ha fatto quello empio, d’ un gentil huomo honorato, quale vivendo fu Niccolò Martelli, et d’nn huomo famosissimo come fu in vita Pietro Aretino? » (2) In ogii modo non credo che il Domenichi scrivesse al Doni chiedendo la pace, come non è alieno dal credere il Bongi. La lettera di lui, che leggesi nella Zucca, è evidentemente fattura del Doni stesso e non prova che trattative di pace sian corse. É una finzione, semplicemente, per umiliare vieppiù il Domenichi. 350 GrORNAI.H LIGUSTICO impotenza d’ingegno o freno di coscienza; ed è, in una parola, la sua più grande accusa. Che verso il Doni egli siasi reso, comunque, colpevole di tradita amicizia e d’ingratitudine, ce ne persuade anche Γ odio smisurato di cui fu segno. Mentre egli tace, il Doni parla di vendetta a voce alta, come d un diritto sacrosanto, quasi d’ un dovere da compiere. Egli ha sinceramente amato, egli ha creduto d’avere nel Domenichi un vero amico e ha messa tutta la foga dell’ animo suo impetuoso nel fargli del bene; perchè — dice — « quando voglio un’ oncia di bene ad uno, sono forzato a metterci le facultà, la persona e la vita; i disagi per 1’amico mi son agi; la servitù mi diventa libertà; la perdita, guadagno; e brevemente, quando sono amico, non mi ritiro indietro mai a far cosa veruna per lui, sia di che sorta si vuole, benché la non sia da fare; perchè delle cose giuste e ragionevoli, oneste e del dovere, tu sei sempre obbligato a farle per ciascuno ; ma io voglio che per via dell’ impossibile Γ a-mico conosca ch’io gli sono amico » (i). Ed ecco tutto Γ uomo ; sregolato, intemperante, eccessivo in ogni suo giudizio ed affetto, nell’amore e, per conseguenza, anche nell'odio; portato irresistibilmente agli estremi, come sente e confessa egli stesso: « Il fatto mio è un piacere, che almanco io sono ritto o rovescio, la fo dentro o fuori, non sono un teco meco, o Cesare o nulla » (2). Dopo ciò, se mi fossi fìtto in testa d’essere l’avvocato del Doni, dovrei chiedere per lui, se non 1’assoluzione, almeno le attenuanti·, ma, l’ho già detto, questo non è affar mio. (1) Marmi. Ed. cit., I. 295. (2) Ivi, 294. « Homo schieto senza devisa de fazza, de lengua e de cuor », lo chiama il Calmo. V. Le Lettere di M. Andrea Calmo riprodotte sulle stampe migliori, con introduzione ed illustrazioni di V. Rossi. Torino, Loescher, 1888, p. 211. GIORNALE LIGUSTICO 3Si III. D’ altri biasimi toccati al Doni non occorrerebbe qnasi far cenno, se non ci porgessero occasione di tratteggiare la singolare natura dell’ uomo e dello scrittore. Fu detto, per esempio, eh’ egli andò sfrontatamente accattando con 1’ opere sue ricompense e favori, ed è vero ; ma della dignità delle lettere non saprei chi sia stato veramente sollecito tra i nostri letterati del cinquecento, costretti dalla forza delle cose alla servitù delle corti o al traffico delle dediche. Il più grande e galantuomo fra tutti esaltava quella gioia d’Ippolito d’Este, generosa erculea prole, Ornamento e splendor del secol nostro, con sì acceso zelo di cortigiano che ai posteri parve sino, e non era, ironia. La stampa non aveva ancor potuto compiere la redenzione del letterato, i fiori dell’arte sbocciavano ancora nella serra malsana del mecenatismo, dove lussureggia la gramigna dell’adulazione. Ingegni solitari, sdegnosi, disinteressati, liberi, audaci, ribelli alla brutta necessità del costume, il cinquecento non vide ; virtù allora significava tutt’ altro. E si stemperò in dediche anche il Doni; anche lui, uscito di convento, sentendosi, «da pedante e da cappellano in fuori», atto a fare ogni cosa, andò in cerca di padroni (i), senza però trovarne mai uno; si raccomandò al Giovio e a M. Jacopo Cassola, potenti intermediari; s’offerse al cardinale Santafiora e al card. Farnese; trattò con mons. Catelano Tri-vulzio vescovo di Piacenza, e forse con molti altri che non sappiamo, senza concluder mai. Al card. Gambara scriveva infatti : « Molti principi e assai prelati m’ hanno mancato, ma (i) Ne lo sconsigliava il Betnssi: Raverta, Ed. cit., 33. 352 GIORNALE LIGUSTICO non ingannato, perchè io me lo sapevo innanzi » (i); perciò smise presto il pensiero di far fortuna nelle corti, e visse, come potè, indipendente sino a morte (2). Già « i tempi erano scarsi », come osservava A. Caro a Francesco Benivo-voglienti, e « i signori assegnati » (3); ma fossero pur stati gli aurei tempi di Leone X, un uomo come il Doni non avrebbe facilmente trovato. « Umbè, che ne faremo, Mons.re Rev.m0 di questa cosa? scriveva al Santafiora. Ho io a venire a far cantare Pasquino colai volte le galanterie dei signori che non vogliono virtuosi appresso?.... » (4). In questo stile usava distendere le sue suppliche; e benché non intendesse parlare « con poca riverenza e poco onore », l’uomo si dava subito a conoscere; un bel matto, un ingegno stravagante, ma, per cortigiano, pericoloso, anzi intollerabile. Così, abbandonato il disegno di « ficcarsi in una corte », e dovendo pure in qualche modo « scuffiare una pagnotta », tentò l’onesta industria (5) della stampa; aprì una tipografia a Firenze; gli affari gli andarono alla peggio; dovette chiuder bottega; e allora, trapiantatosi a Venezia, emporio commerciale e letterario ricchissimo, tornò a comporre e a dedicare. L’opere furono molte, le dediche infinite; e dediche, alcune, che oggi si chiamerebbero ricatti, come quella dei Dialoghi della mu~ (1) Lettere, 1545, XXVIII, (2) Da Venezia il 16 agosto 1544 ringrazia G. B. Leonello per avergli fatto « prendere servitù » con D. Giovanni di Mendoza ambasciatore cesareo (Disegno, 1547, 46). Non si creda però ch’egli entrasse nella famiglia dell’ ambasciatore. Ciò non avvenne mai. (3) Lettere di diversi eccel.mi uomini. Venezia, Giolito, 1559. (4) Lettere, 1552, 53. (5) Già prima a Piacenza e poi ancora a Venezia pare che tentasse speculazioni librarie, facendosi editore d’alcune opere coi tipi d’altri stampatori. GIORNALE LIGUSTICO 353 sica al vescovo Trivulzio; dediche a tariffa, che vi cascavano addosso come una tassa da pagare inesorabilmente, « non volendo essere svergognati per il mondo » (i). Ma si trattava di « scuffiar la pagnotta »·, il ventre certi scrupoli non li sente. Pare li sentisse invece talvolta la coscienza del Doni: « O età traditora, che bisogna che chi eompone stilli il cervello per comprarsi il pane, ed alcuno, cui si dedican l’opere non lo merita, e solo gli si fa quest’ onore per premio della borsa e non per merito della persona! » (2). Così, special-mente « quand’era in minoribus », anch’egli dovette « dedicare libri a tali, e faro onore, che meritavano danno e vergogna » (3), e se ne dolse. Ma sinceri 0 no questi rimorsi, vide, se non altro, e notò la vergogna del costume: « I poeti i quali hanno fatto un libro, lo vanno a presentare a qualche gran maestro, e quivi si rimpiumano, rimetton le penne cioè, vivattano d’un desinare, di due scudi, d’una mancetta e d’un presentuzzo » (4); la loro vita insomma è d’ «andar mendicando » ignominiosamente. Vivattano, ma quanto acquistai! di roba altrettanto perdon di credito: « Così son disprezzati i poeti ancor per questo da’ loro signori, perchè verbi causa 0 scasimodeo, lor donano un libro a qualche bacalare eccel- li) Seconda libraria, 1551, 8.— Ultimo — ch’io sappia — a rimproverare il Doni per codesto illecito traffico fu il Campori : « Il Doni appartiene a quella schiera di scrittori che delle lettere fecero mercato, barattandole con monete. Meno triste dell’Aretino, ne seguiva però le norme con frutto, e col moltiplicare i libri e le dedicatorie, tirava a sè la pecunia dei principi, che avevano paura della sua malvagia e satirica penna ». Lettere di scrittori italiani, stampate per la prima volta per cura di Giuseppe Campori. Bologna, Romagnoli, 1877, p. 135. Veramente della paura ispirata dal Doni ai principi io non so nulla. (2) Doni: Disegno, 1549, 58. (3) Marmi. Ed. cit. II, 175. '4) Ivi, 172. Gior. Ligustico. Anno XIX. 23 354 GIORNALE LIGUSTICO lentissimo, o illustrissimo, o magnifico, o ricco; subito colui che è donato legge la pistola, e quando eh’ egli vi trova dentro, liberale, cortese, stupendo, virtuoso, o eccellente, nobile, gentile, reale, splendido, benefattor de’ virtuosi, raro d’intelletto e vattene la la malinconia, subito egli dice; Costui mente per la gola; perchè dai beni che mi son dati dalla fortuna in fuori, io sono un asino, verbigrazia, son plebeo, non ho una lettera al mondo; anzi se non fosse questi pochi soldi che ho ereditati, cioè pervennero a mio padre da un altro e F altro dall’altro, e quell’altro da quell’altro, (tanto che gli arrivano alla linea che se fece signore a bacchetta), io mi morrei furfante di corpo, come son d’animo, allo spedale» (i). Se spiatellava così crudamente ai mecenati la poca stima che faceva di essi, è anche possibile che «una parte delle sue fatiche se ne andassero con un gratias tibi ago » (2); ma che di ciò fosse poi contento, non crederò già io. IV. Credo piuttosto, come tanti passi delle sue opere attestano, che ai signori, e non ai signori del tempo suo soltanto, egli sia stato avverso anche per fini men personali e men bassi di quelli che avrebber potuto destare la bile ad un altro letterato accattone del cinquecento. La riforma religiosa lo lascia indifferente (3); in politica non ha parte, nè preferenze di scuola; «vedete — dice — (1) Ivi, 173. (2) Mondi. Ed. cit. Lettera 9 gennaio 1553 a Madonna Francesca Orsola Massa-Daponte. (3) Benché le sue Lettere siano state poste all’indice, non v’è traccia d’ assenso eh’ egli prestasse, nel dogma, ai riformatori. Forse nei Mondi v’ è qualche cenno d’ adesione alla famosa e controversa dottrina della 355 GIORNALE LIGUSTICO io non son parziale; quando le città son ben governate, le terre, i castelli, le ville; gli uomini virtuosi aiutati; i poveri sovvenuti; la giustizia sia rettamente amministrata in uno Stato; o siano uno, o due, o tre, o sette, o mille che governano, non mi da nulla di fastidio »: la sua critica invece e più specialmente sociale, egli guarda intorno a sè, e vede 1 avaro egoismo dei ricchi; « la vita loro è sonno, lussuria ed ignoranza »; la sfacciataggine delle donne, la disolutezza dei giovani; e intanto « i poveri cascan per le strade di fame; i bottegai e gli artigiani vivono due terzi di ruberie; i mercanti trappolano oggi l’uno e domani l’altro;... . dei ladri ve ne sono le selve e degli assassini....» (i); questo è lo spetacolo che l’offende, questo è il disordine a cui bisogna metter riparo. I fortunati coltivano una feroce superbia, i meno disprezzano i più, e dimenticano quant’obbligo dovrebbero avere agli umili: « Gli uomini nati ricchi, alti, grandi, nobili, virtuosi e signori non debbono mai disprezzare i bassi, poveri, ignoranti ed ignobili; perchè se non fossero Farti, il lavorar della terra e tanti mestieri vili, come la farebbono eglino?.... Il ricco dice: io pago tutta la mia servitù. Di che la paghi ? della tua fatica? messer no, della fatica d’altri» (2). Troppe lagrime si versano, troppe vittime si sagrifìcano alla felicita di pochi, ai quali sull’ altro è caro e sacro fuori della ricchezza e dell’ozio: « Poveri soldati, mendichi, virtuosi, Grazia. Del resto giudicava fra Girolamo un fanatico e i suoi devoti una turba di superstiziosi (Marmi. Ed. cit., I, 268). É quindi da escludere che il Savonarola abbia potuto avere qualche influsso sulla mente del Doni e avviarlo a concetti socialistici; se pure 1’ opere del Savonarola possono interessare la storia del socialismo propriamente detto. (1) Mondi. Ed. cit., 114. (2) Zucca, 1592, 108. 356 GIORNALE LIGUSTICO buoni uomini in estrema vecchiaia e miseria condotti, vadin pure allo spedale; chi s’affatica sudi, e chi lavora crepi; ma chi spende il tempo in ozio, in lascivia, in femminil pratica, questi si è dovere che stien bene, che s'affaticano giorno e notte nello studiare d’aver buone robe, nuove carni di fanciulle; e’si lambiccano il cervello su’libri dello arrosto, de’ guazzetti e delle pappardelle » (i). Per i poveri non pietà, non giustizia: « Ecco che noi vediamo nel far giustizia oggi in molti luoghi del mondo (2), che il ricco corrompe il giudicio e la ragione del giudice; e il povero per non avere che offrire, non solamente non è ascoltato, ed è maltrattato, ma contro alla verità oppresso. Non si attende alla ragione, ma a’dinari. Grida il povero, e non è udito; favella il riccone, e ciascuno lo applaude ed esaudisce » (3). Se così tristo è il mondo presente, come non tornare, col desiderio almeno, all’età dell’oro; come non «intenerirsi» pensando a’ quei tempi, « quando tutti vivevano in pace; (1) Marmi·. II, 38. (2) Come veneziano d’adozione, eccettua prudentemente Venezia, « patria del mondo», «tempio della giustizia», «sole tra le stelle»; {Zucca. Ed. cit., 30, 50 e in più luoghi d’altre sue opere); e come fiorentino d’ origine, gli Stati del suo legittimo sovrano, Cosimo I. al quale brucia spesso copiosi incensi, pur non sapendo trattenersi dal toccare talvolta dei tasti che a Cosimo potevano rendere un suono assai sgradito; come quando trae 1’ etimologia di Medici da mendici, quasi a schernire la plebea origine della famiglia; e mettendo in canzone il duca Alessandro, «il quale a’suoi giorni superò di sentenze tutti i savi, e di costumi e di bontà vinse le leggi»; (Novelle, in Bibl. rara, Milano, Daelli 1863,11. I“) parole che gli furono rimproverate come una turpe adulazione, benché il Doni stesso ricordasse che « in Sabbato fu morto il duca Alessandro.... e cosi non è vero quel proverbio che Domenedio non paga il Sabbato, anzi paga il Sabbato ». (3) Zucca. Ed. cit., 63. GIORNALE LIGUSTICO 357 ciascuno lavorava un pezzo di terra, ed era sua ; piantava i suoi olivi, ricoglievane il frutto; vendemmiava le sue vigne, segava il suo grano, allevava i suoi figliuoli; e finalmente viveva del suo giusto sudore, e non beveva del sangue dei poveri? » (i). Ora tutto è cambiato; il denaro è onnipotente, ma chi lo possiede non lo spende in sollievo dei miseri; non un atto di carità che li consoli: « Tutto il cibo che dovrebbe andare ai poveri, va ne’ cani, ne’ falconi e ne’ ruffiani____ O Giove, non odi tu i pianti de’ buoni, i lamenti de’ giusti, i sospiri de’ semplici, Γafflizioni de’poveri, le strida degli assassinati a torto, le angoscie de’ furti fatti forzatamente a coloro che sudano il pane, e miserie degli abitatori meschini?.... L’iniquità preme e calca la virtù, Γ usura si divora la povertà; e quando ti vuoi destare o Giove?.... I padri cominciano per la fame a vendere l’onestà delle figliuole, e le madri dannosi in preda all’ adulterio » (2). Come meravigliarsi di simili recessi, come condannarli e punirli? 11 bisogno genera 1’abbiezione, e primi responsabili delle colpe sono quelli che generano il bisogno, persuasore Orribile di mali, come diceva il Parini. E il Doni : « Non è gran fatto se gli uomini tal volta vengono in estrema disperazione, perchè il mondo produce di tai fiori e frutti. Egli è d’ aver una gran compassione a coloro che sono impotenti, poveri e senz’ arte, quando ritrovandosi figliuoli e donna, non potendo sostentargli, fan qualche errore. Avranno a rendere ragione a Dio coloro, (1) Marmi. Ed. cit., I, 325. (2) Mondi. Ed. cit., 133-134. 358 GIORNALE LIGUSTICO che hanno avuto tanti talenti di ricchezza,.... a non dispensargli e far lavorare e sostenere i poveri » (i). Nell’ opere del Doni questi pensieri si succedono e si ripetono assai spesso ; egli trova modo d’incastrarli perfino nelle dediche, ove dice, ad esempio, che « gli oziosi non viverebbon del sudor di chi s’affatica», se pigliassero esempio dalle formiche, saggie e meravigliose bestiuole nell’ « andar sempre del pari, travagliarsi egualmente, provvedere tanto l’una quanto 1 altra, et aver comune ogni cosa » (2); spuntano inaspettati tra le capricciose cicalate, si perdono in mezzo al petulante e brioso scoppiettio dei dialoghi, s’ annidano nelle favole, si disegnano nelle allegorie; e ad un lettore un po’ attento par così quasi accettabile il giudizio del buon Gioannini, che non sapeva « chi più di lui (Doni) abbia saputo nascondere sotto velami e con diletto cose da senno e poderose » (3). Non si dà caso che l’autore vi si aggiri intorno a lungo, li sviluppi, li approfondisca, li coordini; raro è il caso ch’egli non li circondi di quelle « baie e frascherie», che sono proprie del ghiribizzoso suo ingegno, repugnante ai gravi e meditati ragionamenti, vago di contrasti e di stravaganze. Qualche volta la portata di tali pensieri s’ attenua in mezzo alla chiacchiera che li avviluppa, qualche volta guizzano appena tra linea e linea timidamente, ma qualche altra volta irrompono scoperti a colpire coll’ intima audacia e coll’ esterna vivezza. Allora il Doni per un momento si trasfigura; non è più (1) Zucca. Ed. cit., 102. (2) Dedica dei Marmi al sig. Antonio da Feltro. (3) Anatomia delta Zucca, cit. Cfr. Denina: Discorso sulle vicende della letteratura, Venezia, 1788,11,40. Il Calmo chiama il Doni « l’astutissimo banchier delle bizarie scienzial » , « dignissimo profeta moderno e argutissimo humorista volgar e suficientissimo indovinaor temporal e hono-randissimo fabuloso penetrativo ». Lettere, Ed. cit. 210. GIORNALE LIGUSTICO 359 10 spirito frivolo e arguto, il lepido sciorinatore d'aneddoti, di storielle, di proverbi, di motti; l’osservatore superficiale o il bellumore sensato; il moralista che condisce di chicche toscane le sentenze stantie della scuola, il parolaio vuoto o 11 polemista feroce, che tira di punta e di taglio colpi mortali; non è lo scettico scrittore interessato, l’utilitario cinquecentista, il prete discolo, ma è un uomo nuovo, parla un linguaggio che non par del suo tempo, e produce in noi, cogli strani accenti d’ira e di pietà, l’illusione di udire una delle più caratteristiche voci del nostro secolo. L’asserzione è grave, e le prove già date non bastano; eccone dell’altre. Che cosa sono le tante leggi fabbricate dagli uomini? Prepotenze ed inganni, strumenti alle frodi dei furbi e pascolo all’ingordigia dei curiali; unica giusta e superiore ad ogni altra è la legge di natura λ (i); di quella provvida ed equa natura, che già un tempo, prima che l’umana malizia guastasse il mondo, « donava il latte egualmente a tutti e spargeva il suo dolcissimo liquore senza parzialità alcuna » (2). Alla primitiva eguaglianza di natura bisognerebbe risospingere il mondo corrotto, e chi volesse correggerlo, dovrebbe cominciar dal « tener la bilancia pari ». Cosi Morao consiglia a Giove, che non sdegna i consigli del suo buffone. Ma Momo parla questa volta sul serio, e di cose, ahimè, troppo melanconiche : « Il voler dare a ciascuno (3) ogni cosa, ed agli altri nulla, non va bene, come sanno quest’ anime che l’hanno provato. Infelici a noi! sempre vivevamo in travagli, in pene, in sospetto, in paura, in povertà.... E gli altri come vivevano? con piaceri, canti, feste, nozze ed allegrezze, ben vestiti e ben (1) Mondi. Ed. cit., 58. (2) Zucca. Ed. cit., 65. (3) Qualcuno, voleva forse dire. Così il testo. 360 GIORNALE LIGUSTICO pasciuti, temuti, rivestiti, riguardati, rispettati e favoriti da ciascuno; e noi nulla di buono, anzi tutto il contrario » (1). Di codesta disugual sorte degli uomini ragionano ancora lo Sbandito e il Dubbioso accademici Pellegrini (2); e Γ opinion del Dubbioso è che il mondo non sia « partito giustamente ». Il suo ragionamento è dei più semplici e la sua conclusione delle più chiare: «Non avendo cosa alcuna, e gli alrri avendone molte, non mi par diviso già ben questo; molti vanno a cavallo, ed io a piedi; questa non istà ancora a mio modo; i denari sono in gran quantità nelle borse d’altri, e nella mia scarsella non apparisce segno alcuno di moneta; come s’acconcerà quest’altra? Colui veste attillaro, riccamente e di nobil drappo, ed io con una gabbanella mi copro la vita; alla risoluzione ti voglio: a voler por la bilancia pari». Proprio il concetto e le parole stesse di Momo, un paria deli Olimpo ; nè lo Sbandito trova da contradire. Infine gli uomini, come si prova per autorità e per esperienza, sono fatti da Dio tutti ad un modo, della stessa pasta e sullo stesso stampo. Poi, come al solito, il dialogo diverte dal primo proposito; ma vi si possono notare ancora queste osservazioni : « Dubbioso: Molti consumano e non guadagnano ». « Sbandito : E molti guadagnano più che non consumano; onde ci sono d’ogni sorta genti. S’egli stesse a me, gli oziosi, per la fede mia, non istarebbero al mondo; perchè vorrei che ogni persona mangiassi il pane del suo sudore, e facesse utile a quell’altro uomo, come quell’altro fa utile a lui ». Ma la ricchezza non dà a chi la possiede diritto di goderne i frutti? Si può costringere i ricchi a lavorare e a (1) Mondi. Ed. cit., 95. (2) Mondi. Ed. cit., 35 e segg. GIORNALE LIGUSTICO 361 rinunziare ai loro beni? In una parola la proprietà è inviolabile 0 no? Prima assai che il Brissot e il Proudhon la proclamassero un furto, il Doni aveva osato contestarne la legittima origine. Nell’ allegoria della Nave, cercò mostrare come 1’ accumularsi in poche mani delle ricchezze, dispensate dapprima a tutti gli uomini con eguale liberalità dalla Fortuna, fosse effetto della maliziosa cupidigia di pochi; « a poco a poco, con barattare, ricambiare, e tornare, distornare, levare e porre, con 1’ accrescere e il diminuire, la cosa si restò tutta in una parte; e l’altra, nulla nulla » (1). Gemme ed oro usurpate; usurpate anche le terre. Spettano forse queste a chi dice di possederle perchè « furono insino del bisavol suo, e gli son pervenute giuridicamente? » Ma prima che del tuo bisavolo di chi eran quei campi? Chi sa quali ne furono i padroni cent’ anni addietro? Ebbene, « 0 stolto uomo, non ti accorgi tu che tu non sei il padrone, nè lor furono i padroni? Eglino entrarono come lavoratori e non come signori » (2). Comune fu da principio la terra, e « io non credo che una cosa comune, s’io non fallo per ignoranza, si possi appropriar sua per uso privato. Questa possessione è cosa pubblica; onde la viene a esser come il mondo, tutto della generazione umana » (3). V. Ho voluto rintracciare e citare testualmente questi passi, ai quali non so che alcuno finora ponesse mente, e che pur sono — io credo — notevoli. Ma già, anche senza queste (1) Marmi. Ed. cit., II, 48. (2) Ivi, II, 73. (3), Ivi, II, 74. 362 GIORNALE LIGUSTICO nuove testimonianze, il Doni fu battezzato socialista, e i socialisti stessi gli hanno assegnato un posto nella storia della loro idea (1), per quel curioso dialogo tra il Savio ed il Ραζζο accademici Pellegrini, nel quale è descritta « una maniera nuova nell’arte del vivere e del vestire » (2); e sul quale — diciamolo subito — un lettore coscienzioso potrebbe fermarsi a pensare: è l’utopia d’un comunista o è ghiribizzo d’ un ingegno allegro? Il Malon prese sul serio la nuova « cité idéale » , fabbricata dal nostro fiorentino spirito bizzarro, « épris de réforme sociale »; mentre al prof. Domenico Capellina, che per incidenza discorse dell’ opera medesima, sembrò « abbastanza chiaro eh’ era intenzione dello scrittore il considerare un tale ordine di società ( costituita secondo i principii del comuniSmo) come una cosa da scherzo ed un sogno » (3). Certo, descrivendo la sua Città, il Doni non mutò stile e natura. Strano, inquieto, paradossale, ricco di « sali », vago d’ « umori », pieno di « girelle », non può mai seguire a lungo un’ idea, per quanto grave essa sia, senza che il balzano suo ingegno trascorra nel comico e spesso nel grottesco. Così talvolta par veramente che scriva, secondo la sua espressione, « per dar la baia al mondo ». Egli ha sempre bisogno di sfogare « quel certo caldo di morbino che sentivasi nella pelle »; ha bisogno di ridere, o di far ridere almeno; i suoi libri piacciono appunto perchè son capricciosi ed allegri. Non scrive per i filosofi e per i dotti, ma per le liete brigate, per i gran signori annoiati, per tutti quelli che chiedono alla lettura non ardua dottrina, ma svago. Non ha tempo di riflettere; i suoi (1) B. M. (Benoit Malon) Histoire du socialisme. Lugano, Veladini, 1879. 42. (2) Mondi. Ed. cit., 167 e segg. (3) Rivista Italiana. Torino, 1849, I, 67 GIORNALE LIGUSTICO 363 libri sono prima letti che stampati, e prima stampati che composti; scrive in fretta ed in furia, in mezzo al cigolio dei torchi e al cicaleccio de’tipografi, tirando giù alla brava da buon giornalista ( il Doni appartiene un poco anche ai giornalisti) pagine su pagine, finché il proto ne chieda; si ride di coloro che annoian gli amici chiedendo consigli sull’opere composte, nè crede ad Orazio che consiglia di ponzarle nove anni; in ogni caso gli basta che dell’ opere sue si contentino i librai ed il pubblico. Le disuguaglianze, le incoerenze e le frivolezze, che abbondano ne’ suoi lavori, si spiegano dunque facilmente coll’ indole che gli fu propria, colle necessità a cui dovette piegarsi e cogli stimoli eh’ ebbe a comporre. Di ciò è bene si tenga conto da chi voglia studiare l’opera del Doni in rapporto alla storia del socialismo. Altra altezza di mente, altra tempra di carattere ed altro candore d’ animo sarebbero stati necessari a sollevarlo tutto fuor del suo tempo, verso le remote idealità dell’avvenire; e chi si figurasse di trovare nel Doni un fervido apostolo di riforma sociale, un sincero e convinto utopista, un diretto precursore insomma del socialismo contemporaneo, correrebbe nell’ assurdo storico più grave. Una mediocre conoscenza del-1’ uomo e dell"* ambiente in cui visse basta a salvarci da un simile anacronismo. Pure negli scritti del Doni, come ho mostrato con sufficiente larghezza, s’incontrano spesso concetti che, almeno genericamente, hanno sicuri caratteri d’affinità coi· fondamentali principii del socialismo ; e potrebbe quindi esser utile e interessante ricerca quella della loro origine. Che tutti siano sorti per generazione spontanea nella mente del Doni, difficilmente si potrà concedere ; benché la natura ribelle e passionata, le strette del bisogno, lo spettacolo di infinite miserie, la nativa audacia e l’ostentata singolarità del suo pensiero potessero suggerirgliene alcuni. Io credo però che 3 6 4 GIORNALE LIGUSTICO dall’ Utopia del Moro derivino i più salienti, come la condanna dell’ ozio voluttuoso assicurato ai ricchi dagli stenti dei poveri, la condanna d’ ogni monopolio, il disprezzo delle leggi fatte in servizio d’una classe, per l’oppressione dell’ altra, la pietà pei delinquenti tratti dal bisogno al delitto; s’anco la lingua e lo stile, diversi ne’ due scrittori, rendono difficili i minuti confronti parziali dei testi. La forma è diversa, ma eguale la sostanza. Tuttavia, mentre il Doni cita con ammirazione l’autorità di Platone (i), ricorda gli istituti di Sparta, le leggi agrarie di Roma, i costumi degli Ebrei, e i pietosi precetti del Vangelo, non fa cenno del Moro. Eppure egli conobbe 1’ Utopia, tanto che ne fu il primo editore italiano, non traduttore, come s’ è pur creduto (2). Il traduttore vero fu Ortensio Landò (3), il più affine tra gli eterocliti del cinquecento, per mente e per animo, ai Doni. Perchè poi (1) Marmi. Ed. cit., II, 224; Mondi. Ed. cit., 178. (2) Non però dal Giordani, buon conoscitore sempre in cose di lingua. E dalla lingua appunto il G. argomentò che la traduzione non dovesse essere opera del Doni. (3) Si ha da una lettera di F. Sansovino, amicissimo del Doni, inserita nel Governo de’regni e delle repubbliche così antiche come moderne, libri XVIII ne’ quali si contengono i magistrati, gli offici et gli ordini propri chi s’ osservano nei predetti principati, ecc., Venezia, appresso F. Sansovino, 1561. Qui l’Utopia, opera « tutta finta, ma bella in effetto », non è riprodotta per intero. — La traduzione del Landò fu pubblicata in Venezia, 1548, dal Doni, coi tipi di Aurelio Pincio, come i bibliografi congetturano, benché, oltre a quello del traduttore manchi il nome dello stampatore; e con questo titolo: La Repubblica nuovamente ritrovata del governo dell’isola Eutopia nella quale si vede modi nuovi di governare Stati, reggier popoli, dar leggi ai senatori, con molta profondità di sapienza, Storia non meno utile che necessaria, Opera di Tomaso Moro cittadino di Londre. — Vedi S. Bongi; Annali di Gabriel Giolito de’ Ferrari in Indici e cataloghi pubblicati dal Ministero della P. I., XI, 267. GIORNALE LIGUSTICO 365 questi non citasse mai il Moro, è facile comprendere; troppo gli piaceva di passare, anzi si spacciava da sè, per « grande inventor di cose nuove » (i); e il confessarsi debitore di qualche cosa ad un moderno non poteva certo servire a mantenergli il credito di fertile ingegno (2). Ma se ne’ suoi sparsi pensieri di critica sociale, il Doni concorda assai spesso col Moro, nel dialogo tra il Savio e il Ραζζο, accademici Pellegrini, sono dette veramente assai cose « tutte d’invenzione e mai più udite ». Ne farò una rapida esposizione. Due incogniti Pellegrini (3), che son poi Giove e Momo sotto spoglie umane, penetrano un giorno nell’ Accademia ; vedono e intendono gli ordini di essa, odono i ragionamenti che vi si tengono, ascoltano le letture che vi si fanno; poi, « intrinsecatisi » con due degli accademici, il Savio e il Pa^o, li pigliano bellamente per mano e li menano in « un mondo nuovo, diverso da questo ». 0 per dir meglio, li trasportano colla fantasia, perchè non si tratta di cose reali vedute, sì bene d’ una « visione », d’ un mondo imaginario, d’ « un (1) Marmi. Ed. cit., II, 272. (2) Vedi lettera di Pietro Buoni al Doni, in Mondi, Ed. cit., 280. (3) Intorno a questa misteriosa accademia veneziana dei Pellegrini, della quale tanto spesso parla il Doni, mentre ne tacciono tutti i suoi contemporanei; che per i principii da essa, secondo il Doni, professati, fu da taluno creduta una istituzione analoga alla Massoneria; e che secondo altri fu soppressa per ragioni di Stato nel 1595, ebbi intenzione di dir qualche cosa trattando del socialismo del Doni, nè avrei potuto scegliere luogo più opportuno, ma le ricerche che feci per poter dire qualche cosa di nuovo e di chiaro, finora non approdarono. Questo mi par di sapere; che cioè l’unica fonte da cui derivano tutte le notizie intorno ai Pellegrini, è il Doni. E, se altre fonti non s’aprono, non sarà torse temerità ricorrere all’opinione di Bernardo Macchietta, cinquecentista, il quale dichiarò che i Pellegrini famosi altro non sono, che una finzione del Doni. La curiosa questione merita d’ essere discussa. 366 GIORNALE LIGUSTICO sogno.....chè non la è cosa che possi essere; ma pure — dice il Savio — ella aveva tanto del proprio, del vivo e del buono, che la mi tratteneva con grandissimo diletto ». Il Ραζζο non ricorda più nulla delle cose vedute: e invita il compagno a ravvivargli Γ imagine di quel mondo fortunato « in cui ciascuno gode tutto quel che si gode in questo nostro », e dove gli uomini non hanno se non un pensiero, e tutte le passioni umane son levate via ». Cosi il Savio comincia a raccontare ; senonchè accingendosi a descrivere il mondo dei savi, ed avendo nome Savio, « dubita di non diventar pazzo e fare il mondo dei pazzi » (i). Messisi adunque in viaggio sotto la guida di Giove e di Momo, essi arrivarono in a una gran città, la quale era fabbricata in tondo perfettissimo, a guisa d’una stella»; non quadrata dunque, come quelle d’ Utopia, rotonda invece, come la Città del Sole : ma non così munita di torri e di mura che la rendano forte e quasi inespugnabile. Una semplice cerchia la chiude, e pare che i suoi abitanti, ignari d ogni arte ed esercizio di guerra, nemmeno pensino a difendersi. Anche gli Utopiensi non sono bellicosi, ma col ferro o con l’oro da essi posseduto in gran copia, sanno all’occorrenza difendersi ; tra i Solari poi non v’ ha una casta di guerrieri, come nella Repubblica platonica, ma tutti i cittadini, comprese'le donne, sono addestrati all’armi; solo nel mondo dei savi.... o dei pa^i imaginato dal Doni, s’avvera il sogno della pace perpetua, e della guerra è sbandita perfino l’idea. ([) Loc. cit., 171. A racconto finito poi vorrà dimostrare al compagno che un mondo sì fatto può esistere, con questa argomentazione: « Se queste cose son possibili a essere, perchè non potrebbero elleno esser vere? non abbiamo noi delle cose che non son possibili a essere, che le crediamo vere, e per esperienza le approviamo verissime?....» GIORNALE LIGUSTICO 367 La struttura della città, carattere di tutte le costruzioni ideali, è regolare e simmetrica. Nel giusto mezzo di essa sorge un gran tempio, « grande come la cupola di Firenze quattro 0 sei volte», il quale ha cento porte, che s’aprono sopra cento vie diritte e correnti dal tempio alle mura. A ciascuna porta del tempio risponde una porta delle mura, sicché la città viene ad avere cento porte e cento strade tutte eguali e convergenti al centro; a gran consolazione del forestiero, eh’ é libero in questo modo dal « pensiero di fallar strada.... chè non è poco rompimento di cervello aver a domandare dove si va; di qua, di là, volta a man manca, ritorna, fermati e va più su ». Nè questa é la sola città così fatta di quel beato paese; ogni provincia ne possiede una simile in tutto; e tra provincia e provincia non varia che la natura del suolo. Da noi ciascuno — nota il Savio — vorrebbe che un campo fosse buono a produrre ogni sorta di frutti, mentre invece « un terreno non è buono per tutte cose». L’agricoltura colà dunque s’esercita secondo princìpi — direbbesi adesso — razionali; le diverse piante sono adattate alla natura del suolo; « dove facevano bene le viti, non si faceva piantare altro; dove il frumento, dove i fieni, e dove la legna »; e da ciò consegue che non solo siano più copiosi i raccolti, ma anche più perfetti; perchè «tutti coloro che abitavano il paese che faceva vino non attendevano ad altro che alle vigne,.... talché in pochi anni sapevano la natura delle piante, e 1’ esperienza de’ passati faceva far miracoli a quelle piante ». Ecco insomma applicato all’ industria agraria il principio della divisione del lavoro , il gran principio d’ ogni industria moderna. Se poi le campagne fossero abitate stabilmente, dove abitassero e come vivessero i coloni; se all’agricoltura come in Utopia, dovessero attendere per turno tutti i cittadini, 0 se qui fosse occupazione esclusiva d’una classe, non è detto ; ma non è 368 GIORNALE LIGUSTICO la sola cosa che per via dimentichi di dirci il nostro, al quale probabilmente la fabbrica del suo nuovo mondo non costò un’intera giornata di fatica (i). Anche in città si lavora e tutti vi devono attendere a un’arte o ad un mestiere; anzi 1’arti e i mestieri secondo 1’ affinità loro, sono appaiati e distribuiti due per ogni contrada, « come a dire, da un canto tutti i sarti, dall’altra tutte le botteghe di panno »: sicché circa duecento risultavano le arti. Due strade o tre son riservate alle osterie; i pasti non si prendono in comune, come nella Città del Sole, ma ciascuno mangia quando e con chi vuole; però « quello che cucinava 1’ una, cucinava 1’ altra » osteria « e davan tanto da mangiare all’uno come all’altro »; finalmente, il numero delle bocche era egualmente distribuito fra tutte Y osterie. La tirannia d'altri sistemi comunisti è così un poco attenuata; finché l’uguaglianza lo permette, la libertà individuale è concessa. I cibi però sono sempre semplici e sempre gli stessi, « sei e forse dieci vivande al più »; sobrietà quasi spartana. In questo modo si mangia per vivere e non si vive più per mangiare; i peccati della gola sono resi impossibili. Nessuno poi ha diritto di mangiare se prima non ha lavorato. Né il vitto, nè gli abiti, nè quanto può bisognare alla vita si paga sotto quel beatissimo cielo; il denaro non vi ha corso; vi si scambiano invece mutuamente i prodotti del suolo e del lavoro; l’oste dà da mangiare al calzolaio, e il calzolaio provvede 1’ oste di scarpe. (i) Sappiamo infatti che i Mondi e la Zucca furono da lui composti simultaneamente; faceva due libri in una volta, come certuni giuocano contemporaneamente, due partite a scacchi; seguitando a dettare ogni giorno, fino al lor compimento, materia per un foglio e mezzo di stampa. Cfr. Bongi: Vita. Ed. cit., LX. giornale ligustico Governo vero e proprio non esiste; ogni contrada è sotto la paterna sorveglianza d’un sacerdote, e il più vecchio dei cento sacerdoti è il « capo della terra » ; ma siamo ben lontani dalla opprimente ierocrazia del Campanella. Queste le uniche dignità, che nemmeno son distinte da speciali fogge e ornamenti della persona; tutti, dal ciabattino al « capo della terra », vestono uniformemente, e solo variano i colori secondo l’età: « infino ai dieci anni bianco, infino ai venti verde., dai venti ai trenta paonazzo, ai quaranta vermiglio, e poi il restante della vita negro ». Una quasi anarchia dunque, e anche nelle minime cose perfetta eguaglianza; sarebbe desiderabile infatti, che « sì come il nascere ed il morire, tutto va sopra una linea, ancora il viver non uscisse di riga λ. Eguali tutti, in vita e in morte; perciò ogni pompa di funerali è vietata; qualunque sia il morto, un funerale « come si fa ora negli spedali fra noi »; qnand’ uno è morto, « mettilo là, senza troppi fumi,. ... come un pezzo di carnaccia ». Una delle cento strade è riservata agli ospizi per i vecchi inabili al lavoro; in un’altra sorgono gli ospedali dove si curano tutti gli ammalati ; e siccome non vi sono nè ricchi, nè poveri, così a nessuno Γ idea d’ ospedale può repugnare. Di più, non essendovi famiglia costituita come nel vecchio mondo, nessuno può sognarsi d’esser curato dalla moglie, dai figli, dai parenti e nessuno può sgomentarsi all’ idea di crepare fuor di casa. A questo punto il Savio diventa brutale. Al Vendicativo, un accademico Pellegrino anch’esso, non piaceva « veder le cose sue comuni, e tanto più la donna» amata (i); ma il Doni dovè certo condurlo seco all’Inferno dei mal maritati (2), perchè non ha scrupolo a confessare che (1) Marmi. Ed. cit., II. 224. (2) Mondi. Ed. cit., 260. Giora. Ligustico. Anno XIX. 370 GIORNALE LIGUSTICO la « soma del matrimonio » è un de’ maggior carichi che possa avere un uomo » (i). Il matrimonio crea la proprietà individuale delle persone, e « Platone nella sua Repubblica voleva che tutte le cose fusser comuni, perchè il dir questo è mio e quello e. tuo, guasta ogni cosa di bello e rovina il mondo» (2). Qui, per non guastare il mondo, la famiglia è abolita. « E a nascere come l’andava? » — domanda il Pano. « Una strada o due di donne — risponde il Savio ■— e andava a comune la cosa ». Iu questa risposta è tutto il rude materialismo del cinquecento, che non saprei se davvero segnasse, come credeva il Canello, un progresso morale e un risveglio degli affetti domestici. Proseguiamo. Nel Mondo dei Savi dunque non solo non esiste la famiglia, ma non vi si conosce, come noi l’intendiamo, l’amore. Questo nasce dal desiderio insoddisfatto, dalla tentazione del frutto proibito; dove è possibile e facile la soddisfazione dei desideri, l’amore scompare. E non è danno, perchè senza Γ amore, « il vituperio non ci sarebbe, 1’ onore non sarebbe sfregiato, parentadi non sarebbon vituperati, non sarebbero ammazzate le mogli, non uccisi i mariti ». Liberi quindi i rapporti dei sessi, né sottoposti ad alcuna di quelle pratiche utili, igieniche, ma vessatorie, che li precedono per legge nella Città del Sole. Nessuno riconosce i figli, il comune li adotta, li nutre, li educa, ed in tal modo — osserva il Savio — si risparmia « il dolor della morte della moglie, de’ parenti, dei padri, delle madri e de’ figliuoli »; perchè a che cosa serve la famiglia se non a procurare dei guai ?... Son tolti via in questo modo i furti, le liti, i notai, i procuratori, gli avvo- (1) Marmi. Ed. cit., II, 222. Cfr.: Mondi. Ed- cit., 257. «Il maggior carico che sia è l’aver moglie, ed il più grave soprassello che possa avere uomo é l’essere innamorato ». (2) Marmi. Ed. cit., II, 222. GIORNALE LIGUSTICO 37I cati « ed altri lacci intricati »; non vi soli testamenti, nè roba da lasciare, nè eredi che litighino. Non di tutti i nati però il comune prendesi cura; solo i sani e i robusti hanno diritto di vivere; i deboli e i deformi sono, appena venuti al mondo, accolti da « un pozzo grande grande », e la selezione si compie così, anche senza il Taigeto di Sparta. Nel paese d’ Utopia il suicidio è consentito e anche consigliato a chi soggiace ad una infermità insanabile, che gli rende inutile e penosa la vita; qui invece il comune stesso pensa a liberare in un’ ora i cronici da ogni molestia, con « certe bevande di risogallo, di sollimati, arsenichi e simili sciloppi », che d5 alcune malattie sono gli unici rimedi efficaci. « Troppa disonestà ! » — esclama il Ραζζο — inorridito. « Oh — risponde il Savio — gli si dà qui a chi è bello, buono, sano, fresco, che fa utile e non danno! » Perchè non darli quindi codesti miracolosi « sciloppi » a chi è molesto è sè ed al prossimo. Il mezzo è perfettamente giustificato dal fine; e il Doni applica con larghezza la morale e la scienza correnti nel tempo suo agli istituti del mondo savio. Così egli trova pure una ingegnosa e umanitaria applicazione della tossicologia, tanto progredita nel secolo XVI, anche alle leggi penali ; qualche goccia di un buon veleno basta a sbarazzare la società dai colpevoli degni di pena capitale, senza inutili e crudeli spettacoli di sangue. Del resto tranquilla vita e innocenti costumi; nessun giuoco rischioso, per la buona ragione che denari non vi sono, e dell’ altre cose nessuno può desiderarne e volerne guadagnare più del suo bisogno; non lusso, non pompa di cavalli, che servono soltanto a trasportare dalla campagna alla citta i prodotti; e ogni contrada ha alcuni cavalli e carrettieri che attendono appunto a questo. Unico piacere al quale i Savi non rinunzino è quello dell’ arti belle; si dilettano assai della 372 GIORNALE LIGUSTICO musica, che echeggia tutti i di festivi e tutte le sere degli altri giorni sotto le volte del loro tempio; anzi alla musica, considerata da essi com’ arte necessaria, attendono di proposito alcuni cittadini, che son dispensati da ogni altro lavoro. Così pure hanno pittori e scultori, sempre occupati a dipingere e scolpire per ornamento della città; la quale non é però mai troppo ingombra di quadri e statue. Molt’ opere guasta e coi rode il tempo; molt’altre che il tempo ancora rispetta, non meritano d’essere conservate; e poiché l’arte progredisce, sono sostituite da più perfetti lavori. Pittori e scultori hanno così sempre qualche cosa da fare, e non s’impacciano d’altro. Solo ai poeti non si concede di fare soltanto dei versi; se non facessero che di questi, potrebbesi dire che vivessero ad ufo; perciò ad essi son riservate altre occupazioni non disdicevoli all’arte lor principale, «come uccellare, pescare, cacciare, far reti. ... ». Ah, Doni birbone! .... Finalmente i Savi sono molto osservanti della religione; fanno festa ad ogni sette dì, e dedicano tutto il giorno festivo al riposo e alla preghiera; visitano il tempio anche gli altri giorni, ogni mattina, prima di mettersi al lavoro, e ogni sera, due ore prima di notte; ma la loro religione non pare richieda solenni cerimonie; par anzi che sia semplicissima nel dogma, nel rito e nei precetti ; infatti i sacerdoti lor non insegnano altro che questo : « conoscere Dio, ringraziarlo e amare il prossimo ». Ed è forse la men pazza cosa che si dica e si faccia in codesto mondo di savi. Agosto. 1892. Emilio Bertana. GIORNALE LIGUSTICO 373 SPICILEGIO GENOVESE [Appunti e note da manoscritti liguri di autori classici]. A somiglianza di quanto ha fatto per i Codici fiorentini un mio venerato maestro (i), ho creduto anch’ io conveniente ad una « rudis indigestaque moles » di notizie e di appunti da me presi su manoscritti liguri di autori classici, il titolo abbastanza ambizioso di Spicilegio « perchè non mi si è presentata alla mente una parola che indichi meglio il mio proposito e non pecchi troppo per il vizio contrario all’ambizione ». Questa breve avvertenza che io ho riferito colle parole stesse del maestro mio, basterà a scusare me pure presso coloro i quali trovassero eh’ io ho raccolto paglia più spesso che spighe. I codici di autori classici, tanto Greci, quanto latini, non sono certamente in Genova cosi numerosi e cosi preziosi come nelle doviziose biblioteche fiorentine, ma, tra i pochi che abbiamo, alcuni sono certamente degni per varii rispetti di un appunto, anche modesto, che segnali il valore di quelli tra essi su cui pesa 1’ obblio, e di quelli del quali è stata data notizia inesatta. E comincio : I. Per un Codice ignorato di Catullo. Singolari davvero le vicende a cui andò soggetto il libro di Catullo! Conosciuto fino alla 2.a metà del sec. X, poiché (come indicava già il Maffei, Ver. ili., II, p. 7) appare (i) Vitelli (G.). Spicilegio fiorentino: nel Museo del Comparetti. GIORNALE LIGUSTICO letto prima del 965 da Raterio, vescovo di Verona (i), scompare ad un tratto nè più se n’ha novella fino al principio del secolo XIV. Un epigramma esastico di Benvenuto dei Campesani, che visse alla corte del primo Can Grande, ci ha lasciato anche il nome del ritrovatore; ma l’esastico (2) è siffattamente enigmatico che — malgrado i varii tentativi — non ha ancora trovato il suo Edipo. Siccome ci consta che Benvenuto Campesani morì nel 1323, ne consegue che il ritrovamento del libro del poeta Veronese dev’essere avvenuto qualche tempo prima di quell’ anno (3) : tuttavia per tutta la (1) Rath. Episcopi Veronensis opera curant. P. et H. Ballerini, Veronae 1765, p. 639. Di Catullo è fatta menzione nel discorso su Marta e Maria (c. 4) scritto , secondo i Ballerini, nel sopra citato anno 965. Le parole Catullum nunquam antea lectum lasciano supporre che il libro sia stato trovato da Raterio in Verona, anziché portato da lui dal Belgio. La storia delle peripezie del libro di Catullo si trova 'già trattata con molta diligenza nello scritto di Ferdinando Hand. (Observationum Criticarum in Catulli Carmina specimen. Lipsiae 1809. (2) Esso si trova già nel celebre codice Germanese la cui trascrizione fu appunto compita, come ne avverte il copista, nel 1375 mens, octobr. quando Cansignorius laborabat in extremis. Eccolo: Versus dni Beneuenuti de Campexanis de vice | ncia de re-surectione Catulli poete veronensis : Ad patriam venio longis a finibus exui Causa mei reditus copatriota fuit Scilicet a calamis tribuit cui fracia no[men] Quique notat turbe pretereutis iter Quo licet ingenio vestru celebrate Catullum Cuius sub modio clausa papirus erat (3) Si è fatta questione se Dante abbia 0 no avuto in mano 0 letto Catullo : certo è inverosimile che il ritrovamento del poeta Veronese sia avvenuto nel 1304 o poco prima, quando Dante era a Verona, giacché tale scoperta avrebbe certamente commosso l’Alighieri, il quale non avrebbe di sicuro taciuto il nome del cantore di Lesbia , dal momento che nomina Lucano: intanto più che probabilmente Catullo era ignoto a Dante quando scrisse il canto IV dell’ Inferno. GIORNALE LIGUSTICO 375 inetà del sec. XIV rimase poco letto e pressoché ignorato. Benché Γ Ellis ammetta la possibilità di altre copie anteriori, non ne esiste però alcuna copia più antica di quella del 1375 G[ermanese] (1). Posteriore di questa di un quarto di secolo deve ritenersi il Canoniciano di Oxford, già Veneto (2), quantunque il Baehrens lo reputi quasi sincrono al Germanese e il Benoist troppo arditamente sostenga che i due codici siano scritti dalla stessa mano, ciò che un attento esame paleografico del due mss. esclude assolutamente. Alla fine del XV secolo si assegna un’ambrosiano M 38: ed anche nella 1.* metà del sec. XV furono trascritte poche copie di Catullo, (1) Un’ampia notizia dei Codici di Catullo l’hai in Nigra, La chioma di Berenice, Milano 1891, pag. 15$, ove è dato anche il seguente alber genealogico dei Codici: Archetipo in lettere maiuscole (perduto) Florilegio del sec. Vili Paleo-apografo del sec. Vili in minuscolo (perduto) in minuscolo (perduto) T. Tuaneo del sec. IX. Paleo-Veronese del sec. IX. (È il codice più antico ora esistente, (Perduto. È quello stesso che fu letto ma contiene di Catullo il solo carme da Raterio nel 965, e si deve ripu- LXI1. Il Cod. prese il nome dal tare il padre di tutti i codici Ca- suo possessore De Ihou: è ora alla tulliani, eccetto T. Biblioteca Nazionale di Parigi). G[ermanese] 0 Canoniciano del 1375. di Oxjord 1400 circa. (2) Un’ attenta collazione del Codice (0) fu fatta da Κ. P. Schulze Zum Codex Oxoniensis des Catuli, in Hermes XIII, p. 50 segg. dove giustamente osserva: Die Lesarten des Cod. 0 sind bisher ^weitwai ver'óffen-tlicht worden, \uerst von Ellis in seiner Ausgabe des Catuli und danti vor Kurzem von Baeherens. Da aber die Angabeu beider einander oft widerspre-chen, war es bei der wichtigkeit dieser Handschrift von Interesse z.u sehen > wer von beiden Recht hat. 376 GIORNALE LIGUSTICO che fuori d Italia non era neppure ancora abbastanza noto e letto. Fu nella seconda metà di quel secolo che i Codici Catulliani si moltiplicarono, sia per successione più o meno dilette da quelle del 1375 0 dal Canoniciano, sia per derivazione da copie, ora scomparse, del paleo-Veronese. Ed appunto come una delle molte copie fatte sullo scorcio del sec. XV hassi a riguardare il Codice Genovese di cui faremo tosto parola. Una classificazione dei Manoscritti Catulliani non è ancora stata fatta (1), malgrado le dotte e svariate ricerche fatte su Catullo in questi ultimi 100 anni, dal Santen, Valckenaer, Fo-s^olo, Sillig, Lachmann, Haupt, Rossbach, T. Heyse, Luciano Müller, Baehrens, Sehwabe, Ellis, Riese, B. Schmidt, Benoist-Thomas ed altri. E giacché è buon canone per la critica dei testi che le lezioni di alcuni codici minori, anche quando non arrechino gran luce sopra un passo controverso, possono tuttavia esse confermare in certi casi le lezioni di altri codiai migliori e servir poi come contributo alla sopraccennata classificazione, non mi pare inutile segnalare ai lettori del Ligustico 1 esistenza del Codice di Catullo, che abbiamo in Genova, e che non soltanto è rimasto inesplorato, ma anzi ignorato sin qui dagli studiosi (2). Esso si conserva nella Civica Biblioteca Beriana ed ha la collocazione Db,s. 4. 3. 5. U Codice rimase ignorato fino al (1) Un primo tentativo in tal senso lo fece venamente il Sillig, ma con poco successo. Il réunit, osserva il Benoist, p. 345, un asse% grand nombre de documents relatifs αιι texte, et essaya d’établir un classement systématique des manuscrits et des leçons. Il faut convenir que ne réussit guere dans cette entreprise si l’on songe qu’il eut entre les mains une collation médiocre, il est vrai, mais asser, considérable du Sangermanensis, et ne sut point alors en reconnaître la valeur. .Ne diedi aPPena un «"no in una delle pagine letterarie del cessato giornale Colombo (1890). GIORNALE LIGUSTICO 377 1889, anno in cui venutomi — con altri — alla mano, ne feci un attento esame, e scopersi che mentre il catalogo segnava tra i codici più importanti un Tibullo, taceva affatto alla voce Catullo. V’ha di più: nel 1867, usciva in Genova il Giornale delle Biblioteche diretto da Eugenio Bianchi. Ora nel n. 2, vi si dànno appunto gli elenchi degli incunaboli e dei manoscritti più importanti della Beriana: il Tibullo vi è segnato tra i più ragguardevoli, ma di Catullo non si fa motto. 11 Codice è miscellaneo e doveva in origine comprendere i tre poeti Tibullo, Catullo e Properzio che — come si sa — si trovano spesso riuniti sia nelle vecchie edizioni sia nei Codici. Siccome il nostro Codice comincia appunto coi carmi di Tibullo, chi lo collazionò (troppo negligentemente invero !) dovette credere che le opere di questo solo Poeta occupassero tutto il manoscritto. Eppure, se manca il lemma delle opere di Catullo (le quali cominciano a foglio 41 r), bastava una mediocre attenzione perchè si vedesse al foglio 40v, segnata la fine di Tibullo: Albii TyBULLI (sic) LIBER EXPLICIT FELICITER. Come Codice Catulliano pertanto, il Nostro si trovò ad essere fino all’ anno suddetto, nelle condizioni di un individuo le cui generalità non figurano in nessun Ufficio di Stato Civile : non c’è quindi da fare alcuna maraviglia, se nessuno degli innumerevoli studiosi del poeta Veronese fece menzione di Codici 0 copie Catulliane esistenti a Genova, anzi io lo credo sconosciuto allo stesso Conte Costantino Nigra, che a preparare il suo ottimo libro sulla Chioma di Berenice, consultò e fece consultare da persone competenti moltissimi Codici sia nelle biblioteche estere, sia in quelle delle varie città d’Italia. Il Nigra infatti, mentre ci dà notizie dei più antichi codici Catulliani, supposti (come ΓArchetipo, il Paleo-Apografo, il Paleo-veronese) 0 superstiti (come il Tuaneo, il Germanese, il 373 GIORNALE LIGUSTICO Canoniciano, gli Ambrosiani, i Bolognesi, i Laureziani, quello del signor Landau, i Magliabecchiani, i Napoletani , il Parmense, il Pesarese, il Riccardiano, il Veneto, il Vicentino), non accenna punto al Codice della Beriana, che pure tra le varie copie di Catullo ha forse più importanza di qualcuno degli ultimi qui sopra nominati. La collazione che io ho fatto (e che qui pubblico) dell’elegia Callimachea De Coma Berenices, basterà per ora a dimostrar non esagerato il mio giudizio. Il Codice è assai bene scritto e ci offre un elegante saggio di scrittura umanistica, come suolsi chiamare quella che fu adoperata più specialmente nelle copie dei codici letterari fatte dagli umanisti : nella quale già fin dal primo quarto del secolo XV si cominciarono a trascrivere manoscritti che appaiono copiati sull’ antica scrittura italiana del secolo XII, la quale, rinnovata, fu portata a perfezione poco dopo la metà del sec. XV giusto al momento buono perchè potessero adottarla i primi tipografi italiani e perpetuarla nei caratteri delle loro edizioni. E il codice genovese di Catullo risale probabilmente al- 1 epoca dei primi incunaboli della stampa o ne è di poco più giovine. Esso è in pergamena, conta ff. 83 (dei quali però alcuni — come a suo luogo si vedrà — strappati) e misura cm. 23 τ/2 d’altezza χ di larghezza, con 25 linee nelle pagine piene. Ma ecco l’esame del contenuto: t [Comincia] Albii Tibulli Poete illustrissimi liber in || ciPir et primo PROHEMIUM (sic) <^Q.UOD^> || SPRETIS DIVITIIS ATQ. : MILITIA DELIAE [J amori vacare prorsus velit. —A fot. 3 r, ricorre il nome di un possessore Io. Paulo Batta Porta. Furono tagliati via i ff. 14, 2J , 24. Una mano recente scrisse nel margine superiore del f. 26 la sentenza : Prima che tu faci pensa q<^uel^>lo che può interuenire. Fol. 40 v. Albii Tybvlli (sic) liber explicit feliciter. f. 41 r. [ ] VI dono lepidum nouum libellum. GIORNALE LIGUSTICO 379 f. 41 r. (in rosso) Fletus passeris lesbie — passer delicie mee puelle (il carme 111, lugete 0 veneres cupidinesque forma nel nostro Codice un componimento unico coll’ antecedente), f. 41 v. De phasello — phasellus ille quem uidetis hospites. f. 42 r. Ad lesbiam — viuaraus mea lesbia atque amemus. f. 42 v. Ad flauium — flaui delitias tuas catulio. f. 43 r. Ad lesbiam — queris quot mihi basiationes. /. 43 r. Ad se ipsum — miser catulio desinas ineptire. f. 4] v. Ad verannium — Veranni omnibus e meis amicis. f. 44r. comincia: Varius me meus ad suos amores, ma non è distinto nè separato dal carme anteriore, f. 44V. Ad furium et aurelium — Furi et aureli comites catulli. f. 45 r. Ad matrucinum (sic) Asinium — Matrucine (sic) asini manu sinistra. /. 45 v. Ad fabullum — cenabis bene mi fabulle apud me. /. 4fV. Ad caluum — ne (sic) te plus oculis meis amarem finisce: non horrebitis admouere nobis. Cfr. Baehrens, I, 5. f. 46 r. nel margine superiore la stessa mano del possessore del fol. 3° segna: Ihus Maria — In Genoa. /. 46 r. Ad aurelium — Commendo tibi me ac meos amores. — A questo carme si riattacca immediatamente e senza lemma, il Carme XVI: Pedicabo ego uos et inrumabo/. 46 v. I. 14. f. 41 r. Sen\a lemma il Carme XVII: oculo in aque (sic, ma corretto in margine: oculonia) cupis ponte ledere (sic) longo. /. 4] v. Ad aurelium — avreli pater exuritionum (sic. corr. es.). È il carme XXI, quindi obliamo anche nel nostro Codice omessi tre carmi XVIII, XIX, XX che, come si sa, erano nelle edizioni dal secolo XVI fino al Lachmann, ma mancano nei Mss. Vedi Benoist, II, p. 412. /. 4JV. Ad uarum — suffenus iste uare quem p<^ro^>be nosti. io s /. 42 r. Ad furium — furei neq: seruo est neq: archa questo carme nel nostro Codice viene confuso col seguente c. XXIV della vulgata ad Iu-ventium puerum e forma con esso un componimento unico, f. 49 r. Ad Talium — cinede talle mollior cuniculi capillo. ibidem. Ad furium — furi uillula nostra non ad haustri. ìbidem. Ad pincernam suum — minister uetuli puer falerni. f. 49 v. Ad verannium fabullum (sic) — Pisonis comites cohors inanis. ìbidem. In Romulum Cathamitum — Quis hoc potest uidera quis potest pati. Il Cod. non ha il v. ; bis: Es impudicus etc., che, come si sa, è-dato per la 1.“ volta dall’Aldina del 1/02. 380 GIORNALE LIGUSTICO /. /or. Ad Alphenum — Alphene immemor atq : unanimis salse (spscr. false) sodalibus. f 50 v. Ad sirmium insulam — [b]Ene insularum (sic) Sirmio insularumq: f. 51 r. Senza lemma il carme XXXII—Amabo mea dulcis ipsithila—acuì si riattacca senza alcun segno di trapasso il successivo carme XXX1I1 o furum optime balnearior<^um^>, formando con esso un componimento unico. ibidem. Seuxa lemma il carme XXXIV — Diane sumus infide (sic). f. 51 v. Senza lemma il c. XXXV — Poete tenero meo sodali. f. 52 r. Senza lemma il c. XXXVI — (Comincia in forma assai scorretta così. Annuale suo lusicacata (spscr. cagatha e in margine m. ree.: lusicagatha Annuale volusi catacharta. /. /2 v. Sen^ci lemma il c. XXXVII. Salax taberna vosq: contubernales, ma il carme finisce col verso Omnes pusilli et semitarii mechi; col verso Tv preter omnes une decapillatis f. 53 comincia un nuovo carme che assorbe in uno i due successivi XXXVIII « XXXIX della Volgata. Cfr. Benoist II, p. 4.65. /2 v. Sen^a lemma il c. XL. quenam te mala mens miselle Rauide. Anche da questo carme al successivo XLI il Codice non segna alcun trapasso e li dà come un componimento solo, f. 54 Senzji lemma il c. XLII. Adeste endechasillabi quot estis che, nel codice comprende anche il XLIII. Il principio dei successivi XLIV 0 funde noster seu sabine seu tyburs (/. J4v) e XLV Acmen septimo (sic) suos amores (f. 55 r) viene appena contraddistinto da segni marginali. Lo stesso dicasi per il principio del c. XLVI. iam vere (sic) gelidos refert tepores. /. y 5 v. col quale si confondono nel codice anche i seguenti. XLVII Porci et socration due sinistre (/. // v) e XLVI1I Mellitos oculos tuo inuenti (sic, in marg.: at nitenti (sic)), f. 56 r. Senza lemma il c. XLIX. disertissime Romuli nepotum. ibidem. Senza lemma il c. L. hesterno licini die ociosi. /. $6 v. Senza lemma il c. LI: ille mihi impar (sic) deo uidetur. /· 57r■ Senza lemma il c. L1I: quid est catulle quid moraris mori (sic) ma continua per otto versi aggregandosi parte del c. LUI. Risi nescio quem modo et corona. Col verso Dii magni salapantium (sic = sala-putium) disertum comincia il LIV della Volgata Othonis caput etc. e finisce Tibi et sufficio seniore copto (sic). Poi comincia un nuovo carme col verso Irascere iterum meis iambis che finisce col v. Dum vostri sim particeps amoris/, jyv. f. 57 v. Senza lemma il c. LV1. O rem ridiculam cato et iocosam. GIORNALE LIGUSTICO 38i f. $8 r. Serica lemma e senza alcun indizio di distacco dal c. antecedente segue il c. LVI1 Pulchre conuenit improbis cinedis. ibidem. Senza lemmi e senza segni di trapasso seguono i carmi LVII1 Celi lesbia uestra (sic) lesbia illa e continua coi io versi Non custos si fingar ille cretura Non si pegaseo fingar uolatu i Non Ladas pmipesue perseus "Non rhesi uinee citeq: bige Adde huc primipedas uolatilesq: Ventorumq : simul require cursum Quos iunctos cameri mihi dicares Defessus tn omibus medullis Et multis langoribus peresus Essem te mihi amice queritabo in marg. : at queritando. che Giuseppe Scaligero trasportò in fine del c. LV ad Camerium, pet ’ α quale trasposizione vedi Benoist, II, p. 499. j.$8v. Senza lemma il c. LIX. Bononiensis rufa Rufuin (sic) fallat (sic) con cui viene nel codice confuso anche il c. LX. Num te leena montibus libysinis (sic), ibidem. Senza lemma il c. LXI. Colis (sic) 0 eliconei. /. 6? r Senza lemma il c. LXII. Vesper adest iuvenes etc. f. 64V. Senza lemma il c. LXIII. Super alta uectus actis (sic) celere rate maria. /. 66 r. Senza lemma il c. LX1V. Peliaco quondam prognate vertice pinus. /. 75 v. Senza lemma il c. LXV. Etsi me assiduo confectum cura dolore e forma un componimento solo col successivo carme LXV1 Cfr. più sotto la nostra collazione dell’ elegia De Coma Berenices. /. 76r. Senza lemma e senza trapasso, il c. LXVIl. O dulci iocunda uiro iocunda parenti. /. η6ν. Senza lemma e senza trapasso il c. LXV IU. Quod rnihi fortuna casuq: oppressus acerbo. Dopo il verso 45 vi è uno spazio vuoto corrispondente alla lacuna segnata dagli editori, f. 79 r. Senza lemma il c. LX1X. Noli admirari quare tibi femina nulla con questo canne vien confuso qel codice anche il seguente c. LXX. Nulli se dicit mulier mea nubere malle e il c. LXXI. Si qua (sic) viro (sic) sacrorum (sic) obstitit hircus. f. 79 v. Senza lemma LXXII. dicebas quondam solum te nossc catullum col qual canne nel codice si confonde in un solo anche il seguente c. LXXI11 Desine etc., il LXXIV Gelius (sic) audierat patruum 382 GIORNALE LIGUSTICO obiurgare fiere (sic), il c. LXXV che comincia però, come negli altri mss. catulliani, col verso: Huc est mens deducta tua mea lesbia culpa; il LXXXV1 Si qua recordanti etc. f. 80 v. Senza lemma il c. LXXVII. rufe mihi frustra etc. che continua aggregandosi — senza distacchi di sorta — il c. LXXV1I1 Gallus habet fratres etc. il LXZIZ Lesbius est pulcher quid inquam (sic) lesbia malit. f. 81. r. Senza lemma il c. LXXX. Quid dicam gelli etc. a cui si riattaccano confusi insieme, il c. LXXXI Nemo ne in tanto potuit populo esse uiuenti (sic) il LXXXII Quinti si tibi vis etc., ii LXXXI1I Lesbia mi pnte (praesente) uiro mala plurima dicit; il LXXXIV Commoda (sic) dicebat etc. ; il LXXXV Odi et amo etc.; il LXXXVI Quintia formosa est etc.; i 4 versi Nulla potest mulier tantum se dicere amatam . . . Quanta in amore tuo ex parte reperta mea est che tutti i mss. più antichi hanno nello stesso posto del nostro Codice ma che dallo Scaligero in poi furono trasportati al principio del carme LXXV. Segue, confuso nello stesso componimento, il c. LXXXVIII Quid facit is gelli etc. f. 82 r. Senza lemma il c. LXXXIX. Gellius est tenuis etc. confuso in un sol componimento coi successivi XC. Nascatur magnus (sic) ex gelli matrisq : nefando, il XCI Non ideo gelli etc. f. 82 v. Senza lemma il c. XCI1. Lesbia mi dicit semper male etc. di cui mancano i vv. 3-4, il XCIII Nil nimium etc. il XCIV Mentula mechatur mechatur mentula certe. Seguono nello stesso foglio 82 v., senza alcun segno che distingua il trapasso da un carme all’ altro, il c. XCV in questa lezione : Zmirna mei cinne nonam post denique messem Quam cepta est nonaraq : editam post hiemen Millia cum interea quingenta hortensius uno Zmirna canas sattrachi penitus mittetur ad undas Zmirnam cana diu secula peruoluit At uolusi annales paduam morientur ad ipsam Et laxas scombris sepe dabunt tunicas Parva mei mihi sint cordi monumenta At populus tumido gaudeat eutimacho (sic). Segue, sempre confuso nello stesso componimento, il c. XCVI Si quicquam mutis et gratum acceptumue sepulcris e (f. 82 r) il XCVII Non ita me dij ament quicquid referre putaui il c. XCVIII In te si in q q dici potè putide uicti (sic), il XCIX Surripuit (sic) tibi dum ludis mellite uiuenti (sic). GIORNALE LIGUSTICO 383 f, 82 v. Senza lemma il c. C. celius anfilenum etc. ibidem, senza lemma il CI. Multas pergentes (sic) et multa per equora uectus, col qual verso finisce il nostro Codice, che in fine è mutilo. Mancano pertanto solamente gli ultimi ij carmi catulliani. È ragionevole supporre che il Codice contenesse oltre gli attuali carmi di Tibullo e Catullo, anche le elegie di Properzio. II. Collazione del carme LXVI De Coma Berenices. NB. Nel fare la collazione ho avuto sempre solio gli occhi Γ Apparato critico dato nelle edizioni del Baehrens, del Thomas e del Nigra. Nel nostro Codice il carme LXV (ad Hortalum) e il carme LXVI (De Coma Berenices) sono (come nei due migliori manoscritti Catulliani, il San Germauense e il Canoniciano di Oxford) fusi insieme e formano un componimento unico. I. Omnia — magni — despexit — lumina — mundi. — 2. Qui — atq: — obitus. — 3. Flameus ut rapidi solis nitor obscuretur. — 4. cedant — certis — sidera. — 5. triuiam — furtim — sublimia — religans. — 6. guiodero deuocet aerio. — 7. Idem me ille conon celesti numine uidit.— 8. Ebore niceo. — 9. clare — q multis illa dearum. — 10. Leuia — protendens pollicita est. — 11. quare ex — nouo auctus. — 12. Vastum finis ierat. — 13. nocturne — rixe. — 14. quam de uirgineis gesserat exuuijs. — 15. nouis. — odio. — uenus — atq: —parentum. — 16. Frustrantur. — lacrimulis. — 17. Vbertim thalami quas intra lumina fundunt. — 18. ita me diu — iuuerint. — 19. id mea me — docuit — regina. — Inui-sente — torua. — 21. At tu non — luxti — deserta — cubile. — 22. fratris — flebile — dissidium. — 23. Cum — mestas — exedit — medullas. — 24. Vt tibi nunc — solicitet. — 25. Sensibus erectis. — excidit _ at ego certe. — 26, Cognoram — parua — magnanima. 27. Anne — bonum — es — q~(=quam) — adeptus. — 28. quod — fortior — aut sis alis. — 29. tum mesta — mittens — locuta es. — 30. Iupiter. — 31. tantus — an quod amantes. — 32. longe a caro — abesse. — 33. ibi pro euntis — dulci — diuis. — 34. sanguine taurino pollicita es. — 35. Si reditum te talissetiis aut 'm tempore longo. — 36. Captam asiam egipti finibus addiderat. — 37. factis — celesti — reddita. — 38. Pristina — uota _ nouo — dissoluo. — 39. vertice cesi. — 40. teq: tuumque caput. — 41. Digna ferat quod siquis inaniter adiuraret. — 42. Sed qui se ferro. — 43. cuersus — quem maxima inoris. — 44. phitie — su-peruehitur. — 45. cum propere nouum mare atq: iuuentus. — 46. medium — nauit. — 47. facient — cum ferro talia cedant. — 48. Jupiter 384 GIORNALE LIGUSTICO celitum omne genus pereat. — 49. sub terra querere uenas. — 50. ferris frangere duriciem. — 51. Abiuncte. — 52. cum se mennonis ethiopis. 5 3· Vnigena — nutantibus — aeria. — 54. Obtulit — Arsinoes — elocridicos — alis equos. — 55. Isq : — per ethereas. — aduolat. — 56. aduolat in gremio. — 57. zyphiritis. — eo — famulum legarat. — 58. Gratia canopicis — littoribus. — 59. Hu dij uen ibi. — uario solum in numine celi. 60. Ex adrianeis — aurea. — 61. Fixa — foret — fulgeremus. 62. exuuie. — 63. Viridulum a fluctu cedentem ad templa decutne. 64. diua nouum posuit. — 65. et seui — nanq: — 66. Lumina calisto iuxta licaonia. — 67. Vertor. — occasum — tardum dux bootem. — 68. uix sero. — mergitur — occeano. — 69. q q (= quamquam) — premunt. — 70. Lux — aut cane — theti — restituem. 71. Pace — fari — hic liceat — ranusia. — 72. Namq: — nonnullo tegam. — 73. Nec s;ne — diserpent — dictis. — 74. Condita — quin uere euolue. — 75. his — letor — affore. — 76. Affure me — discrutior. — 77. quicum — uirgo quondam — expers. — 78. Vnguentis una milia multa bibi. — 79. uos — quem iunxit lumine theda. — 80. Non post uno animus corpora. — 81. Tradite nudantes retecta. — 82. Quam — iocunda — libet onix. — 83. Vester onix — queritis que iura cubili. — 84. Sed — impuro dedit. — 85. Illius a mala leuis bibat dona irrita puluis. — 86. Namq: ego ab indigetis. — 87. Sed — o nupte — nostras. — 88. incolat assiduus. — 89. Tu v (vero) — cum. — 90. Placabis — luminibus. 91. Sanguinis exp<^er^>tem non uestris esse tuu me. — 92. potius largis effice. — 93. cur iterent utinam coma. — 94· idrochoi (in marg. m. ree. δδρόχοοσ) — fulgeret — oarion. III. Il γένος Άριστοτέλους di Ammonio. La Biblioteca della R. Università di Genova possiede due codici greci d’ importanza — a dir vero — men che mediocre : uno contenente il gnomologio di Teognide, l’altro miscellaneo , del quale abbiamo la descrizione, mandata dal Ch.mo Abate Luigi Grassi al Banchero e da costui inserita nella sua Guida di Genova e delle due riviere (Genova, Pellas, 1846) a pag. 456. Eccola: « Codice greco in 4° cari, orien-» tale, contiene : I. Άριστοτελέους (sic) προβλημάτων μέρος (Parte GIORNALE LIGUSTICO 385 » dei Problemi 0 Perchè di Aristotile). II. Ψέλλου παράφρασις » εις τάς κατηγορίας (Ρsello, parafrasi delle categorie) : edita. » III. Πορφυρίου τοΰ Έρμείου ... είσαγοογή (Porfirio di Ermea ... » Introduzione): con note interlineari e marginali copiose, » inedite): IV. (Άνόνυμον) Γένος Άριστοτέλους (Anonimo, vita » di Aiistotile): Forse inedita. V. Άριστοτέλους... δέκα κα-» τηγορίai (Aristotile, le dieci categorie): similmente con note » inedite e di ignoto come di sopra. VI. Άριστοτ. περί » Ερμηνείας Αναλυτικά (Aristotile, della interpretazione Analitici): » la prima opera con note come sopra, l’altra con alcune » solamente ». Fra le varie osservazioni che si potrebbero muovere alla surriferita descrizione del Grassi mi limito per ora a questa. La « Vita Aristotelis » che sta nel Codice Universitario segnato F. VI, 9 (proveniente, secondo una nota nel frontispizio, dal « Monastero di S. Canarina di Genova della Congregazione Cassinense »), non è punto inedita nè la parola Άνόνυμον (sic!) figura menomamente nel Codice, come apparirebbe dal Grassi che la riferisce in un impossibile nominativo Greco e la traduce in italiano. Il γένος Άριστοτέλους è quello stesso che va inanzi a molte edizioni dello Stagirita e, fra le altre, cfr. Aristotelis Opera omnia Lutetiae Parisiorum 1619, vol. I. La paternità di quello scritto viene attribuita ad Ammonio Alessandrino e venne pubblicato anche da Antonio Westermann nei suoi Βιογράφοι (Vitarum scriptores graeci minores, Brunsvigae 1845). (Continua). G. Bertolotto. Giorn. Ligustico. Anuo XIX. 25 386 VARIETÀ IL MITO SOLARE DI GIOVE PISTORE A CANOSSA. I canti popolari Reggiani non ricordano, che io sappia, il castello di Canossa, la memoranda rupe bianca (i), che vide Γ umiliazione di Enrico IV, e segnò il punto del massimo trionfo della potestà pontificia. Ma la Contessa Matilde è ancor viva nella tradizione locale, annessa a quello ed a parecchi altri castelli all’intorno, ed il popolo dà tuttora al-P eroina il nome dantesco di Matelda, o per antonomasia, la chiama semplicemente la Contessa (2). II montanaro che mi accompagnava in una recente visita da me fatta ai ruderi del Castello di Canossa, richiesto da me se sapesse qualche tradizione o novella che si riferisse al castello od alla virago pontificia, mi raccontò la seguente leggenda : « Quando il castello era in piedi - e Ί dev’ issar di mondi -(e dev’essere molti anni ta) era venuto qui un conte, un duca, che so io, un Sovrano, che voleva sposare la Contessa, ma ella lo rifiutò. Che fa quel potente ? Pone P assedio al Castello, lo circonda da tutte le parti, non lascia entrare dentro nè pane, nè vino, e si incaponisce d’ avere per fame, per forza, ciò che non aveva ottenuto per amore. Matilde doveva arrendersi, e già stava per farne le trattative, quando le si presentò un suo vassallo, un vaccaro (3), che le diede un (1) Il nome deriverebbe da Canusium, picco di pietra biancheggiante, come è diffatti, oppure da rupts Canusia. Invece i Conti di Canossa, spiegando l’etimo alla Varroniana, posero nel loro stemma un cane con un osso in bocca. \2) Nella provincia di Firenze ho udito chiamarsi Tessa qualche donna, diminutivo di Contessa (Matilde). (3) Il vaccaro, era on bàgai, un sempliciotto, uno sciocco. GIORNALE LIGUSTICO 387 consiglio che la salvò. Propose alla Contessa di far raccogliere tutto quel po’ di grano che ancora rimaneva in Castello, di darlo per cibo ad una vacca che avevano dentro le mura, poi di lasciarla andare in mezzo ai nemici. Uccideranno la vacca, diceva il pastore (1), vedranno che è nutrita a grano, ed argomentando che per forza non ci possono vincere, nè farci arrendere per fame, leveranno l’assedio. « La Contessa ordinò che si effettuasse la proposta del pastore: i nemici credettero la Rocca approvvigionata e levarono l’assedio ». S’ 1’ è vera, la gitila i la conia acsè (s’ è vero, la gente la contano cosi) diceva la mia guida. Storicamente il fatto non è vero, e logicamente sarebbe anche poco credibile, ma come tradizione Indo-Ariana, come mito solare antichissimo, è vero. 11 racconto, la saga, il mito, la leggenda, sono (come dice il Bartuli, nella sua Storia della letteratura italiana) un bisogno dell’animo umano. C’è il Castello di Canossa, od almeno ci sono le rovine, ebbene la fantasia umana le popolerà, al pari delle Muse che cantano sui sepolcri: ........... e quando 11 tempo colla fredda ala vi spazza Fin le ruine, le Pimplee fan lieti Di lor canto i deserti, e l’armonia Vince di mille secoli il silenzio. Ma come le popolerà? Vi albergheranno fate benevole, tremendi giganti, maghi carcerieri di leggiadre e principesche vergini ; vi sarà rinchiuso Giove assediato dai Giganti, i quali, sovrapponendo il Pelio all’Ossa, daranno l’assalto alla Canossa dell’Olimpo; vi gemerà prigioniera una bella, una Danae, alla quale sotto forma di pioggia d’oro, 0 per mezzo di moneta, giungerà il Re degli Dei, od un principe mortale; (I; Una variante della tradizione dice che l’animale ingrassato a grano lu un majale oû un avallo. 388 GIORNALE LIGUSTICO vi sarà un purusa indoariano che dal suo gotra allontanerà i lupi, gettando alle loro ingorde canne una pecorella per salvare tutte le altre; e finalmente dentro o dietro il castello, il monte, vi sarà il sole, che creduto morto dopo il suo tramonto, illuminando con una nuvola crepuscobre il cielo, farà sperare il prossimo suo sorgere sull’orizzonte. Se noi interroghiamo, secondo la scienza, il suolo che calpestiamo giornalmente, ci risponderà la sua storia di secoli lontanissimi, da quando la materia incandescente che formava la terra si raffreddò, fino all’ epoca che da quella crosta pietrosa stac-caronsi i massi che ora il tempo ha ridotto ad arena impalpabile. Cosi possiamo dire della saga e del mito, che dall’alba della vita umana svoltasi sui monti di Pamir, nelle più remote epoche preistoriche, mandano ramificazioni più o meno abbondanti nei popoli Indoariani, nei Semitici, nei Turanici. Il chiarissimo sig. Professore A. Degubernatis nella sua Storia delle novelline popolari (Milano, Hoepli, 1883, in 8.°) nota che « gli inni vedici che appartengono al ciclo mitico del sole nascente, ci offrono il mito sotto diversi aspetti. La notte è come una fortezza — harmya — nella quale è chiuso 1’ eroe. Viene figurata anche come una selva oscura, o come una bruna vesta che egli indossa. Nel primo periodo notturno, cioè fino alla mezzanotte, il sole, giovane eroe, appare uno scemo, un fanciullo (bâlâ, pag. 66), perchè la notte lega la favella, impedisce il moto, oscura l’intendimento. Ma al mattino, lo sciocco viene celebrato come celeste benefattore, libera sè stesso e gli altri, ed appare un non sciocco che vince c distrugge gli sciocchi malefici » (pag. 66-68, 320-22). Il Proteo multiforme di questo mito solare è dunque nell’ India, (1ab Jove principium) che noi dobbiamo legarlo; vedremo poi che egli si manifesta sotto diversi aspetti nelle tradizioni di varii popoli, le quali tutte si rannodano al mito vedico del sole. Presso i Romani il mito trae nome da Giove Pistore, GIORNALE LIGUSTICO 389 come viene narrato nei Fasti d’Ovidio. I Galli, egli racconta, presa Roma, assediavano il Campidoglio, la harmya, o fortezza romana; e già stavano per prenderla per fame. Giove allora avvertì gli assediati di convertire in pane tutto il grano che loro rimaneva, e di balestrare quei pani nel campo nemico, per iar capire ai Galli che i Romani non s’ arrendevano per lame. I nemici vistisi combattere con quella nuova e persuasiva specie di proiettili, levarono l’assedio (1). Roma dedicò nel salvato Campidoglio un’ ara a Giove Pistore. Anche qui la furberia viene in mente a Giove quando i Romani stavano per arrendersi, come Matilde, ai loro nemici. 0 in altri termini si stava dopo il crepuscolo della sera, in dubbio, se il sole fosse morto 0 no, quando mostrandosi il crepuscolo del mattino, gli uomini s’ accorsero che il sole viveva e scacciava le circostanti tenebre. Giove Pistore nel nostro caso è una variante. Invece nel rozzo montanaro, sempliciotto (bàgài) troviamo meglio ricordato il bàia indiano, e più chiaramente lo vediamo rammemorato dalla tradizione popolare di Alrssmidria della Paglia relativa a Gagliaudo, (l) Erodoto nel 1.· delle sue storie, ricorda il seguente fatto: « Aliatte, discendente da Gige, Re della Lidia, era caduto improvvisamente infermo perchè nella guerra coi Greci di Milesio, erasi abbruciato il tempio di Minerva Assescia, e la Dea s'era vendicata. Aliatte allo scopo di riedificare il tempio incenerito, come gli aveva comandato l’oracolo di Delfo, voleva far pace coi Milesii; ma indugiava credendoli stremati dalla fame. Essi erano veramente in grande penuria di grano, ma conoscendo il responso dell' oracolo, indussero astutamente alla pace Aliatte in questo modo: comandarono che tutto il grano appartenente al pubblico ed ai privati fosse ammucchiato nel foro, e che inoltre ad un cenno dato, sotto gli occhi dell’ ambasciatore del Re si dessero a bere ed a banchettare allegramente. Ciò fu disposto coll’intendimento che l’ambasciatore di Aliatte, vedendo tutto quel cumolo di grano, ed i Milesi in gozzoviglie, cosi a lui rapportasse, come avvenne nè ad altra causa che ai suoi rapporti si può riferire la sollecita conclusione della pace ». 390 GIORNALE LIGUSTICO l’eroe della difesa nazionale contro i Tedeschi. Appena la Lega Lombarda ebbe fondata Alessaudria, bello e forte arnese Per fronteggiar Pavesi e Monferritii, i Tedeschi strinsero d’assedio Γ odiata città. La storia narra che Federico Barbarossa dovette abbandonare quell’assedio, perchè i suoi vi morivano di malattie e di malaria, e che fuggendo, la retroguardia, imperiale fu decimata o quasi distrutta dagli Alessandrini. Ma la leggenda racconta le cose ben diversamente. Mentre i cittadini stavano per arrendersi si presentò ai Consoli un vaccaro mezzo sciocco, come dice il suo nome di Gagliàudo (Gaiànd), gaglioffo, tenendo per la corda una grassa vacca... « Io la ho nutrita a grano, egli disse, se voi permettete la lascierò andare in mezzo ai Patattucch (Tedeschi). Vedrete che essi crederanno all’abbondanza delle nostre vettovaglie, e disperando di prenderci per fame abbandoneranno l’assedio». Piacque ai Consoli il Consiglio e fu mandato ad effetto. Gagliàudo aveva calcolato bene. Infatti la notte di quel dì, Federico levò tacitamente Γ assedio. Gagliaudo che stava in sull’intese, chiamò all’armi i cittadini, li condusse contro i nemici. Mentre la battaglia pendeva ancora incerta, comparve agli Alessandrini S. Pietro, il quale sfoderando in quell’ occasione la spada che aveva tagliato 1’ orecchio a Malco, aiutò gli Italiani a mettere in piena rotta i Tedeschi. Gli Alessandrini riconoscenti al santo fecero dipingere la sua immagine in uno stendardo: l’apostolo vi è rappresentato nell’atteggiamento manesco che il popolo mon-ferrino gli attribuisce; in lontananza si veggono i nemici fuggenti (i). A Gagliàudo non furono fatti minori onori: egli (i) Lo stendardo non è più quello del secolo XII — fu rinnovato, non so quando, e si espone ogni anno alla vista del popolo, nel giorno di S. Pietre. GIORNALE LIGUSTICO 391 venne proclamato il salvatore della città, e gli Alessandrini, anche oggidì, ripetendo un verso di un lor poeta dello scorso secolo, dicono: Che i fiòi d’ Gajàud i ri tremo nenia, i n‘ tremo (che i figli di Gagliaudo, non tremano, non tremano davvero). La leggenda mitica che si attacca al suo nome ebbe dal caso una confema che la conficcò nella mente del popolo Alessandrino : Con maggior chiovi che d’altrui sermone. Ed ecco in qual modo. I Longobardi nella pianura di Marengo, dove un dì abitarono gli indomabili Ligures Marici o Maringi, nel piano dove sboccano la pacifica Bormida e l’Orba, detta Selvosa, dal Manzoni, avevano un vastissimo parco per la caccia ed un palazzo di delizie, che rovinò coll’andare degli anni. Dove fosse non è ben certo, ma è noto che dalle rovine di esso palazzo fu tratta e portata in Alessandria nel secolo XIII, una specie di cariatide raffigurante un uomo seduto, che porta sul capo nna pietra di forma tonda, che rassomiglia ad una forma di cacio. Non appena giunta in città, quella statua fu battezzata per Gagliaudo, il vaccaro patriota che avea sacrificato la vacca (ed il formaggio che ne ritraeva) all’ amore della patria. La statua, chetile sia la sua bellezza artistica che la fa rassomigliare ad uno scimiotto, fu collocata nella facciata a sinistra del vecchio Duomo di Alessandria. I nostri nonni che amavano fortemente la patria, non sapevano meglio collocare al posto loro le statue dei benemeriti della pubblica cosa, se non dentro o presso la chiesa che ricordava la fede. Distrutto sulla fine del secolo scorso il duomo medioevale, si decretò che la chiesa di S. Pietro lo sostituisse. Ivi nella facciata a sinistra, fu ricollocata nel 1816, se non erro, la cariatide battezzata Gagliaudo, colla stessa intenzione colla quale i Romani in Campidoglio avevano eretto un altare a Giove Pistore. Togliere quella statua là dove la patriotica 592 GIORNALE LIGUSTICO leggenda 1 ha collocata sarebbe ingiusto e dannoso: è un’ illusione storica della giovane Alessandria, che ha un valore grandissimo e vale molto più di quell’ Arco della pace che i Negozianti di Milano a Francesco I eressero, per quanto poca volontà n’avessero, diceva il Manzoni. Noi troviamo traccie sporadiche della leggenda solare (i) di Giove Pistore nella mitologia greca, che più di quella di altii popoli ripete le tradizioni ariane. Epimeteo (letteralmente, lo stolto) fratello di Prometeo (il previdente) si mosti a sempliciotto Çbâ/â) nel lasciar sfuggire dal vaso chiuso datogli da Giove tutti i mali e tutti i beni, eccetto la spe-ranza. Ala il fratei suo Prometeo si mostrò ben diverso. Egli porto via dal cielo il fuoco, inchiudendolo in una ferula, in bastone da scherzo, che si dava in mano agli sciocchi, perchè anche volendo, non potessero far male altrui. A Giove poi, che sta\a nella *ua harmya dell’Olimpo, fece la nota burla delle due vacche. Egli le uccise e scuoiò, poi riempiendo la pelle dell una delle ossa di ambedue, e la pelle dell’altra delle carni di esse, prese all’ amo della maggior dimensione Giove che scelse per sua quella delle ossa, e lasciò a Prometeo la minore colla polpa. — Una traccia dell’inganno o stratagemma fatto col mezzo di un animale, vero o figurato, noi lo troviamo pure nel fatto di Sinone che inganna i Troiani, persuadendoli a ricevere come dono di Minerva, dentro le mura, quel cavallo di legno da cui uscirono più tardi, nella notte, i Greci ad impadronirsi della città. Anche la Fenicia Didone ingannò i Principi dell’ Africa chiedendo di comprare sul lido, tanta terra quanta ne poteva coprire una pelle di bue. Il contratto fu accettato, ma la scaltra donna, (i) Ho conservato 1 appellativo di solare dato alla leggenda di Giove, perchè, come è noto, Apollo è figlio di Giove e di Latona, cioè il Sole è nato dall’ etere splendido e dalla oscurità della notte. GIORNALE LIGUSTICO 393 facendo fare di quella pelle molte piccole e minute strisele, ottenne, in questo modo, un’ area molto più vasta di quella che portava il contratto. Ritornando ora al mito solare della rocca o città assediata, ecco come si può spiegare. Il Sole tramontando, è scomparso dietro un monte, forse l’Imalaja. Il pastore che al mattino 10 aveva veduto nascere dietro un altro monte, si volge verso quella parte, e aspetta che egli sorga. Le tenebre si addensano e durano, e il sole è riputato uno sciocco, un fanciullo, un morto; Wivasvat si è cambiato in Jama dio dei morti. Ma ecco: verso quel punto si vede nel cielo una rosea nuvola (la vacca) crepuscolare (i). Il pastore, il sempliciotto, 11 biìlii, il bagài di Canossa, il Gagliaudo di Alessandria, non è più tale dopo la nuvola esploratrice, che rosseggia sempre più. Il sole sorge e disperde le nuvole sue nemiche; finalmente coll’ aiuto di Sandhya (crepuscolo) figlia di Brama, moglie di Siva, è sconfitto Rahu, il tenebroso nemico del Sole e della Luna e dei fenomeni luminosi; le tenebre (Tamas) si allontanano, ed il Sole da Aryaman (nascosto) diventa Bhago (visibile) e Pusati, cioè nutritore. G. Ferraro. AMARILLI KTRUSCA E IL ROMANTICISMO. Cinquamacinque anni fa moriva* in Lucca Teresa Bandettini, fra gli arcadi Amarilli Etrusca. Chi ricorda più ora la « divina » Amarilli, la « Sapho moderne » come la chiamava il buon generale Miollis? Tale la sorte delle poetesse estemporanee: veramente esse (l) Gli Achei rappresentavano Cerere (Demetra) con un vaso in mano simbolo dell" abbondanza sparsa sulla terra per mezzo delle biade; il vaso, il ventre, la pignatta, il hu{{0 indicano il cibo, quindi Demetra Poterióforos, era come dire: alma Cerei. 394 GIORNALE LIGUSTICO posson dire con Γ etera ateniese, che Dante austero bollò d‘ infamia immortale : Oh la gentil fioraia che abbiamo stamani al Pecile ! vendi tu fiori o Taide? E 1’ etera passava luminosa di riso e di fiori tra gli affollanti giovani. Fecesi innanzi Crate : — Ma che ne faremo dimani de le tue rose putride? Forse le vendo, o cane, a genti immortali? Le rose fresche son oggi e odorano (i). Amarilli Etrusca che con la pubblicazione della Teseide — un poema che per fortuna di lei nessuno legge! — pensava sul serio di « contrastare la palma al Monti (2) », più che nei suoi versi vive oramai in due strofe del poeta della Bassvilliana : Auspice un tanto Iddio, sciogli tranquillo, Ninfa divina, il canto, e 1’alme scuoti Ai severi difficili nipoti Di Curio e di Camillo. Teco vien la pietà, teco il diletto, Teco eleganza ne’ bei modi ardita, E quel che al cor si sente e non s* imita Parlar nettareo e schietto. Insiem col Monti Γ ammiravano e si tenevano onorati dell’ amicizia di lei il Cesarotti, Ippolito Pindemonte, il Bettinelli, Angelo Mazza, il Savioli. Fu Giovanni Pindemonte che indirizzò la Bandettini a improvvisare in pubblico. La trovò a Venezia a far la ballerina su un teatro; frequentatore del palcoscenico, fu colpito nel vedere che essa, durante le prove, quando era il suo turno si ritraeva dalle compagne^, leggendosi un piccolo Dante. Ammiratori importuni non la noiavano; la virtù della ballerina era salvaguardata dalla nessuna avvenenza della donna. Il Pindemonte 1’ avvicinò, restò ammirato del suo ingegno e della sua cultura, e — dopo alcune prove nei salotti vene- ri) Di Guido Mazzoni. (2) Lo scrisse lei al Hettinelli. Un’altra volta, parlando dell’avarizia verso sè stessa de’ suoi concittadini lucchesi, gli scriveva: Ciò mi renderà anche più simile al cantor d’Orlando! E l’autore delle Lettere Virgiliane non rideva. GIORNALE LIGUSTICO 395 ziani — la indusse a mettersi sulle traccie, gloriose allora, di Corilla Olimpica. Il Cesarotti le scriveva promettendole addirittura Γ immortalità: quasi che l’immortalità fosse un’opinione, non un fatto! Saverio Bettinelli la incoronava di propria mano a Mantova. L’Alfieri, uditala a Firenze una sera del 1795 , ne rimase cosi maravigliato, che nella notte stessa, scrisse due sonetti, dei quali merita che per la sua bruttezza ne trascriva uno — che è anche quasi sconosciuto: • Quanto divini sia U lingua nostra » Ch' estemporanei metri e rime accozza, Ben ampiamente ai Barbari il dimostra, Più d* un* etrusca improvvisante strozza. Nasce appena il pensiero e gii s'innostra Di poetico stil ; nè mai vien mozza La voce, o dubitevole si prostra, mai 1' uscente rima ella ringozza. Più die diletto, maraviglia sempre Destami in cor quest' arte perigliosa, In cui l'uomo insanisce in vagbe tempre. Pare ed è quasi sovrumana cosa : Quindi é forra che invidia Γ alma stempre D' ogni altra gente a laudar ritrosa. Con tali amicizie, con l’andazzo dei tempi, la Bandettini non poteva divenire che classicissima. D’altronde, come avrebbe potuto cavarsela nelle sue improvvisazioni, senza ricorrere al vecchio arsenale della mitologia? Perchè la questione è qui: nessun dubbio che le poesie di Amarilli Etrusca (come, del resto, quelle di Corilla, della Fortunata Fantastici, del gobbo Gianni) sieno veramente estemporanee; è che la poetessa, da qualsiasi argomento le fosse dato, cadeva involontariamente anche, in quei suoi dUhis mitologici, sempre uguali per la forma e per il pensiero, 0, meglio, per Γ assenza di esso. Quando la mitologia cominciò a noiare, tanto che al Monti stesso venne detto di Venere: Son tanti anni e tante età Che famosa è sua beiti Fio da quando il pomo eli* ebbe, Ch' esser vecchi* ornai dovrebbe, quando s’iniziò quell’ evoluzione intellettuale che in politica prese il nome di Muralismo, in arte di romanticismo, Amarilli già vecchia, ma gelosa de’ suoi allori, restò atterrita. Era un GIORNALE LIGUSTICO rubarle i ferri del mestiere. Ho dinanzi agli occhi una sua epistola di quasi cencinquanta endecasillabi sciolti, non solo inedita, ma perfettamente sconosciuta. È del 1854 e diretta a un giovinetto di quattordici anni. Comincia : 0 giovinetto, in che di ciel gran parte rifulge sì, eh’ io maraviglio : oh come mi si allaccia al pensier, quando al mio fianco alle tarde ore delle lunghe sere col saggio ragionar tendevi inganno ! Ogni tuo detto mi scendeva all’alma, qual rugiada freschissima che molce 1 aride zolle e 1* erba e i fiori avviva. Qual altro al par di te mostrò sin ora maturo senno, alto saper, sublime e caldo immaginar ? E così continua per molti endecasillabi a cantar le lodi del fanciullo quattordicenne, non mancando — si capisce! — d alternarle con la favola di Prometeo, co’ lauri di Libreto, con « la Cecropia figlia di Giove »......... A un tratto abbandona la poesia di maniera, presa da una sincera tenerezza materna: Ma ohimè ! nò ti adontar da che tu sei e sarai d’Araarilli il pensier primo, tremo per te, che il diffidar non cape in gentil alma........ A te faran bugiardi amici invito alle sale in che il Lusso apre le porte all’ Ozio inane, al motteggiar procace t che il Vizio esulta e la Virtù deprime. Questo ultimo verso — con tutta l’ira d’Amarilli contro i romantici — ricorda un po’ troppo esattamente il manzoniano ......nè proferir mai verbo che plauda al vizio o la virtù derida. La poetessa continua in questo tòno incitando il giovinetto a resistere alle lusinghe del Vi^io, e — naturalmente — gli infligge subito in otto endecasillabi Γ esempio del Laer^iale Telemaco. Ma molti sono i vizi da combattere, e fra questi c è un novo nemico, 1’ audace scuola boreal, il romanticismo. Amarilli detta fiduciosa il suo testamento poetico: Astro tu se* che sorgi ; io ver Γ occaso soa vicina a piegar ; però commetto a te il gran carco di punir gli audaci che pensan rinnovar gli antichi sforzi, benché Picmei della Titania razza GIORNALE LIGUSTICO 397 per cui sbanditi gir del cicl gli Dei, sacrilego attentato e a lungo inulto ! E pure un giorno in gracchieggianti Piche Γ insolenti fanciulle fur converse, che provocare alla tenzon de’ carmi osâr le Muse. Ed oggi in sonno immerse forse le dee saran ? Lor desta, incurva 1’ arco saldo infallibile, che morte rechi alle rime aspre, studenti, strane, che 1' origin non menton del selvaggio gelato aquilonar vedovo sito. Sapete chi era il giovinetto cui Amarilli s’indirizzava ? trascrivo la dedica, con tutto quel lusso di lettere maiuscole che avevano i nostri bisnonni: All' Esimio Studioso Fanciullo Battista Giorgini che mila acerba Età d* anni quattordici va chiaro per Ingegno precoce, per senno e per molteplici Cogni\ioui Amarilli Etrusca. Povera Amarilli ! Benché già vecchia, non potè morire con Γ illusione che il suo Giorgini si sarebbe consacrato a quello strano debito d’odio. Il 1836 — ella morì l’anno dopo — usci in Lucca un volumetto di Preludii. Era il primo saggio poetico che dava di sè Giambattista Giorgini a sedici anni ; — chi avrebbe mai detto allora che sarebbe stato anche Γ ultimo? Nicolò Tommaseo scriveva salì’Antologia che quello era il primo passo d’un grande poeta; ΓAmarilli invece dovette avvampare di sdegno. Singolare libretto! Dove quasi ogni poesia è una variazione sul motivo lamartiniano Caule*, larmes silencieuses, Sur une terre sans pitié..... e dove un poeta di sedici anni canta di sè medesimo: Da quel di che fu Γ amore Suggellato dagli affanni, Da quel di che morto è il fiore Che fiori sui mici verd’ anni, Tu cadesti, 0 lacrimetta, Sulla terra che m’ aspetta. Ma nelle forme e nelle rime gentilissime dei Preludii non vibra solo questa nota. Amo riportare i bellissimi versi con cui si chiude il volumetto — versi che sono esempio vero di alta e nobile poesia civile, benché ci si scorga un germe di passivo fatalismo: 398 GIORNALE LIGUSTICO E qual altro conforto ancor mi resta Che pianger teco, c vagheggiar 1’ eterna Bellezza del creato, e viver lungi Dal volgo e dai tiranni, infino al giorno Che pietosa alle stanche ossa tu porga, O materna mia terra, ultimo asilo, Ove fortuna non balestri, ed ove T ornili sovente i figli a farsi dotti Delle nostre sventure? —·» Abbian quest’ossa Refrigerio di pianto allor che rotta La vicenda mortai delle vendette Rivivcrà la patria mia j quel giorno In cielo è scritto? Oh questa speme almeno Ultima ai nostri occhi morenti arrida! Alessandro Manzoni aveva già scritto il inarco 1821, ma doveva aspettare le cinque giornate per trarlo fuori; Giambattista Giorgini, giovinetto di sedici anni, pubblicava questi versi in Lucca il 1836, sotto la tirannide borbonica! La morte risparmiò a 1 eresa Bandettini un disinganno anche più crudele: quello di vedere il suo Giorgini unirsi in matrimonio con la figlia dell’odiato capo di quei novi iconoclasti, la Vittoria Manzoni — di cui le verdi e aulenti colline di Massarosa e Montignoso piangono ancora la recente morte ! Ad ogni modo Amarilli Etrusca può contentarsi: chè Giambattista Giorgini, divenuto del Manzoni il figlio e il migliore amico, e^ tanto ritraendo dell’ immortale lombardo per la novità e 1 audacia del pensiero, la larghezza della cultura, la meravigliosa finezza dello stile, avrebbe potuto, avrebbe dovuto raccoglierne Γ eredità letteraria e farlo rivivere e continuarlo dinanzi a noi. Invece niente. Tale è l’indole di questa singolare figura di uomo in cui l’ingegno altissimo, è solo pareggiato dallo scetticismo, e — logica conseguenza — dal- 1 inerzia. Della mente del Giorgini resterà però almeno una testimonianza ai posteri. Lo abbiamo visto a sedici anni aspirare angoscioso la risurrezione d’Italia. Fu cosi fortunato da poter contribuire lui stesso alla grande opera con la mano e con la mente. Ma resa una la patria, una dovea esser la lingua : la rivoluzione politica doveva portar seco il rinnovamento letterario; occorreva abbattere idoli vecchi, spezzare credenze che parevan fondate su dogmi; Questo fece il Giorgini: — e la sua prefazione al Vocabolario dell’uso fiorentino resterà una delle pagine più belle della letteratura nova d'Italia. Carlo Sforza. GIORNALE LIGUSTICO 399 SPIGOLATURE e NOTIZIE Il compianto amico nostro Alessandro Ademollo ci aveva dato notizie del supplizio di un ab. Filippo Rivarola di Chiavari, condannato nel passato secolo come foglicttista (giornalista) e miserabilmente giustiziato di Roma per mano del boia (cfr. Gioiti Lig., a. 1883, p.47). Ora Antonino Bertolotti ci la conoscere il processo e la condanna di un altro chiavarese della medesima famiglia, l’ab. Paolo Gerolamo figlio di Agostino Rivarola, d’ anni 34, arciprete di Strevi. Venne questi processato dall’inquisizione l’anno 167X a' 30 luglio, e fu carcerato in Milano il 24 ottobre. Era accusato di carnalità procurate con persuasioni ereticali. Negò verameute ogni cosa, e tenne duro anche in faccia ai testimoni, ma s’accorse che non ne sarebbe uscito bene; perciò la notte del 30 maggio 1872 se ne fuggi con frattura dalle carceri del S. Ociffio. Si condusse, secondo si afferma, a Ginevra, dove apostolato, facendosi calvinista, e prese in moglie un’eretica. Più tardi, nel 1675, pare fosse caduto in bassa fortuna, fino a domandare l’elemosina; anzi per mali diportamenti ritiensi venisse anche cacciato da Ginevra. Riluttante alle citazioni del S. Officio, e alle ammonizioni del-l’Arcivescovo di Torino, che lo consigliava a sottomettersi, rimase fuori scomunicato, onde gli fu lanciata contro una sentenza con la quale era degradato e privato d' ogni benefizio ed onore, con la confisca dei beni ; vietano ogni comunicazione con lui, e rilasciano mandato esecutivo de capiendo, consegnando per questo fine la sua effigie al Governatore ed ai Luogotenenti criminali. La sentenza venne promulgata il 17 agosto i678 a magna populi multitudine idstante», e mentre si leggeva e pubblicava « exposita luit in pariete et cospectu populi effigies depicta » del Rivarola (Martiri del libero pensiero e vittime della Santa Inquisizione nei secoli XV J, XV11 e VV111. Studi e ricerche, Roma, 1892, p. 152 e segg.). CENNI BIBLIOGRAFICI Dott. D. Silvio Monaci. Notifie storiche sul R. Istituto dei Sordo-muti di Genova, Genova, tip. Sordo-muti 1892. Dalle pagine di questo importante, utile, e diciamo pure, geniale lavoro, noi apprendiamo quando, in qual modo e per opera di chi si fondò in Genova l'Istituto per Γ istruzione dei sordo-muti. Emerge glorioso il nome del P. Ottavio Assarotti, nel quale 11011 sai se meglio prevalga Γ alto sentimento della carità e della scienza, 0 la singolare costanza con cui volle e seppe superare ostacoli aspri e molteplici incontrati sulla sua via, a cagione d' uomini e di tempi. Modesti lurono i principii onde pose mano all’opera sua lodevolissima, ma la tede che lo sorresse certamente gli suonava nella mente l’applauso della futura grandezza, per l’incontestabili. beneficio che ne veniva alla umanità. E, sia ragione al vero, il caritatevole Istituto ripete il suo stabile inizio da quel grand’uomo, Napoleone, contro il quale si volge oggi, nè in tutto giustamente, l’acerbità della critica. Certo il governo successivo, mercè le solL-citudini del fonda tore, procacciò assetto migliore e più sicuro alla nuova istituzione ; ma ciò vuol dire che le cose buone non possono e non debbono perire per mutar di pubblici Ordinamenti, specie quelle che costituiscono un evidente progresso, il quale s'impone eziandio alle condizioni politiche, e vince opinioni e con siderazioni temporanee e transitorie. Il Monaci tratteggiando con mano felice la bella figura dell’Assarotti 400 GIORNALE LIGUSTICO ne rileva in ispecie il merito, rispetto agli avanzamenti, alle migliorie, ai metodi dell insegnamento, in relazione con lo stato della scienza educativa. L alta mente, la profonda dottrina, e un senso squisito della opportunità e della convenienza consigliarono all’ingigne maestro quelle novità, onde giustamente va celebrato e che furono germe di studi, i quali condussero a fruttuosi risultati. E di vero il grido in cui era oramai salito, insieme al valore del maestro, il nostro Istituto, mosse e governi e privati, a mandare a visitarlo savie ed esperimentate persone, affinchè po-i^benefkfo'16 ' COnS‘=>*' e istrilz‘oni. per estendere in altre parti d’Italia La vita dell uomo, che, pur divenuto famoso, non venne mai meno a a naturale modestia, tutta propria delle anime grandi, fu spesa interamente a maggiore utilità dell’ opera benefica alla quale aveva votato se stesso e ben a ragione, allorquando nel gennaio del 1829 egli mancò ai vivi, 1 utro iu vivo e sentito, non a Genova soltanto, ma dovunque era giunto il suo nome. 1 a n,elÌ°nchè ja. via magistrale aperta con tanto senno, e si bella virtù dall Assarotti tu continuata e percorsa da chi dalla confidente cousuetu-dine dell estinto seppe attingere la bontà, la dottrina, la costanza. Parlo e ab. Luigi Boselli, la seconda figura che il Monaci ci ha posto dinanzi tu“a la *ua yerità. Intorno al suo nome, mentre, vinta la calunnia, invidia e le piccole perfidie, venne chiamato a succedere al suo maestro, si raggruppa tutta la storia amministrativa e didattica dell’Istituto. Non lurono poche nè lievi le sostenute battaglie; eppure alla sua tenacia principalmente si deve, se nelle contese non si affievolì la fede degli amministratori, e il buon diritto alla fine ebbe condegna vittoria. Spirito pronto e battagliero, dotato di singolare acume, egli conosceva l’arte di risolvere le più intricate coutroversie, entrando di netto nelle viscere della quistione, e rilevandone le più sode ragioni. Alcune sue scritture amministrative chiaro lo dimostrano. Ma dei suoi scritti didattici s’intrattiene a lungo l’autore, toccando de’ minori, e analizzando quelli di maggiore importanza, donde in ispecie si rilevano i suoi intendimenti scientifico-educativi, i metodi da lui adottati, i risultati ottenuti. A ragione il Monaci ha voluto fermare l’attenzione del lettore sopra questa parte, per dimostrare come l’opera del Bosselli, costituisca una prosecuzione e un progresso di quella del suo venerato maestro. In fatti chi ben guarda ai metodi adoperati dal primo ed esposti con singolare chiarezza dall’autore, facilmente s’accorge, ponendoli a cimento con quelli del secondo, come abbiano fra di loro un intimo legame; di guisa che questi, discendendo in dritta linea da essi, si vadano man mano allargando e completando, secondo la ragione del progresso e de’ tempi. Il libro che noi annunziamo e che dovranno leggere quanti desiderano conoscere la storia del nostro quasi secolare Istituto, non solo dimostra nel suo autore 1’ arte dello scrivere pulitamente e chiaramente, e del distribuire la materia convenientemente; ma ancora la coltura e la dottrina ond’ egli va adorno. Poiché la sicurezza con cui tratta le questioni didattiche, e spiega 1’ applicazione di metodi apparentemente in contraddizione con le dottrine, ben manifesta, oltre all’acuto criterio, piena conoscenza della materia. La quale era già stata da lui dimostrata nel suo rapporto alla Commissione Amministrativa fatto nel maggio dello scorso anno, nel quale discorse dell’istituto di Genova in relazione allo stato attuale deI-l’istruzione dei sordo-muti. Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO 4OI LA LEGGENDA DI S. SIRO PRIMO VESCOVO DI PAVIA. Il pavese sac. prof. Prelini, mosso dalla fortunata scoperta del sarcofago di S. Siro, fatta da lui nel novembre del 1875, si rivolse allo studio di tutti i documenti, che giovassero ad illustrare sì i fatti di S. Siro che il culto a lui tributato. Frutto delle sue investigazioni furono due grossi volumi, di cui il primo fu pubblicato nel 1880, l’altro nel 1890 (1). Quest’ ultimo contiene molte ed interessanti notizie sul culto di S. Siro, in Pavia ed altrove, ed una raccolta di 99 documenti relativi al medesimo culto, dei quali il più antico è un diploma apocrifo di Luitprando del 712. Percorrendo il volume non si può a meno di ammirare la diligenza e F impegno con cui il Prelini spogliò attentamente x libri che trattavano di storia pavese ed i documenti che esistevano negli archivii di Pavia. Pur facendone i dovuti elogi, noi ci asterremo dal parlare di questo 2.0 volume, restringendo le nostre osservazioni alle sole notizie relative alla persona di S. Siro, contenute nel i.° volume, siccome le sole, che abbiano un interesse più generale, per la relazione che le unisce colla questione dell’ origine del Cristianesimo e delle sedi vescovili nell’Italia superiore. In particolare ci proponiamo di esaminare una Cronaca 0 Leggenda di S. Siro, che sebbene già pubblicata dal Mombrizio viene qui di nuovo pubblicata dal Prelini, che la riscontrò con antichi Mss. e ne fece come il perno e la base dei suoi studii. L’importanza della Leggenda sta in (1) S. Siro primo vescovo patrono itila città t diocesi di Pavia, studio storico-critico del sacerdote Cesare Prelini professore nel seminario diocesano, vol. I, Pavia, Fusi, 1880, in 8. di pagg. xlvii, 594; vol. II, 1890, di pagg. 508 di testo e 207 di documenti con incisioni. G10». UooiTtco. Amu XIX. 402 GIORNALE LIGUSTICO ciò, che, secondo essa, S. Siro sarebbe stato discepolo di S. Ermagora vescovo d’ Aquileia, discepolo a sua volta dell'evangelista S. Marco, e sarebbe vissuto nel I ο II secolo dell’ èra cristiana. Il Prelini si mostra al tutto persuaso della verità di queste asserzioni, che egli crede confermate ancora da altre prove, ed egualmente persuaso si mostra dell’ autorità ed antichità della Leggenda, la quale, secondo le sue conclusioni, rimonterebbe al principio del VII secolo, cioè al 600 incirca. Quali siano i motivi, che ci fanno essere di opinione diversa da quella del Prelini intorno ai due suddetti punti, cioè intorno all’alta antichità di S. Siro ed intorno all’antichità della Leggenda, verremo dicendo. Cominciamo da una scrittura, di cui il Prelini si vale per comprovare F antichità e la veracità della Leggenda. Essa è la vita dei primi vescovi di Milano, che fu pubblicata primieramente dal Muratori nei Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte 2.*, col titolo: De Situ Civitatis Mediolani, e poi di nuovo in separato opuscolo dal sac. Luigi Biraghi, col titolo: Datiana Historia Mediolanensis ab anno Christi LU ad CCCII (Milano Boniardi-Pogliani, 1848). Il Prelini, indotto dagli argomenti del Biraghi e dall’autorità del De Rossi, che al Biraghi consente, è persuaso che la Datiana Historia sia stata composta nel 536. Tale opinione, a parer nostro, è insostenìbile. Riguardo alla Datiana Historia bisogna assolutamente ritornare all’ opinione del Muratori, che assai giudiziosamente, al suo solito, l’aveva assegnata al nono secolo 0 al decimo (1). L’uso che l’Autore (1) Mentre noi scrivevamo queste osservazioni, il sig. L. A. Ferrai pubblicava nel Bullettino dell’ Istituto Storico Italiano, n. 11, Roma 1892. dalla pag. 99 al fine, un accurato studio del libro De situ urbis Mediolani, o, come lo chiama il Ferrai, delle Vitae pontificum mediolanensium. Il GIORNALE LIGUSTICO 403 della Datiana Historia fa di Paolo Diacono è innegabile ; ed il Biraghi per sottrarsi al peso di questo argomento dovette ricorrere ad un maneggio, poco degno di uno scrittore serio. Il Muratori aveva detto che 1’ Autore della Datiana Historia prese da Paolo Diacono l’etimologia di Liguria da legendis leguminibus, la quale etimologia è propria solo di Paolo Diacono. A tal difficoltà risponde il Biraghi a pag. xxv, che non Γ Autore della Datiana da Paolo, ma quello e questi presero la suddetta etimologia da Varrone. A pag. 5 poi, nota 3, reca il testo di Varrone, (De re rustica, I, 32), il quale non parla nè punto nè poco di Liguria, ma solo deriva Γ etimologia di legumina da legendo. Evidentemente questa etimologia di Varrone non ha che fare colla etimologia che è propria del solo Paolo Diacono, di Liguria da leguminibus. Il non aver recato il testo di Varrone a pag. xxv, lascia sospettare nel Biraghi l’astuzia di celare quel testo ai suoi lettori colà dove essi forse sarebbero stati distolti dall’ ammettere ciò che il Biraghi pretendeva di provare col medesimo. Oltre a questo riscontro tra Paolo Diacono e la Datiana Historiu, che fu già allegato dal Muratori, ve n’è ancora un altro notevolissimo. Il Mommsen ha provato che Paolo Diacono nella descrizione delle province dell’ Italia al ttmpo romano, posta da lui in principio della sua Storia dei Longobardi, commise un gravissimo errore, dove suppose l’esistenza di una pro- Ferrai combatte l’opinione dello Schupfer, che Γ aveva creduta opera del secolo XI e sostiene che si debba ascrivere al X. A noi non interessa entrare direttamente nella controversia: ci basti notare che entrambi questi scrittori confermano l'opinione del Muratori, in quanto questa esclude che la Datiana Historia sia anteriore al secolo IX. — Il codice C. 133 Ini. (olim P. 246) ddl’Ambrosiana, contenente le Vitat suddette, che il Biraghi aveva giudicato del IX 0 del VIII secolo, stando ai moderni Bol-landisti appartiene al secolo XI. V. Analula Bollaniiana, tomo XI, 1892, p. 275. 404 GIORNALE LIGUSTICO vincia delle Alpi Cozie, la quale comprendesse le città di Genova, Acqui, Bobbio e Tortona. Dell’esistenza di cotal provincia non solo non vi è la menoma traccia in tutti gli Autori ed i documenti anteriori a Paolo, quali Ennodio, Cassiodoro ed altri, ma essa è apertamente contradetta e dagli Scrittori e dalle iscrizioni. Si queste che^quelli sempre ci rappresentano Genova, Albenga e la Riviera, nonché il Piemonte, ossia le regioni IX e XI di Augusto, come appartenenti alla provincia romana della Liguria, secondo la nomenclatura introdotta da Diocleziano alla fine del secolo III, e riservano il nome di Alpi Cozie alla piccola provincia posta attorno a quel tratto delle Alpi, che tuttora serbano il nome di Alpi Cozie, cosi dette per cagion di Cozio, che al tempo di Cesare ebbe ivi il suo regno (i). Da questo errore singolarissimo di Paolo Diacono, ripetuto nella Datiana Historia , abbiamo un nuovo certissimo argomento a confermare l’opinione del Muratori, che questa sia stata composta non prima del secolo IX, ossia non prima di Paolo Diacono che mori nel 799. Tralasciamo altri argomenti, che dimostrano evidentemente la Datiana Historia composta assai dopo 1’ anno preteso dal Biraghi e dietro a lui dal Prelini, cioè il 536; ma non possiamo tacer'e della singoiar disinvoltura e ingenuità con cui il Biraghi, pur ammettendo che nella Datiana Historia si trovano alla lettera espressioni adoperate da Beda (-+- 735), vuol far credere ai suoi lettori che Beda ebbe sott’occhi il libretto della Datiana Historia, ed ora lo copiò letteralmente, ora a senso (2). Quasiché non fosse immensamente più pro- (1) Corpus Inscript. Latin. V, parte 2*, 810. (2) a Ex qua collatione deducitur Bedam habuisse prae oculis Auctortni nostrum, eum que saepe secutum esse, quandoque correxisse ». Datiana Hist., pag. 108. GIORNALE LIGUSTICO 405 babile, per non dire ceno, che Γ Autore della Datiana prendesse da Beda, autore conosciutissimo e diffusissimo per tutta la Cristianità, anziché Beda, che scriveva in Inghilterra, conoscesse ed avesse copia della Datiana Historia, piccola storia locale, di autore fino al presente ignoto, la quale non si sa che sia mai stata conosciuta fuori di Milano insino al Muratori, che pel primo dalla polvere della Biblioteca Ambrosiana, dove giaceva, la trasse alla pubblica luce della stampa. Il Mommsen accusò il Biraghi di sognare da svegliato; nè noi osiam dire che il giudizio sia stato troppo severo (1). Riportando la Datiana Historia dall’anno 536 al secolo IX, cade uno degli argomenti più forti del Prelini in favore del-l’antichità della Leggenda di S. Siro, quella cioè che egli dedusse dalla conformità di questa colla Datiana Historia. Tale conformità è sì grande che non solo la sostanza di alcuni fatti, narrati dalla Datiana, si trova riprodotta nella Leggenda, ma perfin le parole, come prova il Prelini a pag. 151, dove mette di fronte i passi testuali delle due scritture. Anzi il Prelini suppone che la Leggenda di S. Siro sia stata fatta in contrapposizione della Datiana Historia, collo scopo di dimostrare che la sede vescovile di Pavia doveva essere indipendente dalla sede milanese, perchè proveniente eia un apostolo, cioè dall’ apostolo S. Marco (2), che fu maestro di S. Ermagora d’Aquileia, il quale a sua volta fu maestro del pavese S. Siro (1) * Omnino Biraghius est ex eo genere hominum, qui, si quam lineam in antiquo monumemo deprehenderint, eam pro quavis littera venditare ct ita integra epigrammata ibi conspiciam, ubi hominibus oculis sanis praeditis menteque sana nihil omnino litterarum datum est videre. Cave igitur ab hoc auctore suis somniis se primam, deinde alios decipienti ». C. 7. L, V., p. a\ 633. (2) Apostolo in senso largo, in quanto lu compagno degli Apostoli ed Evangelista. 40 6 GIORNALE LIGUSTICO (pag. 165). Quindi ancor essa la Leggenda dalla fine del secolo VI o principio del VII, dove la collocò il Prelini devesi trasferire al secolo IX almeno. La Datiana Historia non fu la sola opera di cui si servì il compilatore della Leggenda; egli si servì ancora di Paolo Diacono, come si vede chiaramente dal confronto che il Prelini fa tra 1 introduzione della Leggenda e Γ introduzione del libro di Paolo Diacono sui vescovi di Metz (pag. 139). È ben vero che il Prelini suppone che Paolo Diacono abbia preso dalla Leggenda di S. Siro (pag. 142); ma tale ipotesi, sebbene non così assurda come quella del Biraghi intorno a Beda che avrebbe copiato dalla Datiana Historia, in quanto che Paolo Diacono non era straniero e lontano dall’Italia come Beda, ma era longobardo e poteva conoscere gli scritti che correvano in Lombardia, tuttavia non è molto verosimile. Im-peiocchè per tacere d’altre considerazioni, l’introduzione suddetta alle vite dei vescovi di Metz è talmente conforme alla lingua e allo stile di Paolo, che non ha punto apparenza d essere stata tolta di peso da altro libro, mentre per contro lo stile della Leggenda è tale che non ripugna affatto all’idea di un centone. Cosichè dalla conformità letterale della Leggenda con Paolo Diacono si può rettamente conchiudere che la Leggenda è posteriore a Paolo Diacono, morto circa l’8oo, quindi posteriore al principio del secolo IX. Altrove il Prelini trae argomento in favore dell’ antichità della Leggenda dal vederla riprodotta compendiosamente in un Breviario di Bobbio, conservato nella biblioteca nazionale di Torino. « Il Breviario », come scrisse al Prelini il comm. Gorresio, « a primo aspetto può credersi del secolo X. Ma l’abate Amedeo Peyron nelle note alla sua edizione dell’antico catalogo bob-biese, pag. 222, lo giudico senz’altro del secolo XI; la quale opinione è la più probabile, se bene si esaminino la ortografia del codice e le figure delle lettere iniziali ». Nondimeno, GIORNALE LIGUSTICO 407 avendo il Prelini osservato che le vite dei Santi ivi contenute sono tutte di Santi anteriori al secolo Vili, come sono i Martiri dei primi secoli, e i Confessori S. Medardo, S. Marco, S. Attalo (sic), S. Eustasio abate, le cui festività furono tutte introdotte 0 prima 0 nel decorso del VII secolo, ne dedusse che il breviario suddetto non sia che una copia di un breviario del secolo VII od VIII. Ora siccome in questo breviario-copia si trova la vita di S. Siro, così doveva pure (secondo il Prelini) trovarsi nel primitivo breviario del secolo VII od Vili. Quindi la nostra Leggenda di S. Siro, dalla quale l’ipotetico breviario del secolo VII od Vili desunse la vita di questo Santo, è anteriore al secolo VIII od al VII. Qui ognun vede quanto sia facile atterrare tutto il ragionamento del Prelini; basta negare: i.° l’esistenza, da lui supposta, di un primitivo breviario che risalisse proprio al secolo VII e non potesse essere posteriore; 2° che il breviario-copia bobbiese del secolo XI sia talmente una riproduzione 0 copia del supposto breviario più antico, che non contenga nessuna aggiunta, nessuna nuova vita di santo, ma sì solo quelle, nè più nè meno, che erano nel supposto breviario più antico. Non mai potrà il Prelini provare le sue ipotesi contro le nostre negazioni. Ciò basti riguardo ai due argomenti estrinseci, che il Prelini adduce per sostenere l’antichità della Leggenda, cioè la conformità di essa colla Datiana Historia e col breviario bobbiese di Torino. Quanto agli argomenti intrinseci, con cui egli vorrebbe persuadere ai suoi lettori che la Leggenda fu composta sopra documenti più antichi e genuini, essi non sono punto migliori. Sulla Leggenda, persone ben più di noi competenti ed autorevoli, cioè i Bollandisti, pronunziarono testé il loro giudizio, dicendo che essa contiene e troppi fatti inverosimili e troppi anacronismi da poter supporre che 1’ autore di essa abbia avuto sott’ occhi atti più antichi, i 4o8 GIORNALE LIGUSTICO quali offrissero qualche guarentigia di autenticità (i). Il Prelini non solo ammette con tutta imparzialità gli anacronismi della Leggenda, ma prova, e assai bene, in qual maniera essi siansi formati, e da quali confusioni di fatti o di persone siano provenuti. Citiamo, sulla sua scorta, due fatti relativi a S. Evenzio. La Leggenda racconta che S. Siro mandò a Milano S. Evenzio per dar sepoltura ai SS. Nazario e Celso, martirizzati poco prima, e per ordinare ciò che far si dovesse quando fossero uccisi i SS. Gervasio e Protasio, che in quel momento stavano in prigione (pag. 192 e seg.). Evenzio, di ritorno a Pavia, reco seco delle reliquie di S. Nazario, con cui poi si ottennero delle miracolose guarigioni. Poco appresso, avendo S. Siro ricevuto delle reliquie dei SS. Gervasio e Protasio, fece in loro onore costruire un tempio in forma di croce. La fabbrica di un tempio cristiano a Pavia sotto Γ impero di Nerone, quando, secondo la Leggenda, sarebbe accaduto il martirio dei SS. Gervasio e Protasio, è evidentemente favolosa; ed è non meno assurdo che il medesimo tempio fosse destinato a ricettare le reliquie dei SS. Gervasio e Protasio, i cui corpi si sa che furono scoperti da S. Ambrogio nel 386. Il Prelini stesso ci spiega come potesse 1 autore della Leggenda mescolare il nome di S. Evenzio coi SS. Nazario, Celso, Gervasio e Protasio. È certo che contemporaneo di S. Ambrogio fu un Evenzio vescovo di Pavia. Egli fu presente al Concilio d’Aquileia del 381, nei cui atti si trova due volte il suo nome, Eventius episcopus (1) « La passion renferme et trop d’invraisemblances et trop d’anachronismes pour qu’on puisse supposer que l’écrivain ait eu sous les yeux des Actes plus anciens présentant quelque garantie d’anthenticité ». Analecta Bollandtana, tomo X, pag. 373, Bruxelles, 1891. GIORNALE LIGUSTICO 409 Ticinensis (1), ed al Concilio di Milano del 390. In occasione di quest’ultimo Concilio attesta il Prelini d’accordo col Pape-brochio che S. Ambrogio distribuì ai vescovi colà congregati varie reliquie dei SS. Gervasio e Protasio (pag. 382). Si sa pare che il medesimo S. Ambrogio distribuì a varii vescovi reliquie del sangue dei SS. Nazario e Celso (i cui corpi egli pure avea trovato). Che ne distribuisse ad Evenzio, vescovo di Pavia, si desume da ciò, che più tardi S. Ennodio, anch’egli vescovo di Pavia, ne mandò qualche particella in Africa. Come di qui si vede, l’autore della Leggenda nell’asserire la suddetta missione di S. Evenzio a Milano, lavorò un racconto fantastico sopra un fondo vero, che era l’aver S. Evenzio fatto dimora in Milano, e l’averne ivi ricevuto reliquie dei SS. Gervasio e Protasio, Nazario e Celso. Un altro fatto accadde al tempo del vero e storico Evenzio, che nella Leggenda apparisce del tutto travisato. Racconta S. Ambrogio, nel libro degli Ufficii, da lui composto tra il 386 e 391 (libro II, capo 29), che una vedova aveva affidato alla Chiesa di Pavia un deposito di denaro. Un tale che su questo deposito aveva delle pretensioni, avendolo invano richiesto al clero, si rivolse all’autorità civile ed ottenne un rescritto imperiale che prescriveva al clero di consegnarlo. Il vescovo di Pavia richiese il consiglio di S. Ambrogio, che fu di parere che non si cedesse. Finalmente il vescovo pavese (1) Nella collezione dei Concilii del Binio e nella edizione romana del 1585 delle opere di S. Ambrogio si legge: Citinìensis. Di qui alcuni zelatori delle glorie cenedesi ne trassero argomento per fare Evenzio vescovo di Ceneda. Le edizioni posteriori dei Concilii e delle opere di S. Ambrogio portano la lezione vera Ticiniensis. Al quale proposito ricorda il Prelini (pag. 599) che questa lezione « fu ritrovata dal ch m0 sac. Guerrino Amelli vice-custode della Biblioteca Ambrosiana in un codice del secolo V, conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi (n. 8907), che egli ha potuto collazionare nell’ agosto del 1879 ». 410 GIORNALE LIGUSTICO risolvette di consegnare alla vedova stessa il suo deposito. Raccontato questo fatto il Prelini aggiunge : « Non può dubitarsi che il fatto di cui parliamo sia da attribuirsi a S. Evenzio. che noi diciamo II (i), come unanimemente ammettono ed il Bossi ed il Capsoni ed il Robolini, per non parlare d’altri. Or veggasi come la nostra Cronaca, pur conservando il fondo del fatto, lo attribuì al primo Invenzio e lo mutò in un altro, dandogli 1’ aspetto miracoloso e ben diverso dal vero (ved. sopra, pag. 218-221): « Un usuraio pretende da una vedova il doppio di ima somma che prestato le avea, ella ricorre ad Inventio. Questi spedisce all’ avaro il suo diacono Esuperan^io, che il preghi ad aver compassione della meschina e non esiga di più.... va il diacono con la vedova ; quegli rifiuta di stare alle esortazioni del santo; ed appena ha tocche le monete mandategli dal S. Vescovo per conto della vedova eh’ ei cade a terra e spira » (pag. 393 e seg.). Questi due fatti bastano per giudicare del valore della Leggenda, la quale non è che un seguito di narrazioni inverosimili, formato in età assai tarda (relativamente alla vita dei personaggi che descrive) sopra memorie più antiche sì, ma travisate. Eppure il Prelini partendo dai due punti fìssi dell’ alta antichità della Leggenda e dell’uso che ΓAutore di essa fece di documenti più antichi e genuini, ricorre piuttosto all’ ipotesi dell’ esistenza di due santi vescovi, di nome Evenzio 0 Invenzio, anziché accettare l’unica legittima conseguenza delle confusioni, da lui stesso svelate, che è di disdire ogni fede a sì assurda e favolosa scrittura. Nè si accorge che non pochi dei ragionamenti che egli fa nel corso dei suoi esami sulla (1) Il Prelini crede all’esistenza di due Invenzi o Evenzii; il i.° sarebbe vissuto nel secolo I ο II d. C,; il 2.0 contemporaneo di S. Ambrogio. Parleremo fra poco di questa opinione. GIORNALE LIGUSTICO 41 J Leggenda non sono altro che circoli viziosi, dove le conclusioni dipendono da principii che non sono provati, e poi esse stesse si prendono a punto di partenza per confermare questi principii. Nondimeno la sua imparzialità e sincerità è tanta, che egli stesso fornisce le prove per combattere le sue ipotesi. Così gli accade dove vorrebbe trovare nelle memorie dell’antico culto di S. Siro nelle città di Verona, di Brescia, di Lodi e altrove un argomento a conferma della dimora e della predicazione fatta dal Santo in dette città, secondo 1’ affermazione della Leggenda. Per dir solo di Verona, non cita il Prelini memoria più antica del culto reso ivi a S. Siro, che nella costruzione d’ una cappella al medesimo, cominciata ivi tra il 913 ed il 922, per ordine del veronese Giovanni, che dopo essere stato cancelliere di Berengario I, fu poi vescovo di Pavia. Ma, oltreché nello stesso essere stato costui vescovo di Pavia , v’ è una ragione sufficientissima a spiegare la sua divozione verso S. Siro, esiste il suo testamento, recato nelle parti sostanziali dal Prelini (pag. 345). In esso il vescovo Giovanni discorre della costruzione suddetta, senza che vi sia il menomo accenno a devozione verso S. Siro, esistente prima di lui in Verona. Così pure non è necessario credere che 1’ antica venerazione della Valcamonica a S. Siro fosse conseguenza della predicazione del Vescovo pavese in quella valle, mentre si sa che la Valcamonica aveva intime relazioni di spirituale amministrazione con la chiesa e 1’ ospedale di S. Martino di Siccomario, presso Pavia, fin da quando queste e la Valcamonica erano state messe da Carlo Magno sotto la dipendenza del celebre monastero di S. Martino di Tours, il 16 luglio del 774 (pag. 444J. Il medesimo si dica della venerazione a S. Siro esistente nella diocesi di Luni. Il Prelini stesso fa un ipotesi per spiegarne 1’ origine, che ci sembra plausibilissima e che si può con parità di ragione estendere ad altre diocesi’ dell Italia superiore, dove, eziandio 412 GIORNALE LIGUSTICO in tempi antichi, s’incontri il culto di S. Siro (i). Riferiamo le stesse parole del Prelini. Parla egli di due chiese dedicate a S. Siro nella diocesi di Luni, e cosi discorre: « Non può con certezza dirsi che tale intitolazione sia stata loro attribuita per reminiscenze della venuta in quelle parti di S. Siro, pei chè sebbene le due prime parrocchie sieno antichissime, pure niuna affermativa memoria ce ne è rimasa.... Già prima del X secolo, a somiglianza degli altri vescovi del Regno italico anche quello di Luni teneva in Pavia una propria casa con 1 unita cappella di S. Euplo, denominazione che rimase fin ai nostri giorni nella via di questo nome; e tale casa quei vescovi tenevano per essere obbligati a qui venire e rimanere per assistere alle diete del Regno. Laonde verrebbe facile la (i) Molte poterono essere le cause che diede, o origine al culto di S Siro in non poche diocesi dell’Italia superiore. Il Capsoni, oltre le fondazioni di chiese fatte nelle patrie loro da Vescovi di Pavia non pavesi, ricorda i vassallaggi e le alleanze con Pavia di città minori o borghi, le quali alleanze portavan seco il più delle volte l’importante condizione di tributare in certi giorni dell’ anno chi 1’ olio, chi la cera, chi altro donativo alla chiesa di S. Siro. E in esempio cita un atto del 113 5 con cui homines de hurgo et castro Novarum cedono metà di quel castello ecclesiae sancti Syri Papiae, promettendo barile unum olei in paschate op. cit., vol. 11, pag. 41). Alle diocesi che il Prelini enumera, nelle quali furono in antichi tempi chiese dedidate a S. Siro, si aggiunga Torino, non solo per la chiesa di S. Siro in Saluzzo, che nel secolo XIII apparteneva alla diocesi torinese, ma per due altre chiese ricordate in una lista di tutte le chiese della diocesi, scritta nel 1386 e pubblicata dal Chiuso, Storia della Chiesa in Piemonte, Speirani, 1887, I, 282-90. Esse sono: Eccl. S. Siri de Virlis (Virle, circondario di Pinerolo, feudo dei Signori di Romagnano). La festa di S. Siro facevasi a Virle il 17 maggio, anniversario della sua traslazione. La chiesa di S. Siro è tuttora chiesa parrocchiale. Eccl. S. Siri de Ca-saliburgotte seu Trahea (Casalborgone apparteneva in parte alla diocesi d’Ivrea, in parte a quella di Torino). La chiesa di S. Siro è ora distrutta. GIORNALE LIGUSTICO 413 congettura che da Pavia il vescovo di Luni importasse nella sua diocesi il culto di S. Siro » (pag. 554) (1). Conchiuderemo pertanto questo primo punto della nostra Memoria dicendo, che non solo non si può assolutamente provare che la Leggenda di S. Siro sia stata composta prima dell’ 800, ma vi sono argomenti fortissimi per crederla posteriore all’ anno suddetto; che d’ altra parte essa non ha alcun valore storico, essendo un informe manipolazione di fatti in-verisimili e di confusioni di persone e di tempi, nè merita che se ne tenga il menomo conto per ciò che spetta a determinare la veracità dei fatti relativi a S. Siro ed al tempo in cui egli visse. Tolta di mezzo la Leggenda, resta a vedere quanto e come provi 1’ antichità di S. Siro la sua iscrizione sepolcrale (2) consistente nelle due parole sovrapposte una all’altra: S V R V S EPC Noi qui non seguiremo il ch.m0 comm. De Rossi in tutti i ragionamenti che egli fa nella sua dissertazione sul sarcofago di S. Siro, riportata integralmente dal Prelini (pag. 1-36). Solo osserviamo che il valente archeologo, sebbene preoccupato ancor egli dalla credenza nell’ alta antichità della Datiana Historia e della Leggenda, tuttavia dal suo esame paleografico non viene ad alcuna decisiva conclusione la quale veramente (1) Veggansi nel Robolini, Notifie appartenenti alla storia della sua patria, Pavia, Fusi 1826, tomo II, pag 145, alcune notizie relative alle case, che parecchi Vescovi italiani possedevano in Pavia. (2) Il Mommsen nel Corp. I. I., V, parte II, stampata nel 1877, non la riferì ; e neppur il Pais, nei Corporis Inscript. Lat. Supplementa Italica, Addit. ad vol. V. Galliae Cisalpine, Romae 1888, quantunque citi il libro del Prelini, pag. 775, dove però dimostra di non averlo veduto, e a pag. 248. 4X4 GIORNALE LIGUSTICO attesti 1’ esistenza di S. Siro nel II ο III secolo dell’ èra volgare e non piuttosto nel IV, come credettero il Tillemont, il Marroni, il Sormani, il Robolini, il Carpanelli ed altri (Prelini, pag. 419). La conclusione cui viene il De Rossi è la seguente : « L' esame paleografico favorisce mirabilmente l’età dalla tradizione (1) assegnata al vescovo Siro; e ci consiglia ad avvicinare il suo avello piuttosto ai primi del secolo II che ai primi del IV » (pag. 26). Si noti però in primo luogo che il De Rossi nella sua conclusione comprende solo la prima parola dell’iscrizione sepolcrale, cioè la parola Surus, poiché quanto all’altra EPC egli ammette che sebbene vi sia qualche esempio antichissimo di siffatte sigle « è però innegabile che il massimo loro numero appartiene ai secoli terzo e seguenti » (pag. 27J. Ed aggiunge: « A me la sigla EPC nel secolo incirca terzo niuna meraviglia farebbe: in più antico tempo e nel secolo primo non ardirei supporla senza prova sufficiente e positiva ». A questa difficoltà egli sfugge coll'ipotesi che la sigla EPC sia stata agginnta più tardi; ipotesi che non sappiamo se da tutti sarà così facilmente ammessa. In secondo luogo osserviamo che, anche riguardo al nome Surus, il De Rossi non si mostra perfettamente sicuro della sua argomentazione, che egli trae dalla eleganza della scultura. Sentansi le sue parole : « La semplicità delle forme dell’ iscrizione di Siro mi sembra affine alla schietta ed accurata paleografia dei tempi migliori (2); e non a quella del secolo terzo volgente al quarto. E se l’incisione delle lettere non è molto profonda, nè di quel garbo perfetto, che distingue i primi belli esemplari dei primi secoli imperiali, ciò dà segno (1) S’intende la tradizione quale è data dalla Leggenda ; poiché quanto alla storica tradizione della chiesa pavese vedremo fra poco che ella è ben diversa. (1) Cioè sotto gli Antonini, come tiene il De Rossi. GIORNALE LIGUSTICO 415 della poca perizia dell’ artefice, non della decadeuza dell’arte ». Ma che la poca profondità dell’ incisione e la mancanza del perfetto garbo che si riscontra nei più stimati esemplari dell’età imperiale sia segno non della decadenza dell’ arte, ma della poca perizia dell’artefice, è una semplice ipotesi, la quale quantunque fatta da persona competentissima nella sua materia, pure non equivale ad una assoluta affermazione, nè quindi può considerarsi come decisiva nella presente questione. Laonde, considerando l’incertezza in cui si aggira il De Rossi, a noi sarà lecito attenerci alla sentenza di un altro ugualmente esimio cultore dell’ archeologia sacra, il quale credette l’iscrizione del sarcofago di S. Siro contemporanea dei primi lustri del secolo IV, quando, come ora diremo, secondo la più antica e rispettabile tradizione, visse il primo vescovo di Pavia. È questi il P. Raffaele Garrucci, il quale, discorrendo della presente iscrizione, così si esprime: « Varie sono le opinioni intorno all’ età e alla morte di S. Siro, ma. la opinione più accreditata è quella di coloro che il dicon morto dopo i primi decennii del secolo IV, circa il 339. Or ciascun vede quanto valida conferma presti a questa credenza l’avello nuovamente scoperto e per la sua paleografia e per la semplicità della forma epigrafica. Aggiungeremo anche un terzo canone il quale ci è fornito dall’ uso del V vocale, in luogo del greco Y nella voce SVRVS.' Questa ortografia che fu solo propria dell'epoca anteaugustea, segue non pertanto ad usarsi in alcuni nomi segnatamente, quali sono ad esempio: SVSTVS e SVRVS nei secoli seguenti, nel quarto propriamente, dove i vetri cimiteriali non ci danno mai altro che SVSTVS; laddove il santo papa Sisto III alla prima metà del secolo V amò invece d’inscriversi XYSTVS nel grand’arco della Basilica di Santa Maria Maggiore » (1). (1) Civiltà Cattolica, serie IX, vol. IX, 1876, pag. 714. 4-ié GIORNALE LIGUSTICO Abbiam detto che la tradizione, la quale pone l’episcopato di S. Siro alla fine del secolo III o al principio del IV, è la più antica e la più rispettabile, e lo proviamo. La tradizione più antica della Chiesa pavese è quella che ci vien data dagli scrittori e dalle memorie anteriori al secolo VI, le quali ci dicono che furono vescovi di Pavia uno dopo 1’ altro S. Siro, S. Pompeo, S. Evenzio, e di più che vi fu un solo S. Evenzio. La successione dei tre suddetti vescovi pavesi fu accettata dalla stessa Leggenda di S. Siro, che sebbene non cosi antica come parve al Prelini, pure può risalire al IX ο X secolo. Evvi poi al principio del secolo XIV (verso il 1330J un anonimo scrittore, cfie compose un libro De laudibus Papiae; questi enumerando i vescovi di Pavia, che hanno culto come Santi, mette primo Siro, poi Invenzio, indi Ursicino, Crispino, Epifanio, Massimo, Ennodio, Crispino II, Damiano, Teodoro e Gerolamo (Prelini, pag. 76) (1). Anzi egli chiama S. Crispino I settimo vescovo di Pavia : In basilica S. Mariae ili meridie... . iacet corpus S. Crispini ■ primi, qui fuit septimus Episcopus Papiensis (2). Lo stesso ordine e tutti i detti nomi si riscontrano in un inno, il quale cantavasi nell’ ufficiatura pavese, e che con ottimi argomenti il Prelini prova essere composizione del vescovo Guglielmo Centuario, che governò quella sede dal 1386 al gennaio 1402 (pag. 70). Questa medesima tradizione più antica è quella che trovasi rappresentata nel così detto « Catalogo Beretta », che è un catalogo dei Vescovi pavesi che dal canonico Alessio Beretta (-+- 15 91) fu trovato, come egli dice, in uno libretto vecchio, e fu da lui trascritto in un codice dell’ archivio capitolare pavese, ora noto sotto il nome di Registro Capitolare. Ai nomi dei Vescovi sta congiunto il numero degli anni di loro episcopato, nei quali (1) Vedi pag. 7 in Muratori, R. I. S., XI. (2) lb. pag. 8. GIORNALE LIGUSTICO 417 ben si può concedere possa essere occorso qualche errore, ma quanto al nome dei Vescovi ed all’ordine della loro successione il suddetto Catalogo rappresenta veramente, come dicemmo, la tradizione più antica della chiesa pavese, ed anche la più rispettabile, siccome quella che è in piena armonia con altri certi documenti storici, come si parrà da quanto brevemente diremo. Ecco frattanto i nomi dei primi dieci Vescovi (Prelini, pag. 99) estratti dal Catalogo Beretta, che per la prima volta venne edito per intero dal Prelini. Vi aggiungiamo a destra le cifre romane, che senza dubbio erano nelle prime copie, e a sinistra gli anni, in cui esistono documenti storici certi dei primi Vescovi: S. Siro per anni 56 LVI. S. Pompeo » x4 XIV. 381,390. S. Evenzio » 39 XXXIX. Profuturo » · 5 V. S. Obediano » 14 XIV. * S. Urceseno » 33 XXXIII. 447,451,467. S. Crispino I » 37 XXXVII. 467-97. S. Epifanio » 31 XXXI. 502. S. Massimo » *5 XV. + 521 S. Ennodio » 18 XVIII. Come abbiamo detto è certo che nel Catalogo si infiltrarono degli errori rispetto agli anni dei Vescovi. Alcuni si possono riscontrare. Di S. Epifanio abbiamo la vita scritta da Ennodio, poi suo successore, e da essa sappiamo che egli fu eletto vescovo nel 467 e morì dopo trenta anni di episcopato, cioè, come crede il Sirmondo, nel 21 gennaio del 497 (1). Similmente di Ennodio sappiamo dalla sua iscrizione (1) Secondo il Vogel, S. Crispino sarebbe morto nel 465 ai 12 luglio, e S. Epifanio sarebbe stato vescovo dal 465 al 21 gennaio del 496. Giorn. Ligustico. Anno XIX. 27 4i8 GIORNALE LIGUSTICO sepolcrale che mori il 17 luglio del 521. Quanto al principio del suo episcopato, o, per dir meglio, quanto alla morte di Massimo suo antecessore, Γ Ughelli la pone al gennaio 510. Federico Vogel, recente editore delle opere di S. Ennodio(i), prova che Ennodio non fu vescovo prima dell’agosto 512, nè forse prima del 513 o 514. Prendendo il 513 per data più verosimile, dal 497 fino al medesimo 513 avremmo appunto i XV anni che il Catalogo attribuisce a S. Massimo; ma nei XVIII anni attribuiti a S. Ennodio dovremmo riconoscere uno sbaglio di X anni, poiché dal 513 al 521 non corsero che anni Vili. Di Evenzio sappiamo che fu contemporaneo di S. Ambrogio ed era vescovo nel 381, nel 390 e forse fino al 397. Di S. Ambrogio ci narra il suo biografo Paolino che egli, poco prima della sua morte, la quale accadde il 4 aprile del 397, consacrò un nuovo vescovo di Pavia. Fra il 390 in cui vi è Γ ultima memoria certa di S. Evenzio ed il 397, in cui un nuovo vescovo di Pavia prese possesso di quella sede, vi può esser luogo per 1’ episcopato di Profuturo, che visse solo V anni. Quindi il vescovo consecrato da S. Ambrogio nel 397 potrebbe essere S. Obediano ; nulla però vieta di credere che ei fosse Γ immediato successore di S. Evenzio, cioè Profuturo (2). Qualunque ipotesi si accetti, si deve certamente ammettere che il computo degli anni tra il 467, primo di S. Epifanio ed il 392 od il 397, che a seconda delle due suddette ipotesi sarebbe stato l’ultimo di S. Evenzio, è erroneo. Poiché (1) Nel tomo VII della collezione Mon. Germ Hist., Berlino, Weidman, 1885, pag, xxiv. (2) L’opinione che nel 397, prima del dì 4 aprile, S. Ambrogio consecrasse Γ immediato successore di S. Evenzio, sembrerebbe confermata dal fatto che S. Evenzio mori il dì 8 febbraio, se pure la festa che di lui in tal giorno facevasi in Pavia era per memoria della sua morte. GIORNALE LIGUSTICO 419 il numero totale degli anni, computando Profuturo, sarebbe di anni 89; escluso Profuturo, di anni 84; mentre tra il 392 ed il 467 non corrono che 75 anni, e tra il 397 e il 467 anni 70. Forse anche qui lo sbaglio sarà in un X di più, aggiunto 0 agli anni di Ursicino 0 a quelli di Crispino I. Finalmente, supponendo esatto il Catalogo anche pei Vescovi anteriori ad Evenzio, e partendo dal 392, non si può giungere pel principio dell’episcopato di S. Siro più in su che al 283, e per la data della sua morte al 339. Se poi non si voglia supporre un episcopato tanto lungo, si verrà agevolmente a dedurre che la diocesi di Pavia venisse stabilita al principio del secolo IV, cioè quando terminate già le persecuzioni, la Chiesa potè in pace provvedere al miglior governo dei popoli suoi fedeli. Abbiamo detto che la serie dei Vescovi pavesi, quale ci è data dal Catalogo Berretta, è, almeno per ciò che riguarda i nomi e la successione dei Vescovi, la più antica e la più ri-spettabile. Dobbiamo ora aggiungere, che essa fu Y unica serie a noi tramandata dall’ antichità, nè altra ve ne fu prima che scrittori relativamente assai recenti si arbitrassero di foggiarne un’ altra, in cui introdussero Vescovi non mai esistiti, affin di colmar le lacune, che, ammettendo, come essi facevano, Γ esistenza di S. Siro e dei due altri primi vescovi al secolo I e II della Chiesa, vi sarebbero state. In ciò essi procedettero ingannati dalla Leggenda di S. Siro. Il Gualla, che nel 1505 fu il primo a trattare dei Vescovi pavesi con libro stampato, non ne diede punto la serie cronologica. Egli parla sempliuemente dei Vescovi santi e dei beati. I santi € (i) Di S. Crispino I la memoria più antica è d’ aver egli accettato S. Epifanio come chierico, allorché questi aveva otto anni di età. Sapendosi che S. Epifanio nacque nel 459, S. Crispino l’avrebbe accettato chierico nel 447· 420 GIORNALE LIGUSTICO sono da lui enumerati collo stesso ordine con cui due secoli prima li enumerava F Anonimo ticinese, cioè Siro, Invenzio, Pompeo, Urceseno, Crispino I, Epifanio, Massimo, Ennodio, Crispino II, Damiano, Teodoro e Gerolamo. I beati sono Lanfranco, Bernardo, Pietro, Folco, Rodobaldo, Giovanni, Armentario, Luitefredo ed Anastasio (i). In lui si vede qual confusione producesse nella mente degli eruditi, da un lato la persuasione che S. Siro, S. Pompeo, S. Evenzio fossero vissuti ai tempi apostolici, siccome narrava la Leggenda, dal·· 1’ altro la serie fino allora conservatasi nella diocesi pavese, quella che ci è data nel Catalogo Berretta. Così a pag. io egli pone bensì la morte di S. Crispino I, chiamato da lui settimo vescovo, nel 207; ma nello stesso tempo gli dà per successore S. Epifanio, e parla di costui con frasi tolte di peso dalla vita scrittane da Ennodio, dalle quali si vede che egli intendeva indicare il celebre S. Epifanio che fu vescovo nel secolo V. Lo Spelta nella sua Historia di Pavia, stampata quasi un secolo dopo il Gualla, per trarsi d’impaccio suppose l’esistenza di tre Crispini in luogo di due, poi, avendo collocato i sette primi vescovi del Catalogo Beretta anteriormente al 252, ed aggiuntivi arbitrariamente S. Massimo 270 e S. Crispino II 4- 305, colmò la lacuna che rimanevagli di tutto (1) Il libro del Gualla ha il titolo: Jacobi Gualk jureconsulti Papie Sanctuarium, è ίη-16, in caratteri gotici, di pag. 92 numerate solo dal diritto, più otto facciate in principio contenenti varie prefazioni, di cui una del Gualla stesso nel giugno del 1505, un altra di Paolo Morbio, che ne curò la stampa, colla data i.° settembre, essendo già morto il Gualla, e sette facciate in fine contenenti la lista delle indulgenze nelle visite alle chiese di Pavia. Sul fine del libro leggesi: Impressum Papie per magistrum Jacob de Burgofrancho. Anno Domini MCCCCCV die X mensis novembris. L'enumerazione dei Santi è a pagine 3 verso. — Il Capsoni chiama il libro del Gualla un informe ammasso di vite brevi, di miracoli 0 apoftegmi, e detti sentenziosi, che ai nostri Santi la voce popolare attribuiva, vol. II, pag. XII. GIORNALE LIGUSTICO 42I il secolo IV con due vescovi, che pure sono nel Catalogo, ma in altro più conveniente posto, qual loro si addice, cioè Anastasio, che egli chiamò I, e Tomaso, assegnando all’Ana-stasio gli anni stessi 23 che il Catalogo assegna all’ unico e vero Anastasio vissuto verso il 680, ed a Tomaso 45 anni, dieci di più di quelli che il Catalogo assegna al vero e storico Tomaso vissuto nel secolo VII (1). Peggio poi fece Gerolamo Bossi nella sua opera Dipticba Episcoporum S. Ticinensis Ecclesiae, Ticini, apud Leonardum et Carolum Rubeum, 1640 (Capsoni, II, 246), secondo quello che ne attesta il Capsoni, le cui parole crediamo utile riferire in nota, affinchè si veda quanto capricciosamente si adoperasse in questa materia, e quanto poco valore abbia quella che si vorrebbe dare da qualcuno come tradizione antica (2). (1) Historia dei fatti notabili occorsi nell' Universo et in particolare del regno dei Gothi, ecc.....nel qual tempo fioriscono i vescovi ecc. — Pavia, Bartoli, 1604, passim. (2) « Sebbene il rimedio incontrasse lungo tempo fortuna e sia stato volentieri abbracciato dall’Autore dell’ Italia sacra, e quindi poi da nazionali De Gasparis, Pietragrassa, Romualdo Ghisoni, Siro Giuseppe Castelli, ecc., ecc. trovasi finalmente eh’ è assai peggiore del male. Non si accontenta Bossio di ridurre a soli cinque i quattordici anni che nel Registro (cioè nel Catalogo Berretta) assegnati vengono a Pompeo, non di supplire all’omissione di Evengo II (il Capsoni, anch'egli, credette all'esistenza di un Evenzio II, che non è provato da nessun documento), ma raddoppiò S. Epifanio e S. Massimo; tre ne fece di un solo, tre di due che prima erano Anastasto e i Crispini : ornò della mitra vescovile S. Dalmazzo martire; naturalizzò S. Felice di Spalatro, e in capo a dodici secoli ci recò nuova di Leonzio, di Albachio, di Sant Ilario, Tibaldo, Marcellino; e tutti questi e un Tomaso non ideale, ma tardivo pei suoi bisogni, anticipò; collocandoli nei tempi oscuri della storia ecclesiastica, senza mai produrre una carta uno scrittore, 0 altro testimonio plausibile, delle gesta, nè dell’ignota esistenza loro. Hanno più volte occasione di lagnarsene i dottissimi Bollandisti (19 luglio, de S. Gervasio n. 49; * 422 GIORNALE LIGUSTICO Se noi pertanto abbandoneremo interamente questo novello edificio, come lo chiama il Capsoni, edificato con pochissimii spesa, ed accetteremo il Catalogo Beretta, quanto ai nomi ed al- 1 ordine di successione dei Vescovi pavesi, noi non faremo che ritornare all unica, antica, costante e vera tradizione della Chiesa pavese, la quale e confermata dalla stessa Leggenda di S. Siro, che solo se ne discosta nella cronologia, dove, per confessione di tutti coloro che le prestano qualche credenza, compreso il Prelini, essa è evidentemente falsa. Di più la tradizione suddetta è confermata dai documenti storici relativi ai SS. Evenzio, Crispino I, Epifanio, Massimo ed Ennodio. Per attestazione del Garrucci, cui non può seriamente contraddire il De Rossi, la comprova ancora Γ iscrizione sepolcrale di S. Siro. In fine molto non se ne allontana, e quindi, indirettamente, la conferma pure l’altra antica scrittura relativa a S. Siro, cioè il sermone intorno alla traslazione del corpo di S. Siro, posteriore, come è chiaro, ma non di molto, alla traslazione stessa, la quale avvenne per opera del vescovo Adeodato tra 1*830 e 1’ 841. Ivi si dice che il corpo di S. Siro dalla sua antica sepoltura nella chiesa dei SS. Gervasio e Protasio fu dopo 600 anni trasferito nella chiesa cattedrale. Supponendo che 1’ oratore parlasse nel 850 circa, e che esprimesse un numero rotondo approssimativo in luogo degli anni precisi, forse a lui ignoti, noi verremmo alla metà del III secolo e perciò più vicini al secolo IV che al secolo II (1). 21 g'ugn°. de S. Ursicino; 18 luglio, di S. Felice, n. 3 et seg. e 30 agosto) e fra essi non parla che saviamente Gotofredo Enschenio, quando asserisce in una maniera la più rispettosa, che omnes, gli scrittori nostri della cronologia episcopale, historiae suae melius consuluissent, si vetustiora ex quibus talia sumpsere monumenta indicassent ». Capsoni, Memorie storiche di Pavia, Pavia, 1785, vol. II, pag. 230, n. ccxi. (1) « Pretiosi corporis eius reliquiae ab eodem loco, quo per annorum curricula sexcentorum servata sunt, ad receptacula sedis episcopalis sublatae GIORNALE LIGUSTICO 423 Non è quindi da far meraviglia che, come dice lo stesso Prelini, tutti gli scrittori moderni più accurati pongano Γ episcopato di S. Siro al principio del secolo IV, indottivi dal-l’autorità del Catalogo Berretta il più sincero, come lo chiama 11 Capsoni, che. abbiamo intorno alla successione dei Vescovi di Pavia. A questo anche noi aderiamo, persuasi, per tutto quel che dicemmo, che S. Siro visse 0 sulla fine del secolo III o sul principio del IV. Sac. Fedele Savio. LA LEGGENDA DI GIULIETTA E ROMEO « Quando più intense fervevano le lotte civili, quando fra cittadini e fra parenti si prolungavano, di secoli e secoli, gli odi e le vendette, il popolo che dalle lotte dei grandi più soffriva e ritraeva danni letali, immaginava, nell intensa brama di pace e di conciliazione, una leggenda che fosse come il simbolo de’ suoi desideri, e per animarla con l’impronta del vero, 1’ attribuiva a persone 0 famiglie vissute in altri tempi, ma per agitazioni e pericoli non molto dissimili. Di qui la leggenda d’amore che troviamo nelle citta più funestate dalle guerre interne e che gli scrittori dei secoli XIV e XV raccolsero 0 pensarono, appunto perchè vivevano in tempi difficili del pari. » A metter quiete fra odi violenti non valevano allora le parole, come valsero nel 1700 i cavilli e le sottigliezze degli arbitri di cavalleria in parrucca ! Era necessaria invece una sunt», η. I. Prblini, pag. 234· I' Prelini non senza molta Probabilità suppone che autore del Sermone sia Dungallo, che verso F 850 era maestro in Pavia, pag. 577· 424 GIORNALE LIGUSTICO passione violenta e la si trovava nell’ amore, appunto perchè 1’ j;rore rappresenta la reazione dell’odio » (i). C:)·.i Corrado Ricci, e le sue parole parrebbe dovessero ricevere la conferma più ampia dalla bella leggenda di Giulietta e Romeo, dalla quale appunto egli prende le mosse, che incontrò così largo e continuo favore e che ancora oggidì corre popolarmente in Verona. Certo, di quante mamme veronesi oggi la raccontano ai figli, nessuna udì mai parlare dello Shakespeare o del da Porto, e se alcuna, tra le più vecchie , ricorda d aver visto morire sulle scene del Filarmonico la dolce Giulietta sospirando le note del Bellini o dello Zingarelli, non sospetta nè meno che la tragedia pietosa possa essere pretta invenzione di poeta, ma ne trae più tosto conferma della verità di quanto udì già raccontare dalla mamma sua e dalla nonna, e che è divenuto fede inconcussa di popolo. Ma questa leggenda è essa veramente cosa tutta di popolo? La ricerca non è senza interesse, anzi, se ci dà modo di fissare il valore, dirò cosi, di documento demopsicologico della leggenda, ci permette pure di risolvere definitivamente la questione, a lungo dibattuta e non ancora sopita del tutto, del suo fondamento storico (2). Nello stato odierno degli studii si può dire che se gli ar- (1) C. Ricci, Leggende d’amore in N. Antologia, Vol. XXXIX, Serie III, fase, del 16 maggio 1892. (2) Cfr. Giulietta e Romeo novella storica di L. da Porto, Pisa, Nistri 1831, dove passim sono gli argomenti in favore dell’ affermativa di A. Torri editore del volume. — F. Scolari, Su la pietosa morte di Giulietta Cappelletti e di Romeo Montecchi lettere critiche, Livorno Masi, 1831 — G. Tode-SCHini , Lettere a I. Milan e a B. Bressan nel volume Lettere storiche di L. da Porto ecc. per cura di B. Bressan, Firenze, Le Monnier 1857, pag. 361 e segg. — G. Chiarini, Giulietta e Romeo nella N. Antologia del i.° luglio 1887. — A. Zambelli, Cenni storici sulla tomba di G. e R. in Verona, Verona, Civelli 1889. GIORNALE LIGUSTICO 425 gomenti di chi afferma la verità della leggenda sono, a non dubitarne, destituiti di ogni saldo fondamento storico, quelli degli altri non sono nè meno essi tali da tagliar la testa al toro, si che è lecito ritener col Chiarini ancora insoluta la questione, pur propendendo a riconoscere una maggior fondatezza negli argomenti di chi nega. Che Dante, nella famosa terzina Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, non accenni al tristo caso è fuor di dubbio ; che nessun cronista , nessun storico veronese ne faccia parola fino al troppo tardo dalla Corte è certo, e d’altra parte è certo pure che anche oggi la leggenda corre popolarmente in Verona; ma a quando risale? Come e quando divenne cosa del popolo? È chiaro che qui sta il nodo della questione. Primo raccontò le avventure di Giulietta e di Romeo Luigi da Porto, chè il vanto della priorità gli è assicurato dal confronto attento delle date e della novella sua con quella di Matteo Bandello e col poemetto di Clizia veronese, a dispetto degli argomenti portati in contrario dal Torri e dallo Scolari (1); è dunque naturale che nel suo racçonto si devano cercare le prime traccie della nostra leggenda. Al da Porto la novella è raccontata da un veronese, l’arciere Pellegrino, che a sua volta l’aveva udita raccontare dal padre: ecco dunque, parrebbe, un buon argomento in favore dell’antica esistenza della leggenda. Ma c’è di più: la novella del vicentino deriva indubbiamente dalla XXXIII del Novellino di Masuccio Salernitano mutato il nome dei personaggi e trasportata la scena del fatto a Verona: ora come (1) Il Torri sostiene che il Bandello derivi dal P. e che Clizia abbia scritto contemporaneamente a questo e indipendentemente, lo Scolari il contrario; disaccordo poco favorevole alla loro tesi comune. 426 GIORNALE LIGUSTICO si potrebbe spiegare questo cambiamento se non pensando che il da Porto attingesse alla tradizione popolare ? Ma prima di affrettare la conclusione fa d’ uopo esaminare più da vicino il valore di questi argomenti. Col secondo ci chiuderemmo in un circolo vizioso, perchè realmente non è che un’ipotesi che deduciamo per spiegare i mutamenti introdotti dal da Porto nel racconto di Masuccio, e che ha bisogno essa stessa di essere provata; è la sostanza stessa della questione e quindi non può essere argomento atto a risolverla. È un’ ipotesi naturale, spontanea, logica, anzi, quasi direi, necessaria, ma é sempre un’ ipotesi e sarebbe vano darle soverchio peso. Se poi si potesse accettare l’ipotesi del Frànkel che non il da Porto, ma uno scrittore intermedio tra questo e il salernitano, fosse 1’ autore degli accennati mutamenti (i), la questione non cambierebbe, bensì crescerebbe a dismisura l’incertezza, chè quella novella, secondo il Frànkel stesso, ci è del tutto sconosciuta e fors’anche andò affatto perduta; però rimarrebbe sempre fermo, ed è punto importante, che soltanto al secolo XVI si possono fondatamente far risalire i cambiamenti , che c’ interessano. Ma tale ipotesi non resiste a un primo.esame, sì che basterà l’averla accennata. (i) L. Frànkel , Untersuchungen %ur Entwichlungsgeschichte des Stoffes voti Romeo und Julia in Zeitschrift für vergleichende Litteraturgeschichle und Renaissance-Litteratur, fase, i-iv del 1890. 11 F. del resto non sa nè meno efficacemente sostenere la sua ipotesi, chè le testimonianze delle quali si vale sono ben lontane dal provare l’esistenza di una tale novella. Più probabile e più importante è Γ ipotesi dello Schulze, ricordata dallo stesso F., che Masuccio e il da Porto abbiano attinto da uno stesso racconto, il secondo seguendolo più strettamente, modificandolo il primo, come proverebbe la contraddizione aperta che è tra il contenuto della novella del salernitano e. 1’ argomento, che la precede. Sgraziatamente anche questa non è che un’ ipotesi, ragionevole finché si vuole, ma troppo vaga perchè si possano lasciare per essa i dati di fatto, che possediamo. GIORNALE LIGUSTICO 427 11 primo argomento pare a prima vista più fondato; ma non bisogna dimenticare che quello d’introdurre come narratori altre persone era uso troppo comune de’ nostri novellieri; nel caso nostro poi l’introduzione di Pellegrino è troppo legata con 1’ argomento della novella per non parere artifiziosa. Senza indugiarmi a rilevare come anch’ egli sia innamorato , come innamorato sia il da Porto e d’ argomento amoroso la novella, troppi amori perchè si possa credere il loro incontro puramente casuale, osservo che se Pellegrino è realmente vissuto, era naturale che il da Porto l’introducesse narratore di una novella d’argomento veronese, e che, se egli pure era una fantasia dell’autore, era pur naturale, tanto gli costava lo stesso, che lo dicesse veronese; e siccome l’osservazione mia è giusta egualmente tanto se l’argomento della novella fu desunto dalla tradizione, quanto se fu desunto dal racconto di Masuccio, così nè men a questo argomento si può dare soverchio peso. Ma nel racconto del da Porto c’è dell’altro ancora, chè non si può trascurare com’ egli avverta, che le vecchie cronache veronesi parlano dell’amicizia delle due famiglie, che si pretendon rivali, più tosto che delle loro discordie; qual valore si può dare a queste parole? Vuol dire il poeta ch’egli sapeva come la tradizione, alla quale attingeva, era storicamente infondata, 0 intendeva di avvertire argutamente che il racconto era un parto della sua fantasia o più tosto un rinnovamento di quello di Masuccio, come potrebbe far cre-credere anche il titolo d’ Historia novdlameme ritrovata ? È chiaro, che, se potessimo rispondere a questa domanda, la questione sarebbe risolta; ma qui come nell’altro caso dei mutamenti da lui portati al racconto di Masuccio, il da Porto ci indica le difficoltà da superare, più che non ci dia il modo di venire a una soluzione. Una circostanza, che mi parrebbe favorire chi sta per l’af- 428 GIORNALE LIGUSTICO fermativa, ma che fu trascurata da quanti s’occuparono in questo senso della questione, è Γ introduzione di Bartolommeo della Scala; infatti, se il da Porto non avesse fatto che inventare sarebbe stato più naturale, parrebbe, che introducesse un principe più famoso tra i della Scala, Cangrande per esempio, che così vivi ricordi ha lasciato di se nel nostro popolo (1). Ma all5 introduzione di Bartolommeo si potrebbe sempre opporre il nome di Romeo, che troppo facilmente si riduce a significato allegorico perché non sia inventato. Se alcuno insistesse osservando che il da Porto, imitando da Masuccio, non poteva mutare per capriccio soltanto luoghi e personaggi, si potrebbe rispondere che anche Masuccio, ove fosse vero, come vuole il Torri (2), che s’inspirasse alla leggenda che per tutta Italia correva degli amanti veronesi, avrebbe mutati luoghi e personaggi, e il suo mutamento sarebbe capriccio da vero inesplicabile, perchè si capisce che mutasse il da Porto ripigliando un argomento già entrato nella storia letteraria (3), non si capisce che mutasse il salernitano trattando un argomento ancora vergine. Di più mutò anche il Cieco d’ Adria imitando dal racconto del da Porto la sua tragedia V Adriana, e nessuno mai si pensò di trovare un fondamento storico a’ suoi cambiamenti. (1) A lui mi pare si possa riferire l’invettiva popolare: Can da la Scala, comune in tanti luoghi del Veneto e anche in parecchi fuori del Veneto. (2) Vol. cit. pag. ix e nota c. a pag. xvi. (3) Che con questi mutamenti il vicentino intendesse coprire la derivazione sua da Masuccio è ipotesi più fondata di quella del Frànkel, art. cit., il quale crede che il diplomatico* da Porto cercasse di ottenere tale intento attribuendo la sua narrazione a Pellegrino; aggiunge poi ch’egli indugiò la pubblicazione della sua novella appunto perchè non osava arrischiare un simile plagio del più popolare novelliere del tempo. Quanta delicatezza in un’epoca, che sulla proprietà letteraria era ben lontana dall’ avere le idee nostre ! * Dove trovò il F. che Luigi da Porto fosse diplomatico? GIORNALE LIGUSTICO 429 Nella novella del da Porto niente è dunque che ci possa essere guida sicura ad argomentare Γ esistenza antica di una tradizione popolare; ora quello che non ci dà il primo narratore del tragico avvenimento sarebbe vano domandare a’ suoi successori: le somiglianze del poemetto di Clizia e della novella di Matteo Bandello col racconto portesco sono tante e così strette, che riesce impossibile pensare eh’ essi abbiano attinto, indipendentemente gli uni dagli altri, dalla tradizione. Le differenze son poche e di poco momento e non diventerebbero importanti che quando si trattasse di determinare i caratteri e le varianti della leggenda, dopo d'averne ben provata Γ esistenza. Lasciando dunque i novellieri, vengo al primo storico veronese, che abbia fatto parola del tragico avvenimento, a Girolamo della Corte (1), che scriveva circa un mezzo secolo dopo il da Porto, e che, come mostrò ad evidenza il Todeschini (2), non fece in questa parte che copiare 0 riassumere il racconto del Bandello. Tuttavia la sua narrazione ci offre argomento a qualche importante osservazione, chè egli ricorda di aver più volte veduto il sepolcro dei due a-manti « per lavello al pozzo delle povere pupille di s. Francesco », e di essere stato introdotto nel luogo di questo sepolcro dal cavalier Gerardo Boldiero suo zio, il quale gli aveva mostrato un sito nel muro, « onde, com’egli affermava aver inteso, era stata già molti anni addietro questa sepoltura con ceneri ed ossa cavata ». Queste parole parrebbero stabilire sopra saldo fondamento l’esistenza della tradizione, ma ci deve mettere in guardia il fatto, che non dalla voce del popolo raccolse il dalla Corte questa notizia, bensì dal cavalier (t) L’istoria di Verona, libro X, Verona, G. Discepolo, 1654, vol. II, pag. 589-94. (2) Lettera a 1. Milan nel vol. cit. delle Lettere storiche, pag. 373 e segg. 430 GIORNALE LIGUSTICO Gerardo Boldiero, autorità troppo sospetta per essere accettata così a chius’occhi. Infatti il Boldiero è indubbiamente l’autore del poemetto pubblicato sotto il nome di Clizia veronese, e 1 autore delle stanze, pubblicate sotto il nome di Ardeo, in morte di Clizia stessa, è un poeta, vale a dire, che d’immaginazione n’ aveva assai, e che si piaceva ad accumulare invenzioni su invenzioni. Tutt’ al più le parole del dalla Corte ci potrebbero provare che, quand’egli scriveva, cominciava a correre tra la gente colta una tradizione, della cui origine letteraria non si potrebbe dubitare. Sarebbe strano che la profanazione della tomba dei due amanti, se una tradizione correva anteriormente al racconto del da Porto, fosse rimasta inavvertita fino al dalla Corte; nè vale il dire con lo Scolari (i), il quale del resto contraddiceva grossolanamente a se stesso (2), che il monumento fosse poco curato perchè ricordava un genere di morte, il suicidio, scandaloso alle coscienze d’allora: il popolo è indulgente ai falli dell’amore, e ancora più il romanziere: il da Porto e il Bandello, che parlano di una tomba magnifica eretta ai due amanti, non avrebbero certo taciuto della profanazione. E perchè poi e quando si sarebbe mancato di rispetto a morti, che la tradizione doveva circondare di tanta simpatia? Lo Zambelli (3) azzarda a questo proposito un’ipotesi: l’autorità ecclesiastica, egli scrive, quando successe il fatto tollerò per grazia speciale che i due suicidi fossero sepolti in luogo sacro, ma in un avello senza stemmi e senza iscrizioni; quando poi il da Porto, dando col suo racconto, troppa nomea ai (1) Lettere cit., Ili, 57, (2) Infatti aveva detto, lett. I.a p. 8, che nel trecento il sepolcro era visitato per ammirazione. (3) Cenni storici cit., pag. 15. GIORNALE LIGUSTICO 431 due amanti agitò e commosse le menti, la stessa autorità con postumo rigore cercò, forse, di togliere lo scandalo facendo levare la tomba dal muro della chiesa, disperdere le ossa e profanale l’avello riducendolo ad abbeveratoio. Pe%o ’l iacon del buso, è il caso di dire, chè un tal sacrilegio avrebbe a-gitato e commosso le menti ben più del racconto del da Porto, e avrebbe trovato posto nei successivi novellieri e nello storico dalla Corte, contemporaneo, o quasi, alla proianazione. Ma è inutile fermarsi su questo punto, chè nessuno, il quale abbia un po’ di buon senso o non sia acciecato da uno strano campanilismo può credere che l’abbeveratoio dell’orto delle Franceschine sia da vero la tomba dei due amanti. Pure la tradizione lo dà per tale : a questo io credo si possa trovare una spiegazione in tutto soddisfacente. Quando si pensa che il racconto del da Porto trovò subito la più larga accoglienza, come quattro edizioni e parecchie derivazioni tutte del secolo XVI, anzi dei primi trent’anni dopo la sua pubblicazione , provano all’ evidenza, e che con esso doveva diventar famoso il tragico avvenimento, non parra strano che non mancasse chi, forse ingenuamente, anzi con 1 ingenuità solita di certi lettori di romanzi, volesse pigliarsi la soddisfazione di dare un corpo reale alle fantasie che tanto 1 avevano commosso, e indicasse a se stesso e a’ suoi concittadini come tomba dei due amanti la cassa di pietra, che si trovava pei caso presso il luogo dove si diceva eh’essi fossero morti, e che con un pò di buona volontà si poteva far passare per un avello scoperchiato e profanato. Non si può pensare che per i casi di Romeo e di Giulietta avvenisse quanto avvenne per quelli di Renzo e di Lucia? Quanti non s arrabbattarono per trovare il luogo preciso della casa di Lucia Mondella, del convento di fra Cristofoio, del palazzotto di don Rodtigo? Se le loro indicazioni non trovarono fortuna, la colpa tu dell’ età men credula e in parte pure dell arguto romanziere. 43 2 GIORNALE LIGUSTICO Ma nel cinquecento le prime timide e incerte affermazioni di qualche fantasia riscaldata si fissarono naturalmente e si precisarono col crescere della fama del tragico avvenimento, finche la tradizione terminò con l’imperniarsi intorno a questo punto dalle classi colte divulgandosi nel popolo. Il Ricci (i) nota a questo proposito che il famoso sepolcro deve esser stato battezzato per tale da qualche burlone « a tutta edificazione dei credenzoni e dei merli » ; ma qui 1’ illustre critico mi pare manchi a se stesso e non veda l’appoggio che da alla sua tesi questa solenne consacrazione di un rozzo lavatoio di pietra. Il popolo, egli dice, nell’ intensa brama di pace e di conciliazione, immaginava una leggenda che tosse come il simbolo dei suoi desiderii; ora, meglio di una leggenda, cosa immateriale, doveva essergli simbolo de’ suoi desiderii questo sepolcro e in esso il Ricci doveva vedere non soltanto lo scherzo di un burlone, ma una prova efficace dell’ azione che su quelle anime assetate di pace doveva esercitare un monumento, fosse pure apocrifo, che ricordava come odii accaniti si conciliarono nella pace solenne della tomba. Un’ altra prova dell’ origine letteraria della nostra leggenda si può trarre, e senza sforzo affatto, da un argomento che il Torri (2), con bastevole ingenuità, adduce in prova della verità storica del pietoso avvenimento, ed è 1’ esistenza in Verona di una famiglia Cappelletti, le donne della quale portavano il nome di Giulia. Infatti 1’ albero di questa famiglia comincia soltanto nel 1427, troppo tardi perchè si possa desumerne la verità del fatto, e la prima Giulia vi trova posto verso la metà del secolo XVI, troppo tardi perchè a una (1) Art. cit. pag. 5 dell’estratto. (2) Vol. cit. pag. 61-62, dov’è 1’ albero dei Cappelletti. GIORNALE LIGUSTICO 433 tradizione famigliare più tosto che all' azione dei novellieri si possa attribuire tale circostanza. Ma che la leggenda veronese sia d’origine letteraria e dati soltanto dal cinquecento, meglio di ogni altro argomento prova lo svolgimento suo perfettamente parallelo allo svolgimento della fama del da Porto prima, poi dello Shakespeare. Nel cinquecento, come, io credo, dimostra a sufficienza quanto ebbi già occasione di dire, la leggenda si formò ed ebbe un primo svolgimento parallelamente al diffondersi non tanto del racconto portesco quanto del fatto che gli fu argomento, la fama del quale presto passò Γ Alpi giungendo verso la fine del secolo alle orecchie dello Shakespeare: in poco più di cento anni s’ebbero quattordici redazioni della nostra leggenda in Italia, in Francia, in Spagna e in Inghilterra (i). Ma in Italia s’arrestò presto, prima della fine del secolo (2), lo svolgimento della leggenda che nel seicento tacque affatto col tecere della fama del novelliere vicentino : infatti non un’ e-dizione s’ha, di quel secolo, della novella, e un solo inco-cludente ricordo del tragico avvenimento nei versi del cronista veronese Antonio Gaza, che per giunta ne parlò soltanto nella seconda edizione della sua Catena historiale veronese (3) pubblicata nel 1653 (4). Il silenzio cominciò a rompersi, ma fiocamente, nella prima metà del secolo XVIII, in cui s’ ha (1) Dal 1530, data della prima edizione della novella portesca. Di queste redazioni vedi il catalogo nell’articolo citato del Frànkel, il quale però prende le mosse dal racconto di Masuccio, mentre sarebbe inutile tenerne conto non essendo dovuta a lui la fortuna della leggenda. (2) L’ultima redazione italiana cinquecentista della nostra leggenda è quella srorica, diciamola pur cosi, del dalla Corte, che scriveva circa il 1580. (3) Evidentemente dopo una lettura dei novellieri. (4) Verona, per Francesco Rossi 1653, libro I, pag. 12, verso 265. Giorn. Ligustico. Amo XIX. 434 GIORNALE LIGUSTICO Γ edizione vicentina del 1731 della novella (1) e la pubblicazione dei Supplementi del Biancolini alla Cronica vet onese dello Zagata (2): Γ editore della novella non fa parola della leggenda, e lo storico nega la verità dell’ avvenimento. Nel 1754 usciva nel Novelliero italiano dello Zanetti una nuova edizione della novella; e nel 1770 lo. storico veronese Alessandro Carli Ç3) riprendeva a narrare con compiacenza di novelliere meglio che con severità di storico, le dolorose avventure dei due amanti, e concludeva: «. di questa che vo-gliam forse annoverare tra le favole colorate dalla fantasia degli scrittori, sussiste uno in ver poco autentico monumento nell’orto unito alla stessa chiesa, oggi detta delle Franceschine ». In quel torno di tempo anche l’Alfieri pensava di comporre una tragedia sull’ argomento di Giulietta e Romeo, ma tosto ne lasciò l'idea (4): novella e leggenda potevan parere dimenticate, finché nel 1795 ricominciarono le edizioni di quella e si seguirono numerose e a breve distanza di tempo: dieci se ne contano dal 1795 al 1836, di cui quattro nel solo anno 1831 (5). A che attribuire tanto improvviso e largo rifiorimento? La risposta riesce facile e spontanea quando si pensi che intanto, grazie alle traduzioni o meglio agli adattamenti francesi, anche fra noi si cominciava a far buon viso al teatro shakespeariano. Sgraziatamente ci manca una storia della fortuna dello Shakespeare in Italia, che riuscirebbe per tanti versi opportuna (1) Vicenza, per il Lavezzari i 731, col titolo : Rime e Prose di M. Luigi da Porto. (2) Cronica della città di Verona ampliata e supplita da G. B. Biancolini, Verona, 1745. (3) Storia della città di Verona, vol. IV, pag. 145. (4) Vita, epoca IV, cap. IV (1777). (5) Cfr. il catalogo bibliografico in calce al volume del Torri tante volte citato. GIORNALE LIGUSTICO 43 5 e importante, si che non possiamo dire quando cominciasse a esser noto tra noi; certo il Goldoni n’aveva meglio che una vaga notizia, se nel 1756 ne parodiava nella commedia / malcontenti qualche ingenuo imitatore e ne azzardava un giudizio; tuttavia credo che non si vada molto lungi dal vero ritenendo che soltanto nell’ ultimo quarto del secolo scorso e per derivazione francese il suo teatro acquistasse anche tra noi importanza letteraria. Nel 1769 il Ducis cominciava i suoi rifacimenti (1), dal 1776 air 82 usciva la traduzione del Letourneur; nell’ 82 il Mercier rinnovava nei suoi Tombeaux de Verone il Romeo and Juliet dell’inglese e trovava nel 97 un traduttore italiano : che a fonte anglo-francese più tosto che a italiana attingesse l’Alfieri mi par giusto sospettare e che il Carli dica chiaramente della fortuna teatrale di Giulietta e taccia della novellistica mi par provare all’evidenza, che non alla novella del vicentino, ma al dramma dell’inglese si deva attribuire questo nuovo rifiorimento della leggenda. Che poi la fama dello Shakespeare cominciasse in questi anni a divulgarsi tra noi e andasse sempre crescendo le prove abbondano e non è qui il luogo di esporle; e che la fiima del da Porto non fosse oramai più che un riflesso di quella lo prova il fatto che parecchie delle edizioni su ricordate della sua novella s’ accompagnano a una traduzione del dramma shakespeariano, e tutte ne subiscono manifestamente l’influenza. Nel 1808 si rappresentò a Verona per la prima volta il melodramma Giulietta e Romeo del maestro Zingarelli; quanta azione e come immediata esercitino sulla folla le opere in musica tutti sanno, e quanto straordinariamente efficace dovesse riuscire questa rappresentazione nella città che si voleva (1) Del 1769 è il rifacimento dell 'Amleto, del 1772 quello del Romeo e Giulietta. 436 GIORNALE LIGUSTICO teatro del tragico avvenimento, è facile pensare; quindi, se a questa circostanza aggiungiamo i pellegrinaggi degli inglesi, diciamoli pur così, alla pretesa tomba dei due amanti, tra i quali doveva specialmente colpire le fantasie quello della vedova di Napoleone (i), n’avremo abbastanza per persuaderci che ora appunto la leggenda dalle classi colte dovette passare nel volgo e acquistare quella larga popolarità di che ora gode. Il movimento romantico, la gloria nuova dello Shakespeare in generale e in particolare del suo dramma Romeo and Juliet, la pittura, la musica, la poesia, che andavano a gara nel rappresentare i tristi casi dei due amanti (2), dovevano favorirne lo sviluppo, sì che quello che in origine era, probabilmente, raffinatezza di lettore sentimentale 0 invenzione di qualche capo ameno, finì col diventare fede inconcussa di popolo. E le menti più colte cedettero anch’esse, e mentre il Venturi nel suo Compendio della Storia di Verona gettava nel 1825 un grido di protesta contro la favola gabellata per storia, il da Persico nel 1820 invitava il forestiere, nella sua Guida di Verona, a visitare la pretesa tomba, lo Scolari e il Torri finalmente gareggiavano nel raccogliere ogni argomento che potesse provare la verità del tragico caso, e con tanto più d accanimento che, veronesi, credevano di affermare una gloria di Verona assicurandola patria dai due amanti: ai motivi (1) Compiuto nel 1828; l’ex imperatrice per di più si fece fare con frammenti della tomba una collana e un paio d’orecchini (Cfr. Guenifey, Histoire de Juliette Cappelletti et de Romeo Montecchi, Paris, Fournier, 1837, PaS· 7· nota 1). Chi conosce, specialmente dalle Lettere il carattere di Maria Luigia, vedrà facilmente come tanto entusiasmo doveva essere pretta questione di moda, il che non toglie per niente che dovesse stranamente impressionare le ingenue menti popolari. (2) Cfr. nel cit. vol. del Torri la lunga lista delle composizioni italiane e straniere su questo argomento, lista di cui mi valsi in questa rapida esposizione. GIORNALE LIGUSTICO 437 che abbiamo di diffidare della verità storica del pietoso avvenimento dobbiamo dunque aggiungere anche 1’ amor di campanile, di quelli, che più calorosamente la sostennero. E quando, sbollito Γ entusiasmo romantico e ridotta a giusti limiti Γ ammirazione per lo Shakespeare si fece forte la voce della critica, rimase pur sempre la leggenda popolare a fermare una negazione risoluta sulle labbra dello storico. Ma dimostratane ora 1’ origine letteraria e seguitone passo passo lo svolgimento, che parte, a non dubitarne, dalla novella del da Porto e s’imposta prima sulla lama di quella poi, dopo un secolo di silenzio, sulla gloria dello Shakespeare, vien meno di per se ogni argomento addotto a provarne la verità, e diventa necessario il concludere che lo scrittore vicentino a niente altro attingesse che alla novella di Masuccio, introducendo 1’ arciere Pellegrino per artifizio comune di novelliere e mutando luoghi e personaggi per semplice vaghezza d’artista, che pur imitando vuol far cosa nuova, e che a questo appunto egli argutamente accennasse dicendo delle cronache veronesi. Queste le conclusioni della critica, e parrebbe dovessero contraddire alle parole del Ricci, che riportai incominciando , e tanto più che similmente si può dire dell’ altre leggende ch’egli ricorda, tutte manifeste invenzioni di poeti e di novellieri. Ma sian queste leggende d’ origine letteraria o sian d’origine prettamente popolare, poco importa; quello che importa è il larghissimo favore eh’ esse incontrarono nel popolo, fino a divenire cosa tutta sua, fino a carpire la consacrazione solenne della storia. Onde il Ricci ha ragione, benché sotto altra forma, parmi, deva essere espresso il suo pensiero: non il popolo, nell’ intensa brama di pace e di conciliazione, immaginava la leggenda, tna i novellieri fantasticavano, o inventando o raccogliendo da leggende prediffuse accomodandole così da dimostrare come l’amore prepotesse sull’ odio 438 GIORNALE LIGUSTICO di parte, sull odio il più grande perchè trasceso al delitto e alla guerra; non dal cuore del popolo nascevano le figure gentili poi famose coi nomi di Dianora dei Bardi, di Imelda Lambertazzi, di Elisabetta da Messina, di Giulia Capuleti, ma i novellieri le immaginavano o le ricolorivano su vecchio disegno, e le loro immaginazioni, perchè rispondevano a sentimenti generali e profondi, perchè incarnavano ideali, cui tutti sognavano, perchè contenevano qualche cosa che nel- 1 anima umana vive e palpita sempre, si estendevano e si perpetuavano divenendo cosa tutta del popolo (i). Così si formarono queste leggende d’amore, delle quali la più fortunata fu, e ancora rimane, quella di Giulietta e Romeo, la più bella e più armonicamente completa, e quella che trovò la più alta espressione artistica. Ma nella storia di questa nostra leggenda questo mi par specialmente notevole, che il punto culminante della sua fortuna coincide con gli anni più tristi della nostra servitù, con quegli anni nei quali 1 amore tra nemici più non era bramato come apportatore di pace, ma maledetto come sentimento di rin negati, allora Clarina non sorrideva, come Giulietta, di dolce speranza al pensiero che il suo amore potesse apportare la pace tra gli oppressi e gli oppressori, ma gelava di spavento solamente sognando d esser divenuta sposa a un tedesco, e la gente lasciava sola e sprezzava la sventurata che aveva dato il cuore e la fede allo straniero. Vero è che alle lotte tra popolo e popolo non si può estendere quello eh’ è naturale e spontaneo nelle lotte intestine tra gente d’ un sangue medesimo; ma è pur sempre notevole, che allora, che da per tutto si vedevano allusioni, e tutto si traeva a significazione politica, che la letteratura fremeva d’amor patrio e che l’odio (i) Cfr. il cit. art. del Ricci, a pag. 12-13-15 dell’estratto. GIORNALE LIGUSTICO 439 più accanito infiammava i petti, è pur sempre notevole che allora tanta fortuna incontrasse la pietosa leggenda; prova di questa migliore non si potrebbe dare che l’anima nostra, come dimostra il Ricci con acutezza di critico e genialità d’artista , quando più è stretta dal male sente il bisogno di sollevarsi sopra le miserie del mondo, e sogna tempi migliori e assurge a sentimenti alti e sereni confortandosi ne suoi sogni e in splendide e soavi fantasie, che incarnano ideali imperituri e consacrano l’onnipotenza eterna del— l’amore. Verona 22 luglio 1892. Gioachino Brognoligo. VARIETÀ I COLORI NELLE TRADIZIONI POPOLARI. Una gran parte dei vocaboli di ogni lingua sono onomatopeici; l’uomo li trasse dai fenomeni della natura (pioggia, tuono, fulmine, vento ec.); dalle voci degli animali, dal canto degli uccelli (bue, cavallo, pecora, cane, civetta, cucolo, gallo ecc.); dalle esclamazioni d’ira, di affetto, di dolore, dell’ uomo stesso. Ma il linguaggio non consta soltanto di suoni; si può parlare anche agli occhi, ed i gesti, i colori nelle vesti, nelle insegne, sono altrettanti vocaboli visibili, che rappresentano nella scala cromatica il pensiero dell uomo, al pari delle lettere dell’ alfabeto e delle note della musica. Di questi colori non distribuiti a caso, ma secondo dati principii fisici e chimici, l’uomo ricavò alcuni dalla terra, altri dalla natura che lo circonda, dagli animali domestici e selvatici, altri, passati una volta nel dominio della civiltà a rappresen- 440 GIORNALE LIGUSTIGO taie idee e sentimenti diversi, rimasero come concomitanti del linguaggio (come avvenne di molti vocaboli) andarono in disuso e rinacquero. Oggi noi chiamiamo gialloneri (in Italia) gli Austriacanti, rossi i Repubblicani, cimurri i Monarchici, come nei circhi della Roma imperiale, e di Bisanzio, le varie fazioni politiche avevano i loro auriga dalle diverse nappe, segnacolo in vessillo, sicché spesso l’impero fu per esseie rovesciato, dalla vittoria dell’una o dell’altra fazione vincitrice nelle corse del Circo. Le bandiere nazionali, il segno mobile, esteriore, delle idee politiche di un popolo, furono sempre guardate con religioso rispetto, perchè rappresentano il culto della patria: alla loro vista palpitano i cuori, si destano gli spiriti guerreschi, «.essano gli odii, rinascono le speranze; si ama, si spera, si crede, come quando si sentono le care arie degli inni nazionali. Allorché il fiero popolo dalmata dovette abbassare l’amata bandiera della Repubblica Veneta, alla quale aveva legata la propria esistenza per tanti anni, un dolore generale invase gli animi; si celebrarono i funerali di quella patria insegna, e si seppellì fra il compianto generale in chiesa. Così, i colori, come i suoni, diventano aiuto efficacissimo del linguaggio, e nella storia dei popoli non possono essere trascurati, perchè fanno parte della loro civiltà. Quindi invano il feroce vincitore degli Ebrei, invitava quel popolo tratto prigioniero sulle nve del fiume di Babilonia, a cantare uno di quei cari inni patri; che aveva eccheggiato fra le vie di Gerusalemme; sulla terra d’ esilio, e col cuor dolente, la loro lingua rimase muta. E quando gli Spagnuoli proscrissero i quipos, scrittura consistente in nodi di fili di varii colori, propria dei Messicani, per insegnar loro il nostro alfabeto grafico, quel popolo chi pure aveva una grande civiltà, dimenticò il suo passato e spai ve: nei prosaici caratteri di inchiostro nero su carta bianca, aveva visto scritta la sua sentenza di morte. GIORNALE LIGUSTICO 441 Esaminiamo ora il valore ideologico dei diversi colori e vediamone Γ applicazione. BIANCO. I popoli Indo-Ariani, dalla luce che quasi bianca illuminava le nivee montagne, ai piedi delle quali primieramente abitarono; dalle bianche nuvole che si sollevavano dai piani e da quelle che sorgevano dai roghi sui quali erano bruciati i primi padri della nostra razza; dalla bianchezza delle foglie pubescenti dei vegetali, delle carni dei neonati, delle lunghe chiome e barbe fluenti dei vecchi, dei cerei visi dei morti; associarono al color bianco l’idea della luce, della religione 0 della memoria dei morti, della fede in una vita futura, della dignità, dell’onore, dell’innocenza, della superiorità, della bellezza. Brunetto Latini nel suo Tesoro scrive: aver bianca ragione per indicare santa e chiara ragione, E per mostrare che con buone e sante parole si può ingannare altrui dice di un tale: E per Manche parole Inganna altrui sovente. Dante nell’ ottavo canto del Paradiso dice : vuoi tu chi questo ver più ti si imbianchi? cioè ti si spieghi? ti si illumini? 1 Persiani consideravano il Mercoledì come giorno bianco, cioè felice, perchè ritenevano che la luce fosse stata creata in questo giorno. Il corvo ed il cigno erano consacrati ad Apollo, al Dio della luce, perchè indicano il giorno e la notte, la luce e le tenebre; il pioppo bianco era consacrato a Saturno, a Cronos, il tempo, perchè colle foglie bianche e nere, indicava i giorni e le notti. Ai nostri morti noi invochiamo nell’ ultimo vale la luce perpetua, e diciamo fuoco bianco il massimo calore e colore dei metalli arroventati, e voci bianche le più 442 GIORNALE LIGUSTICO acute, le quali nei suoni spiccano e sono più sentite delle altre, come il colore bianco si avvicina alla luce che tutto illumina. Dall’indicare la luce, il bianco passa ad indicare la religione, la memoria dei cari morti, la fede. Quindi i Sacerdoti Egizi, i Sacerdoti Greci e Romani vestivano di bianco, rappresentando così quel soprannaturale, quella credenza nella vita futura in nome della quale parlavano. Ed i Re, i Capipopolo, prima ancora che vestissero la porpora, vestirono di bianco. Infatti bianche erano dipinte le umbrae o le anime dei morti ; bianchi, cioè fausti, e sotto la protezione dei morti stessi eran detti i giorni lieti, e neri gli infausti ; bianchi erano i buoi sacrificati, e se non lo erano si imbiancavano con la creta, onde il nome d; bos cretatus o bue da sacrificare. Nel segnare i confini di una città da fondarsi, ad evocare gli antenati, si faceva intorno ad essa un solco, con un aratro tirato da un bue ed una vacca bianchi. E quando la sorte per le intercessioni dei morti o degli Dei (che sono i primi morti di ogni popolo) volgeva favorevole ai Romani, essi dicevano che quello era dies albo signanda lapillo, e rappresentavano bianca la fede (Fides alba), (i) bianca P allegrezza e P amicizia. Bianco era il cavallo che i Persiani sacrificavano al sole, e quello su cui le vedove indiane salivano per andare al rogo che le doveva bruciare col cadavere del marito. Bianco il velo delle vedove romane; bianco il vestito (2) che i Siracusani e gli Argivi indossavano nel lutto, e che i Romani vestirono nei funerali di Cesare: colore che è tuttora di lutto pei Cinesi, e per le Corti di Germania e di Inghil- (1) Fides albo velata amictu — Orazio — Leuche dicevasi un’isola del Mar Nero dalle bianche (gloriose) anime degli eroi che ivi credevansi abitare. (2) Nei funerali gli Annamiti vestono di bianco. GIORNALE LIGUSTICO 443 terra, come lo era nel Medio Evo in Italia, quando Dante ricordava la vedova di Nino Giudice di Gallura, colei ...... che tramutò le bianche bende Le quai convien che, misera, ancor brami. Nella Brettagna francese quando qualcuno sta per morire, passa secondo il volgo il cariquel ancu, il carro della morte coperto di bianco lenzuolo, guidato da scheletri che vengono per portar via il loro confratello bianco. Gli Spagnuoli schivano di cavalcare i cavalli ar^el, che hanno bianco il piede destro posteriore, perchè portano sventura mortale a chi se ne serve; dicono che ar^el fosse il cavallo che portò sventura a Seiano ed agli altri che lo possedettero. Come ricordo della religione, ed accenno alle bianche chiome ed alle lunghe barbe fluenti dei vecchi, il bianco diede dignità delle persone che se ne vestivano. Dante al venerabile Catone attribuiva: 'Lunga la barba e di pel bianco mista, e per indicare gli angeli ed i Beati, or si serve della frase: il Convento delle bianche stole, or dell’altra: che nulla neve a quel termine arriva. E Cicerone nel 2.° libro de legibus scrive: Color albus praecipue decorus deo est, quam ccetero tum maxime in textili, tincta vero absint nisi in bellicis insignibus. La Storia è rappresentata in veste bianca, simbolo di dignità e di verità. La Setta dei Flagellanti sorta nel 1258, era detta dei Bianchi dal colore del vestito. Gli antichi sacerdoti Germanici gettando in aria i bastoncini coi quali interrogavano il volere dei Numi, li raccoglievano in bianco mantello, ad indicare a santità dei responsi. Plinio nota che i topi bianchi laetum faciunt ostentum. I sacerdoti greci usavano portare scarpe bianche (fecasii), soliti calzari dei supplicanti e dei divoti, chi* pellegrinavano ai Santuarii dell’antichità pagana: uso mantenuto anche da pellegrini cristiani, come vien ricordato da un canto monferrino, notissimo nell’Italia Superiore, che dice: 444 GIORNALE LIGUSTICO Piligrin chi ven da Rumma Scarpe bianche i j fan ma’ i pè. Il tabù o la consacrazione di un oggetto, dagli isolani di Sandwich si faceva piantandovi intorno bacchette di legno bianco; Bianchi erano i bastoncini, dai quali gli antichi sacerdoti Germani, ai tempi di Tacito, traevano i responsi della Divinità. Bielobogh, Dio bianco, era presso i Vareghi il Dio buono, del bene, contrapposto a Cernìbogh il Dio del male, Dio nero come il nostro Demonio. I Fratelli Arvali eran vestiti di bianco quum lustrarent arva, come i nostri sacerdoti che hanno camice e cotta bianca, per implorare meglio l’aiuto della Divinità. Persio nella satira 2.“ dice di un birbone che osava pregare gli Dei: Iupiter haec illi quamvis te albata rogarit Il Negato, ramo che i supplicanti portavano in mano era coperto di bianche bende. Il popolo dei Jakuti crede che un messaggero detto Uchsit sotto forma di un bianco cavallo, porti le loro preci a Dio. Nella vita di S.a Francesca Romana pubblicata dal Muratori e detto : pulcherrima divita est color albus, color sacro, anche perchè come dice un antico verso cristiano: Castam designai vitam toga candida. Bianco era il peplo di Minerva, protettrice di Atene, come bianco il vestito degli Ilarodi, specie di sacerdoti-giullari, cantanti piacevoli versi in onore degli Dei. S. Clemente Alessandrino condannava tutti i colori eccetto il bianco, proprio degli Esseni, e dei frati Certosini che li imitarono. Dagli antichi pittori il Padre Eterno venne dipinto con veste bianca, e prima che Gesù Cristo fosse dipinto con rossa tunica e manto azzurro, venne dipinto con mantello bianco su tunica rossa, per indicare innocenza e carità. GIORNALE LIGUSTICO 445 Dalla religione al potere civile è breve il passo, essendo le antiche monarchie di diritto divino originate dal legame che ha il Sacerdozio col Principato. I Re di Persia eran tirati negli aurei cocchi da bianchi cavalli. Nell’incoronazione dei Re Indiani portavasi davanti ad essi il crinito candido flabello, (che si porta pure davanti il papa quando va in sedia gestatoria), si conduceva il bianco toro (bianco era pure il Dio Api od il Bue sacro degli Egizi); bianco il cavallo, proprio dei Re e dei trionfatori (nell’Asia come a Roma), sul quale il neo-principe doveva salire, come Couberen Dio delle ricchezze, che viene rappresentato su bianco cavallo. Il Re di Siam si intitola anche oggi: Re dell’elefante bianco e delle 24 bianche ombrelle. Presso i popoli Slavi, bianchi devono essere: i Principi, i Santi, i buoni, i forti. Infatti bianco è il Cremlino, bianco lo Czar, bianco l’angelo della pace (1), bianca la costanza e la pazienza, bianca la città capitale, (Bielo-grad) città bianca. La prima volta che il papa neo-eletto esce in pubblico va vestito di bianco, e in tale vestito viene spesso dipinto. L onore non patisce macchia, è bianco, anzi candido ed immacolato come perla in bianca fronte. Svetonio narra che Galba fece coprire di bianchi indumenti il cadavere di Nerone (per far onore al morto e dargli un postumo e molto dubbio attestato di stima, essendo egli succeduto violentemente a quell’imperatore), e che condannando alla croce un tutore che aveva avvelenato un pupillo, gli fece imbiancare la croce, perché gli sembrasse più onorevole e leggera. I Voloni, ossiano quegli schiavi che militando ottenevano la libertà, mangiavano prima della battaglia col capo velato (i) Sul ponte sventola Bandiera bianca. Fusinato. 446 GIORNALE LIGUSTICO üi ana bianca; i cavalieri del M. E. vegliavano le loro armi in veste candida, la notte antecedente al giorno in cui dovevano essere armati, e forse a quest'uso si riferisce l'espressione: far la notte bianca, per dire vegliare tutta notte (i). Umberto Biancamano fu detto così dall* onestà delle sue opere. La bianchezza della carnagione nel viso e nelle mani è argomento di bellezza nei canti popolari. Un rispetto toscano dice : Fioriti di grano, Chi vi farà dell’ anellino il dono, Chi ve la toccherà la bianca mano? Anche nei Canti monferrini P amata ha sempre le mani bianche: invece in Sardegna l’innamorato non bada alle mani, bada al viso, e dice spesso: cara branca che nie, cara chei su nie, faccia bianca qual neve, viso qual neve (bianco). Orazio ad Apollo attribuisce bianche spalle: Nube candentes humeros amicius Augur Apollo. NERO. E 1’ antitesi del bianco (per gli occhi) ; è il colore della mestizia, dell’odio, della disperazione, dell’umiltà, della decenza. Il lutto pubblico e privato, sacro e profano, si ostende nelle vesti, nelle bandiere, nelle vele abbrunate [Carbasus obscura ferrugine hibera] nella toga palla, nigra, sordida propria degli accusati e dei supplicanti nell’ antica Roma. Nei vòceri còrsi la donna che piange chiama se stessa, la tinta; dice che il giorno della morte del suo caro, è più nero della (i) Facubasi, o tempio del cavallo bianco chiamano i Giapponesi, quello dove per la prima volta si predicò la dottrina di Budda. GIORNALE LIGUSTICO 447 notte. Negli attilidos sardi la prefica trova nera la camera del morto, nieddu est su aposentu ; il luogo luttuoso, su locu luttuosa ; oscuro il cortile, oscurada e’ sa corte; ella porta bende nere, fettas nieddas, e veste di vedova, sa este e’ de gattìa (i). I Greci davano il nome di Melena a Cerere, vestitasi a lutto per il rapimento di Proserpina, ed a Venere di Melanida, perchè amica dell’ oscuro. Vesti nere indossavano nei funerali i Sacerdoti di Roma antica: nere e paonazze sono le pianete dei Sacerdoti cristiani nelle messe funebri e nell’ ottavario dei morti. Nelle città assediate le bandiere nere poste sugli edifici, indicano che il locale è sacro al dolore e va rispettato. Tuttociò che apporta od indica dolore dev’ essere di cclor nero: nera la morte, atra mors, nera la notte atra nox (2) che arreca le paure ai credenzoni; nera la fame che soffrono i poveri; neri i giorni della prigionia; nere le fave che danno parere contrario; neri i corvi e gli avoltoi che si pascono di carogne; nero il diavolo, Re dell’eterno dolore, come era nero Plutone a cui si sacrificavano nere vittime, come eran neri nella mitologia scandinava gli spiriti dell’inferno (Doch-alfar), mentre gli angeli erano bianchi (Liòs). Fin dall’antichità i popoli Indo-Europei dipingevano i loro nemici (Racsasi) di color nero, e la tradizione rimane ai loro discendenti. Anche per gli Arabi, gli angeli Muncbir e Nechir che tormentano i malvagi, hanno nere ali di vipistrello. Per l’azione che esercita l’idea annessa a questo colore, le donnicciuole in Monferrato curano il male di punta, colla soprapposizione di una gallina nera, spaccata in due e messa a nudo sulla parte (1) Baltìa,gattìa,àttia, vedova abbrunata come uno schiavo, che per duolo della perduta libertà, veste di nero. A Palermo la passeggiata dei Vedovi è detta dei Cattivi. (2) Orazio chiama nere le fila delle Parche: Fila atra trium sororum, e dà alla morte nere ali. 448 GIORNALE LIGUSTICO dolente; e allontanano i gatti neri dalle culle, sospettando che sotto quel nero velame possa esservi qualche strega. L odio si manifesta anche con colori neri: i nostri nemici hanno nere intenzioni; sono pieni di atra bile; hanno l’anima nera, e la coscienza sporca come la cappa del camino. La disperazione poco diversa dalla morte è pure indicata dal color nero. Dante nell’inferno tutto dipinge a nero: dalle parole di color oscuro che ei vede scritte al sommo della porta, fino all uscita dal bufo regno. Il luogo è cupo; e un carcere tetro e cieco; è un tristo buco; ivi la poesia è morta; ogni valle è tetra e feda; l’aria vi è tinta; bruna 1 onda; btija la campagna; negra la belletta; folta la nebbia; Ioide le strade; frondi non verdi, ma di color fosco; il masso livido e di colore ferrigno; perfino il sangue è bruno. I dannati hanno 1 aspetto cotto; sono gente sconcia; trista per vergogna, con aspetto tinto e brollo, barba unta ed atra: i demoni sono angeli neri che hanno viso caglialo, e son perseguitati da cagne nere e fameliche; anche Orazio aveva detto: visendus ater Cocytus. Però c e un nero chiaro, un color bruno della faccia e dei capelli, che piace. Il cantico dei cantici ricorda Nigra sum sed formosa, riportato nella nostra Brunetta o Brunettina cantata dal Poliziano, ed i proverbi dialettali d’Italia ripetono: Terra nera, buon grano mena (Toscana) Tera neira fa bun gran; tera bianca al fa van (Monferrato) ecc. Anche in Sardegna, dove in generale i visi bruni, a causa del clima, sono comuni, niedda, nieddu^a, sono epiteti di bellezza e leggiadria. Aristotile asseriva che il latte delle donne brune era più (i) Calli, la dea della morte presso gli Indiani, è dipinta con vesti nere: calli è detto anche l’inchiostro; in latino abbiamo atranox, e atramentum, inchiostro. GIORNALE LIGUSTICO 449 sano che quello delle bianche, ed altrettanto ripeteva del latte delle pecore nere. Un sonetto di Nicolò da Correggio dice che il negro imporla fermerà. Nel vestito nero spicca più la bianchezza del viso e delle carni, dando serietà e maestà alla persona. Fin dai suoi tempi Marziale notava che: Roma magis fuscis vestitur, Gallia rufis. I Sacerdoti di Mitra, o del sole presso i Persiani, perchè vestivan di nero eran detti ierocoraci (sacerdoti vestiti di abiti color dei corvo), epiteto risuscitato ai nostri giorni per indicare i preti cattolici. I frati Basiliani ed i Benedettini (ordini monastici antichissimi) vestivano di nero propter humilitatem. Nell’Impero Turco, i soli sacerdoti maomettani vestono di vivaci colori: i preti degli altri culti vestono tutti di nero, come i rajà. Il popolo sardo che tiene moltissimo del Romano antico, veste in gran parte di nero. Gli Spagnuoli introdussero quest’uso fra i Nobili d’Italia: dal 1600 in poi tutti, nobili o no presero a vestire di nero. Il clero basso li imitò, ma il clero alto continuò a vestire i suoi vistosi ed allegri paramenti; come avevano vestito gli Italiani nei bei tempi di lor possanza. Nelle allegre e forti Repubbliche italiane il vestire di nero fu lasciato soltanto ai Medici ed ai Notai. Oggidì il nero è il color del vestito della gente civile, dei ricchi o di chi vuol parere tale, non solo in Italia ma in tutta Europa, anzi in tutto il Mondo. Ai battesimi, ai funerali, alle nozze, alle feste civiche, ai balli, tutti veston di nero: è un lenzuolo funerario universale. Pazienza se vestono di nero i Professori quando sono in cattedra ed i Giudici quando siedono prò tribunali, ma nei balli il nero disdice davvero : infatti qualche zerbinotto ha cominciato a mettere il frak rosso. Giorn. Ligustico. Attuo XIX. 29 450 GIORNALE LIGUSTICO AZZURRO E VIOLETTO. Sono colori che si avvicinano al nero, e per la Chiesa Cattolica come per gli antichi Germani, accennano ai defunti, e per analogia, alla Divinità, al Cielo. Vairevert terzo figlio di Siva, il Dio distruttore degli Indiani, è vestito di azzurro: Narajan lo spirito divino errante sulle acque, si rappresentava sotto la figura di uomo vestito di manto azzurro, al pari di Eia (figlia di Locke) dea della morte secondo gli Scandinavi, che aveva il corpo metà dipinto d’ azzurro e metà di carnicino. Blacullo, Dio degli Scandinavi, o dai capelli azzurri, era detto Niord Dio delle acque, come Nettuno dai Romani detto Caeruleus frater. Gli Egiziani rappresentavano Cnef, 1’Ente supremo, sotto figura di uomo vestito di vesti azzurre come il cielo (al pari dei Cristiani che raffigurano con manto azzurro il padre Eterno); ed avevano amuleti in forma di scarabei verdi ed azzurri (la speranza posta nei morti, negli Dei). Matilalcuja, Dea delle acque presso i Messicani, era vestita di cilestro, e di questo colore dipingevano i Romani vestita la Notte e la Fortuna od il Destino. L’ azzurro è il colore della pace, della calma, della celeste beatitudine, quel dolce color d orientai %ajfiro che Dante trova nel Purgatorio, e che attribuisce ai Beati, i quali: coronati venian di fiordaliso. I Pittori Cristiani antichi dipingendo la Madonna le attribuirono 1 azzurra veste e la luna falcata, già distintivo della Vergine Diana, e dell Aurora presso i Greci, e della Saranyu vedica (la. Erinni ellena) che sorgendo prima del sole, nel suo splendido manto di azzurro, scopriva colla sua luce, gli inganni fatti dagli uomini durante la notte. L’azzurro è anche il colore di Casa Savoia, che al risorgere della Nazione italiana, dalle Alpi vigilate, coll’astro di Carlo Alberto, guidò il nostro Paese all’unione, alla libertà, all’indipendenza. Maometto GIORNALE LIGUSTICO 4SI volle che dal color azzurro del cielo pigliasse divisa ed augurio la sua religione. Quindi questo fu il colore sacro degli Arabi e poi dei Turchi, d’onde l’appellativo di colore turchino, mentre i Persiani, seguaci di Ali, protestanti fra i Maomettani, hanno per color sacro il verde. ROSSO. Fazio degli Uberti nel Dittamondo lib. II, cap. II dice di questo colore: E il rosso par che a Marte dato sia, E Marte Dio di battaglia si crede, Che porge altrui Vittoria e Signoria. Marziale osserva: et placuit is pueris militibusque color. Il rosso indicò il coraggio, la vitalità, la gioia, la forza, la vittoria, la morte con spargimento di sangue, l’impero. Gli Spartani nel tempo antico; gli Inglesi ed i Garibaldini ai giorni nostri, usarono ed usano rosse assise, imperocché dice Plutarco « questo è un colore vitale che fa colpo sui nemici, e nasconde agli amici le ferite. Ai Galli piaceva il color rosso: Roma magis fuscis vestitur, Gallia rufis dice Marziale. Infatti il birrus (vestito gallico sostituito alla toga ed alla lacerna che erano di color nero) era di color rosso, come è ricordato dall’espressione piemontese: russ c/nè ün biro. I Galli avevano anche una specie di callotta rossa in capo detta Santonia, d’onde il berretto, 0 nome di berretta. I rapsodi greci se cantavano 0 recitavano versi dell’Illiade, tenevano in mano un bastone rosso, col quale si ricordava la dottrina e l’insegnamento che si ritraeva dal poema. La robustezza e la sanità nelle popolazioni Indo-germaniche sono indicate dal roseo colore della faccia: i Latini chiamavano pallida la morte; quindi le rose del volto, il viso color latte e sangue, indicano la vita e la sanità in tutte le lingue 452 GIORNALE LIGUSTICO Europee. I Negri, i Cinesi, le Pelli Rosse, non possono considerare il rosso colore di sanità, perchè sul viso dei primi il rosso non compare mai, e su quello delle Pelli rosse non si distingue, anche quando il viso è ........di quel color cosperso, Che fa Γ uom di perdon talvolta degno. Il rosso del pudore è indizio di sanità morale; chi non arrossisce al sentirsi rimproverare di un fallo commesso, è ammalato moralmente. Il fuoco, il figlio dei rossi corsieri, come vien detto nel Ramajana, fa allegria, dicesi volgarmente, perchè tanti fuochi, o tanti focolari, accennano ad altrettante famiglie, agli affetti del primo nucleo dell’umano consorzio. Al sole che dirada le tenebre della notte è consacrato il lieto color rosso. Eritro secondo i Greci, cioè rosso, era il nome di uno dei suoi cavalli. I Badaidi popoli della Tartaria adoravano quest’astro sotto la figura di un panno rosso (i). La primavera, la gioventù, l’amore, l’aurora dalle bianche e vermiglie guance, sono indicate da tal colore. Maometto dice che le prime Uri del suo Paradiso vestono di bianco, le seconde di verde, le terze di giallo, le quarte di rosso. La festa di Cristna o del ritorno della primavera, detta anche di Uli, è per gli Indiani la festa del rosso: rossi fiori di juba si spargono per le strade, si buttano addosso ai passanti: polvere rossa oppure palle ripiene di liquido rosso, vengono lanciate per aria, addosso a chi passa. Nondimeno siccome lo spargimento del sangue umano, nel quale sta la vita, fu a molti causa di morte, il rosso, presso alcuni popoli è colore di morte, per es. presso i Giapponesi. Forse è per questo motivo che Omero chiama la morte purpurea. Anche nel Ramajana al rosso si dà significato (i) Rossa è la veste dei Destur o Sacerdoti dei Parsi. GIORNALE LIGUSTICO 453 triste. Bharata essendosi sognato di avere visto suo padre con rosso mantello, ne pianse, temendo della sua morte. La Chiesa Romana prescrivendo Γ uso dei rossi paramenti nelle feste dei Martiri, che sparsero il loro sangue per la fede e per il loro prossimo, congiunge insieme la morte, l’amore, e la vittoria. I pittori dipingono Gesù Cristo con tunica rossa per indicare il sangue da lui sparso a prò’ del genere umano, e la vittoria sull’ antico avversare. La vendetta, la resistenza in guerra, si ammantano del colore rosso: bianca è la bandiera di chi si arrende, rossa di chi combatte (i); nera, di chi combatte deciso a morire, come i soldati di Giovanni de Medici. Presso gli antichi Romani questo colore indicava potenza, quindi Orazio chiama purpurei i principi, i tiranni aventi maestà, dominio (2). Gli Auguri erano rosso-vestiti a significare la potenza e la maestà del loro ministero. Anche presso i Cristiani il color rosso vivace distingue i Cardinali, Principi della Chiesa. Nella Vita dell’imperatore Severo è scritto: purpurea matris inligaius est fascea, unde hoc signum imperii futuri fuit. Quando Commodo diede a Clodio Albino che fu suo successore: facultatem pallii coccinei utendi, tale distinzione fu tenuta per grande onore: gli Auguri ne trassero motivo per augurare ad Albino l’impero che egli di poi conseguì. Nerone vietò che si usassero in pubblico i colori della porpora e dell’ametista: alla porpora, per la preziosità della stofla si associava talmente la superiorità del comando, che i Regoli dipendenti dal Popolo Romano si tenevano altamente onorati, se lor si concedeva di metterne una striscia, 0 due (diloris vestis) all’orlo della veste. Por-firogeniti, cioè nati nella porpora reale eran chiamati i (1) Un Capitano diventato cieco , paragonava il suono della tromba di guerra ad una rossa bandiera sventolante, che rassicura e rallegra, (2) Orazio dice che Giove scaglia i fulmini : rubente dextra. 454 GIORNALE LIGUSTICO Principi Ereditarli degli Imperatori Bizantini. Il labarum romano antico era un ricco velo, color di porpora, sul quale era dipinta un’ aquila, e più tardi dopo Costantino una croce bianca: lo Stemma di Casa Savoja. GIALLO. Del color giallo è propria la maestà, come di luce che abbagli : si dipinge il sole come giovane di rubicondo viso con un mantello svolazzante color d’oro. Più che le due chiavi, F una d’oro e l’altra d’ argento (che secondo il volgo servono a S. Pietro per aprire il Paradiso ed il Purgatorio), il bianco ed il giallo della bandiera papale, indicano la maestà e la purità della religione. Fazio degli Uberti dice: (libro II. Dittamondo) L'oro che è giallo è appropriato al sole, E il sol ci dà prudenza e signoria, E lume a ciascun ben che far ci vuole. Le prische dinastie degli antichi Re, avendo collocato in cielo i loro antenati e nel sole, di questo si vantavano discendenti, quindi il giallo fu il colore della religione e dell’ impero. Disgraziatamente questa deduzione ci è stata in Italia, conficcata con maggior chiovi che d’ altrui sermone, perchè nelle non sempre liete vicende politiche della Nazione, vi sventolarono a tribolarla, i vessilli bianco e giaflo del papa; giallo-rosso della Spagna; giallo-nero del Sacro Romano Impero. Anche nell Asia il giallo è il colore della religione e della potenza dominatrice; nell’ìndia, nella Cina, nel Pegù, i Principi, i Sacerdoti, i Nobili, vestono di giallo. I Rahahoni sacerdoti del Dio Gautama nella Birmania, vestono un lungo mantello giallo. I Sacerdoti dei Lamaisti portano berretto giallo. « Deh! perchè o Racsaso, nobilmente addrappato in veste gialla, stai qui a giacere? è detto nel libro 3.» Cap. 5.° del Ramajana! GIORNALE LIGUSTICO 455 Il Dio Visnù dalle mille teste è dipinto con vesti gialle; la veste dei Sacerdoti Salii era giallo-rossa; gialla la loro caltha o calthula, calotta tinta col colore della calendula ofjì-cinalis che è fiore sacro pei Tedeschi, essendo il fiore dei morti: Todten blumchen. Il Cristianesimo nelle pianete e nei paramenti gialli ricorda i Dottori ed i Confessori della Fede, che ebbero sapienza e nobiltà. In questo senso vanno intese le parole di Orazio: Auream quisquis mediocritatem diligit, quella mediocrità che non volendo nè troppo, nè poco, è prudente e sapiente. Gli Indiani si tingono le braccia, il petto, la fronte, or di cenere, or di segatura di legno di sandalo, ma sempre a striscie rosse e gialle. Nei Trionfi degli Imperatori Romani per accrescere solennità alla cerimonia solevansi vestire di giallo, con vesti prese a nolo, alcuni dei principali prigionieri; il che ricorda Persio nella satira 6.a lini lutea gausapa captis locat Cœsonia. Le vedove indiane che si bruciavano sul cadavere del marito, andavano al rogo in veste gialla (Sanbenito degli Inquisitori Spagnuoli), quasi a rinnovare la cerimonia delle nozze: croceo era pure il colore delle vesti nuziali femminili romane. Nei templi, Γ oro che ricorda la maestà della religione, è più profusamente adoperato che in altri edifici, e ab antico. Giovenale si domandava a che servissero tanti oggetti d’ oro e d’argento che erano a’ suo tempo nei templi: la lampada d’oro che Ferdinando i.° Borbone consacrò nell’Annunziata di Firenze, ricorda il suo infame pensiero di insultare alla Divinità chiamandola a testimonio delle sue colpe (i). Gli (i) Il Maffei nella Storia delle Indie Orientali racconta che i Bracmani credevano di mitigare le procelle, racchiudendo certi loro scongiuri in una noce di cocco, pria dorata, per rendere accette le loro preci alla Divinità. 456 GIORNALE LIGUSTICO Ariani avevano consacrato nel monte Mainaka due vertici; uno d oro abitato dal sole; l’altro d’argento abitato dalla luna : similmente dei due vertici del Parnaso in Grecia, uno era dedicato ad Apollo ed ano a Diana. Secondo Orazio, Mercurio, colla sacra (aurea) verga costringe ad andare all’ Orco le anime ('levem turbam). Il giallo é però anche il colore che viltà di fuori pinge ; della vigliaccheria, del livore, della mollezza. VERDE. Il colore che la terra prende insieme cogli alberi che si ammantano di foglie a primavera, (e fan pregustare il profumo dei fiori ed il sapore dei frutti), fu considerato universalmente quale simbolo della speranza (i). Apollo Tàlero, che presiedeva alla vegetazione; la Dea Tallo, da tballein germogliare; Cerere, Dea delle biade, avevano in Atene un tempio sotto il nome di prasii-verdeggianti. I Romani al venir della primavera si ornavano (nelle feste di Maja) il capo di verdi fronde, come dice Orazio : Nunc decet atti viridi nitidum caput impedire mirto, seguendo 1’ uso incominciato dicesi ai tempi di Re Tazio. Il quale avendo ricevuto come buon augurio alcuni rami tagliati in un bosco sacro alla Dea Strenna, incomincio a rendere comune l’uso di far quei regali, che poi si dissero strenne. Uso che continua in Toscana, dove sogliono i giovanotti e le zitelle fare al verde, cioè scommettere che ogni volta che si vedono, l’uno possa mostrare all altro qualcosa di verde. Nel Purgatorio, il Regno della speranza, Dante ricorda che bisogna giovarsene finché questa ha color d’ erba, ha fior del verde: paragona le ali degli (i) Gli Emiri discendenti da Maometto portano il turbante di color verde e bruno, che era il prediletto del Profeta. GIORNALE LIGUSTICO 457 Angeli alle verdi fogliette pur mo nate, sente le anime cantare Salve regina e le vede in sul verde e in sui fiori. La Chiesa Cattolica usa le pianete di color verde nell’ Avvento e nella Septuagesima fino a Pentecoste, perchè secondo nota S. Ambrogio : la stabile verdura del cipresso esprime il godimento eterno dei giusti, ed il verde chiaro la aspettazione del cielo. Il Sacchetti, 1’ acuto osservatore degli usi dei suoi tempi, notava : altri sfuggono di vestirsi di verde che è il più vago colore che sia, perchè, come dice un proverbio: chi di verde si veste, troppo di sua beltà presume. Era questo il color della veste dei Cavalieri di Corredo, che, aggiunge il Sacchetti, con la veste verdebruna e con la dorata ghirlanda, prendono la cavalleria. Era questo il color del manto di Re Manfredi, e fu distintivo di Amedeo V di Savoja che, dal giorno in cui tu tatto cavaliere, non smise più il prediletto suo vestito. Ê il verde uno dei colori più grati agli occhi degli Italiani, che ab antico lo predilessero ed oggidì lo posero nella loro bandiera. Leone X nel pigliar possesso del Pontificato fece sventolare il vessillo tricolore bianco rosso e verde, che egli avea assunto per simbolo della Fede, della Speranza , della Carità, virtù che doveano, ma non brillarono molto nel suo Papato. Dante nel Canto VII del Purgatorio ricorda i colori che più ricorrono nella natura : Oro ed argento fino, cocco e biacca, Indaco, legno lucido e sereno Fresco smeraldo in Γ ora che si fiacca. Infatti questi colori sono i più belli che si trovino : tutti gli altri sono meno pregiati dalla fantasia popolare che abhorre le mezze tinte, e che ha chiamato arco in cielo, arco di Domine Dio, l’arcobaleno, fenomeno che tutti i colori riassume. Quindi i Greci, divinizzando questa meravigliosa apparizione che sembra congiungere il cielo alla terra, chia- 45s GIORNALE LIGUSTICO matono Iride, ministra degli Dei, e le diedero per padre Taumante (taumàqa, io ammiro, in gr.), figlio del Mare e della Terra. G. Ferraro. Una società tipografica in Genova nel secolo xvi. Dopo la morte dello stampatore Cristoforo Belloni, avvenuta fra il 1573 e il 1574,1a vedova Marietta, col ministerio di Ludovico Portelli padovano, anch’egli tipografo e libraio in Genova, mandò innanzi alcun tempo l’officina, fino a che, assestate le ragioni e le faccende domestiche, il figlio Marco Antonio assunse in proprio la stamperia, e incominciò nel 1575 a mandar fuori le stampe segnate del suo nome. Egli, come i suoi antenati, doveva certamente esser munito del privilegio governativo, se nelle Leggi uscite dai suoi torchi nel 1576, s’intitola impressore ducale. Senonchè in quest’ anno medesimo troviamo concesso un privilegio di stampa ad Antonio Roccatagliata cancelliere, e più tardi storico e senatore della Repubblica. L’ esser venuto in mano di uomo, per ogni rispetto così notevole, l’esclusivo arbitrio dell’arte tipografica, 0 qual si fosse altra ragione, indusse il Belloni ad entrare nel 1577 in una società con il Roccatagliata stesso, e con il Portelli già nominato. Metteva il Roccatagliata due quarte parti della somma stabilita, e gli altri una per ciascheduno. Riserbava a se il primo l’ufficio di depositario e di cassiere; « la cura et governo della stamparia » eran commessi al Portelli, il quale doveva « impiegare l’opera et industria sua ad utile della compagnia », ritraendone « per sua mercede », oltre « la rata spettante alla sua partecipazione », una « quinta parte del netto guadagno che si sarebbe fatto » ; anche il Belloni avrebbe impiegato « l’opera et l’industria sua a comodo della compagnia », con « mercede o salario » GIORNALE LIGUSTICO 459 di « cinque scudi al mese », salvo la quota che gli spettava per la parte di capitale da lui versato; le stampe dovevano uscire col suo nome. Appena che ne fosse venuta la buona occasione, si stabiliva poi di aprire ad utile comune « una botega da libraro » (i). Entriamo ora a visitare di passata Γ officina dei nostri soci, la quale, per quel che ci porgono i documenti, era posta in una casa della centrata Putei Curii Ortorum sancti Andreae. Gli operai stanno attendendo ai loro lavori; altri alle casse compongono o scompongono ; altri ai torchi danno opera alla tiratura dei fogli; chi si occupa della carta, chi del-Γ inchiostro, chi de’ fogli stampati per sciorinarli, metterli in pressa, piegarli, cucirli; i garzoni e gli apprendisti corrono qua e là negli uffici diversi a cui sono chiamati dal Portelli, direttore della stamparia, o dal proto. E questi, forse il Leonardo Boli indicato negli atti, intende ai suoi obblighi; i quali sono « di tener registrata la stamparla; haver cura ai lavori delli torculi col visitarli spesso, acciò venghino bene; haver cura che i compositori faccino i suoi lavori a giorno per giorno; far che si legga il tutto in piombo; scontrar diligentemente le carte volte, acciò che le signature numeri e richiami vadino bene; insegnare a’ garzoni delle casse col compartirli se è bisogno all’ opere che si fa, et leggere le sue forme in piombo; segna le carte dei tacchi per il rosso, e le fraschette, et anco, se ha tempo, mettere et togliere i tacchi ». Ma bada con singoiar sollecitudine all’ opera dei compositori, ai quali è fatta special prescrizione « che si debba legere in piombo; che siano tenuti discomponer la forma subito che sarà fori del torculo; che la carta sopra la quale si farà (i) Cf. Giuliani, Notizie sulla tipografia ligure negli Atti della Società Ligure, IX, 516. Gli altri documenti citati o recati per esteso sono nell’Archivio Notarile, Attidi Antonio Cogorno, Fil. 1. 460 GIORNALE LIGUSTICO la prima forma, sia, subbito fatta la corretione, restituita al padrone o sia governatore della stamparia ». Volgiamo l’occhio là verso lo scannello dove sta il Portelli e tiene la carte e i libri dell’amministrazione; un largo foglio appiccato al muro, stampato in grossi caratteri, attira la nostra attenzione. L· il calendario che indica le feste. Leggiamolo. Tutte le domeniche, Pasqua di Resurretione con li doi seguenti, L’Acen-sionc, Pentecoste con li doi seguenti, Il Corpus Domini. Giorni da mezo lavoro. — Giobia grassa, Il giorno di Carnevale, Il primo giorno di Quadragesima, Giobia Santa, Venere Sancto, Sabbato Sancto, Li Morti. Gennaro. 1 La Circoncisione, 6 L’Epifania, 17 S. Antonio, 20 S. Fabiano e Sebastiano. Febraro. 2 La Purificatione della Vergine, 24 Sancto Matthia. Marzo. 19 S. Giuseppe, 25 Annonciacione della Vergine. Aprite. — 24 S. Georgio. Maggio. — i S. Giacobo e Philippo, 3 Santa Croce. Giugno. — 24 S. Gio Batta, 29 S. Petro e S. Paolo. Luglio. 22 S. Maria Magdalena, 25 S. Giacobo, 28 S. Lazzaro e San Celso. Agosto. — 10 S. Lorenzo, 15 La Ascensione della Vergine, 16 S. Rocho, 24 S. Bartolomeo. Settembre. 8 La Natività della Vergine, 12 L’Unione (1), 21 S. Mattheo, 29 S. Michelle. Ottobre. — 18 S. Luca, 28 S. Simone e Giuda. Novembre. — 1 Tutti li Santi, 11 San. Martino, 25 S. Catherina, 30 S. Andrea. Decembre. — 21 S. Thomaso, 25 Natività di N. S., 26 S. Stefano, 27 S. Giovanni, 28 Li Innocenti, 31 S. Silvestro. Giorni di regaglie. — La Giobia grassa, il giorno di Carnevale, il giorno di S. Giacomo Apostolo, il giorno di S. Lorenzo, il giorno di S. Michelle, il giorno de tutti li Santi, il giorno delli Morti, il giorno di S. Martino, la vigilia di Natale. (1) Era la festa decretata dalla Repubblica il η ottobre 1528, in memoria della ricuperata libertà per opera di Andrea D’Oria. GIORNALIi LIGUSTICO Queste « regaglie », secondo ci istruisce il Portelli, sono di due ragioni, poiché consistono, « per quelli che stanno a spese della stamparla in un pasto honorato, secondo i tempi, col darli il vino senza acqua »; agli altri invece « che stanno a spese sue » si sogliono dare in danaro « secondo la qualità de gli homeni, e’ suoi buoni portamenti ». Ma vi sono usanze speciali per alcuni giorni, come « il di di S. Michelle regaglia di macheroni informagiati », il giorno dei Morti « la fava », la vigilia di Natale « una amorevolezza di buzzolai, citronato, con malvasia ovvero vin bianco ». Se si volesse ancora conoscere qualche cosa di più particolare intorno alla tipografia, non ci riuscirà difficile, or che il Portelli si è allontanato, sbramare la nostra curiosità facendo gli indiscreti nelle carte da lui lasciate sullo scannello. Ecco infatti una Nota delle mercedi che si paga il citatore. Antico comune, corsivo comune, filosofia col suo corsivo, garamone, silvio, tutti questi sono a prezzo di due reali il migliaro. Il testo grosso, testo d’Aldo, corsivo sul quadro del Silvio, et corsivo sul quadro del garamone et il testino, questi sono al prezzo di cinque millia al scudo. Il corsivo grosso, corsivo d’Aldo, corsivo di testino et non pariglia, questi sono di cinque millia e cinquecento al scudo. Corsivo di non pariglia et canoncino sono al prezzo di due millia al scudo. Il canon grosso un scudo il migliaro. Miniature (i) di due righe del garamone doi reali il cento, et crescendo una riga un reale per cento. Possiamo altresì conoscere quanto sia la spesa per impii-mere « cinquecento opere di trenta fogli », perchè il solerte (i) Erano queste le iniziali a disegno, che tenevano luogo delle miniature usate più special-mente nel secolo XV, 462 GIORNALE LIGUSTICO amministratore, per rispondere alla richiesta di un cliente, si è apparecchiato in un foglietto la nota di dettaglio, e cioè: Per il papero risme trenta de stampato, bisognano di bianco risme 34 almeno, per rispetto del frazo et mezato, che a L. 2. 4 vale L Vi bisogna un compositore almeno per tre mesi, perchè un homo non fa se non una forma al giorno, bisognano 60 forme che a 20 sino in 21 il mese rispetto a giorni di lavoro sumano a tre mesi, et importano » Il tiratore et il battitore potrebbero per un mese far il lavoro, che costano forse n Vi sono l’inchiostro et li mazi che costano L. 20 ; d’inchiostro L. 15, et li mazi L. 5. „ L. Et questo senza il consumo de le lettere, ferri et torculi et f Ma per fare ii conto pari e a buon mercato, annotava: « 500 opere a L. 7 la risma saranno L. 210, che vengono soldi 8. 4. 4/s Γ opera ». Giacché ci siamo e ci è porto il buon destro, spingiamo la nostra indiscrezione più oltre, e leggiamo due minute di lettere che il Portelli ha scritto al suo collega e corrispondente Guglielmo Molino, stampatore in Vercelli. A messa Gugliermo Molino in Vercelli. Nobile et Honorando Messer Gugliermo. Ho recevuto la vostra de 26 del presente insieme con le nove pelle de le quali una parte resta bona e l’altra no, et sono tropo care, perchè quelle di Lione non mi vengon condute qui più di dua reali l’una, tutta volta io non ho mancato di pagarle insieme con quell’ altre tre che per mostra mandaste assai più bone che queste ultime a Messer Pietro et li ho dato libre dodici di Genoa conforme a quel che mi avete scritto. Quanto alla vida di ferro et al madrone di bronzo per esser cari non ge farò altro, aspetto la cassia con desiderio. Son stato con il mio zitatore et ditogli la mercede sua della filosofia et corsivo gettati secondo che mi havete scritto, 74. 16. 72. —. 48. 20. —. 214. 16. iggioni. GIORNALE LIGUSTICO 463 et dice che gli viene più corno quello che no voi far pagare più del ordinario , et siamo de accordio di pagarli solamente quel che si paga a Venetia, et per ciò per tal conto e lui et io habbiamo scritto in Venetia. Quel che intendeste da quel chiarlatano di le vipere jfu vero et il capo era Giannetto il quale mai mai si aquietava, et sempre tutto il giorno non si sentiva altro salvo brontolare, mettendo su hor questo hor quello, di modo che la stamparia tutto il giorno era in confusione et esso era incomportabile, alla fine senza occasione alcuna perchè cridai alli nostri garzoni dicendoli tristarelli, levò suso con li Tedeschi et se ne andò di casa; furono poi pentiti et volendo ritornare certificato io che Giannetto era stato causa di questo, si corno fu anche un’altra volta, ripigliai li Tedeschi, et lui non lo volsi più a partito alcuno. Fate conto che per 1’ arroganza di colui ero venuto a tal segno che non potevo reprendere li miei garzoni, ringrazio Iddio che ora che non ge ho più quel barratero la stamparia corre benissimo senza sentirsi più una minima parola, et la nostra casa pare essere venuta una sacrestia. Comparse assai presto un compositore che si chiama Carlo De Sarchis di Torino che lavorava in Pavia, il quale pare assai bona persona, che fece che hebbi allora il mio numero compito, et di questo omo se lo cognoseste vorrei che me ne deste qualche aviso. Nel resto io dissi a questi Signori 1’oblatione vostra, di vostri garzoni et di voi ancora in caso di bisogno et hanno avuto gran piacere et io ancora di cognoscere il vostro bon animo, et ve ringraziamo assai, et quando accadesse occasione siate sicuro che ricorreremo da voi in ogni occorrenza corno bono et vero amico, et tutto quello che potremo fare in servitio vostro con darvi più tosto utile a voi che ad altri lo faremo sempre. Et fin d’ hora non ostante che habbi inchiostro per tutto quest’ anno, torrei da voi doi barili de inchiostro duro, me avviserete adonque quel che ne vorrete, perchè se non me ne venirà più di quello che mi viene quel di Lione, corno vi ho detto, mi servirò più presto da voi che da altri. Et con questo fine tutti noi preghiamo Iddio vi guardi da male. Da Genoa 1' ultimo di Marzo i $ 79. Nobil et Honorando come fratello messer Gugliermo. In risposta della carissima vostra de’ 13 del presente dirovvi haver con essa ricevuta la cassa, et di porto ho pagato soldi 24 di Genoa nè mai il mulatiere volse manco. In modo che vien più cara di quel che harei in Genoa et per ciò penso di farle fare qui dove ogni giorno le potrò vedere; quando non mi fusse costato il porto più di dua reali si corno mi diceste, 464 GIORNALE LIGUSTICO forsi che harei dato ordine di farle fare costì. Quanto a l’inchiostro che me ditte non poterlo dare per manco di soldi 14 di Milano la libbra, me-desmamente è carissimo, perchè quel di Lione colà non mi costa più di soldi 4 la libbra, et condutto qui tra tutte le spese mi vien 6 di Genoa; hor potrete cognoscere quanta differenza gli è di modo che non possiamo far negoziato insieme per la gran differenza come ho detto ; et perchè ditte che sarà in tutta perfetione desidero me ne mandiate sei o sette libbre, per provarlo et insieme me scriverete 1’ ultimo predo. Li denari della cassa li ho pagati a messer Pietro. Nel resto vi rimando 5 pelle delle 9 che mi mandaste, perchè se sono ritrovate tristissime et le quattro le consumarono li tiratori in dui giorni et guastarono tutto il lavoro, Iddio vi perdoni; quelle prime che mi mandaste per mostra erano bone, se ne avessi di quella sorte desidereria me ne mandaste 5 altre, dummodo che siano bone, in cambio di queste 5 che vi rimando indietro, et con questo fine prego Iddio vi dia lunga et beata vita. A dì 22 di Aprile 1579. Le cose, come si vede, erano ben ordinate, ma la produzione, almeno per quelle testimonianze che ne sono giunte fino a noi, fu assai scarsa davvero, perchè dalla officina di questa società uscirono solamente la Instruttione di Monsignor Sauli, il Libellus Sacramentorum, le Constitutioni del vescovato di Mariana et Accia, la traduzione italiana del libro di Nicola Mo-nardes sull’ Herba tabaco d’India, e il Sallustio, tutte edizioni che recano la data del 1578. Osservabile l’ultima per la nitidezza del carattere corsivo, ed la seconda per il bel tondo, la musica a canto fermo, le intestazioni in rosso, le iniziali a disegno, e le varie silografie. A questa scarsezza di lavoro deve aver contribuito lo scioglimento della società, avvenuto per fermo nel corso del 1579. In fatti mentre le edizioni sopra accennate, anteriori a quest’anno recano il nome di Marco Antonio, ed alcune anche l’impresa belloniana, vediamo le seguenti senza nome di tipografo e con la impresa del Roccatagliata; donde è lecito argomentare siano insorti fin da questo tempo quei dissapori fra i soci che decisero il Belloni a ritirarsi in GIORNALE LIGUSTICO 465 Torino, e dei quali tocca egli stesso nella dedica alle Eroidi d’Ovidio, da lui stampate nel 1581 in quella città, indirizzata al mecenate Roccatagliata. Questa società procurò al Belloni una singolare fortuna ; quella cioè di procacciargli nomea di giureconsulto. Ed ecco come. Il Roccatagliata aveva deliberato di raccogliere le decisioni della Rota genovese riguardanti la mercatura e mandarle in luce per le sue stampe. Domandò a questo fine i privilegi per la proprietà letteraria al Papa, al re di Francia, al viceré di Sicilia e a Francesco II granduca di Toscana, al quale ultimo egli supplicava in questo tenore (1): Ser.m° Gran Duca, Antonio Roccatagliata segretario della Sig.rl* di Genova, e devotiss.° servitore di V. A. Ser."*, facendo stampare nella sua stamperia che ha in Genova, sotto il nome di Marc’ Antonio Bellone le decisioni della Ruota civile di quella Città, dove haverà spesa e travaglio non picolo, supp.ca con ogni umiltà l’At. V. Ser.m“ che si degni per gratia concederli privilegio che per dieci anni non si possino nelli suoi felicissimi stati stampare le detti decisioni nè altrove stampate vendere, sotto pena di perder li libri e di cinquanta scuti per ogni volta che si contrafacessi applicati al fisco, dovendo di questa gratia rimanere con perpetua obligatione alla benignità di V. A. S.m* e pregare Iddio per ogni maggiore felicità et esaltatione di quella etc. Al che acconsentiva il granduca con il consueto I. est. F. (Ita est. Franciscus), onde Antonio Serguidi il 13 luglio 1579 invitava il segretario Vinta a compilare il privilegio. Ma mentre il re di Francia esattamente concedeva al Roccatagliata il privilegio per le Decisioni eh' egli aveva deliberalo fare imprimere nella sua stamperia che teneva « subz le nom de Marc Antoine Bellone », e così ancora diceva il viceré di Sicilia, Francesco II invece scriveva : Opus........ ab excellenti domino (1) Arch. di Stato di Firenze, Cari. Univ. Giorn. Ligustico. Anno XIX. 3° 466 GIORNALE LIGUSTICO Marco Antonio Bellonio I. U. C. cumulatissime digestum nuper Typis, singulari industria ac virtute magnifici et nobili viri Antonii Roccatagliatae Illustrissimae Reiptibl. lanuen. supremi Secre-tari demandatum, seu propedie demandandum. Così il Belloni veniva per pubblico decreto, senza sua colpa, rivestito della toga dottorale. La raccolta fu stampata in Genova nel 1581 senza nota tipografica, ma sembra non fosse quivi divulgata, quantunque ce ne sia creduto sotto gli occhi un esemplare, col frontispizio in carta più forte, sul quale si vede la grande impresa del Roccatagliata. Uscì poi a Venezia con la data dell’ anno seguente per opera del Ziletti, il quale però (e deve essere avvenuto per accordi presi col Roccatagliata) non fece altro che ristampare il frontispizio, la dedica e i privilegi, aggiungendovi quelli domandati in proprio nome a Rodolfo II imperatore e al re Filippo di Spagna, ne’ quali, come in quello del Granduca, senz’ altro è fatto autore della raccolta Marco Antonio Belloni. L’edizione di Venezia è quindi quella stessa stampata a Genova, premesse quattro carte coi tipi Zilettiani: oltre alla data Genuae M. D. LXXXI che si vede nell’ ultima carta del testo, basterebbe un semplice confronto dei caratteri a darcene la prova (1). Per sì fatto errore inserito nei sopra citati privilegi, le Decisioni ebbero ristampe col nome del Belloni, che fu accolto perciò anche fra gli scrittori italiani (2). Col nome di Marco Antonio, si chiude in Genova la serie delle edizioni belloniane, le quali per quasi mezzo secolo e per tre generazioni di tipografi tennero il campo, e costituirono il primato dell’arte impressoria nella nostra città. A. N. (1) Nell opera cit. del Giuliani in Atti cit. (pag. 117) si registrano le Decisioni erroneamente sotto il 1570. (2) Cf. Màzzucchelli, Scrittori Italiani. GIORNALE LIGUSTICO 467 Cesare Magalotti istoriografo della religione di Malta. La famiglia fiorentina dei Magalotti seppe anche in Roma, dove alcuni de’ suoi si erano trasferiti, levarsi in fama. E per non dir di tutti, basta ricordare Cesare, cavaliere gerosolimitano, capitano delle galere pontificie sul cadere del cinquecento, e morto miseramente assassinato da uno schiavo turco nel 1602. Fiorì nel secolo XVII un suo nipote omonimo , pure egli cavaliere di Malta, famigliare della casa Barberino, e scrittore. Quello stesso, io credo, che più tardi ebbe tanta domestichezza benevola con Alessandro VII, da farglisi quasi giornaliero intrattenitore nelle geniali conversazioni, così care al papa , dove si discorreva di poesia e di lettere, essendo pur presenti Γ Ughelli e il Favoriti. A lui più specialmente affidava Alessandro le indagini genealogiche, storiche ed aneddotiche intorno alle famiglie romane, argomento che gli tornava molto gradito, e perciò lo mandava sovente a rivedere e riconoscere le carte vecchie acquistate dai pizzicagnoli, fra le quali pur si trovavano di belle cose (1); il che vuol dire che anche a que’ tempi i patrizi non si peritavano a sperperare gli archivi de’ loro maggiori. Di queste indagini del Magalotti ci rimane testimonianza nei numerosi manoscritti genealogici, che si conservano nella biblioteca Chigiana (2). (1) Neri, Costumanze e sollazzi, Genova, Sordo-Muti, 1883, p. 11 e segg. (2) Per gentile comunicazione del chiarissimo prof. Cugnoni, posso indicare qui sommariamente i Mss. del Magalotti, che si conservano nella Chigiana. Ecco quelli d’argomento genealogico : Familiarum Nobilium Notitiae et Arbores. Familiarum Pontificiarum, Regiarum et Nobilium arbores. Familiarum variarum Imperatorum, Regum, Ducum, aliorumque Principum et Nobilium Genealogiae. Familiarum variarum Nobilium Arbor et notitia. Arbori di famiglie di Firenze e di Siena. Famiglie nobili e notizie di Siena. Notizie delle Famiglie nobili Romane. Notizie di varie famiglie italiane ed GIORNALE LIGUSTICO Ma ad altre scritture storiche e biografiche ei pose mano, donde apparisce manifesto il suo amore per lo studio di siffatti argomenti (i). Vuoisi fra queste ricordare la voluminosa Relazione del viaggio in Francia del cardinale Francesco Barberino, allorquando nel 1625 si recò in qualità di legato alla Corte del Cristianissimo, e di quello fatto in Ispagna , nell’anno successivo , con uguale ufficio. Opera malamente attribuita al conte Cassiano dal Pozzo, che seguì il cardinale; ma rivendicata , secondo i manoscritti, al nostro Magalotti, ufficiale della Dateria e storiografo, imbarcato pur egli sulle galere pontificie (2). Nel ritornare che fece il Barberino dalla sua oltramontane, cavate da Istorie, scritture pnbhliche e private ms.‘, da lapidi e pitaffi e da altre memorie. Notizie ed Alberi di Famiglie nobili straniere. N0tiye. ed Alberi di varie nobili famiglie. (1) Eccone l’elenco: Beneficia facta a Regibus Franciae Ecclesiae Romanae et ejus Pontificibus. Nonnulla de Gregorio VII. Vita a Baronia deprompta. Vita et mores loannis Iacobi Pannali Cardinalis. Compagnia del Santa Santorum, delle statue de’ Papi, de' Canonici, degli offici di Roma. Congiure contro a sommi Pontefici. Il Pontificato di Innocenzo X con osservazioni sopra la futura elezione del Sommo Pontefice. Memorie de’ fatti di alcuni Sommi Pontefici da Martino V fino a Gregorio XIV. Raccolta di sentenze, di motti e di proverbi. Raccolta di varie notizie storiche ed erudite. Vita della B. Margherita di Savoia. Vita, morte e miracoli della B. Margherita di Savoia. Di altri due scritti si tocca nel testo. Afferma il Biscioni nelle Giunte alla Toscana letteraria del Cinelli (Ms. Bib. Naz. Firenze, vol. IV, p. 262) che un madrigale del Magalotti si legge fra le poesie degli Accademici Apatisti edite dal Nisieli (Benedetto Fioretti) nel vol. Ili de’ suoi Progim-nasmi Poetici, ma si tratta invece di un madrigale a lui diretto. Ben veggo a stampa un suo cartello in nome di Vinceslao cavalier di Rodi a Tiamo di Merifi, da lui dettato per il Comm. Machiavelli in occasione della eelebre festa fatta in Roma nel 1634 (Cfr. Bentivoguo , Relazione della famosa festa fatta in Roma a li 2j febbraio 1634, Roma, Tip. Tiberina, 1882, pag. 56). (2) Guglielmotti, La squadra permanente della Marina Romana. Roma, Voghera, 1882, pp. 328, 375. GIORNALE LIGUSTICO 269 strepitosa ma poco concludente legazione di Francia , venne visitato nel golfo della Spezia da Attilio Arnolfini in nome della repubblica di Lucca, ' ed egli volle mandare un suo gentiluomo a ringraziarla della cortesia. Elesse appunto il nostro cavaliere Cesare che si recò a Lucca il 13 dicembre a compiere Γ ufficio ; fu ricevuto lo stesso giorno dal gonfaloniere e dagli Anziani nel Pubblico Palazzo con il cerimoniale consueto, e ripartì poi incontanente per Pisa a fine di raggiungere le galere (1). La predilezione eh’ egli dimostrava agli studi storici, e il favore del Cardinale Barberino e del Papa, gli procacciarono più tardi il carico di scrivere le istorie dell’ Ordine gerosolimitano. Dopo la morte del Bosio il Consiglio aveva ordinato che « si desse comodità » a Fra Salvatore Imboli « di pigliar dalla cancelleria i libri che gli bisognavano per le notizie historiche, essendosi offerto di compilare in forma d’ historia l le cose memorabili della Religione », ma l’anno successivo, ad istanza del Barberino e del Pontefice, venne eletto ufficialmente istoriografo dell’ Ordine il nostro Fra Cesare (2). Del quale onorevole incarico volle subito rendere avvisato il Gran Duca di Toscana Ferdinando II con questa lettera ( 3) : ♦ Serenissimo Gran Duca. V. A. Serenissima ha tanta parte nella religione di San Giovanni, che mi persuado che sentirà volentieri che li suoi Vassalli sieno in quella adoperati. Perciò, essendo io stato eletto in grazia di Nostro Signore, da Monsignore Eminentissimo Gran Maestro e dal suo venerabile Consiglio per scrivere le storie della medesima Religione , con provvisione (1) Questa ambasceria venne accennata dal Guglielmotti, op. e loc. cit. e me ne porse più ampie notizie Γ amico Salvatore Bongi. (2) Dal Pozzo, Historia della Sacra Religione militare di San Giovanni Gerosolimitano. Verona, 1703, I, 811. (3) Arch. Mediceo, Carteggio di Ferdinando II. f. 1303. 470 GIORNALE LIGUSTICO di scudi trecento l’anno, ho stimato mio debito di darne avviso a V. A. Serenissima, e con questa occasione di confermarle la mia ossequentissima devozione. La supplico riverentementea gradire questo dovuto ossequio et a compiacersi di dar ordine che dall’Archivio e Segreteria di V. A. Serenissima mi sieno somministrate quelle notizie che mi saranno necessarie; mentre a V. A. Serenissima con profonda e humilissima riverenza mi inchino. Roma, 19 d’agosto 1634. Di V, A. Serenissima Humilissimo Vassallo e divotissimo Servitore F. Cesare Magalotti. Se il Granduca rispondesse a questa comunicazione, e se consentisse a mandare le notizie, non si rileva ; ma ciò dimostra come il Magalotti si proponesse occuparsi subito della storia commessagli. Di ciò abbiamo una prova più evidente nelle pratiche iniziate 1 anno successivo, per il medesimo fine, con la Repubblica di Genova. Egli scriveva dunque al Senato nel seguente tenore (1) : Ser.mi Sig.ri e Pad.”1 Col."1 Dovendo Mons/ mio Ecc.”” G. Maestro et Ven. Gonsiglio di Malta eleggere uno per seguitare le storie del Bosio, si compiacquero ai mesi passati per istanze che ne fece la San.tà di Nostro Signore, di far elettione della persona mia, ond io per obbedir a’ cenni della San."1 Sua, e per avanzarmi in quella Religione a cui dalle fasce fui dedicato, ho accettato 1 impresa, persuadendomi che da tutti i Principi somministrate mi saranno le scritture e le notizie necessarie, et in particolare dalle S. V. Ser.”', le quali hanno nel dominio loro testimoni certi delle attioni gloriose de’ Cavalieri , et in codesta città tengono il benedetto pegno del Corpo del Cav.' Sant’ Ugo. Perciò ho stimato mio debito di dar parte alle S. V. Serenissime dell impresa per la quale mi preparo, come del pensiero c’ ho d allargarmi anco nelle storie universali de’ nostri tempi dopo 1’ armata navale del 1571 , quando mi venga data quell’intera relatione, che per tal effetto si ricerca da tutte le bande. E con quest’ occasione rassegno alle SS, VV. Ser.*' Γ antico devotissimo ossequio della mia Casa verso (1) Arch. di Genova, Senato, 1635. GIORNALE LIGUSTICO 47 1 cotesto Inclito Senato, al quale il Comm. Magalotti mio zio, mentre sotto Clemente Ottavo comandava la Squadra Pontificia, ebbe più volte 1 onore di servire, come testificano le lettere de’ loro Generali a lui scritte. Supplico dunque le SS. VV. Ser.m# a volermi riconoscere come loro servitore d’ereditaria divozione, et a degnarsi di farmi somministrare le scritture, che a loro parranno necessarie per la mia storia, assicurandole che nello scrivere significherò al mondo, per quanto a me sarà possibile, la suddetta mia divozione verso il Senato e persone delle SS. VV. Ser. e con questo fine inchinandomi, le riverisco humilmente, pregando loro da Dio benedetto ogni maggior contento. Roma, li 14 di Marzo 1635* Delle SS. VV. Ser.1”' Humil."° e Divot."° Ser." Cesare Magalotti. Ad agevolare la cosa, volle che la sua lettera fosse presentata in senato da un patrizio , al quale faceva preghiera che caldeggiasse la sua domanda, « desiderando, dove non poteva arrivare con la purità dello stile, supplire con la verita degli avvisi ». Lodevole proposito, che però, siccome le lodi prodigate al governo, non valse a procacciargli il consentimento del Senato, il quale prime di tutto ne fece scrivere al suo residente a Roma, per conoscere « la qualità della sua persona et il suo talento , per vedere se merita d essere com-piacciuto » delle richieste notizie (1). Al che quel ministro rispondeva come il Magalotti fosse parente del cardinale dello stesso nome, « haver fatto il viaggio col S.r Card. Barberino quando andò in Spagna, et haver allora fatto un Itinerario » (2), essere stato eletto ad intercessione del Papa istoriografo della Religione di Malta, « da che gliene risulta un assegnamento di scuti 300 l’anno ». Consigliava, quando si volesse conce- (1) Ivi, Litter, Reg. 1902, c. 90. (2) Questa affermazione vale a meglio provare come sia precisamente, sua, secondo rileva il Guglielmotti, la Relazione del viaggio, che si legge anonima alla Casanatense di Roma (Cfr. Guglielmotti, op. cit., p. 375)* Nella Chigiana però va sotto il suo nome. 47 2 giornale ligustico dergli le scritture domandate, che venisse invitato a bene determinarle ed indicarle in apposita nota , e soggiungeva : « Ma perchè per una parte resta ministro stipendiato della Religione, et per l’altra resta cittadino et gentilhuomo fio-lentino, stimo superfluo por in considerazione alla loro prudenza, che ben bene considerino le scritture che se li dove-ranno a sua richiesta concedere » (i). Questa osservazione non eia fatta indarno, poiché duravano da assai tempo acri contese fra la Repubblica e la Religione di Malta per la precedenza delle galere ed i saluti, e parimente erano sempre vivi con Firenze consimili litigi per i titoli e il luogo che compete\a ai rispettivi ambasciatori: quistioni, come si vede, di cerimoniale, ma nelle quali si poneva uno straordinario accanimento. E forse bastò il sospetto che :1 Magalotti potesse in qualche guisa accennare agli avvenimenti genovesi in modo poco benevolo, per risolvere il Senato a non mandargli scritture di nissuna sorte. Da quello che ho discorso fin qui ben apparisce come il nostro istoriografo s era dato attorno col proposito di raccogliere il materiale per il suo lavoro: ma, qualunque ne fosse la cagione, non sappiamo ch’egli colorisse il suo disegno; e sebbena il Dal Pozzo, affermando eh’ei * non prò-seDuì 1 opera molto avanti » (2), sembri implicitamente ammettere che pur qualche cosa abbia fatto , pur non è noto , per quanto 10 ne so, alcun manoscritto che almeno contenga quel tanto uscito dalla sua penna. La sola scrittura rimastaci che ci dà buona prova de’ suoi studi intorno alla Religione gerosolimitana, si è la difesa delle ragioni del Priore Giambattista Naro, capitano delle galere assai reputato, per il diritto di precedenza contesogli in Roma dall’Ambasciatore di (1) Arch. di Genova, Lett. Ministri Roma, Busta 10. (2) Op. cit., 1 c. GIORNALE LIGUSTICO 473 Malta. Egli dedicò il suo lavoro al Pontefice con questa lettera (i) : Beat."0 P." Ho difeso con la presente scrittura la pretensione del Prior Nari con 1’ Ambasciatore di Malta, e mi persuado che questa mia fatica sarà da V. S. gradita per essere il Priore et io servitore di antica devozione, e d’ obligato ossequio alla V. S. et all’ Ecc."* Casa Barberina. Mi son mosso a scrivere per le buone ragioni del medesimo Priore, le quali ho cercato di rappresentare con la legge scritta della Religione, con diverse ragioni, e col testimonio delle Istorie, e degli esempi, perciò che mi pare strano eh’ un altro servitore di V. S., difendendo 1’ Ambasciatore , avvilisse la dignità de’ Sig/‘ della Gran Croce con pregiudizio della giurisdizione del Sig. Card. Priore di Roma, Nipote della Santità Vostra e mio Signore. Riceva dunque V. S.tà questo piccolo testimonio degli animi ossequentissimi di due suoi servitori, mentre con ogni humilissima divozione, inchinandomi , bacio li suoi santissimi piedi, e prego Dio che lungamente la conservi. Di V. S.t* Hum."° Div.“° et Ossequent.m° Serv.” Fra Cesare Magalotti. Notevole è il principio onde Γ autore si apre la via al ragionamento. Dopo aver detto come fosse stato eletto « per benefizio » del Papa istoriografo, affinchè raccontasse « le azioni gloriose dei Cavalieri », osserva che offenderebbe il giudizio augusto di chi lo ha « giudicato abile a quella impresa », se si scostasse dalla verità; perciò si è proposto di difendere una causa giusta, « acciò che la stessa verità conosciuta » in questa sua scrittura « sia aspettata nell’istorie » alle quali si prepara. Ed entra quindi a svolgere la sua difesa, che procede ordinata, chiara, sorretta da buone ragioni, le quali ricevono conforto e dalla dottrina giuridica e dalle testimonianze storiche esposte con lucidezza e con pieno possesso della materia. Di qui può argomentarsi come 1 opera sua, ove fosse stata composta, sarebbe certamente riuscita degna del soggetto e della fiducia in lui riposta dal Pontefice e dal Consiglio dell’Ordine. A. N. (i) È ms. alla Cliigiana ed alla Barberina. 474 GIORNALE LIGUSTICO SPIGOLATURE e NOTIZIE L’egregio colonnello Giuseppe Ruggero ci scrive: « Ricevo in questo momento il Catalogo della Collezione numismatica del Sig. P. Battigalli, in vendita all’impresa G. Sangiorgi perii 12 corrente in Roma. La nostra Genova vi è rappresentata da 25 numeri, la maggior parte dei quali non ha importanza di sorta. E questi sono: il grosso e i denari IANVA un Genovino Dux IV — soldino di F. M. Visconti — un testone senza data dei Dogi biennali, colla sigla T. V. indubbiamente mal letta Un testone della Benedizione — Due doppi scudi del castello — Sei scudi stretti della Madonna — Un diciasetteno — Lira e frazioni del S. Giovanni — Soldi 24 del S. Giorgio — Soldi 10 — denari 8 — e le monete del 1814. Ma quello che merita di venir segnalato per l’importanza eccezionale, è il N. 325, cioè il Ducato del Cardinale P. Campofregoso Governatore per lo Sforza, dal Gennaio all’Agosto del 1488. Questa moneta, della quale non avevamo altro che un disegno errato riprodotto in tutte le Tariffe d’Anversa dalla fine del XVI Sec. in poi, ci si presenta ora per la prima volta in un esemplare effettivo e di buona conservazione. Nella mia Annotazione XIII, e poi nelle nostre Tavole, ho disegnato questa moneta sulla figura delle Tariffe citate, ma colla leggenda restituita dall’Avignone. Oggi finalmente mi è dato d’ avere la conferma di fatto alla restituzione della leggenda, e di poter anche verificare l’esattezza della impronta poco scrupolosamente rispettata nelle Tariffe e per conseguenza nei miei disegni. Sebbene la zincotlpia del Catalogo sia riuscita maluccio anzi che nò, tuttavia ho potuto constatare qualche lieve differenza nella dimensione e nella forma del Castello, del boscione e del cappello cardinalizio. Anche le palline che nel rovescio stanno verso la croce, sembrano piuttosto delle crocette. Infine, la esatta interpunzione delle leggende, è la seguente: D. -j- : p : ca : dvcalis : gvber : ia : R. -f- : con : radvs : rex : rom : s : a : ripetendosi la troncatura a metà del nome del Re, come nel mezzo ducato dello stesso Cardinale quale 310 Doge, (ν. N. 781 delle Tavole) e che si continuò ad usare sul Ducato del Governatore Agostino Adorno ' (v. n 788) ». GIORNALE LIGUSTICO 475 È comparsa nell 'Ateneo Veneto (Luglio-Ottobre 1892, p. 25) una pregevolissima monografia, dovuta alla penna di Ettore Calegari, intitolata. La congiura del Fieschi secondo i documenti degli archivi di Simancas e di Genova. Egli riprende in accurato e diligente esame il celebre avvenimento, ne ricerca le cause e intende a chiarirne gli effetti. Noi abbiamo qui un quadro abbastanza esatto delle condizioni di Genova, delle rivalità domestiche e politiche, delle fazioni, delle discordie cittadine, e siamo agevolmente condotti a rilevare per quali vie e per quali modi si maturasse il pensiero di una rivolta. Le conseguenze alle quali egli giunge sono derivate con metodo rigoroso del complesso dei documenti e delle storie, messi opportunamente a cimento ed a riscontro, e appariscono le più vere rispetto al giudizio che, abbandonate le vecchie preocupazioni di retori e di partigiani, deve dare la storia sulla congiura e sul Zieschi. * * * A proposito delle Notizie biografiche di Demetrio Calcondila riceviamo dagli autori Angelo Badini Confalonieri e Ferdinando Gabotto : «La pubblicazione recente del Leva, Ciovannantonio Campano, Pontedera, Tip. Ristori, 1892, ci avverte che il Campano nacque nel 1429; non nel 1427, epperò le sue lettere che riguardano il Cancondila vanno assegnate al 1451, la venuta del medesimo in Italia al 1448» su0 trapasso a Ferrara nel 1457 ». * + * Nella Revue scientifique (3 novembre 1192 p. 594) si legge un articolo intitolato: Christophe Colomb et Amiric Vespuce nel quale H. Welter-Croy riassume la storia della scoperta, toccando della vita così del genovese come del fiorentino. Si ferma più specialmente sul nome America dato al Nuovo Mondo. Quantunque l’autore sia caduto in qualche inesattezza, pure lo scritto merita di essere notato. * * * Un breve articolo di Henry Barrisse inserito nella Revue Historique (Novembre-Dicembre, 1892, p. 308) e intitolato: Colomb n’est pa nia Savone, rifiuta con documenti l’opinione del de Uhagon, il quale, come è noto, voleva affermare ormai provato il nascimento a Savona. Con acute indagini ricerca in qual modo possa essere avvenuto che il nipote di Colombo a Diego Mendez lo abbiano dichiarato savonese. 476 GIORNALE LIGUSTICO Sono degne di nota singolare due distinte pubblicazioni fatte per cura della duchessa di Berwick d’AIba, la cui famiglia ha il vanto di discendere per linea femminile da Cristoforo Colombo. Si tratta di due raccolte di documenti, la prima intitolata: Documentes escogidos del Archivio de la Casa de Alba, edita nel 1891, l’altra: Autografos de Cristobai Colon y papeles de America, uscita quest’anno. La seconda pubblicazione ha molta imporran/.a per il numero e per la qualità dei documenti, i quali muovendo dal cadere del secolo XV, subito dopo la scoperta, procedono innanzi fino a tutto il secolo successivo. Vennero tratti da una filza del ricchissimo archivio della Duchessa, alcuni recano il numero d ordine di mano dello scopritore, il che manifesta come abbiano prima appartenuto al suo archivio domestico. (Cf. Nuova Antologia, 16 dicembre, p. 772). BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Della storia del porto di Genova dalle origini all'anno 1892. Saggio di N. Malnate, Genova, Sordo-Muti 1892. L opera che qui annunziamo non appartiene ad uno studioso già noto per altre scritture; ma ad un egregio e provetto funzionario, il cui ufficio per la sua stessa indole e per la multiplicità degli affari, troppo lo allontana da quella quiete e serenità di spirito che si richiedono in chi si propone indagini storiche ed economiche. Perciò tanto meggiormente degno di lode è per noi l’autore di questo libro, perchè gli è riuscito di far opera assai commendevole e proficua. Egli ha considerato con giusto giudizio che la storia del nostro porto si collega e si compenetra con quella civile e politica della vecchia Repubblica nel primo e più lungo periodo; mentre assume ne’ tempi moderni una straordinaria importanza nei fasti economici della nuova Italia risorta a dignità di nazione. Di qui principalmente muove la ben immaginata partizione in tre libri distinti ; nel primo de’ quali si ha la storia del porto dai suoi principii alla caduta della Repubblica; nel secondo, periodo quasi di transizione di studi e di discussioni, si dicorrono le sue vicende fino alla donazione Galliera, la quale procaccia al grande emporio quella nuova vita e quel nuovo sviluppo che è argomento del terzo libro. GIORNALE LIGUSTICO 477 Le considerazioni che l’autore svolge in queste ultime due parti sono molto notevoli, e dimostrano com’ egli dalla osservazione propria e dallo studio dei fatti abbia saputo non solo mettere dinanzi al lettore un chiaro ed evidente quadro delle condizioni del porto, ma rilevare quel che alla sua grandezza e prosperità meglio si conviene. Vi sono alcune quistioni trattate con una avvedutezza non comune, frutto della competenza che l’autore si è acquistata in si fatta materia. Nè la critica toccata con opportunità e convenienza si manifesta fuor di luogo o campata in aria, bensì desunta dai fatti o dalle cagioni e dagli effetti. La parte più specialmente storica onde si compone il primo libro non è una raccolta di notizie tratte da opere già conosciute, ma nel suo ordinamento e nella esposizione lavoro al tutto originale, derivato dalle fonti e dai documenti più sicuri. E diciamo documenti, perchè 1 autoie ha ricercato negli archivi, facendo suo prò di tutto quanto giovava al suo assunto. Questo volume adunque entra degnamente a far parte della collezione di opere patrie, e riempie una vera lacuna; onde nessuno d’ora innanzi che voglia essere pienamente informato della storia e delle vicende di questo gran Porto genovese, uno dei più poderosi fattori del commercio italiano, dovrà trascurarne la lettura. È bello infatti e sommamente utile veder tutte raccolte ed ordinate le notizie che a fatica dovevano ricercarsi in opere diverse, e varie per materia e per intendimento. Tanto più quando chi scrive si mostra padrone della materia, ed animato in ispecie da due sentimenti quello della verità, e della gloria d’Italia. Il tesoro della Metropolitana di Genova, Illustrazione storica di L. A. Cer- vetto. Genova, Sordo-Muti, 1892. In occasione delle feste celebrate in onore di Colombo per il quarto centenario della Scoperta del Nuovo Mondo, venne aperto il Tesoro di S. Lorenzo, affinchè tutti potessero ammirare gli oggetti insigni quivi raccolti, e conservati con ogni cura per 1’ opera concorde delle autorità ecclesiastiche e municipali. Ma affinchè i visitatori avessero modo di meglio conoscere la storia di quelle preziosità, e ne apprezzassero quindi il valore grandissimo cosi rispetto all’arte come alla religione e alla civiltà, occorreva una guida pratica e sicura, la quale richiamasse a parte a parte l’attenzione sopra gli oggetti più importanti, e i punti più notevoli della loro storia. A ciò ha provveduto egregiamente l’autore di questo libretto, ricercatore assiduo, e illustratore diligente delle patrie memorie. 478 GIORNALE LIGUSTICO In un capitolo preliminare egli discorre in generale della Chiesa Metropolitana, toccando della sua origine, del concorso de’ cittadini nella sua costruzione, e di quello di re e grandi stranieri, per abbellirla e dotarla. Accenna quindi agli atti solenni che quivi si compievano, provando con i ricordi storici di maggior momento come la storia della patria non vada disgiunta da quella di questo Tempio insigne. Incominciando la numerazione degli oggetti si ferma da prima a discorrere intorno alla Cassa per la processione pel Corpus Domini, ne racconta diligentemente la storia artistica, indicando gli artefici che ne lavorarono le parti; e si fa strada a soffermarsi alquanto sulla processione stessa per dire delle sue modalità nella storia, muovendo dalle più antiche memorie fino a’ tempi nostri. Passa poi a ragionare del Sacro Catino, creduto per assai tempo di smeialdo, delle tradizioni, delle leggende e dei casi onde andò soggetto, rilevando in ugual tempo il conto in che era tenuto dalla Repubblica, e dai devoti. Breve discorso gli porge il Paliotto d’argento del Suez, ma con maggior larghezza s intrattiene sulla Croce dei Zaccaria, cimelio preziosissimo di stile bisantino venutoci dall’ oriente e che rimonta al secolo XIII. Raccoglie quindi ne’ due capitoli seguenti le notizie riguardanti la Cassa e lo Stipo per le ceneri del Battista. Opera insigne la prima di Teramo di Daniele e di Simone Caldera; l’altra d’ignoto orefice italiano, forse fiorentino, del secolo XVI cadente. La Cassa, eseguita a spese della Repubblica, serviva per la processione che si soleva fare in forma solenne la domenica in Albis, e di cui tocca qui l’autore; lo stipo di proprietà privata passò per acquisto in potere della Protettoria della Cappella di San Giambatista. Formano argomento degli ultimi capitoli il Piatto di Calcedonio donato da Innocenzo VIII alla Cattedrale, il Piviale detto di Papa Gelasio, ed altri oggetti vari di minor conto. Il Cervetto in questo suo pregevole lavoro pure giovandosi delle notizie già conosciute, ha prodotti parecchi documenti da lui rilevati dai nostri archivi, onde 1 opera sua non è di quelle occasionali e transitorie, che passano e non si ricordano; ma rimarrà come la più esatta illustrazione speciale, a cui potrà sempre con frutto ricorrere lo studioso. Pasquale Fazio Responsabile. INDICE DEL VOLUME MEMORIE ORIGINALI. Tommaso Stigliarli (M. Menghint).....Pag. 3, 81, Francesco da Pietrasanta Vescovo di Luni (G. Sforma) . . Pag. Galileo e il P. Orazio Grassi (A. Favaro) ... » La rivoluzione piemontese del 1821 (C. Braggio) ...» Notizie biografiche di Demetrio Calcondila (A. Badini Confalo- nieri e F. Gabotto).......Pag. 241, Un socialista del cinquecento (E. Bertana) .... Pag. Spicilegio Genovese (G. Bertolotto)..........» La leggenda di S. Siro (F. Savio)......» La leggenda di Giulietta e Romeo (G. Brognoligo) ...» VARIETÀ. Donna Bisodia 0 la madre di S. Pietro (G. Ferrara) La vedova dello storico Luca Assarino (G. Claretto) Enigmi Etruschi (il. Pacini)..... Una leggenda bacchica (G. Ferrare). \Sfragistica ligure (G. Sforma)..... Il duca Emanuele Filiberto di Savoja a Nizza nel 15 51 (G. Claretto.) La novella CCXII del Sacchetti e una « Paristoria » sarda (G. Ferrare) ....... I Pigmei (G. Ferrara)..... II mito solare di Giove Pistore (G. Ferrara) . Amarilli Etrusca e il romanticismo (C. Sforma) I colori nelle tradizioni popolari (G. Ferrara). /Una società tipografica in Genova nel secolo XVI (A. N.) , Cesare Magalotti istoriografo della Religione di Malta (A. N.) Pag. 161 32 122 183 321 172 385 401 42 3 56 61 66 149 229 234 298 300 386 393 439 458 467 480 GIORNALE LIGUSTICO RASSEGNA BIBLIOGRAFICA. Agostino Dutto. Le origini di Cuneo dimostrate con documenti (G. C.) ........Pag. y, Documents historiques relatifs à la principauté de Monaco par G. Saige (G. C.)............» 75 Bibliographia Bernardina (P. G. T.)......» 154 F. Gabotto. Ricordi e studi sulla storia di Bra . . . » 226 F. Gabotto. Lo stato Sabaudo da Amedeo Vili ad Emanuele Filiberto I (G. C.)..............» 309 SPIGOLATURE E NOTIZIE. Pag. 76, 158, 237, 313, 399> 474. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. Carlo Steiner. Cristoforo Colombo nella poesia epica italiana, pag. 78. Manuale di numismatica del dott. Solone Ambrosoli (G. R.) 159· — Dizionario degli Artisti di A. De Gubernatis, 238. — James Bruyn Andrews, Contes ligures (p. e. g.) ivi. — Correspondance du M.” et de la M.‘sc de Raigecoure (G. Bigotti), 240. — A. Restori. Palais {p. e. g), 317. — A. Restori. Per un serventese di Guilhem de la Tor (p. e. g.) 318. Rapporti fra Genova e Orvieto di L. Fumi, 320 — S. Monaci. Notizie storiche sul R. Istituto dei sordomuti, 399. — Della storia del porto di Genova di N. Malnate, 476. — Il tesoro della Metropolitana di Genova di L. A. Cervetto, 477.