GIORNALE LIGUSTICO DI ARCHEOLOGIA, STORIA E LETTERATURA FONDATO E DIRETTO DA L. T. ΉELGRANO ed jì. NERI Anno XX — Fascicolo I-II. ANNO VENTESIMO GENOVA TIPOGRAFIA DEL R. ISTITUTO SORDO-MUTI MDCCCXCIII - . Μ . »■ ·· _ SUI PIÙ RECENTI DOCUMENTI SCOPERTI INTORNO ALLA FAMIGLIA DI CRISTOFORO COLOMBO 1 documenti intorno alla famiglia di Cristoforo Colombo recentemente scoperti, mentre concordano pienamente con quelli che già da molto tempo si conoscono, o che furono da me negli anni scorsi trovati, confermano sempre più che Genova è il luogo di nascita del sommo navigatore. Essi tutti saranno riferiti in esteso in uno dei volumi della Raccolta di documenti'e studi della r. Commissione Colombiana, creata con r. Decreto del 17 maggio del 1888; anzi già trovansi impressi, quantunque per non essere il detto volume in ogni sua parte compiuto, non sia ancora licenziato al pubblico. Mio proposito sarebbe stato di non dar notizia di essi prima della pubblicazione della Raccolta sopra indicata, ma poiché in occasione dei festeggiamenti colombiani si rinnovavano le polemiche sul luogo di nascita di Colombo, ed io ho dovuto, per sostenere gli argomenti in favore di Genova, messi in* campo da amici scrittori, indicare tali documenti; e d’altronde siccome alcuno di essi, per esser venuto a cognizione di qualche sciittore, già esci alla luce, ho creduto ben fatto di darne alcuni cenni anch’io, i quali spero, varranno a spargere 4 GIORNALE LIGUSTICO non poca luce sulle controversie che riguardano il celebre nostro concittadino. Primo di tali documenti è un atto del notaro Quilico d’Albenga, in data 21 febbraio 1429, che ho trovato nel nostro Archivio Notarile, col quale Giovanni Colombo di Moconesi, abitante in Quinto, colloca come garzone apprendista nell’arte dei tessitori suo figlio Domenico, allora in età di anni undici. Nessuno vi può essere che non riconosca l’importanza di tale atto. Esso ci addita che il luogo di origine della famiglia è Moconesi, terra nella valle di Fontanabuona, come trovasi confermato da altri documenti che indicano le relazioni di Domenico Colombo con persone di tal luogo, e spiega il perchè Bartolomeo Colombo fratello di Cristoforo, e Cristoforo medesimo potevano dirsi de Terrarubra, essendo Terrarossa una frazione del luogo di Moconesi. Giovanni, avo di Cristoforo, da Moconesi trasportossi in Quinto, ed ivi probabilmente, gli nacque Domenico, che è contemplato nell’atto. In esso costui è indicato in età di anni undici, indicazione importantissima e che ha relazione colla data della nascita di Cristoforo. Questa fu un punto controverso, imperocché mentre la maggioranza degli scrittori la segnava verso il 1447, ve ne erano alcuni che, per loro particolari motivi, ostinavansi a volerla dieci anni prima. Già con l’atto del 31 ottobre 1470, da me scoperto e pubblicato nel 1887, nel quale Cristoforo si dichiarava sui vent’anni, tale opinione era dimostrata erronea. Or poi con questo è tolto affatto ogni dubbio. Domenico che nel 1429 si dice di anni undici, vuol dire che nacque del 1418, per cui del 1437 egli avrebbe avuto non più di 19 anni, età improbabile per supporlo di già ammogliato e con un figlio. Dal documento in data 1.« aprile 1439, da me pubblicato GIORNALE LIGUSTICO 5 nel 1885, ci è noto che Domenico Colombo era già maestro nell’arte di tesser panni, avendo preso a suoi servigi, come garzone in detta arte, un Antonio Leverone del ponte di Cicagna, pure della valle di Fontanabuona, prova evidente del suo stabile soggiorno fra di noi. La qual prova è avvalorata da un altro atto colla data dell’8 agosto 1471, da me trovato non è molto, a rogito del notaro Paolo Deferrari, nel quale il Leverone suddetto, chiamato a testimoniare circa a cose dell’arte dei tessitori, a richiesta di un Michele di Casareggio, dichiara che nella sua gioventù si era accordato come garzone tessitore con Domenico Colombo, che poi abbandonava insalutato hospite, prima che fosse finito il tempo del suo famulato, per cui dopo qualche tempo, cioè, come dice il teste, qtiod possunt modo esse anni viginti sex, quando reversus fuit ipse testis Januam e si accordò quale tessitore presso di un altro padrone, ebbe delle molestie dai consoli dell’arte, a richiesta di Domenico Colombo, e non potè essere ammesso a liberamente esercitare la sua arte se non pagando una certa somma a titolo di multa. Come dissi tale atto è del 1471, per cui tornando indietro di 26 anni si risale al 1445, epoca in cui il Leverone tornò in Genova, ed ebbe le accennate molestie ad istanza di Domenico Colombo, che era in città ed esercitava l’arte di maestro tessitore di panni. Altro nuovo documento è l’atto che porta la data del 6 dicembre 1440, con cui i monaci di S. Stefano concedono a Domenico Colombo l’investitura di una casa posta in via deH’Olivella, della quale prima era investito Raffo de Gravano. È da molto tempo che dalle indicazioni dei libri livellari di detti padri, e da altri atti, si conosceva come Domenico possedesse due case in Genova, l’una in via dell’ Olivella e l’altra fuori porta di S. Andrea non molto lunge da Mulcento, ma finora e per la interruzione nella serie dei libri accennati, 6 GIORNALE LIGUSTICO e per la mancanza di ogni altro documento, restava ignota l'epoca precisa in cui aveva cominciato a possederle. Ora questo atto ce lo addita; e ciò è tanto più importante in quanto che sapendosi da altro atto, che indicherò più avanti, che l’acquisto della casa fuori porta S. Andrea data solo dal 1455, ne consegue che Cristoforo Colombo non può esser nato che nella casa di via Olivella acquistata da Domenico nel 1440. Via Olivella, ora scomparsa, apparteneva alla contrada o conesiageria di Portoria, ed era come una continuazione della attuale salita dei Cannoni, allor detta di Portoria, e correva quasi parallela all’ attuale vico Bosco, ad una porta della città pure detta dell’ Olivella. Questa fu soppressa colla riforma delle fortificazioni fatta sul principio del secolo XVI; ma la via sussistette sino alla fine del secolo passato, in cui venne incorporata alle nuove costruzioni dello Spedale di Pammatone, perciò ora non si può segnare la casa ove nacque lo scopritore del nuovo mondo, e bisogna che ci accontentiamo di conoscerne la posizione. Ma essa è abbastanza precisata per poterla, come sarebbe conveniente che fosse fatto a cura del Municipio, contraddistinguere con una lapide. Questo atto del 6 settembre 1440 fu trovato or sono due anni nella Biblioteca Vaticana dal professore Cesare De Lollis, in un zibaldone di notizie compilato da Onorigiano Balzamini, il quale è il pseudonimo di Gioanni Maria Bolzino, frate domenicano di S. Maria di Castello, vissuto dal 1619 al 1696, il cui vero cognome però deve leggersi Borzino. Costui, uomo dotto e grande raccoglitore di antiche scritture, aveva messo assieme in buon dato notizie, atti e documenti sulla famiglia di Cristoforo Colombo, allo scopo di valersene per confutare il canonico Maria Campi, il quale nella sua Historia Ecclesiastica di Piacenza aveva pubblicato i famosi documenti su cui i Piacentini fondavano le loro pretese. Il lavoro del P. Bolzino, si trova anch’ esso nel citato zi- GIORNALE LIGUSTICO 7 baldone col titolo di Riconvenzione a Pietro Maria Campi; ed è citato nel manoscritto intitolato: Successi di Cristoforo Colombo, trovato alcuni anni addietro nella libreria particolare del Duca di Galliera, ed ora esistente nella Biblioteca Bri-gnole Sale in Genova. Questo manoscritto si volle attribuire ad un G. B. Pavesi, ma in esso è detto chiaramente essere un estratto di questa Riconvenzione di Onorigiano Balzamino. Tornando al documento del 1440, è bene l’aggiungere che lo stesso trovavasi nei rogiti del notaro Giovanni Recco, e che il Bolzino lo trascrisse da una copia autentica dei Padri di S. Stefano, come lasciò segnato in margine del zibaldone suddetto. L’originale poi, che con gli atti del notaro stava depositato all’ Archivio, andò con molti altri abbruciato nel bombardamento avvenuto d’ordine di Luigi XIV, nel maggio del 1684. Anche monsignor Rocco Cocchia ebbe cognizione di tale documento dal zibaldone del Balzamini, e ne trasse copia, che pubblicò in prima nel suo lavoro intitolato: Cristoforo Colombo e le sue ceneri, e quindi, tradotto, nel numero unico stampato in Genova nel 1892 pel centenario colombiano, col titolo: Genova a Colombo. Altro importantissimo documento è quello da me trovato nel codice Diversorum Cancellariae segnato col numero 39. È un decreto sotto la data del 4 febbraio 1447, con cui Giano da Campofregoso doge dei Genovesi elegge dilectum suum Dominicum de Columbo a custode di Porta Olivella, colle paghe ed emolumenti consueti, e per quanto di tempo ad esso doge sarebbe parso meglio. La Porta Olivella, come già vedemmo, era a capo della via omonima, nella quale Domenico del 1440 aveva acquistato una casa, e dove indubbiamente abitava, giacché la carica di custode alle porte non si affidava che a chi aveva l’abitazione poco lontana dalle medesime. E poiché è verso l’anno 1447 la 8 GIORNALE LIGUSTICO data della nascita di Cristoforo Colombo, ne consegue che non può esser nato che nella casa sopra indicata. Alla custodia della porta suddetta non continuò molto Domenico. Giano da Campofregoso, eletto doge ai 30 gennaio 1447, morì in dignità il 16 dicembre 1448, dopo tre · mesi e mezzo di malattia, e prima della di lui morte Domenico Colombo aveva cessato dal suo ufficio, chè un mandato in data del 5 novembre 1448, trascritto nel Manuale del Senato portante il numero 1, ci addita già come custode della porta un .Gregorio Caffarena. Da altri mandati però colle date del 9 dicembre 1450, 7 gennaio e 16 aprile del 1451, rilasciati a favore di detto Domenico, si conosce pure che egli in seguito ritornava alla custodia accennata, nella quale del 1452, fu sostituito da Agostino Boliasco. Infine fra i nuovi documenti colombiani accennerò anche quello del 18 gennaio 1455, con cui i monaci di S. Stefano danno in enfiteusi a Domenico Colombo la casa fuori Porta di S. Andrea, posta nel vico dritto, e che egli aveva acquistata da Giulio de Luxoro. Lo stesso atto fu pure trovato dal professore De Lollis nella citata raccolta del Balzamini alla Vaticana, e con esso ormai è tolto ogni dubbio relativamente alla casa ove nacque Cristoforo, dovendosi assolutamente escludere questa del vico dritto, della quale Domenico entrava al possesso circa otto anni dopo la nascita del figlio suo. Di ciò io era, per molti indizi, persuaso da molto tempo; ed infatti nel mio lavoro illustrativo della casa di Domenico Colombo fuori Porta di S. Andrea, pubblicato nel 1885, mi astenni da ogni accenno che potesse indicarla come quella ove nacque Cristoforo, la qual cosa fu pure avvertita nella iscrizione postavi a cura del Municipio, e dettata dal professore Francesco Pizzorno. Oltre gli accennati, altri nuovi documenti escono alla luce GIORNALE LIGUSTICO 9 nella Raccolta Colombiana, i quali si riferiscono ad interessi particolari della famiglia Colombo, come ad affitti della casa > fuori Porta S. Andrea, al prezzo di quella in via Olivella, alla vendita di terre in valle del Bisagno, al soggiorno di Domenico nella città di Savona e ad altri fatti ; e di questi mi astengo dal dire, perchè, se non sono privi di una qualche importanza, ormai essa è ben minore di fronte ai sopra descritti, i quali pienamente accertano Γ origine della famiglia Colombo, il tempo della nascita di Cristoforo, e la strada precisa della nostra città dove egli ebbe i natali. Solo osserverò, concludendo, come risulti da tutti i documenti che Domenico ebbe stabile domicilio in Genova dal 1429 al 1470, che a quest’ultima data, essendo già Cristoforo sui venti anni, si recò ad abitare in Savona, nella quale continuò sin quasi alla fine del secolo , e donde suo figlio partì per i suoi viaggi a cui poi fecero seguito le tanto memorande scoperte. Mostransi pertanto del tutto prive di fondamento le argomentazioni di coloro che, non curando ì documenti, e fidandosi solo di asserzioni e testimonianze, che, se possono esser state fatte in buona fede, si rilevano però assolutamente contrarie al vero, pretendono nato altrove anziché a Genova la scopritore del nuovo mondo. Marcello Staglieno. IO GIORNALE LIGUSTICO GASPARE GOZZI POETA drammatico Se è vero quello che scriveva, solo un anno fa, un critico nostro, che il settecento in Italia « è quasi terreno inesplorato, sul quale pochi osano o curano porre il piede » (i), verissimo appare per ciò che riguarda la storia del teatro italiano in quel secolo. È una delle parti più intricate ed oscure della nostra storia letteraria; e sebbene non manchino buone monografìe su questo o quell’ autore drammatico, e si sieno tentate sintesi più o meno felici, pur tuttavia resta a spiegarsi come mai nel settecento si sia potuta operare una così sostanziale riforma del teatro, e accanto ai nomi del Gravina, del Martelli, del Chiari, registri la storia quelli del-1’ Alfieri e del Goldoni. Per ciò fa opera utile chi anche degli autori drammatici più oscuri studia le opere, e reca innanzi una certa copia di fatti nuovi e di giudizi probabili. Fra i quali autori ignorati, o poco meno, è da porre Gaspare Gozzi. Delle sue opere drammatiche non si trova che qualche fuggevolissimo accenno anche negli scrittori che più diffusamente discorsero la vita e le opere di lui. Chi ne tratta un po’ più largamente, è il Tommaseo (2), il quale però se ne sbriga in pochi periodi. D’ altra parte conviene riconoscere che, avendo gli editori delle opere complete del Gozzi, pubblicato soltanto Γ uno o 1’ altro dei componimenti drammatici di lui, chi vuole aver notizia di tutti, deve rintracciarli (1) Nuova Antologia, 16 ottobre 1891. (2) Nel volume Storia civile nella letteraria'. « Gaspare Goni » ecc., pag. 180 sgg. (Loescher, 1872); ivi ripete alcuna delle cose dette nella prefazione agli Scritti scelti di Gaspare Goni (Le Monnier, 1849). GIORNALE LIGUSTICO II faticosamente nelle biblioteche; come anche la cattiva consuetudine d’ allora, di dar fuori le traduzioni ed i rifacimenti in proprio nome, rende intricate e lunghe le ricerche intorno ad essi (i). Quando Gaspare Gozzi incominciava ad occuparsi di letteratura drammatica (e il primo scritto di questo genere è la difesa di una traduzione delle tragedie del Racine, non tentata, ma veramente pubblicata da Luisa Bergalli nel 1736), Venezia aveva non meno di sette teatri, dei quali tre servivano per Γ opera in musica, seria e buffa, e ben quattro per le tragedie e commedie (2), più, fatta la debita proporzione, che nelle altre città d’Italia. Trionfava, coni’ è noto, la commedia a soggetto, e le maschere attiravano gran folla, ma vi si davano anche produzioni regolari, od originali o tradotte dal francese. Conviene infatti ricordare che a promuovere la riforma del teatro italiano nella prima metà del settecento, i letterati credessero opportuno far conoscere all’ Italia i capolavori della drammatica francese, e a tradurre le più insigni tragedie 0 commedie di quella nazione, ponessero mano ΓΑ1-bergati-Capacelli, il Fabbri, il Paradisi, il Casali e va dicendo (3). Quanto alle produzioni originali, cominciavano ad apparire sulla scena i primi drammi'del Chiari, che oggi più nessuno legge (4), ma che allora ottenevano (non dico tutti) grande successo per la novità degli accidenti, la sentimenta- (1) Si vegga quante omissioni nelle Notice intorno alle edizioni delle opere di Gaspare Goni, raccolte dal Gamba (con Γ Elogio del Pindemonte in Elogi di lett. it. : Verona, 1826, t. II, p. 263 e segg.). (2) Gozzi, Osservatore, Pronostico del Velluto ecc.; Arrigoni, Notizie ed osservazioni intorno all’ origine ed al progresso dei teatri in Venezia (Venezia 1840), passim. (3) Masi, La vita, i tempi, gli amici di F. Albergati (Boi., 1878) p. 128. (4) Strano davvero che il pubblico di alcune città italiane abbia applaudito, proprio quest’anno, La Serva sen\a paron del Chiari. 12 GIORNALE LIGUSTICO lità di alcune scene, l’ampollosità della forma (i); e già il Goldoni mostrava d’ intendere a quella riforma della commedia, a cui doveva venire così fiera opposizione dall’ invidia del Chiari stesso, e dalla ostinata insipienza di Carlo Gozzi. Quali fossero propriamente le idee di Gaspare intorno al teatro, non è facile dire, mancandoci ogni testimonianza. Solo più tardi lo vediamo nella Gazzetta Veneta e nell·' Osservatore o dar conto delle commedie che si rappresentavano a Venezia, o esprimere desideri e propor consigli agli autori. Certo è che anch’ egli credette di promuovere una riforma del teatro traducendo, come altri, dal francese; anzi dal '43 fin verso il '55 non trovo ch’egli, nel campo della letteratura drammatica, altro facesse che tradurre. Fu detto da alcuno che egli e la moglie tradussero o scrissero drammi « per distrarsi da altri lavori più seri (2) » ; ma il vero è che alla moglie, ia quale malauguratamente s’era accollata l’impresa del teatro di Sant’Angelo, il Gozzi forni traduzioni e drammi originali; cosicché se v’ebbe parte un nobile desiderio di cooperare alla riforma del teatro, v’ ebbe pur parte anche il bisogno. Non è senza interesse notare che il nostro autore incominciò a tradurre (e non piuttosto ad imitare o comporre senz’ altro opere originali), per addestrarsi un poco alla volta nella difficile arte della scena, e tener poi solo il guado. Lo accenna egli stesso nella elegante dedica dell’ Elettra a Lorenzo Martello: Dogliosa donna io non condussi ancora Fra lumi e suoni e colorite scene, Che narrando i suoi mali al popol mesto (1) Vedi nel volume del Tommaseo già citato,il bello studio su P. Chiari ecc. p. 260 e sgg. (2) Moschjni, Della letteratura veneziana del secolo XVIII, t. II, p. T27 (Venezia, 1806). GIORNALE LIGUSTICO r3 Orrore intorno e lagrime svegliasse. Or fò come uom, che per tentar la via Del pelago profondo, in altrui legno Comincia il corso, e qua e là s’aggira Sotto nocchier perfetto e buon governo, Nè da sè solo pria s’ affida all’ onde. Tempo verrà di poi eh’ entro a quest’ acque Spiegherò vele anch’ io con lieti auguri Sotto il favor di quell’ aura seconda Cui procacciommi la tua dotta lingua.... Prima per altro che a tradurre drammi francesi, il Gozzi avrebbe posto mano a volgarizzare le commedie di Plauto. Lo asserisce il Tommaseo (i) ricavando la notizia non so donde: essa per altro trova una conferma nel fatto che la sera del 30 gennaio 1756 (1755 in istile veneto) fu rappresentata « in versi eroici una commedia intitolata Li quattro simili di Plauto, della rinomata penna del signor Co. Gaspare Gozzi ». Del successo nulla dice il Gradenigo (2), da cui tolgo la notizia; nè possiamo farci noi stessi un’ idea del pregio di quella versione, perchè è andata perduta, insieme colle altre. Curioso intanto è notare come nel secolo scorso accanto alle commedie a soggetto, si esponessero le commedie di Plauto, che parve un’ audacia de’ giorni nostri. Ma torniamo alle versioni dal francese. La prima tragedia tradotta dal trentenne scrittore, è Γ Elettra, il libretto della quale usci nel 1743 con questo titolo: « Elettra, tragedia da rappresentarsi nei teatro Grimani di S. Samuele ». Ad essa seguirono la Medea, data nel 1746, e Γ Edipo, rappresentato nel 1749. Che si tratti di versioni, non parrebbe da dubitare : lo ac- (1) Op. cit. 221. (2) Commemoriali inediti al museo Correr, vol. III. GIORNALE LIGUSTICO cenna infatti il Gozzi stesso nella dedica della prima (i), e lo dichiara espsessamente 1’ editore delle opere gozziane del 1758 (2). Ma da quali autori esse tragedie sieno tradotte, è ben difficile poter dire, chè bisognerebbe passar in rassegna tutte le produzioni drammatiche francesi dalla metà del seicento alla metà del settecento : impresa ardua, se si pensi che, come attesta un critico francese, il Despois (3), dal 1660 al 1675 si contano sessantatrè tragedie e centoventinove commedie, e dal 1700 al 1715 trentatrè tragedie e settanta-due commedie! Certo è ch’esse non presentano strette somiglianze con le corrispondenti e note tragedie del Crébillon, del Voltaire, di Pietro Corneille, e che dei tragici minori che abbiano ottenuto qualche nominanza, come il Campi-stron, il Boyer, il Lagrange-Chancel e via dicendo, niuno ha composto tragedie su quei soggetti (4). Io inclinerei perciò a credere che quelle tre tragedie non sieno realmente tradotte, ma piuttosto raffazzonate dal francese dei tre celebri autori sopra citati, non senza qualche reminiscenza classica. Notevole è nelV Elettra la varietà dei metri adoperati. Abbondano, oltre gli sciolti, i quaternari, i quinari, i settenari intramezzati da endecasillabi. Eccone qualche saggio. L’ estreme terre (5) Hai del tuo sangue (1) Ed ora vien (Elettra) dal bel gallico regno Ove altri le insegnò con novo stile Angosciose parole e mesti detti Che qui n’ esprimerà con altra lingua. (2) Vedi la prefazione al tomo primo. (3) Le thèatre français sous Luis XIV, Paris, 1886 (III ediz.) p. 203 n. (4) Cfr. Quérard, La France littéraire, Paris, 1827, agli articoli corrispondenti. (5) Cosi dice Elettra ad Oreste, da lei creduto morto (A. Ili, se. 5). GIORNALE LIGUSTICO r5 Bagnate e tinte. Ah ! fuor della tua patria Morir fosti veduto, E non avesti almen la tua sorella. Ch’ io t’ avrei abbracciato Stretto, baciato e colto Lo spirto fuggitivo: Io t’ avrei chiuso gli occhi Sempre piangendo, sempre. Ahi ! questi uffizi estremi Gli avrà fatti una mano Senza amor, senza cura, E forse tua nemica. Teco ricevimi In questo vaso, Che già son morta ecc. El. Oh ! mio fratello f Or. Ah ! ah ! sorella ! Oh cara Elettra ! Dopo dieci anni D’ alte sventure Pur ti riveggo. El. Alfìn poss’ io Questo mio pianto Mescer con le tue lagrime (i). Lasciami piangere Liberamente, Lasciami gemere Oh Dio, oh Dio ! (2) Deh ! come non vedesti Che mentre ella il marito Difendeva (1) A. IV, s. 8. (2) A. Ili, s. 5. ié GIORNALE LIGUSTICO Furibonda Disperata, Ciecamente Da’ tuoi fieri Spessi colpi Che sfolgorando contro a lui vibravi, D’ una mortai ferita Fu colta anch’essa e per tua man sen cadde? (i) In generale a queste tragedie del Gozzi manca nerbo ed efficacia; lo stile è piuttosto adatto al melodramma che alla tragedia, e Γ espressione languida e quasi prosastica. Si direbbe che il Gozzi ha rivolto tutta la sua cura alla proprietà e finezza della elocuzione, badando più a esprimersi elegantemente, che efficacemente. Del che si vanta egli stesso nella dedica dell’ Edipo (2). In nessuna edizione delle opere del Gòzzi, in nessuna raccolta di componimenti drammatici stranieri, recati in italiano, manca la versione dalla più fortunata tra le tragedie del Voltaire, la Zaira; il che basterebbe ad attestare i suoi pregi, tanto più che il settecento ne conta ben altre cinque (3). Quella del Gozzi, che è delle prime, uscì nel 1749 (4)· Scrive (1) A. V, s. 7. (2) Abbiasi quanto vuol chi vuole, a schivo Si dolce lingua (ita/.), ed i suoi fogli verghi Con aspre, incolte e non elette voci; Che pria del suo morir vedrà sepolte Le sue lunghe fatiche. Il volo spiega Rapido il tempo, e a piena man correndo, Sparge ruggine ed ombra, in cui s’involve Qual opra d’eloquenza arte non chiude, E di favella industrioso vezzo. (3) Allacci, Drammaturgia continuata fino all’anno Venezia, 1755· (4) Il Voltaire la scrisse nel 1732. Le sei traduzioni comparvero tra il 1747 e il '52. GIORNALE LIGUSTICO 17 il Tommaseo (1) che, così tradotta, rappresentavasi ancora al suo tempo, e loda il traduttore di aver saputo dare « semplicità ed eleganza, speditezza, varietà a quel linguaggio sovente così artifiziato, a quello stile sovente così prolisso, a quei numeri così eguali ». Anziché riportar qualche tratto del testo e della versione, metterò a confronto la traduzione del Gozzi con quella di G. B. Richeri, che pure fu stampata due volte sulla fine del secolo XVIII, come migliore delle altre (2). O d’ anni fresca e di bellezza adorna. Zaira, quai pensieri in te risveglia Or questo loco, inusitati e novi ? Qual lusinga e speranza, o qual tua sorte Cambia i tuoi tenebrosi in dì sereni ? Cresce la pace tua, cresce con essa La tua beltà; nè i tuoi begli occhi io veggio Più di lagrime ingombri. (A. I, se. 1, Gozzi) Creduto io non avrei, bella Zaira, Quei nuovi sensi udir, che a voi nell’ alma Ve destando il soggiorno in questa reggia. Quale speranza lusinghiera, e quale Fortunato destino i vostri giorni Torbidi rasserena? A voi nel volto S’ accresce la beltà, nel cor la pace, E il vivace splendor de gli occhi vostri Più non si oscura al pianto. (Richeri) Eccomi sola in preda al dolor mio. Lassa ! son moglie di Orosmane, o figlia Di Lusignano ? 0 giuramento, o pena O padre, o patria, io vi farò contenti ! (A. IV, se. 6, Gozzi) (1) Op. cit. p. 217. (2) Tragedie di Voltaire recate in italiano (Venezia, 1783). Giorni. Ligustico. Anuo XX. iS GIORNALE LIGUSTICO Eccomi sola ! Oh ciel che fia di me ! Deh ! per pietade Fa che il mìo core, o Dio, non ti tradisca. Ma per vero son io Franca o Sultana ? Figlia di Lusignano o pur la moglie D’Orosman? Sono amante o pur fedele Al Dio che in questa terra ebbe la morte ? Oh giuramenti, che pur ora io feci ! Mia Patria, Padre mio, sì, sì sarete Contenti alfin (Richeri). Sono endecasillabi fatti egregiamente; e vien voglia di dar del matto a quel brav’ uomo del Baretti, che nella prefazione alle Tragedie di Pier Cornelio da lui tradotte (Venezia 1747), trova la ragione del poco successo di alcune tragedie « fatte secondo e buone regole di messer Aristotile » nell’ essere scritte in versi non rimati, e vorrebbe si adottasse per il teatro Γ ottava rima ! La Zaira così tradotta piacque moltissimo; avverte per altro Γ editore delle opere del Gozzi del 1758, che « ΓAutore professa d’ avervi fatto diversi cambiamenti, i quali furono giustificati dall’ accoglienza eh’ ebbe questa tragedia ». Invero questi cambiamenti non sono nè molti, nè importanti, e il solo che meriti attenzione è nella catastrofe: il Voltaire fa che Orosmane, uccisa Zaira, si ritiri, pazzo di dolore, nella reggia, il Gozzi invece immagina eh’ egli si uccida. Ecco i versi aggiunti dal traduttore : Questo mortale orror che per le vene Tutte mi scorre, ormai non è dolore Che basti ad appagarti, anima bella. Feroce cor, cor dispietato e misero, Paga la pena del delitto orrendo. Mani crudeli, oh Dio ! mani che siete Tinte del sangue di sì cara donna. Voi... voi... Dóv* è quel ferro? un’altra volta GIORNALE LIGUSTICO 19 In mezzo al petto,., oimè, dov’è quel ferro? L' acuta punta,.... Tenebre e notte Si fanno intorno..... Perchè non posso Non posso spargere Il sangue tutto? Sì, sì, lo spargo tutto: anima mia, Dove sei ?.... più non posso... oh Dio ! non posso.... Vorrei vederti.,... io manco, io manco, oh Dio ! Non posso dire in qual anno traducesse il Gozzi F altra tragedia del Voltaire Marianne, rappresentata, a Parigi otto anni innanzi la Zaira (1724); anche quesra traduzione trovasi nelle principali edizioni delle opere complete del Gozzi. Tradusse infine di tragedie La morte di Adamo del Klop-stok, che imparò a conoscere da una versione francese, di cui rende conto egli stesso nella Gaietta Veneta dei 24 ottobre 1760. Essa traduzione fu giudicata dal Tommaseo « una delle più care cose che il Gozzi abbia scritte » (1). Molto più numerose delle tragedie, son le commedie tradotte dal nostro. Lasciamo stare la questione sollevata dal Tommaseo (2), se la traduzione delle commedie del Molière puhblicata dal Novelli in Venezia nel 1756, sia del Gozzi. Invero quindici anni innanzi eragli stato proposto questo lavoro, ma la grettezza dell’ editore Pitteri, che gliel’ offeriva, non aveva trionfato quella volta delle ristrettezze finanziarie del giovine scrittore (3). Il Novelli afferma bensì che questa nuova traduzione « capitatagli per buona ventura alle mani », (1) Op, cit. p. 216. (2) Op. cit. p, 219. (3) Lett. al Seghezzi dei 18 ottobre 1741, citata dal Malamani nel suo studio su Gaspare Gozzi (Nuovo Archivio Veneto, A. I, p. I, p. 2o)‘. 20 GIORNALE LIGUSTICO è « d’illustre persona, pratica di simigliami lavori, e d’ una infaticabile diligenza »; ed invero, se ne togli qualche improprietà, dovuta forse alla fretta, è fatta con garbo. Noi veniamo a dir brevemente delle versioni che sono senza dubbio del Gozzi. La prima in ordine di tempo è V Esopo alla corte, o, per citare il titolo datole del Gozzi, Le favole d’ Esopo alla corte, commedia del Boursault (1690), che usci con questo titolo e senza il nome del traduttore del 1747 (1). Al Tommaseo non è sfuggito che il Gozzi non dette il .proprio nome a quella versione, e ne cerca la ragione nel-P aver voluto egli serbare la dignità letteraria, nell’ aver sdegnato di apporre il proprio nome a cosa non interamente propria nè, forse, fedelmente tradotta, infine nel parergli men bello esser tenuto partecipe al teatrale commercio della moglie. Ma ad altre composizioni drammatiche tradotte o raffazzonate dal francese, dette il nome suo il Gozzi; lo diede all’ Esopo in città, che uscì 1’ anno appresso, e eh’ è tradotto anch’ esso dal francese dallo stesso Boursault. Egli forse, incerto del buon esito della commedia, avra voluto per il momento tacere il suo nome. Il fatto è che quella commedia ebbe fortuna, vuoi (scrive il fratello Carlo) (2) per la elegante traduzione vuoi per il suo aspetto di novità (3). Incoraggiato dal buon successo espose il Gozzi Γ Esopo in citta. Nota il (1) Senza l’aria di farla da maestro al Tommaseo, noto ch’egli ha confuso nel suo studio questa commedia coll’ altra Esopo in città : di qui alcuni giudizi inesatti. — Noto ancora che il titolo della commedia tradotta dal Gozzi è conforme a quello datole dall’ autore nella edizione del 1746 (Cf. Quérard, op. cit. I, 476). (2) Memorie inutili, I, 28. (3) Lo afferma anche il Baretti nella prefazione al tomo secondo delle Tragedie di Pier Cornelio da lui tradotte (Venezia 1747» P· 4-8)· GIORNALE LIGUSTICO 21 Dal Mistro, proemiando all’edizione delle opere dal Gozzi del 1812, che « è a dirsi.... che l’Autore stimasse non poco questo suo lavoro, sebben fosse una traduzione dal francese, se il dedicò con nobile lettera in versi sciolti all’ immortale Marco Foscarini ». Senonchè il fratello Carlo attesta che il concorso fu scarso e F esito poco lusinghiero. « Esopo alla corte colle sue favolette ad ogni proposito scritte eccellentemente, colla sua figura scrignuta e grottesca.... era piaciuto; Esopo in città colle cose medesime, ma che aveva perduta la forza dell’ aspetto di novità, parve un plagio delF altro, composizione snervata » (1). È curioso e insieme triste vedere come in questa traduzione il Gozzi, a sfogo di rancore personale, o più probabilmente a soddisfacimento di altrui bizze, introducesse due scene del tutto nuove, allusive alle discordie che funestavano in quegli anni casa Gozzi. Sono le scene sesta e settima dell’ atto terzo. Una vecchia signora, vestita a lutto, narra ad Esopo che, andata a marito, ebbe da lui cinque figliuoli, tre maschi e due femmine. Per lungo tempo, ella dice, io fui madre fortunata, Perchè c’ era un amore, una concordia Ne’ figli miei, eh’ io credeva di fare La mia vecchiezza riposatamente E chiuder gli occhi in braccio de’ miei figli Morì mio marito, (1) Luogo cit. Francesco Gozzi, figlio di Gaspare, in alcune memorie autografe della sua vita, che si conservano inedite al museo Correr (nel cod. 2899 della raccolta Cicogna: codice un po’ guasto, ma di chiara lettura) accenna al buon successo dell’ Esopo, senza specificare di quale dei due si tratti, e aggiunge che gl’ impresari del teatro, eh’ erano poi i coniugi Gozzi, « presero un poco di fiato ». Di qui rilevasi anche che tale impresa, di cui il Tommaseo fissò l’anno al 1758, e gli altri biografi del Gozzi tacciono, dev’ esser stata assunta nel 1747, o in quel torno. 22 E nella fratellanza de’ miei maschi Per un tempo seguì lo stesso affetto E la stessa amicizia. Erano tutti D’ un cuore, erano tutti d’ u«a mente E quel che 1' un volea, 1’ altro volea. Ora uno, sobillato da un legista, ed un altro si unirono contro il terzo, Ch’ è maritato ed ha cinque figliuoli. Esopo chiede all’ amico Learco, di che natura sieno gli avvocati in Cizica, e P altro gli dice che in generale son brava gente: allora l’arguto greco narra la favoletta « delle api e del regno », con cui vuol mostrare che il cattivo avvocato Guasta 1’ arte, e in cambio Converte il sugo buon dell’ eloquenza In amaro veleno, e lo tramuta In pianto ed afflzion degl’ infelici ; rimanda poi la donna esortandola ad aver pazienza. Aggiungerò, per appagare la curiosità del lettore, che quella scena non fu intesa dal pubblico, e che i fratelli Carlo e Francesco assistenti alla rappresentazione, furono indignati, nè la perdonarono a Gasparo di aver portato in piazza le private loro questioni. Quanto ai pregi letterari dirò che la versione di queste due commedie è realmente tra le cose più garbate del Gozzi. Le favolette inserite in esse, tredici nella prima, e diciasette nella seconda, nella varietà dei metri, nella signorile eleganza e proprietà della elocuzione, gareggiano con quelle dei migliori favolisti italiani; nè so perchè nelle antologie gozziane si riportino soltanto quelle dieci o dodici più comuni. Ne citerò una delle più brevi e men note: GIORNALE LIGUSTICO 23 Un uom giunto a cinquant’ anni Con cervello e senno poco, Pien d’ amore e pien di foco Entrar volle in gravi affanni. Di due mogli (bella usanza 1) \7olle sposo diventare ; Che per farlo disperare Una sola era a bastanza. Sessant’ anni 1’ una avea, L’altra appena ventidue ; L’ una e 1’ altra a voglie sue E a suo modo lo volea. La più vecchia desiava Ch’ ei sembrasse di sua etade, E con 1’ altra, come accade, Bestemmiando s’ azzuffava. La più giovane avea in core Di cambiargli sì 1’ aspetto, Ch’ ei paresse giovanetto Dell’ età proprio sul fiore. Per mostrar di governarlo L’ una e 1’ altra ciascun giorno Con amor gli stava intorno E voleva pettinarlo. Per far paghi i lor pensieri I capelli fuor di testa Gli cavava quella e questa, L’ una i bianchi, e 1’ altra i neri. Sinché poi calvo e pelato Raso e liscio qual zuccone, Venne a noia alle persone E per tutto beffeggiato. 24 GIORNALE LIGUSTICO Perchè sieno gli sponsali Fortunati e graziosi, Debbono essere gli sposi E di voglie e d’ età uguali. Era 1’ uomo in eh’ io mi specchio E il qual ebbe tal fortuna, Troppo giovane per 1’ una E per 1’ altra troppo vecchio. (A. V, se. ult.). Nel *47 aveva tradotto il Gozzi La finta semplice di non so qual autore ; nel '48 tradusse I filosofi innamorati della Destouches : più tardi queste altre quattro commedie : Cenia di madama d’Apponcourt, L’ ostacolo improvviso del Destou-ches, il Democrito di Holerot, e la For^a dei natali, pure del Destouches, le quali trovo pubblicate tutte insieme nel '54, nel Teatro comico francese ecc. Di esse, le due prime sono tradotte in prosa, la terza in verso sciolto, e la quarta in martelliani. Nelle due tradotte in prosa non risplende 1’ u-sata proprietà ed eleganza, anzi vi si notano parecchi neologismi e locuzioni stentate (1); se è vero che il Gozzi diede talora il nome a lavori della moglie, questa versione potrebbe benissimo essere opera di lei. Il Democrito non è inferiore all’ uno ed all’ altro Esopo. Invece La forza dei natali è, anche a giudizio del Tommaseo, la più scadente. Il Gozzi, sebbene facesse parte degli accademici granelleschi, che qualificavano i versi martelliani spuntoni, canne da servitiale e peggio, usò in essa questo metro, credendo forse, col Goldoni, che le commedie rimate piacessero più che quelle in prosa; (1) Cito, così a caso, formalità, sentir negative, avere un certo che del provinciale, superfluità, il pranzo è sulla tavola, farlo un poco venire a rotta col figlio ecc. 25 ma la prova gli riuscì male. 11 Tommaseo fa notare quanta differenza sia tra questi versi del testo francese, Elle est dans le jardin, elle aime à la folie Le grand air, la verdure, et les lieux écartés, Toujours sombre, rêveuse. e la versione italiana : A pigliar aria Nel giardino (è andata). Il suo gusto è starsi solitaria Fugge ognor della gente la conversazione; Parla con qualche pianta d’ arancio o di limone. Che ruvida ragazza ! Ma quanti se ne potrebbero citare di più goffi ! Ma la servitù dunque in sontüosità Di vestito alla vostra figlia eguale si dà? Essi aneleranno insieme a preparare il loco, E ci godremo in pace questo amoroso foco. « Il Goldoni (cito il Tommaseo) non è più goffo, laddove egli è goffo, ma certo, quasi sempre più vivo » (i). D’ altre tragedie o commedie tradotte dal Gozzi io non ho notizia, per quanto abbia frugato tra carte vecchie ed esaminati registri (2). Concludendo dunque dirò che, tutto sommato, non parmi si possa consentire pienamente nel giudizio dell’editore del Teatro tragico francese ad uso de’ teatri d’Italia, uscito nel 1770 in Venezia, il quale distinguendo due specie (1) Op. cit. 218. (2) I tre matrimoni non sono una commedia, come disse taluno, ma un melodramma giocoso, rapp. il 13 nov. 1756 (Gradenigo, Comm:, vol. III). 2 6 di traduzioni, di cui la prima è « una serie di copie goffe e servili d’una precipitata discendenza di produzioni immature, perchè generate dal bisogno e dalla fretta abortite », e l’altra reca « utile e decoro all’Italia » (i), pone senz’altro nella seconda tutte le traduzioni del Gozzi. Alle tragedie, generalmente parlando, manca vigoria e solennità tragica ; ad alcune commedie eleganza e vivezza : il tiranno signore dei miseri mortali oppresse talvolta anche 1’ onesto letterato veneziano. Ma veniamo a parlare delle opere originali, da lui composte dopo il ’5o. Parrà strano a prima giunta che un letterato come il Gozzi, d’ingegno acuto, con una vena di sano umorismo, con una particolar forza di osservazione, e il quale presenta perciò una cotal rassomiglianza col suo concit-adino il Goldoni, non abbia egli stesso posto mano a commedie ; ma la ragione è da cercare vuoi nella difficoltà a cui conosceva di andar incontro avendo, per dir così, a competere con quello, vuoi nella vita stessa di lui, contrastata, angustiata da mille dolorose vicende, e, mi si passi l’espressione, assai più tragica che comica. Ma non sono propriamente tragedie le tre composizioni originali del Gozzi ; esse appartengono al genere di quelle che nel seicento e nel settecento furono dette tragicommedie: forma drammatica che partecipa della tragedia, in quanto l’azione è tutta seria, e della commedia, in quanto il fine è lieto. Più d’uno di tali componimenti scrisse anche il Goldoni avanti il ’jo, e vennero applauditi ; ed esso fu il genere trattato dal nostro, sebbene giudicasselo una infelice invenzione suggerita dal bisogno di cercar nuove forme drammatiche, e gli paresse eh’ esso abbia « un certo che del bastardo » (2). Infatti egli non intitolò (1) Pag. 11. (2) Osservatore, Ragionamento del Velluto intorno ai teatri. GIORNALE LIGUSTICO 2? così le sue composizioni, ma gli piacque chiamarle rappresentazioni sceniche ; del qual nome rendeva egli stesso ragione ad un immaginario anonimo (che gli avea chiesto come sarebbesi potuta intitolare La navigatione di Enea, data a Venezia nel 1760) dicendogli che così in antico si erano designate le rappresentazioni dei drammi sacri, mescolate di elementi tragici e comici (1). Che se il Gozzi, traduttore di tragedie, non ne compose egli stesso, la ragione sarà da cercare (per intenderci con una parola sola) nella moda, per cui « la tragedia, componimento ripieno di tanta magnificenza e maestà, in Venezia era e per un riprezzo de’ poeti.... abbandonato quasi del tutto, piuttosto perchè l’udienza non le accogliesse volentieri» (2). Incominciamo da L’Antiochia (3), il fatto della quale è tolto dalla storia ecclesiastica, e propriamente dalle omelie di S. Giovanni Grisostomo intorno agli Antiocheni, minacciati da prima di fiera punizione da Teodosio, per lo sfregio fatto alle statue di lui, e poscia generosamente perdonati. Nel por mano ad una tragedia d’indole religiosa, pareva al Gozzi (e se ne compiaceva) di « aprire una via che già fu calcata con tanta magnificenza da Greci », e che avrebbe potuto « somministrare al teatro quella grandezza eh’ esso aveva perduta affatto ». E fu invero non piccolo ardimento porre sulla scena un fatto di tal natura, senza introdurvi uno degli elementi per sè stessi più drammatici, 1’ amore. Fattala (1) Ganetta veneta, n. 87. (2) Ganetta veneta, n. 77. (3) Il citato Gradenigo nel suo diario, ai 28 gennaio 1758 (st. ven. ’57), scrive : « Antiochia liberata in versi sciolti, recitata con poca fortuna nel teatro di S. Giovanni Grisostomo, composta dal co. Giacomo Gozzi ». Per me non v’ ha dubbio che si tratti di un lapsus calami, non vivendo allora un Giacomo Gozzi commediografo. 28 GIORNALE LIGUSTICO rappresentare, alcuni pochi la reputarono buona, ad altri parve non riuscita, appunto per la mancanza dell’elemento erotico. Sperava il Gozzi che, ripetuta nelle sere successive, piacesse più; ma la stagione perversa impedì alla gente di accorrere al teatro, ed egli rimase in dubbio « se l’Antiochia meritasse o no d' essere comportata » (i). Vediamo 1’ intreccio di essa. L’imperatore Teodosio, adirato per l’oltraggio recato alla sua maestà dagli Antiocheni, ha dato ordine a Cesario, suo generale, di punirli severamente: Ecebolo, governatore della città, chiede grazia per essi, ma non è ascoltato, anzi vien tratto prigione. Intanto la moglie Antigona, accompagnata dal figliuoletto e da un coro di donne, va ad implorare pietà da Cesario, ma ella pure nulla ottiene (I). Allora essa stessa e Laodice, sua cognata, si recano dall’ Ignoto (San Giovanni Grisostomo), perchè egli interceda presso Cesario in favore dei loro concittadini, e ottenga la liberazione del marito e fratello. Ma un malvagio filosofo, Elleno, alle cui voglie Laodice non ha voluto cedere, e per le cui arti maligne Ecebolo è stato imprigionato, non consente a ritirare l’iniqua accusa ; nè valgono a indurlo a più miti consigli le preghiere di Laodice e le ammonizioni dell’ignoto (II). Questi intanto, avendo annunziato a Cesario che Teodosio sta per giungere ad Antiochia, ha ottenuto si sospenda la punizione degli Antiocheni. Elleno propone a’ suoi concittadini un mezzo per isfuggire al minacciato castigo : cantar inni avanti le statue dell’ imperatore : ma essi ricusano, sì che 1’ altro cerca d’indurre Cesario a farla finita (III). Non essendogli riuscito questo disegno, egli fa in modo che gli Antiocheni si armino, preparandosi a impedire essi stessi, coll’ armi alla mano, la loro pu- (i) Prefazione del Gozzi alla stessa. 29 nizione. Antigona e Laodice, sottrattesi al tumulto, vanno a porre in salvo il figliuoletto e nipote nella grotta ove dimota P Ignoto. Elleno che per caso s’ aggirava da quelle parti, scoperta Γ abitazione di costui, pensa di far cadere sopra di esso la colpa del tumulto scoppiato dianzi. Infatti le due donne, uscite dalla grotta, dove non han trovato 1’ Ignoto, sentono da Ecebolo la calunnia mossa contro il venerando uomo. Ecebolo vorrebbe condurre seco il figlio, perchè facesse testimonianza a Cesario della innocenza dell’ Ignoto. Antigona sta lungamente incerta che debba fare, alla fine lo rilascia al padre (IV). Giungono frattanto Cesario ed Elleno, che additano a questo il luogo dove, com’ egli dice, Antigona ha tentato di celare col figlio anche Γ Ignoto. Questi si dichiara innocente; intanto un Vittorino, testimonio falso, compro da Elleno, punto dai rimorsi, confessa il suo falle, e Cesario, conosciuta l’innocenza dell’ Ignoto, il proscioglie e fa imprigionare Elleno. Resta a placar Teodosio che giunge in buon punto, e vinto dalle preghiere dell’ignoto, perdona agli Antiocheni (V). Data la povertà del soggetto preso a trattare, 1’ azione è abbastanza viva e l’intreccio non del tutto infelice. Certo non manca qualche prolissità e inverosimiglianza : per esempio, 1’ atto terzo e alcune scene dei due ultimi si potrebbero togliere come superflue; i personaggi poi si fan trovare al momento e nel luogo opportuno, per mero accidente, senza una vera e propria ragione; ma conviene anche pensare che il Gozzi non volle scostarsi dalle consuetudini del tempo, e distese il suo dramma in cinque atti, conservando le unità di tempo e di luogo. Queste ultime per altro egli non seguì tanto rigorosamente quanto solevasi dai più, chè l’azione non si svolge in un solo giorno, e la scena, pur essendo sempre « fuori delle porte di Antiochia », è posta da prima nelle vicinanze di una di quelle, poi presso la grotta dell5 Ignoto. 30 GIORNALE LIGUSTICO Altri difetti si potrebbero notare nelVAntiochia. L’ azione riposa in sostanza sulla punizione degli Antiocheni, minacciata da prima, e poscia sospesa a cagione della venuta di Teodosio stesso : or come mai di questa venuta nulla sa Cesario, ed è Γ Ignoto stesso che gliel’ annunzia ? Aggiungi che mentre da prima tutto Γ interesse del dramma sta appunto nella penosa incertezza in cui si trovano gli Antiocheni, d’ essere o no puniti, si sostituisce poscia ad essa F interesse per la sorte riserbata all’ Ignoto. Bene ideato invece è l’episodio della congiura ordita da Elleno. Invero è questo il personaggio artisticamente più perfetto di tutto il dramma : senza dubbio è migliore di quello dell’ Ignoto, che pur dovrebbe grandeggiare sugli altri, e eh’ è invece sbiadito e senza rilievo. E la ragione è da cercare in questo stesso giudizio del Gozzi intorno al personaggio di Semiramide nel Zoroastro del Gol-doni: « La tragicommedia, componimento per sè mostruoso,... non può cóme la tragedia esser sublime, nè, come la commedia, piacevole. Nei personaggi grandi e famosi, è difficile il tenere una via mezzana, e volendola tenere, s’ esce dal debito carattere facilmente » (i). Dal contrasto tra il filosofo malvagio e 1’ ardente cristiano avrebbe potuto il Gozzi trarre miglior partito, facendo spiccare nel secondo la vivezza della carità, il sentimento della giustizia : ma, per dirla con Dante, non era da ciò la soma dello scrittor veneziano. Invece han qualche accento nobile e generoso il sentimento dell’ onore, per cui Laodice dichiara che non piegherà ai voleri di Elleno, dovesse pure incontrar la morte ; e 1’ amor materno di Antigona, che vorrebbe sottrarre al pericolo di morte il figliuoletto, e alfin io rilascia al marito. Delle scene più belle del dramma riporto qui qualche tratto. (i) Ganetta veneta, n. 85. GIORNALE LIGUSTICO Elleno. Vecchio privo di inente e di consiglio, 10 veggo ben che di molt’ anni il peso T’ ha Γ intelletto indebolito e scemo. Dimmi, vecchio idiota, che ti vanti D’ esser salito co’ pensieri al cielo, Dimmi, che lo saprai, se umano ingegno Può quest’ empia città salvar dall’ ira Salda e tenace degli offesi Numi? Dove onorasi Giove? Ove de’ padri Nostri gli antichi Numi ? e perchè 1’ erba Copre le are di Venere e di Apollo? Tuonano invano e ne minaccian morte Dalle profonde lor cave spelonche Non creduti gli Oracoli, ed a pochi E segreti de’ Numi sacerdoti, Mostran gli antri esplorati alta rovina. Chi puote opporsi ove Γ Olimpo ad ira Commosso è tutto ? e qual possanza umana Può contrastare alla fatai vendetta Che irato cielo alla città destina? Ignoto. Profano labbro e difensor de’ Numi Che son terra e metallo, ornai ti chiudi ; Serba in tuo cor voci esecrande ed empie E tu, somma virtù, che dalle stelle Possa nell’ alma e nelle menti infondi, Mostra a colui che un miserabil vecchio Curvo per gli anni e da stanchezza domo, Può dalla morte e dall’ estremo danno Tante genti salvar. Questa ti chieggo Non al mio pianto, od alle preci mie Ma al comun pentimento, al comun pianto Grazia e pietade. In me tanto s’ infonda Di vigor, d’ eloquenza e di virtude, Che il mio parlar possa in Cesario, e tocchi 11 suo cor mia favella, e salvi alfine Questa bella città, che prima offerse Ad un culto verace altari e voti (A. II, se. /V 32 GIORNALE LIGUSTICO Ecebolo Io veggo, io veggo Empia furia rapirlo {ilfigliuoletto) e non più al collo Materno strette le tenere mani, Ma lacerate palpitar in terra Ed alla madre i moribondi lumi Chieder soccorso, in lei rivolti indarno. Carni di queste carni, ed ossa e sangue Di questo sangue ed ossa, io ti domando Gli ultimi vezzi ancora, i baci estremi (A. IV, se. 9). Dirò da ultimo che questo dramma, anche perchè scritto in verso sciolto, che il Gozzi maneggiava cosi bene, è notevole per bontà di elocuzione, per eleganza e proprietà di linguaggio. Le altre due rappresentazioni sceniche trasse il Gozzi con felice ardimento « che onora il cuore non meno che il senno di lui j) (1), dalle memorie patrie. Cominciamo dall’ Isaccìo. Il Tommaseo tace nel citato studio dell’ Laccio, e parla di un Enrico Dandolo·, ma in nessuna edizione delle opere goz-ziane sì antiche e sì recenti, trovo neppur fatta menzione di esso; invece tutte hanno 1’ Laccio, tratto appunto dalla storia della seconda crociata ; in esso poi spicca sopra le altre la figura del vecchio doge, comandante de’ Veneziani. Per me non v* ha dubbio che il componimento fu intitolato prima dall’ autore Enrico Dandolo (e il Tommaseo potè cavarne la notizia da una lettera sincrona del Patriarchi, che citerò più sotto) : quando poi, tre anni dopo, nel 1758, lo dette alle stampe, mutò il titolo (2). Anch’ esso è in isciolti, e divi- di) Tommaseo, op. cit. 203. (2) Giova ricordare che sullo stesso argomento e collo stesso titolo erano usciti a Venezia nel 1615 una tragedia di Francesco Contarini, e nel 1710 un melodramma di Francesco Briani (Soranzo, Saggio di Bibl. venti·, P· 32)· GIORNALE LIGUSTICO 33 desi in cinque atti, ma non vi è osservata F unità di luogo, che anzi la scena cambia due volte a metà dell’ atto. L’ azione si aggira tutta sulla discordia scoppiata nel campo cristiano tra i duci Veneziani e Francesi, la quale mette in pericolo Γ impresa di Costantinopoli. Eufrosina, moglie ripudiata dell usurpatore del trono bizantino, conservando ancora amore al marito, cerca di allontanare dalla città il pericolo che le sovrasta, inducendo il francese Guido di Vossernav a rivolgere invece le armi crociate contro Gerusalemme. Ε°Ίΐ è percio rimproverato dal conte di Fiandra : intanto un messo annunzia che Enrico Dandolo ha co’ suoi dato 1’ assalto alle mura (I). Eudossia, moglie di Alessio, figliuolo d’Isaccio, dispera della vittoria de’ crociati, vedendo la loro disunione. Si tiene frattanto un consiglio, nel quale si stabilisce di continuare 1’ impresa (II). Eudossia annunzia ad Alessio ed Enrico che e stato fatto prigioniero un Greco. Prima ancora che i duci lo interroghino, Eufrosina si presenta loro e si offre di andare in persona dal tiranno, e persuaderlo di arrendersi, per risparmiare il sacco a Costantinopoli; ma essi la discacciano. Il Greco, interrogato, risponde di esser lug-gito dalla citta, perche aveva preso parte ad una congiura, colla quale volevasi dar la corona imperiale ad Enrico. Questi, sopraggiunto, lo sbugiarda, e dichiara che nulla sa di tutto ciò; intanto un messo annuncia che le sue navi sono in pericolo (III). Eudossia ed Eufrosina si contrastano l’animo dei duci, che ognuna di esse vuol tirar dalla sua: essi intanto si apparecchiano all’ ultimo assalto con gran gioia di Eudossia ed Alessio. Poco appresso incomincia la pugna (IV). Isaccio nella solitudine della prigione pensa alla morte vicina, quando viene Eufrosina a liberarlo. Sopraggiungono soldati per trucidarlo, ma ella, presolo sotto la sua protezione, lo conduce seco dal marito. Non molto dopo ecco venire sollecitamente Alessio, che vedendo la prigione vuota, crede Giorn. Ligustico. Attuo XX. 34 GIORNALE LIGUSTICO il padre già morto. Allora si reca dove sono raccolti i duci vittoriosi, ed ivi Eudossia gli presenta Isaccio sano e salvo per mezzo di Eufrosina. I due si abbracciano, e Isaccio ringrazia i Veneziani, da cui riconosce il benefizio di aver riavuto il trono (V). Piacerebbe poter dire che l’amore di patria inspirò al Gozzi il dramma migliore, ma non è cosi. Anche dal magro compendio che ne ho dato, si può conoscere eh’ esso non ha più ragione di chiamarsi Isaccio che Enrico Dandolo, e che è stiracchiato in cinque lunghi atti, laddove poteva avere svolgimento sufficiente in tre soli. Alcuni personaggi sono del tutto superflui, come quell’ Eudossia, la quale non fa altro che incoraggiar il marito a confidar ne’ crociati, ed Alessio stesso, che conforta questi ultimi ad assalire la città. Quanto ai caratteri, lo studio psicologico di essi, quale, intendiamoci, poteva farlo uno scrittore del secolo decimot-tavo, manca affatto, e la ragione interna delle loro azioni e dei loro discorsi ci è ignota. Strana è quella Eufrosina che, ripudiata dal marito, tanto si adopera perché Costantinopoli non sia saccheggiata, e più tardi salva il vecchio imperatore; comico è Alessio, che piange come un fanciullo, e la cede in fortezza d’ animo alla moglie Eudosia, tipo di donna non infelicemente ritratto. Bisogna fare eccezione anche per Enrico, che realmente si vien delineando nel dramma con contorni spiccati, e appare una bella figura di guerriero e di veneziano. Solo per esso a mio giudizio, il dramma fu applaudito « a dispetto de’ Goldonisti e Chiariani » (i); altrove forse sarebbe stata disapprovato. Non manca anche nell’ Isaccio qualche bella scena, come (i) Lettera inedita di Girolamo Patriarchi, amico del Gozzi, citata dal Tommaseo, pag. 203. GIORNALE LIGUSTICO 35 quella dell’atto quarto tra Alessio scoraggito ed Eudossia che cerca di infondergli fiducia nel valore de’ crociati : scena vigorosa e certo migliore dell’ altra alquanto simile dell’ atto secondo, in cui i due si dicono di queste cose : Alessio. Ah ! principessa, il so, restami solo Questa vita e il mio amor. Eudossia. Se non credi a’ conforti, almeno credi, Principe, all’ amor mio........ Teco sempre io sarò pietosa e fida. Bella pure è la descrizione del vecchio doge che muove all assalto (A. I, se. /), e bella dovette parere ai Veneziani la parlata eh’ ei rivolge ai suoi per incuorarli alla pugna, e quella con cui Isaccio ringrazia i Veneziani dell’ aiuto a lui dato. Riporto la prima. A salir quelle mura alcun non sia Che ci prevenga, e di tutt' altre genti Sieno i Veneti i primi. Ecco l’insegna Di Vinegia custode, ecco il vessillo Che ritornò già mille volte e mille Vittorioso all’ onde sue : qui dove E questo aperto, avete in faccia a voi Patria, padri, Vinegia. Ardir: pugnate. Non molto superiore agli altri due è il dramma Marco Polo (i), sebbene in esso abbiano qualche parte gli amori. Il contrasto drammatico sta nella lotta tra la superstizione e la civiltà, l’ignoranza e la scienza, rappresentate l’una dall’ e- (i) Il Gradenigo, nell’opera citata, ai 19 gennaio 1755 (st. ven. 1754): « Nel teatro di S. Gio. Grisostomo si recitò una commedia composta dal co. Gasparo Gozzi intitolata Marco Polo. Notabile cosa vedessimo che dopo più quattro secoli si esponesse alla memoria dei posteri le azioni del medesimo sopra un teatro, il fondo del quale serviva di fondo pure alla propria casa, dov’egli abitava ecc.». 36 GIORNALE LIGUSTICO sploratore veneziano, Γ altra dagli astrologi tartari. Naturai-mente, il primo colla sua avvedutezza riesce a persuadere i più timidi dei benefici della civiltà, ed a farla trionfare. Ecco la tela del dramma. Gli Astrologi, interrogati dai Can dei Tartari, Cublai, si apprestano a rispondergli che, se non congederà Marco Polo, sarà perdente nella guerra contro Farfur ; anzi, presentatisi a lui, gli dicono che nell’ ultima battaglia i suoi sono stati sconfitti. Marco lo assicura del contrario, e infatti poco appresso viene Sevene, figlia di Farfur e amante di Hilam, principe indiano alleato di Cublai, a chieder pace (I). Tacuba, figlia di Cublai, essa pure innamorata di Hilam, va a consultar gli astrologi, i quali le raccomandano di dissuadere il padre dal far la pace. Intanto un messo viene a cercarla in nome di quest' ultimo : si è scoperto nella corte un intrigo del quale si vuole autore Marco Polo. Questi, trovandosi con Hilam, gli manifesta la propria innocenza, e si prepara a sostenerla anche davanti Cublai (II). Hilam prega vivamente Marco a consigliare la pace, si che egli possa sposare Sevene. Poco dopo alla presenza del Can e degli altri della corte, Sevene si presenta al re dei Tartari, e chiede alteramente la pace. Gli astrologi accusano Marco di essere d’ accordo con lei nel consigliar questa a Cublai, ed egli, a mostrare la falsità di ciò, dichiara che se il Can ha fede in lui, la città nemica sarà tosto presa (III). Sevene, avuto un colloquio con Hilam, eh’ ella crede innamorato di Tacuba, se ne va. Intanto s’istituisce una specie di processo contro Marco, che non riesce a provare la sua innocenza, anzi va a rischio, per le male arti di Azimutte, di perdere la vita. S’ annunzia intanto che 1’ esercito di Cublai è stato novamente respinto, e Quin-sai si è rifornita di difensori (IV). Mentre Badur e Tacuba informano il padre dei danni che Marco ha recato alla città colle sue macchine, in una grotta, che si scorge dall’ accani- IGIORNAL E LGUS30IX 73 pamento, appariscono spaventosi segnali, e uno spettro (Azi-mutte) avanzatosi e postosi a sedere sul trono di Cublai, intona la solita antifona della necessità di uccidere Marco Polo. Sopraggiunge quest’ ultimo e smaschera l’impostore, annunziando per giunta che Quensai è presa. Infatti si presenta poco dopo Sevene a chieder pace. Questa è conclusa, e la bella principessa è data in isposa ad Hilam, come Tacuba ad un re di Etiopia, il cui ambasciatore è venuto in buon punto a chieder la mano di lei (V). È questa la tragedia che, a parer mio, poteva riuscire al Gozzi migliore delle altre, perchè contiene elementi di per se stessi drammatici: Γ incertezza della sorte riserbata a Marco Polo, Γ odio degli astrologi contro di lui, la gelosia di Tacuba, il contrasto nell’animo di Hilam, tra il sentimento della gloria e quello dell’amore; ma tutto questo è rappresentato dal Gozzi con estrema languidezza, e in luogo di un quadro vivo e parlante, abbiamo davanti agli occhi delle sfumature. Anche i caratteri non sono fortemente scolpiti, e perciò non veri, non contraddistinti da un’ impronta loro propria. Non parliamo dei mezzucci a cui dovette ricorrere l’autore per dar consistenza al dramma, chè tali son veramente la venuta di una donna, Sevene, a chieder pace, l’inaspettato rinforzo che giunge alla città assediata, e finalmente quel messo del re d’ Etiopia che viene così a proposito a chiedere in isposa Tacuba, la quale accetta tutta lieta il partito offertole. Da ultimo il Gozzi volle usare il verso martelliano; e la prova (che non era la prima) gli riuscì infelicissima, se pur non si deve dire a sua scusa che egli trascurò affatto la verseggiatura del Marco Polo. Infatti si posson leggere versi più goffi di questi? 38 GIORNALE L1GUSTIGO Spiai la vostra vista, spiai le vostre occhiate, Dov’ erano dirette, dov’ erano girate, Vi vedea guardar tutti con molta indifferenza, Sol con Hilam prendeansi gli occhi qualche licenza. Il messo d’ Etiopia grida che fa paura : Come, dice, nessuno più di me non si cura? Afferma P editore Occhi che le opere del Gozzi erano, prima eh’ egli le pubblicasse nel 1758, molto ricercate, e più volte andavano alla sua bottega a domandargli or questa or quella, sì che nei tre primi volumi egli dette fuori nove fra tragedie e commedie. Noi notiamo invece che dopo quell’anno il Gozzi non pose più mano a lavori teatrali di lena (1). Aveva egli compreso di non esser nato poeta drammatico? (2) Forse sì, e forse s’era anche accorto che non era ad ogni modo la tragedia il genere in cui avrebbe potuto cogliere qualche foglia di alloro. Nel ’62 poi egli dava agl’impresari de’ teatri di Venezia questo consiglio, il quale pare a me dettato da uno che, avendo come perduto la fede nel-1’ arte, considera solo il vantaggio materiale che si può cavare da essa : « Destatevi, o nobili ingegni, e rifrustando tutti quei generi di rappresentazioni teatrali che noi da lungo tempo in qua vi abbiamo insegnate, ricreate gli animi ora con Γ uno ed ora con 1’ altro..... Escano una sera gli Zanni.... (1) Nel '63 si recitò un melodramma giocoso del Gozzi (Gradenigo, op. cit., vol. XIII) : La contadina in corte, ma non mi è stato possibile rintracciare il libretto, se pure fu dato alle stampe. (2) Il Goldoni parlando nelle sue Memorie (II, 32) del Gozzi, lo dice « letterato dottissimo, ed autore di alcune tragedie e commedie italiane ». Nemmeno un « lodate », dotato dalla convenienza ! Del pari Ippolito Pin-demonte, nell’ elogio di esso, accennato fuggevolmente ai drammi, scritti, secondo lui, per soddisfare la moglie, si compiace che poi « mandasse al diavolo il teatro, le recite e i versi martelliani ». GIORNALE LIGUSTICO 59 un5 altra i sublimi fatti e i tragici sieno rappresentati.... Mescolimi le commedie di carattere e dietro a quelle le tragi-commedie si mostrino sulla scena, ne siano perciò sbandite le tavole» (i). Così scriveva Gaspare Gozzi, mentre il Goldoni era intento a riformare la commedia, ed era prossimo un rinnovamento della tragedia per opera dell’ Alfieri ! Francesco Foffano. FESTE SARDE SACRE E PROFANE USI E COSTUMI. Il Mantegazza nel classico suo libro: Quadri della natura umana, trattando delle feste le divide in: sociali, cosmiche, di famiglia, nazionali, religiose. Ma aggiunge subito « le feste di famiglia si intrecciano spesso colle religiose, le politiche, le cosmiche, e le sociali pigliano la forma ed il tempo di una festa storica che in sè le racchiude, quasi piccolo serto di fiori, legato a maggiore e più splendida ghirlanda» (2). Infatti si può dire che non vi sono feste speciali, ma che ciascuna delle ricordate, si intreccia sempre colle altre. Ciò avviene in modo diverso, secondo e la storia dei popoli e la regione che abitano, anche quando un solo ed identico sentimento li muove. Valga ad esempio il modo diverso, col quale i varii popoli d’ Europa celebrano le feste del Cristianesimo, une nella sostanza, ma varie nella forma. Noi vediamo lo stesso fatto anche in Italia. E la diversità non è (1) Osservatore, rag. cit. (2) Quadri della natura umana — Milano, 1871; 2° vol., pag. 213-15. 40 GIORNALE LIGUSTICO soltanto negli accessorii della festa, ma si estende perfino alla cucina, la quale ha i suoi cibi ed i suoi vini di rito, come la fede (i). L’importanza demopsicologica delle feste sarde non isfuggì al sig. prof. Ettore Pais, che consigliando la Raccolta degli usi e dei costumi profani dell’isola, disse essere importantissima anche quella delle feste. Or bene, mi sia permesso, coll’aiuto degli stessi sardi di incominciare questa Raccolta, colla speranza che altri sèguiti e faccia meglio di me. G. Ferraro. I. SA CHIDA SANTA, SA CHENAPURA SANTA E SA PASCA MAZORE. (La settimana santa, il Venerdì santo e la Pasqua maggiore). Incomincierò dalla maggiore festa sacra, dalla Pasqua di Risurrezione, detta sa Pasca madore in dialetto logudorese, e manna in dialetto meridionale, mentre dicesi Paschixedda a Ghilarza e Paschinunti (a Carpeneto d’Acqui Pasquetla) l’Epifania, e Pasca de Nadale o minore il Natale, e Pasca fionda o de sas rosas, la Pentecoste. Prima della Pasqua maggiore viene sa duminiga de sa Pramma, la Domenica delle Palme, detta a Carpeneto d’Acqui, dove non si distribuiscono palme, ra dm'enja dra ramuriva; domingo de ramos in ispagnuolo. A Siniscola: (i) De Pasca Abrile ùsana mandicare petta, casadinas, tiriccas, àligos, coccas = Alla Pasqua usano mangiare carni, formaggi marzolini o schiacciatine, berlingozzi, panini dolci di sapa e farina, focaccie. Signora Giovannica Sotgia di Usini. GIORNALE LIGUSTICO 41 In custa die benéighene a sar pram-mas ei s’olieddu, ei su siriu pascale. Finidu su Passiu isfràppana a sas prammas ei s’olieddu e lis pònini in domo o i-ssas cussor^as e i-ssas linxas, ispecialmente cando 'ènini temporadas. Tando nàrana chi b’à calchi anima vagamunda, o calchi cadavere chi este a modde e po su battixu non hi podet istare, e piòed’ e faglie’ malu tempus. Si b’este ’entu nàrana chi si pesa’, poite sor riccones sun' mortos, e su’ entu non fessa’ fin^as chi non finini de isparlire sor benes ei su'inari issoro. In questo giorno benedicono le palme (da datteri) e i rami d’ulivo ed il cereo pasquale (siri, a Carpeneto). Finito il passio tutti strappano (dai fasci benedetti) le palme ed i rami d’ulivo, e li mettono nelle case o nelle campagne (distretto o regione, consorzio) e nelle vigne, specie qu?ndo vengon temporali. Allora dicono chi vi ha qualche anima vagante, girovaga, o qualche cadavere che è ancora a molle, (nell’acqua) e per il battesimo non vi può stare e (quindi) piove e fa mal tempo. Se c’ è vento dicono che s’ alza (soffia) perchè i ricconi son morti, ed il vento non cessa fino a tanto che non finiscono di spartire i beni ed il denaro loro. Noto per incidenza che la credenza superstiziosa che i grandi venti soffino, quando è morto qualche gran peccatore o qualche gran ricco, esiste anche a Carpeneto. Infatti ivi quando soffiano venti impetuosi ed improvvisi, le donnicciuole dicono: chel mai ch’ Vé mort! Chi è egli mai morto! La palma benedetta è talora indorata, in Sardegna, ed il Parroco la distribuisce nella Domenica suddetta agli amici. In molti ninnlos la madre augura al bambino che, su Rettore (il Parroco) gli porti la palma dorata a casa, per segno di distinzione e di affetto. Un inutu di Nuoro, paragona la bella ad una palma dorata : Cada Lunis de mese, Bio missa cantada, Ci nitro e non bi ses /«/, Pramma mea dorada. Ogni Lunedì di mese Sento (vedo) messa cantata, Ci guardo, e non vi sei, Palma mia dorata. La susseguente Settimana Santa (sa chida santa) è settimana di penitenza, specialmente dal mercoledì a tutto sabbato mat- 42 GIORNALE LIGUSTICO tina, si mangiano cibi di magro, specialmente ortaggi che sono quasi di rito. A proposito, a Siniscola narrano questo fatto della Vergine Addolorata, detta in questa Settimana: Sa Marna ’e sos sette dolores (a Castelferro d’ Alessandria — ra Madona dir sett cutlà, delle sette coltellate) : Nàrana chi cando el (est) mortu su Fi{u, sa die ’e sa Giòvia Santa, a su sere, Sant’ Anna presentèsid’a sa Fixa in d’unu piattu, 1res fetiujos, tres fittas ’e pane, ir es bulteddos. Maria non à leadu sos bulteddos a si ’occhire, ma lea' sos fenujos e li mandighésid’ in mesu a tantu dolore· Tando sa marna li tiara: Maria, e coniente? — màndigas e non ti or c hisjij? E Maria respondef a issa: Marna mia, affestada siédas, ma non fililia. Tando donxi marna chi li tia mòrrer un fi?u, si tia occhire? Nel Venerdì Santo le pie relativi alla Passione e alla morte di Gesù Cristo. Fu appunto in tal giorno che sentii recitare da una vecchia contadina di Anela, in Sassari, il vòcero inserito a pag. 278 dei Canti popolari in dialetto logudorese, che la recitatrice disse essere: Su altitidu de sa Missenora nostra, di Nostra Signora. Ecco un altro canto inedito in proposito, raccolto dal sig. Antonio Camboni, (cui porgo vive grazie) in Bitti : Vnu sognu nd’ appo' 'attu, Unu sognu nd’ app’ idu: Sos \udtos ti leaìana, Dicono che quando è morto il (Divin) Figlio, il giorno di Giovedì Santo (Zòbia a Carpeneto) alla sera, Sant’Anna presentò alla figlia in un piatto tre finocchi (anici, finocchi dolci) 3 fette di pane, 3 coltelli. Maria non ha preso i coltelli per uccidersi, ma prende (prese, il presente storico dei Greci) i 3 finocchi e li mangiò immezzo a tanto dolore. Allora la madre le dice: Maria, e come? Mangi e non ti uccidi? E Maria risponde a lei : Mamma mia, siate festeggiata si ma non vigilia. Allora ogni madre cui dovesse morire, un figlio si dovrebbe uccidere? (tia per dia, dovrebbe, dovesse). donne recitano i Canti sacri 1-ssu monte Calvariu t’incal\aiana Sa’ coronas’ e s’ispinas ti ponìana. Ghie ìu nara’ tres ’ortas ’e su die, Chie lu nara’ tres 'ortas ’e sa notte, Liberatu sia de mala morte; Un sogno ho fatto, Un sogno ho visto, I Giudei ti prendevauo Al monte Calvario t’incalzavan, La corona di spine ti ponevano. Chi lo dice tre volte il giorno, Chi lo dice tre volte la notte, Liberato sia dalla mala morte; GIORNALE LIGUSTICO 43 Dae focu ardente, Dae venas currenle/s/, Dae ’ίχμ mortu a labada/s/, Dae trattoria, Limpia e netta sia s’anima mia](2). Da fuoco ardente, Da vene d’acque correnti, Da figlio morto in pescaje (1), Da tradimento, Pura e netta sia 1’ anima mia. Eccone un altro inedito raccolto pure a Bitti : I. Cando ’essèi Sant’Anna, 2. Chin sas tres Maria/s/, Ei sa Marna in mesu, 4. Su ’ΐχμ fiti a branti testi Nende: Ah! benis Maria! 6. Ei sa Marna non lu connoschia, Po essere' caru Fixti ; 8. Non giuchia' fregura e assemiiu Né mancu carre sana, io. A catenitta giuchia sas manojs/ Apparindeli sol osso/s/ 12. In palas giuchia’ duo' toffo/s/, Mannos che sepoltura. 14. Cando l'àn ligatu a sa colunna, Fini tottu sos inimico/sl 16. E V ala.' tres giopa!e bunino/s/ Tottu po l’anottare, 18.E de cantu fia forte su colpare, Finamente in terra raèsijdi/. 20. S’iscavanata cando bi la d !sini, Fi chin su guante ’e ferru 22. A issu iscudtana assert u, Chene b’aèr ferina 24. Inpalas li mintèi chimkt friia/s/. Tottu in differente locu. 26. Tando li petèin’ su perdonu. Quando usci Sant’ Anna, Colle tre Marie, E la Madre (di Dio) immezzo, Il Figlio era a braccio teso, Dicendo: oh vieni Maria! E la Madre non lo conosceva Che egli fosse il suo caro figlio; [mo Non aveva figura o somiglianza(d’uo-Nemms>ico carne sana, In catenella teneva le mani, Scorgendovisi le ossa (dei polsi), Sulle spalle aveva due fossi, Grandi come tomba (aperta). Quando 1’ han legato alla colonna, C’erano tutti i suoi nemici, E c’ eran tre paja di boja Tutti quanti per sferzarlo, E di quanto era forte il dare colpi, Finalmente in terra stramazzò. La guanciata quando gliela diedero, Fu col guanto di lerro, E lui battevano ben fitto, Senza averne (egli) colpa, Addosso gli ficcarono 5 saette(chiodi) Tutte in differente luogo. Allora gli domandarono perdono. (1) Nel Campidano di Cagliari, labadoja, la pescaia del mulino. (2) Questo canto fu udito recitare anche dal Rev. Don Michele Licheri, parroco di Ghilarza, da due giovani pastori di Luras — ma forse, benché galluresi (Luras è in Gallura) erano bilingui, come sono φ generale i pastori di quella regione, per il contatto che hanno con gente del Logudoro· 44 GIORNALE LIGUSTICO Zuda restii cundennatu, 28. E gài nd' ’ache Zuda s’impiccatu. 0 Crislu soberanu, | vare! 30. Cantu nd’ a\is patitu a noi sal-Tottu cantu po culpa mia, 3 2. Sas sette frimas sautas ’e Maria In coro po nos giùche/te/ 34. A Deupostu l’àna in d’una ruche. Giuda restò condannato, [s’impiccò) E così fa Giuda l’impiccato, (quei che O Cristo Sovrano, Quanto avete sofferto per salvar noi! Tutto quanto per colpa mia, Le sette freccie sante di Maria, In cuore per noi le porta, Dio l’hanno posto sopra la croce. A Siniscola il Venerdì Santo così avviene la deposizione di Gesù Cristo (su iscravamentu ’e Gésus) : Sa Chenàpura sero pònene, non meda attesti dae sa drona inùe préiga su Rettore, a su Bahbu Mannu i-issa rughe. Nostra Segnerà bestida ’e nieddu chin d’unu muncaloru hrancu in manu, este posta a distanzia dae Cristu. A pes ’e sa rughe sun sor Baroner/o/ Zudeos, Nicodemu e Ari-matea, sun’ duor òminer bestidos a milli colores chi parini duor masche-rones. Su Rettore pigat' a preigare e cando benit' a s'ora, òrdinada de iscravare a su Babbu Mannu. Prima nde li ògana sor craos e sor branos, pustir cuddor e sor pes, los pònene in d’unu pratu ’e prata , e uno piTjinnu be-stidu de ànghelu los presentata a su preigadore e custu los faghe’ presentare a Nostra Segnora ei a sa Maddalena. Daghl e’ fatta tottu custa affunfione, ossiada pustis chi V ana iscravadu, lu liana chin sar fascas e lu preséntana a-ssu populu. Su preigadore sighitad’ a preigare; su populu prànghede e V à chie Tjac-culìttada abb ici. Il Venerdì (Santo) sera, pongono non molto lontano dal pulpito (di) dove predica il Parroco (il Crocifisso) il Gran Padre posto in croce. La Madonna vestita a nero con un fazzoletto bianco in mano, è posta a distanza dal Cristo. Ai piedi della croce sono i Baroni Giudei, Nico-demo e Arimatea, con vestito a mille colori che paiono due maschere. Il Rettore sale a predicare, e quando è giunto al momento comanda di schiodare il Padre Grande. Prima gli levano i chiodi delle braccia (mani), poi quelli dei piedi, li mettono in un piatto d’ argento, e un bambino vestito da angelo li presenta al predicatore, e questi li fa presentare (alle statue) alla Ver-· gine e a Maria Maddalena. Quando è fatta tutta questa funzione, ossia, dopo che l’han deposto di croce e schiodato, lo prendono sulle fascie e lo presentano al popolo. Il predicatore seguita a predicare, il popolo piange, e v’ ha chi singhiozza proprio sul serio. GIORNALE LIGUSTICO 45 Fallu custu lo pònini i-ssa lettera e nde lu ògana in professone; su lettu de Babbu Mannu este bar-riadu ’e frores. Pustis chi sa professone rilìrada, cùrrini tottu po acquistare unu ravipu de cuddor frores e mancari unu rampu de erva nu-scata, e los arrìbana, ca custu el ’onu po dotili male. Su Sàpadu Santu daghi sottana a su gloria, tottu si ghéttana matta a terra e gai crene chi non sùfrini pius dolore ’e matta e medar àtteror tnales (2). Fatto ciò lo pongono sulla barella e lo portano in processione (1); il feretro del Gran Padre è caricato addirittura di fiori. Dopo che la processione torna alla chiesa, corrono tutti, per acquistare un ra no-scello di quei fiori, ed anche una fronda d’erba odorosa e li mettono in serbo, che ciò è buono per ogni male. Il Sabbato Santo, quando suonano la gloria , tutti si buttano pancia a terra, e così credono che non soffrono (soffriranno) più dolore al ventre, e molti altri mali. Durante la processione il popolo canta il seguente Gosu che io riporto nella pronuncia di Torralba, secondo le lezione mandatami dalla signora Maria Antonia Marras, benché il pio inno sia comune a molti paesi della Sardegna. (3) Gosu po sa Pacha Mazore. Nobas de allegria, Zertas m’ an’ contadu, C.a su Fi\u ’e Maria, Eltb’ oe rissussitadu. Bessi' su bexju Noè, Ca su diluvili e’ passadu. Sa gulumba ad' agattadu, De filmare su pè. Inno per il giorno di Pasqua. Nuove di allegria, E certe m’ han contalo, Che il Figlio di Maria, Oggi è risuscitato. Esce il vecchio Noè, Chè il diluvio è passato, La colomba ha trovato Dove fermare il pie’. (1) Così portano in Sardegna la statua dell’ Assunta, che si raffigura morta (e non in atto di salire al cielo) come hanno usato di fare gli antichi pittori. (2) Raccolta dalla signora M.* Maria Contini. (3) Non avendolo fatto altrove, credo bene di ricordare qui, che gosos sarebbero i canti religiosi popolareggianti in onore di Dio e dei Santi suoi, e cantos sacros sarebbero i canti popolari di soggetto religioso^ Ma come è naturale, la linea di divisione tra queste due forme di poesia che trattano dello stesso oggetto, non è ben stabilita e spesso le due forme si confondono. Il popolo chiama gosu qualunque canto religioso. 4 6 GIORNALE LIGUSTICO Bessi'su be^u Mosé Verace sepultadu, Ca su F il u 'e Maria, Ellh’ oe rissussitadu. Bessi dae sa balena, Cuddu Jona affiguradu, Bessi’ glorificadu, Chena dolore nè pena. Abbandònada sa cadetta, S' ornine gattivadu. Bessi’ su benu Daniele, Dae mesu sol leones, Brullende sai inteniiones, Dessa canaglia crudele Zudaica a’ triuffaddu. Su sepulcru si spenési' Sa pedra s’ aliési’ Sa guardia si tulbèsi’ Su Segnore cumparièsi’ Maddalena lu’ idési’, (ij Pedru lu ά ielthificadu. Sì partesi' dae s’Onidente, E in Oriente gumparia/dal Dorada lugbe iipiraia/da/ Gustlm sole riiplendente, Allontanende solamente, Sal umbras ’e ssa reitade. Besside’ Marna ’e gloria Dai s’ ochura solidade, Ei sol dolores burrades Zelebrende sa vittoria De Fiiu bolthru ilthimadu. Oe devotas Cunfrarias Bonas Pachas nos dia’ Deu, Ca cuvintu a’ su Zudeu Cun sa moltlie su Messia, Esce il vecchio Mosè, Veramente morto e sepolto, Che il Figlio di Maria Oggi è risuscitato. Esce dalla balena, Quel Giona simboleggiato, Esce glorificato, Senza dolore e pena, Abbandona la catena L’ uomo fatto schiavo. Esce il vecchio Daniele Di mezzo ai leoni, Burlando l’intenzione ; Della canaglia crudele Giudaica ha trionfato. Il sepolcro si spezzò, La pietra si alzò, La guardia si turbò, Il Signore si mostrò, Maddalena lo mirò, Pietro lo ha attestato. Si partì dall’ Occidente, In Oriente comparia Dorata luce mandava (ispirala) Questo sole risplendente, Allontanando solamente Le ombre del peccato. Uscite, Madre di gloria, Dall’ oscura solitudine Ed i dolori cancellate Celebrando la vittoria Dell’amato vostro Figlio. Oggi devote confraternite Buona Pasqua diaci Dio, Che convinto ha il Giudeo, Colla sua morte il Messia, (i) Nella lingua rumena come nel dialetto logudorese il passato rimoto od indefinito del verbo avere è uguale: i Rumeni dicono avut ed avusei = io ebbi; i Sardi appéi ed appèsi: così dicasi di molti altri verbi. GIORNALE LIGUSTICO 47 Sai molthales agonias, In gloria no’ à camhiadu. Ca su Fi^u ’e Maria Elthe oe rissussitadu. Canto sacro popolare parallelo Po sa morte ’e Gesus, raccolto vannica Sotgia: Sende i-ssa rughe incalvadu Clama’ su Fi^u ’e Deu. Riiponde, populu meu. Prite m’ as gru{ificadu? Populu meu elettu, Populu meu ilthimadu, E prite m’ às acabadu Prite to’ às dilthruidu, Prite m' as riipiadu? Riiponde ec. ad ogni strofa. Riiponde ite t' appo fattu. Ite aggravios nd' as connottu, Pro m’accabbare in tottu, Finyis a m' ider’ iijattu ? Populu meu ingrattu, Ghi assa molthe m’às trassadu! Deo ti fattesi’ favores, Tue mi torras lan^adas, Mi das iicatuladas Cando ti fatto onores; Nade, nade, peccadores Ite male app’ operadu? Frimma populu meu, Non sias crudele tantu, Non ti causat’ iipantu Dare iitoccadas a Deu? Populu duru Ebreu Dae me pius iitimadu! Ti chisco trintatres annos, Cun fadigas e sudores Cun turmentos e dolorts Cun tribaglios e affannos Po favores tantor mannos Cultha paga m' às torradu? Le mortali agonie In gloria ha mutato. Che il Figlio di Maria Oggi è risuscitato. al presente gosu, è il seguente: ad Usini dalla signora Gio- EssenJo sulla croce inchiodato, Grida il Fglio di Dio: Rispondi, popolo mio, Perché m’hai crocifisso? Popolo mio eletto, Popolo mio amato , Perchè m’hai ridotto a fine, Perchè m’hai disfatto, Perchè m’hai sputacchiato? Rispondi, ecc. ad ogni strofa. Rispondi che t’ho fatto, Che addebiti m’hai trovato, Per finirmi in tutto Fino a vedermi sfatto? Popolo mio ingrato [tratto. Che a morte con inganni m’hai Io ti feci favori, Tu mi restituisci lanciate Mi dai schiaffi, manrovesci, Quando io ti faccio onori, Dite, dite peccatori, Che male ho io fatto? Ferma popolo mio, Non esser tu crudele tanto, Non ti dà sbigottimento, Dare stoccate a Dio? Duro popolo Ebreo, Da me più prediletto ! Da trentatre anni ti vo attorno, Con fatiche e sudori, Con tormenti e dolori, Con fastidi ed affanni, E per favori tanto grandi Questo compenso m’hai dato? 48 GIORNALE LIGUSTICO Po te so ' ghelos formesi, Po te sa terra fattesi, Po te de carre mi ’estesi, A Babbu po te lassesi, I-ssu goro ti portesi E ses sempre depositadu. Po te in pa^a nachidu Po te cuti beltias colcadu, Dae Re Erode chiscadu, De tirannos pessighidu. Finias chi ηΐ às dilthruidu. lipetta; tene ssa manu, Non frinas pius peccadore, Ca el troppu rigore, In pettus de crilthianu. Babbu meu Soberanu, Prite m as disamparadul Su samben cùrred’ a rios, Po ghi non nde porto nudda, Bene’ laitimada cudda, Disconsolada Maria, Mamma affrigida mia, De penas mare foimadu. Maina ghi m’ as guiepidu, Marna ghi vi’ as ingendradu, Marna ghi m’a s allattadu, Marna ghi m’ as palturidu, Marna riiponde, s’as bidu, Retrattu pius lalthimadu. Sai pedras ilthan tremende, Sol ghelos lalthimende , Sai feras lagrimende, Sol animales baulende E tue ancora ferende, Pius ’e sa pedra induradu! Feride’ ancora tajones, Feride’ ancora inumanos, Feride’ ancora tiranos, Feride' ancora Nerones, lltraiflde’ punì leones, Gulthu corpus iivenadu. De brunzu ti rappresentas, 0 peccadore olthinadu, Per te Cieli formai, Per te la terra feci, Per te di carne mi vestii, Lasciai mio Padre per te, Nel cuore ti portai, E ancor ci sei portato. Per te nato sulla paglia, Con animali ho giaciuto, Fui da Erode cercato, Dai tiranni perseguitato, Fino a che tu m’ hai distrutto. Aspetta, ferma la mano, Non più pugnalate peccatore, È troppa crudeltà, Questa in cuore di cristiano, Padre mio, Sovrano, [zione? Perchè m’ hai tolto tua proteli sangue corre a rivi, Chè non ho nulla in dosso, Viene la disgraziata, quella Sconfortata Maria, Madre mia afflitta, Di pene un mare davvero. Mamma che m’hai concepito, Mamma che m’ hai generato, Mamma che m’ hai allattato, Mamma che m’ hai partorito, Mamma, rispondi se hai visto, Spettacolo di me più sciagurato! Le pietre tremano (stan tremando) I Cieli lagnansi, Le fiere piangono, Gli animali abbaiano, E tu stai ancora ferendo, Più di una pietra il cuor duro! Ferite ancora assassini, Ferite ancora inumani, Ferite ancora tiranni, Ferite ancora Neroni, Sbranate pure leoni, Questo corpo svenato. Sei dentro e fuori di bronzo, Peccatore ostinato [rappresent.* GIORNALE LIGUSTICO 49 Si in cultbu alta latthimadu, De dolore non li arrepentas. Assumanoti ti arrepentas De goro assu peccadu : Riiponde populu tneu, Prite tu’ iis gruxificadu ! Se per questa compassionevole Pel dolore non ti penti, , Almeno pentiti Di cuor del tuo peccato; Rispondi popolo mio Perchè m’hai crocifìsso? Come in molte altre regioni del Continente, cosi anche in Sardegna credesi dal volgo che il Venerdì Santo, sia il giorno delle magie sicure, delle carte scritte, de sos pabilos iscriitos. Delle accabadoras, o ucciditrici, o meglio delle donne che finivano, con un guanciale posto sul viso, i moribondi che stentavano molto a morire, non è rimasta in Sardegna che la memoria ed il nome. Però la signora Maria Contini, da me interrogata in proposito, così scrive: Si unti non pode’ mòrrer, si fàghe’ giamare sos chi li lenìad* odiu po li perdonare : oppuru li pòtiini unu juale in cabilta, o giàmana sol prèi-deros, chi Μηχαηα a li ’ogare su iscapolariu, si lu giùghede, o sos pa-pilos iscrittos chi let' su malàidu a subra sa pessone. Sol litterados pò-dene riere de cussas cosas, ma personas chi crètana a pal'ilos iscrittos (i), a sos breves, fattos dae sos préideros, nche n' a' meda, e li nàrana : sos fortiles, e li erette bonos po sos in-dimoniados, sos chi giùghene sai timbras presas o 110. lnue òcchini xente, pònini sa rughe ’e linna, o la fàghene pintore in su muru affacca. o la ponini i-ssu molimentu. ìncut bi sun’ sai Se uno non può morire, si fan chiamare coloro che egli aveva in in odio, perché perdoni ad essi; oppure gli mettono un giogo da buoi sotto il capo, o chiamano i preti, che vengano a togliergli di dosso lo scapolare, se egli lo porta, od i brevi, (carte scritte) che l’ammalato porti o possa avere sopra la persona. 1 letterati possono rìdere di queste cose, ma persone che credano a carte scritte, i brevi, fatti dai preti, ce n’ è molte, esse li chiamano (dicono) sos fortiles, e li credono buoni per gli indemoniati, e per quelli che portano àd-posso con sè spettri, attaccati fegati) o no alla persona. Colà dove am- (i) La superstizione del valore e della potenza che possono avere le carte scritte, dipende dall’influenza che esercita la parola sull’animo di chi.la ode, specialmente se i brevi sono scritti in lingua antica o straniera,,o ignota a chi crede. Giouh. Ligustico. Ah ne XX. λ GIORNALE LIGUSTICO umbras chi sos indimotiiados acòglini, e po eus su cando bident’ a sa rughe, frdstimana sos preideros, faèddana diversas limbas, non chèrent’ intendere cosas de Deu. Fili unu maridu chi colcaia’ chin su fusile e dagln sos dimonios pigaìana a sa mu\ere, isparaìada intro ’e domo e issa s'am-amaculaiada unu pagu. Sol prèideros faghen' subra sa conca de sos malà-idos su sitinu de sa rughe e nàrana Caglia, maleittu, e pustis nàrana requie po su malàidu. niazzano qualcuno mettono una croce di legno, o la fanno dipingere sul muro di rimpetto o la pongono sul tumolo di pietre grezze. Ivi sono le ombre che gli indemoniati ricevono, e per questo quando vedono la croce, bestemmiano i preti,, parlano diverse lingue, non vogliono sentire cose di Dio. C’ era un marito che si coricava col fucile a fianco, e quando i demonii salivano a tormentare la moglie, scaricava il fucile dentro casa ed essa si faceva tranquilla un pochino. I preti fanno sulla testa degli ammalati il segno della croce e dicono: taci, maledetto, e poscia dicono un requie a favore del malato. Dal dolore e dalla mestizia, nel Sabato Santo si passa airallegria, non appena suonano le campane del Gloria: Cando sònana a gloria su Sapadu Santu, sai mamas pònini sos pituinos issoro matta a terra, ca crene de li liberare dae su male de matta. Iscùdene a tottu sos canes prochi sian’ testimonxos a sa Ressurrefione de Gesù Cristu. Ei sa lente tocca’ chin d’una canna, su lettu, sas cascias, sas mesas , nende’. Gloria I Gloria ! Cada pini unu giuche' sa cònula de s'ou, in forma de caddu, o de pugione o d'àtera forma chin s’ou. Quando suonano a gloria il Sabato Santo, le madri, mettono i loro bambini pancia a terra, perchè esse credono di liberarli in questo modo (che sian liberati) dal male di pancia. Bastonano tutti i cani, perchè siano testimonio della Risurrezione di Gesù Cristo. E la gente batte con una canna il letto, le casse, le tavole da pranzo dicendo: Gloria ! Gloria I Ogni bambino porta la focaccia dell’uovo, o in forma di cavalluccio, o d’uccello, o di altra forma, ma sempre coll’ uovo. Così scrive da Siniscola, la signora Maria Contini, alla quale mi professo obbligatissimo delle notizie datemi a proposito delle feste di quel paese. A Carpeneto d’ Acqui e altrove al suono della Gloria del Sabato, le madri insegnano a cam- GIORNALE LIGUSTICO minare ai loro bambini, piamente credendo che in quel momento lor si snodino le gambe ed essi possano percorrere la terra scossa dal risorgere del Salvatore, la quale toccata dai bambini sardi li libera dal mal di pancia. I cani battuti in quel punto ricordano un antico uso, riferentesi ad un fenomeno e ad una cerimonia, cosmici. Durante gli ecclissi i popoli antichi credevano di scongiurare la temuta distruzione del sole, P astro prediletto, creduto alle prese con un enorme dragone, facendo gran rumore. I Lapponi ed i Persiani odierni in simile occasione tirano schiopettate contro il cielo, e con gran fracasso di caldaie di rame e bacini di metallo battuti, credono di fugare il celeste dragone. Gli Atzechi del Perù, durante gli ecclissi legavano i cani agli alberi e li flagellavano a sangue, affinché dai guaiti di questi mitologici compagni dell’ antica Diana, la luna pigliasse coraggio nello staccarsi dal sole. Ora è noto che succedendo generalmente gli ecclissi nel novilunio, quello avvenuto nella morte di Geeù Cristo a luna piena, destò nei popoli tale spavento che essi lo ricordavano annualmente, i Cristiani orientali in ispecial modo. Inoltre la risurrezione del Redentore, del nuovo sole di vita eterna, vincitore del mitico dragone, toglieva gli uomini dalle tenebre dell’ errore e doveva essere ricordata con tutti quei segni esteriori coi quali si ricordano gli ecclissi. II. PASCA DE NADALE. (Pasqua dì Natale). L’Erodoto della demopsicologia sarda, il Canonico Giovanni Spano, il cui nome non si può dimenticare mai quando si parla della Sardegna, nel volume i.° della sua Ortografìa Sarda a pagina 59, trattando dei ninnios, nota che « un si- 52 GIORNALE LIGUSTICO mile canto si usa dagli Ecclesiastici, a suono d’organo nelle chiese, nella notte di Natale per il bambino Gesù. I versi sono ordinariamente ottonarli. Così nella diocesi di Nuoro, adoperano quella nenia composta dal Canonico Dore, che comincia : Ninna-ninna pilos de oro, ecc. » L’uso é vivo tuttora; anche oggidì cantano gosos o laudi, non interamente popolari, ma noti a diversi paesi di una stessa diocesi, oppure assai vicini tra loro, sopra un’ aria musicale, che è la stessa per tutta Pisola e che deve rimontare indietro a parecchi secoli prima del nostro. Le arie musicali, jsono, per così dire la guaina, in cui si conserva a riparo della ruggine e d’ogni ammaccatura, una vecchia arma. La festa del Natale è celebrata anche sul Continente con laudi sacre. In tutto il Piemonte e nella Lombardia è nota quella lauda che comincia : Fa la nanna bel Bambin — Re divin, ecc. pubblicata dal Bolza e da altri. Nel Monferrato un dramma sacro, o meglio Rappresentazione sacra, pastorale, detta Gelindo, dal nome del pastore protagonista, viene ancora letta nelle stalle dai contadini. Forse, tempi addietro, essi erano gli attori vivi e veri, della Rappresentazione stessa in quei Presepi o Capannuccie, che oggidì sono fatte dai bambini, ma che una volta sull’ esempio di S. Francesco e dei suoi frati nella Capannuccia di Grecio, furono fatte da uomini maturi. La religione cristiana trovò i popoli che la seguirono, già preparati ab antico, a festeggiare nell’epoca del nostro Natale, il solstizio d’inverno, ossia la nascita del nuovo sole, detto secondo i popoli: Mitra; od il piccolo Giove, che sarebbe nato in Creta in una caverna, fuggendo P ira di Saturno, l'Erode di quei tempi; il piccolo Ercole che strozza i neri serpenti che lo assalgono in culla, e compie le 12 imprese GIORNALE LIGUSTICO 53 che ricordano i mesi dell’anno, ecc. (i). Sopra un calendario marmoreo del Campidoglio, scolpito prima del sorgere del Cristianesimo, sta segnato pel giorno 25 Dicembre: Natalis (dies) solis invicti, giorno natalizio del sole immortale, invincibile, che assiderato, si vede appena fra le nere e quasi notturne nuvole dell’inverno, e muove piccoli passi nel cielo (2); ma ben presto nei giorni che si vanno allungando dopo quel-Γ epoca, stampa di nobili e durature orme il cielo, teatro delle sue gesta. Sorto il Cristianesimo gli usi natalizi relativi agli Dei falsi e bugiardi, non furono aboliti, furono soltanto convertiti a celebrare la nascita del Dio Vero, che sana ogni vista turbata, come dice Dante, il Sommo Giove, che fu qui in terra per noi crocifisso. Le laudi in onore della nascita di Gesù Cristo devono quindi essere state antichissime. E non soltanto le laudi, popolari o letterarie, cantate nelle stalle o nelle chiese; ma il dramma e la musica , la pittura e la scultura , da questa ricorrenza annuale della nascita di Cristo come fiume da sorgente, mossero i loro primi passi. E giunsero alla perfezione, dimenticando al solito gli umili loro principii, ai quali riconduce, per quanto si riferisce alla poesia popolare, il presente Gosu 0 Lauda de su naschimentu-, semipopolare si, ma che può star benissimo in compagnia di quelli che lo sono per intero, da me pubblicati nel Resumu mannu o Raccolta grande dei canti logudoresi. La 1.* lezione è di Nuoro e mi fu inviata dalla signora Felicita Puxeddu, la 2.® di Torralba, e mi fu inviata dalla signora M.a Antonia Marras. Non v’ ha dubbio che ve ne saranno altre. (1) Gli Ebrei celebrano il 25 Cbislem (Dicembre) la festa dei lumi, detta Hanuca, ricordante la vittoria di Giuditta sopra Oloferne, e di Giuda Macabeo su Antioco di Siria; del sole sulla tenebra invernale. (2) A Reggio dicono che il sole: A Nudai al fa on pass ed (di) gali, — A San Steven on pass ed livar 1 lepre); a Pasquetta (Epifania - 6 gennaio) on sali ed cagnetta; a S. Anioni (17 gennaio) on pass ed damoni. 54 GIORNALE LIGUSTICO GOSU DE SU NASCHIMIENTU (lezione di Nuoro). Zeleste tesoro i. Celeste tesoro D’eterna alligna D’eterna allegria Drommi vida e coro Dormi vita e cuore Drommi e anninnta. Dormi e chetati. Che Maju Jroridu, 2. Qual Maggio fiorito Istan sar campagnas, Stanno le campagne , Sar puras ittlragnas, Le pure viscere Nor a' cun^endìdu, A noi han conceduto Su fruttine 'eneìdu Il frutto benedetto Chi da luche e ghia. Che dà luce e guida. In essènsiu groria, 3. In alto gloria, 5’ intende cantare, Si sente cantare, Sor atighelos laudare, E gli angeli lodare ; Chin boche notoria, Con voce alta Cantana vittoria, Cantano vittoria Po custu Messia. Per questo Messia. S’istalla iscurosa, 4. La scura stalla Mùtada a s'istante. Mutasi in un istante Sa luche brillante, La luce brillante Cantu e’ risplendosa, Quanto è splendida, Sa notte dinosa! O notte fortunata , Se f notte de allegrìa. Sei notte di allegria. S'anghelu contentu, 5. L’angelo contento, Nat’ a sor pastores, Dice ai pastori, Gesù Redentore, Gesù Redentore A-ssu mundu 'e btntu. Al mondo è venuto. Dissana s'armentu; Lasciano l’armento, Chircan su Messia. Cercano il Messia. S’istella brillante, 6. La stella brillante Posta este in camminu, Posta s’è in cammino, Astru navicante, Astro navigante Chirca su destinu, Cerca il destino De custu Messia. Di questo Messia. Sor tres Res de Oriente, 7. I tre Re di Oriente Lèana su camminu, Prendono a camminare Su filu continu, Il filo sempre Este istella luchente, È la stella lucente A sos òmines credentes, Anche agli uomini credenti De sa profezia. Nella profezia GIORNALE LIGUSTICO 55 Sor tres caminantes Erodese idèsini, Luego li nèsidi, Torrades s’istante. Ca de custu infante Nobas cheria. S’istella falesidi Umbe fiti s'injante, Gai umiliantes, Sor tres Res intrésini, L’ adoran e li désini, Oro in\en\u e mirra. Addainnantis chi partèsini. Sor tres Res d’Oriente. S'anghelu potente, Bi los avertèsidi, In sonnu li nèsidi, Gambiade sa 'ia. (lezione di Zelelthe tisoru D' etelna alligrìa Drommi vida e coro (i) Riposa e anninìal Lettu de broccadu, Non ti preparesi, Su fenu ti desi, Lettu duru e siccu, Sende tue riccu E potente segnoria. Drommi Fi\u amadu, Drommi cun dul\ura, Non tentas paura . D' esser dilthurbadu, Verbu incranadu, Su veru Messia. Zèmitu impatiente, Nde iipicat' a su çoro, Amabile tesoro, 8. I tre viaggiatori Erode videro ; Subito loro disse: Tornate subito, Chè d’ esto infante Nuove vorrei. 9. La stella calò Dov’era l’infante, Cosi umiliandosi I tre Re entrarono, L’ adorano e gli dierono Oro, incenso e mirra. 10. Prima che partissero I tre Re d’ Oriente, L’Angelo potente Li avverti, In sonno lor disse, Cambiate la strada. Torralba). 1. Celeste tesoro, D’eterna allegria, Dormi vita e cuore Riposa e dormi. 2. Letto di broccato, Non ti preparai, Il fieno ti diedi, Letto duro e secco, Mentre tu sei ricco E potente signorìa. 3. Dormi figlio amato, Dormi con dolcezza, Non aver paura D’essere disturbato, Verbo incarnato, Vero Messia. 4. Gemito impaziente, Mi stacca il cuore, Amabile tesoro, ) Pronunciasi come goro. 56 GIORNALE LIGUSTICO Sole relughente, Sole rilucente, Drommi dulchemente, Dormi dolcemente Çoro, anima mia. Cuore, anima mia. Cando a mie ti miras 5. Quando a me guardi Cun sa corona ’e rosas Colla corona di rose, Nara, prite suspiras? Dimmi perchè sospiri? Drommi çhi ti olvidas Dormi, così ti scordi Dogni trtbulìa. Di ogni affanno. Drommi i-ssinu meu 6. Dormi nel mio seno, Drommi fi^u e’ s’oro, Dormi figlio d’oro, Non nd' àer dubbili in coro, Non aver dùbbio in cuore, Non nd' appas pius a{iu, Non avere affanno, 0 divinu pipiu Divino fanciullo, Drommi a sa meludia. Dormi alla melodia. Drommi a sa meludia 7. Dormi alla melodia Chi ti fàchene in chelu, Che ti fanno in Cielo, Drommi chena re^elu, Dormi senza gelosia, Ancone immaculadu, Agnello immacolato, De-ssu mundu iipettadu, Dal mondo aspettato, Drommi vida mia. Dormi vita mia. Reservadi su piantu, 8. Riservati il pianto, Drommi bene meu, Dormi bene mio, Caglia Fi\u ’e Deu, Taci figlio di Dio, E non piangas tantu, E non pianger tanto, Su chelu allegru tantu. Il Cielo allegro tanto, Prite tanta agonia? Perchè tanto affanno ? Po chi t' ad’ in çoro, 9. Per chi t’ ha in cuore, Fiore ses de contentu Fior sei di contento, Vasu de alghentu Vaso di argento, Riccu ’e flores d’ oro, Ricco di fiori d’oro, Unicu rilthoru Unico ristoro De-ss’ anima mia. Dell’ anima mia. Alla festa di Natale si riferiscono pure quest’ altre costumanze, che così mi sono comunicate da Siniscola dalla signora Maria Contini. A sa pasca nadale o minore nàrana sa missa ’e puddn a sa cale intervènini tottu sai femminas ràìdas, xertas chi iscultende sa missa chin defossione non perigulana i-ssu partii. Nella festa di Natale o Pasqua piccola, dicono la messa del pollo, alla quale intervengono tutte le donne gravide, certe che ascoltando la messa con devozione non peri- GIORNALE LIGUSTICO 57 De Paschinunti càntana sol 1res Res, ei sol cantndores ricini càriga, pa-bassa, mendulas, nughes ; su càntigu lu nana candela^ju o candelariu. E ancora passino qui quest’ su annu, al primo giorno ( stessa signora. Crene sa bascia^ente chi sa prima die ’e s' annu ànda’ peri sai carrelas su carru ’e sol mortos in professone chin Santu Giagu; a chie su Santu punghet’ inlro s'annu ted mòrrer. I-ssol mortos hi crene tottu; chi si musitene in coloras, chi àndana, faiddana, chi cominigan' a sa {ente, e chie si lassa cominigare mòrit’ i s-s’ annu. colano nel parto. AH’ Epifania cantano il canto dei tre Re, ed i cantori ricevono : fichi secchi, uva passa, mandorle, noci; il canto lo dicono candelazzo o candelario (cioè delle calende o carmeu calendarium). altre intorno a Sa prima die. ’e teli* anno, comunicatemi dalla Crede il volgo che nel primo giorno dell’anno, va per le strade il carro dei morti in processione con San Giacomo ; chi quel santo punge col pungiglione entro l’anno deve morire. Nei morti vi credono tutti ; che si fanno vedere mutati in colubri, che vanno, che parlano, che comunicano la gente, e chi si lascia comunicare muore entro 1’ anno. III. SA FESTA DE SU PUDDU (La festa del pollo). La fagliene in carresecare. Sa ultima die curren’ su palu tottu mascarades. Pònini i-ssa piatta duas traes chin d’una fune tesa e unu puddu in ntesu presu po sos pees. Una maschera nada su cavaglieri, 'estidu a sa nobile, chin s’isciabula e sos asprones, passat' a caddu,, a curtu, dat’ unu \affu de isciabula, ei a su puddu nde li seca' sa conca, non de su tottu t curret ’e cùrrene tottu sos àteros. La tanno in carnovale. L’ultimo giorno corrono il palio tutti mascherati. Mettono (piantano) nella piazza due travi con una fune tesa dall’uno all’altro, e un gallo in mezzo (la corda) legato pei piedi (col capo in giù). Una maschera detta il Cavaliere, vestito alla nobile colla sciabola e gli sproni, passa a cavallo alla corsa, dà un colpo (un zaff) di sciabola, e al gallo taglia la testa, ma non del GIORNALE LIGUSTICO A s’àtera cursa istaccat a su puddu sa conca e V ammusir ad' a sa {ente; a sa ter {a ispiccat’ a su puddu, e lu mustrat’ a destra e a manca, e tottu li nàrana : me\us a s’ àteros annos. Po cussu si nara' custu frastimu e irrocu: Ancu ti fettan chei su puddu de carresecare! A su sero sol tin-tinnàtos àndana peri sal domos e si and’ acben’ cumbidados; liana a coddu sos proprietarios los gitigliene a ballu e pustis a cumbidare. E lassadu a unu liana a àteru, e si si rifiutano, los liana a for\a, e gai faghen' fin\as a mesanotte. tutto, e poi seguita a correre, e corrono tutti gli altri. A P altra corsa stacca al gallo la testa per intero e la mostra al popolo; alla terza stacca il gallo, Io mostra a destra e a sinistra e tutti gli dicono meglio negli anni avvenire. Perciò si dice questa bestemmia e imprecazione: Dio voglia che ti facciano come fanno al gallo di carnovale. Alla sera i malvestiti vanno per le case e si fanno (da sè) come invitati; prendono a cavalcioni i benestanti, li portano al ballo, e poscia al convito. E lasciato uno, prendono un altro e se si rifiutano li prendono a forza, e cosi fanno fino a mezzanotte (i). IV. SA PRIMA DIE DE BARANTINU (2) (Il primo giorno di quaresima). In custa die ùsana sos giovanos ficcare su broccu in terra i-ssu ri-ηιίηαΐχμ e nàrana : A li ficcare su broccu, Ca el costumen connottu E a ... bi lu ficcan’ tottu. Pustis càntana, e spù\\ana 0 bàn-tana sas bajanas gai: Finidu su carresecare Principia’ su mementomo A tiois seberare, Sas bajanas de corno (3). In questo giorno usano i giova notti ficcare, piantare il cavicchio in terra in sul limitare (delle case delle ragazze) e dicono : A piantare il cavicchio, Che è usanza conosciuta, E alla tale lo piantano tutto quanto. Poscia cantano e sprezzano o lodano le ragazze cosi : Finito è il Carnevale, Principia mementomo [verare A noi (or tocca) lo scegliere lo sce-Le zitelle d’ora - (rimaste da ma- [ ritare ). (1) Raccolse la signora Maria Contini in Siniscola. (2) Il vocabolo barantinu (tempus) = tempo quaresimale, ricorda la Paresima dei Rumeni, il loro patru = quattro, il petor degli Osci. (3) Racc. come sopra. GIORNALE LIGUSTICO 59 La sorgente di allegria in questa festa non è interamente pura, ma frammischiata di crudeltà, di amor proprio, di vanità; elementi che, nota il Mantegezza, « trovansi in tutte le feste diversamente combinati, perchè l’uomo porta sempre seco tutto il bene e tutto il male, che stanno sempre chiusi entro la buccia della sua pelle e sotto la volta del suo cranio ». Roma imperiale non celebrò feste, nè sacre, nè profane, senza spargimento di sangue; pareva che il rosso liquore fosse come parte necessaria del culto. Il Cristianesimo, pur ingentilendo i costumi, non potè interamente ritrarre gli animi dalla crudeltà dei giuochi profani, e anche nell’Europa cattolica, gli spettacoli pubblici non furono, fino ai giorni nostri, interamente gentili. Ciascuna regione italiana 'na i suoi. Lo strazio che a Siniscola si fa de su puddu, in Acqui nel Monferrato si fa di un’ oca appesa pei piedi, al di sopra di un’ asse posta in bilico, detta trampuìin. I giuocatori per arrivare a spiccare il capo, od il corpo intero dell’ oca saldamente legato, devono calcolare 1’ altezza del salto per giungervi ed il tratto dell’asse da percorrere per non cadere, e spesso sbagliando la misura dell’uno o dell’altra, si slogano le gambe o si rompono un braccio fra le risa degli spettatori (i). A Carpeneto d’ Acqui, talora di Carnevale, ma più spesso nell’occasione delle feste di S. Pietro, della Madonna di Mezz’agosto, o di Settembre usan dare lo spettacolo del porre al bersaglio un pollo, un tacchino, un’oca, comprati quasi per farne strazio. Anticamente al bersaglio si tirava colle pietre, e tuttora corre il proverbio: lacà a grupaje me ir (i) La processione annuale fatta dai Romani, nella quale a ricordo del Campidoglio salvato dalle oche, portavasi in trionfo uno di tali palmipedi, pub aver contribuito a presceglierlo quale vittima delle feste popolari nelle nazioni neolatine, e a diffondervi il Giuoco deli’ Oca. 6o GIORNALE LIGUSTICO gali d San Pe, preso a sassate come il gallo di S. Pietro, per indicare chi è bersagliato da tutti. Il portare sulle spalle gli anfitrioni del pranzo (che i signori a Siniscola usano spinte o sponte dare alla povera gente) è forse ricordo del mistico vaglio, culla di Bacco, che si usava portare nei Baccanali, con dentro un fantoccio rappresentante il Dio, portato in giro dai devoti. A Carpeneto d’Acqui nel Martedì grasso l’om ani ir vali, l’uomo nel vaglio, è una maschera che non manca mai. Questa maschera usa anche a Palermo ed altrove, in Sicilia, come ha notato il chiarissimo Pitrè. L’ uomo mascherato fa un grandissimo buco in un vecchio vaglio, vi fa entrare la persona fino ai fianchi, poi adattando la parte inferiore di un fantoccio di paglia al proprio busto la porta nel vaglio, sicché sembra che la maschera cammini senza gambe. Nè vi manca la maschera del Cavallin, cioè un uomo, tinto il viso, con sonaglio al collo ed una coda di cavallo applicata alle reni, il quale correndo fra la lolla, sferza i circostanti, come faceva nell’antica Roma un sacerdote durante le feste dei Lupercali. L’ uso di piantare il cavicchio presso il limitare delle belle riminal^u, liminarçu, soglia, limen lat.) è essenzialmente Sardo. Si canzonano le ragazze perchè un altro carnevale è passato senza che desse siansi maritate, è un clavus annualis di più nella loro vita di zitelle, significato come direbbe Dante: Con maggior chiovi che d’ altrui sermone. Invece l’allegra espressione: Finito è il carnevale (finidu su carresecare) ricorda usi di altri luoghi. Nota il Pitrè che nel secolo XVI, in Sicilia, in Trapani succedeva che negli ultimi giorni di Carnevale sfaccendati e buontemponi si fermassero per i vicoli, chiamando la tale o tal altra donna del popolo, con aggettivi poco lusinghieri, con pericolo di que- GIORNALE LIGUSTICO 61 stioni e di odii. A Carpeneto d’ Acqui va perdendosi un uso, vivo ai tempi della mia infanzia, detto ir Facirère. Nelle ultime notti di Carnevale si radunano, al discordato suono di padelle e di latte da petrolio, i giovanotti e dicono : V é l’ultim dì d’ Carvée Ir beh fije i sun ancur da mariée, nominano una gobba, od una vecchia zitella, alla quale assegnano per marito, uno sciancato, un vecchio celibe, ecc. Il nome di quest’uso, ir facirère deriva, credo io, dalla parola latina, facellulae o facellae, faci, o torcie a vento che si portavano dagli antichi Romani nelle feste dei Baccanali e dei Saturnali, quando era permesso uti libertate Decembris. Quest’ uso di mettere in ridicolo le zitellone, negli ultimi giorni di Carnevale, è vigente anche nel Trentino, in Val di Fiemme ed altrove dicesi: Mandar via. V. SA FKSTA ’E SA PARTORZA. (La festa della puerpera). È una festa di famiglia. La casa è in allegria, un nuovo affetto, anzi una sorgente di nuovi affetti, chiama i parenti a godere della fortuna toccata alla puerpera; essa è la regina nelP adunanza del numeroso parentado, la sacerdotessa del culto novello. Appena l’infante è battezzato, gli affini giungono da tutte le parti par fare la visita di rito. 62 Cando àndana a imbisitare sa par-ίονχα nàrana : Arvure bella vu\ida, Naschida chin tantas vo{a/s/, Cresca’ su chi el (csl) nadu, Saliidu a sa parlorta. O assutiessi nàrana: Saludu a fnndu e a fruttu (i). S’imbisitta non si pode fàghere si sa criadura non è bati{jada. Non bison\at' a domo de partor^a giugher fusos, nè filare , né cosire, ca custu ildschlada a sa persone, nè leare lò-tnuros, ca li fùet' a su latte, nè dare su piattu avan{adu dae issa a cane αηχαάα, né biere chin àtera allattarla dae sa partor^a. A sa illierada tottu fàghene festa ei a sa criadura fàghene rigalos; li dana, estitos, aìscos, lana iscutinada, agnusdei, pedras rne{us nieddas chi pressiosas, incrosladas de arghentu, dentes de sirbone o de yorcabru. Sa partor^a andai a restituire s’ imbisitta pustis baranta dies (2). Quando vanno a visitare la puerpera dicono : Albero bello fronzuto, Nato con tante foglie, Cresca chi è nato Salute alla puerpera. O almeno dicono : Salute alla pianta ed al frutto, La visita non si può fare se 1’ infante non è battezzato. Non bisogna alla casa della puerpera portar fusi , nè filare , nè cucire , perchè tutto ciò le rilascia la persona, nè prendere con sè gomìtolo, perchè le fugge il latte, nè dare il piatto avanzato da lei a cagna sgravatasi, nè bere con altra allattatrice presso la puerpera. Alla liberata (dal parto) tutti fanno festa e all1 infante fanno regali; gli danno vestiti, scodelline, lana battuta, agnusdei, pietre piuttosto nere che preziose, incrostate d’argento, denti (sanne) di cinghiale (porcus aper). La puerpera va a restituire la visita dopo i 4° giornl· Questi doni richiamano a mente quelli fatti dai Re Magi a G. Cristo infante, e gli oplcria o doni fatti dai Greci, la prima volta (òptomai io vedo) che vedevano la puerpera e il bambino. Nell’ occasione del battesimo, i Sardi, secondo la loro condizione, abbondano di elemosine. Le vecchierelle del vicinato, fatto alla puerpera il saluto, recitano canti sacri, (r) Anche Dante, parlando dei discendenti di avoli famosi, dice: Rade volle discende per li rami, ecc. (2) Raccolse la signora Maria Contini in Siniscola. GIORNALE LIGUSTICO 6 3 relativi alle nascita di Gesù Cristo, per buon augurio al nuovo Cristiano. Uno di essi raccolto a Nuoro, dice così : Ninna-ninna, puppu bellu, 2. Chi ses belili cantu s’oro, Su manteddu fia de oro, 4. Ei su manta de broccadu, In me^u de fetiu nadu, 6. Foras dae su camminu, Nè seda giughe’ nè linu, 8. Si non penas e dolore/s/, Uno filli appo incontradu (1) IO. Chi lu nana Salbtidore (2). Ninna nanna bimbo bello, Che sei bello quanto è 1’ oro, Il mantelletto (cuopri testa) era d’oro E il mantello di broccato, Immezzo al fieno nato, Fuori del cammino, Né seia porta, nè lino, (Non porta) altro che pene e dolori, Un figlio ho trovato, Che lo dicono Salvatore. (1) Una variante dice: unu fiiu appo perdidu, ec. Il Rev. Don Michele Lichen , già ricordato, ha sentito questo Canto anche da due contadini di Luras, ma é da credere che essendo i Galluresi, come notammo bilingui, essi recitassero il canto non nel proprio, ma nel dialetto di Nuoro, come è la presente lezione. (2) Il ricordo della Nascita e della Passione di G. Cristo in questi nan-narismata sono inseparabili. Ecco per es. un canto raccolto a Fano, Circondario di Reggio E.: La Madona di Capusèn — Porta in volta al so barnbèn, Pin-n ad rosi, pin-n ad fior — La Passion d' noster Signor. Noster Signor quand lu al nasseva — Tutt la tera la fiuriva, 1 αχοί i cantava — La \ladona predicava, Par la luna, par al sol — Par nuèter peccator. La so inama a gh da’ la pappa — La l’imbocca, la iinfassa, La ghe dona al campanell — Con al bo e l’asineli. Oh che bela compagnia. — Con Gesù e con Maria, Chi la sa e chi la dis — Dìo ghe dona al Paradis, Chi la sa e chi la canta — Dio ghe dona la gloria santa. La Madonna dei Cappuccini — Porta in giro il suo bambino _ Pieno di rose, pieno di fiori — La Passione di Nostro Signore — Nostro Signore quando egli nasceva — Tutta la terra fioriva: gli angeli cantavano — La Madonna predicava, — Per la luna, per il sole (vi invochiamo) per noi altri peccatori — Sua madre gli dà la pappa — Lo im- 64 GIORNALE LIGUSTICO Il sig. Licheri, benemerito di questi studi, ricorda a proposito della festa de sa partirla la tradizione sacra di S. Anastasia manos de oro (i). Nàrana chi Santu Zoseppe chir-cheret’a una Mastra 'e partos chi si giamaìat Anastasia (2). Fia' de notte , e Santu Zoseppe po ghiare a Santa Anastasia la lesi’ po manos. Inue sa manu sua tocchesit’ a cudda de Santu Zoseppe restesit' de oro. Po cussu i-ssos partos sas partorxas in-vócana a Santa Anastasia, e sos pastores a Napoli addainàntis de sos presepios i-ssa noina de sa Pasca minore cantana : San Giuseppe co Santa Anastasia Furon presenti a u bartu de Maria. Dicono che S. Giuseppe cercasse una Maestra di parto o Levatrice, che si chiamava Anastasia. Era di notte, e S. Giuseppe per guidare S. Anastasia, la prese per le mani. Dove la mano di essa toccò quella di S. Giuseppe restò d’oro. Per questo nei parti le partorienti invocano S. Anastasia, ed i pastori a Napoli, davanti ai presepi nella novena di Natale cantano, ecc. VI. SA FESTA DU MESU AGUSTU (La festa di mezzo Agosto). Est festa manna chi non si travagliai’ e V à missa cantada e missa de mesudie; e li fagliene sa possessione, ei s' otlada li fàchene s'inghiriu i-ssa prat{a de eresia. Sa die de sa É festa grande, (in essa) non si lavora e v’ è messa cantata e messa di mezzogiorno ; le fanno la prò cessione, all’ ingiro della chiesa. Nel giorno della festa le bambine bocca, lo infascia — Gli dona un campanello — Col bue e coll asinelio. — Oh che bella compagnia — Con Gesù e con Maria. Chi la sa e olii la dice (quest’ orazione) — Dio gli dà il Paradiso — Chi la sa e chi la canta — Dio gli dà la gloria santa. (1) La parola manos de oro, non è di pronuncia di Ghilarza ; ivi si direbbe manor (anche i latini diceano honos e honor). (2) Anastasia vale in greco risurrezione, rinnovamenjo, è quindi naturale che per la nascita di G. Cristo, la rivoluzione sociale, cui egli diede principio, fosse personificata e divinizzata GIORNALE LIGUSTICO festa sar picinas de cada Uchinàu axxjintana e pònene me\u pe\\a cada una e una pralu de simula , po fà-chere sor maccarones e còmporana frùttora e durches, e pràndene tottu paris e ìstana tottu sa dìe giocande. Fàchene unu romagliette mannu de frores, chi lassana tottu sa dìe i-ssa hentana de s’apposentu de ube sunti issas e custu si na' : su frore de mesu Agustu. Sar pixjinnas fàchene custa festa torrande grassia a Nostra Segnerà [ca si na’ che issa cada annu si fachet a sa corona de anghehs noba, ca in Agustu soìet mòrrer meda pi{{inos] ca las a' ri-sparmiadar bibas (3). di ogni vicinato si riuniscono, mettono in comune 25 cent, ciascuna, e un piatto di fior di farina per fare i maccheroni e comprano frutta e dolci e mangiano insieme, e stanno tutto il giorno scherzando e ballando. Fanno un gran mazzo di fiori che lasiano tutto il dì sulla finestra della camera dove esse sono, e questo mazzo dicesi il fiore di meu’ agosto. Le fanciulle fanne questa festa rendendo grazie alla Madonna (1) [perchè si dice che essa ogni anno si fa la corona di angeli, nuova (2) perchè in agosto suol morire molti ragazzi] che le ha risparmiate vive. VII. FESTA Έ SANT’ AGATA (Festa di Sant’ Agata). Po agattare sar cosas perdidas est tentu in divossione S. Antoni de Padua, creto, in tottu sa Sardigna, e li fàchene sa treichina (4) ei sa lampana. Ma Sant’ Agata este lu-menada (5) po su focu, no po agattare. A sa festa bi sun' sor priores e sar prieras, ma est de areu, e Per ritrovare le cose perdute è ritenuto in divozione S. Antonio di Padova, credo, in tutta la Sardegna e gli fanno la tredicina (4), e gli accendono la lampada. Ma' S. Agata (almeno a Nuoro) è invocata, per tener lontano il fuoco, non per far trovare. A questa festa (1) È gentile e pietosa questa credenza della corona, sempre rinnovata, che ogni anno i piccoli morti, fanno alla Vergine che ascende al cielo. (2) Trasposizione non elegante; comune nel dialetto logudorese. (3) Raccolse la signora Felicita Puxeddu a Nuoro. (4) Benedizione che danno in chiesa 13 giorni prima della festa; accendono una lampada. (5) È allontanatrice, averrunca degli incendii, è nominata, invocata, chiamata a nome (lumene). Gior. Ligustico. Anno XX. 5 66 ponini una paris de tridicu po fâcher e su pane, su filindeu ei sar didighed-das minores cantu una nuvola, chi las benèichene in eresia a s'ora de sa missa e la distribuini a sor òtnines po cando occurret’ de b’ àer focu. Tando ghèttaua una (2) mesu su focu po I' istutare. I-ssa festa pràn-dene totu sar prioras e priores e sor poveros chi b' andana (3). ci sono priori e prioresse, ma di continuo (non per la circostanza) e mettono tanto per uno di grano per fare il pane, i fidelini ed i mi-gnolini (1) piccoli quanto nocciuola, li benedicono in chiesa all’ora della messa e li distribuiscono alla gente, quando capita che vi sia un incendio. Allora ne buttano una immezzo al fuoco per spegnerlo. Nella festa mangiano, pranzano, priori e prioresse e gli indigenti che vi vanno. Vili. FESTA ’E SANTU NICOLA. Sa festa de Santu Nicola est meda antica, ei sa χente de corno non la connosche'; però sor be^jos mannos, nana chi inube bi’ fit sa eresia, e bi fit puru su cappussantu a costa^u, po sos chi occhidiana, 0 chi irroba-iana; corno est fatta a bin^a. Sa festa la fachìana lissia; solu’ su pé-spsru ei sa missa cantada; coniente po Santu Micheli e po Lissensia Domine (4). Como cando giüchene sor santos in prusessione non tisana de iùchere boes e caddos. Tando usà-bana, ma corno los ana proibios, assumancu custu fàchene a Nùgoro(^). La festa di San Nicola ό molto antica, e la gente d’oggi non la conosce, però i vecchi decrepiti dicono che dove era la chiesa era pure il camposanto a fianco, per quelli che erano uccisi od assassi nati; ora è ridotto a vigna. La festa la facevano liscia, cioè col solo vespero e la messa cantata , come si fa per San Michele, e per l’Ascensione del Signore. Ora quando portano i santi in processione non usano di condurre (portare) buoi o cavalli. Un tempo usavano, ma ora li han proibiti; almeno questo fanno a Nuoro. (1) Pezzettini di pasta della forma e dello stampo di un ditale; gnocchi — Tridicu grano, triticum lat. — trigo spagn. (2) Manca Vin, come avviene spesso nel dialetto logudorese. (3) Raccolse la signora Felicita Puxeddu a Nuoro. (4) Questo è il nome che volgarmente si dà alla festa dell’ Ascenzione del Signore: la festa dr’ Assensa, 0 dr' Assensiun, in Monferrato. (5) Raccolse id. id. c. s. GIORNALE LIGUSTICO SU FRORE ’E (Il fiore della Este unu frore biaittu chi naschit peri totlue; lu ghéttana po sa festa de Corpus de Cristos, po Nostra Signora de la Salude, e lu ghéttana po lis onorare. Pustis colada sa pru-sessione nde lu còllini e nde l’arri-bana i-ssa cascia. Lu ghéttana ptiru i-ssor cojuos umpare a su tridicu, e lu pòllini i-ssar rebellas, est a narrer cosar beneittas. Lu pòmnipuru i ssa roba de sa franca (i), cando sa {ente imbìat’ a sar partor\as, χincbillios, candelas, iscapularios po àer partii bonu e lestru (2). SU BALLU DE (II ballo d Cando sa bàr{ia (3) punghel’ a calchi pessone, si su piintu est òmine, bàllana a inghiriu Je issu, sette biu· SA PRONINCA finca pervinca). E un fiore azzurrino (di colore) che nasce dappertutto, lo gettano (lo spargono) per la festa del Corpus Domini, per quella della Madonna della Salute e lo spargono per onorarli. Dopo passata la processione, lo raccolgono (di nuovo) e lo mettono in serbo nel cassettone. Lo spargono pure negli sposalizi insieme al grano, e lo mettono negli Agnus Dei, vale a dire cose benedette. Lo mettono pure nella roba della franca, quando la gente invia alle partorienti ornamenti d’oro, candele benedette, sapolarii, (per avere) affinchè abbiano parto buon e spiccio. SAS BATTÌAS. il le vedove). Quando il falangio morde qualche persona, se il morsicato è un uomo, ballano all’ intorno di esso (1) Franca vale, branca, zampa, mano. Bettare sas francas — gettare Je mani addosso ad uno ; prontu de framas — lesto di mani. Mandare sa franca mandare un dono alle partorienti, che consiste, fra donne d’uguale condizione, negli oggetti qui ricordati, ma se è fatto da ricchi a poveri, comprende polli, carni, vino, fascie, 0 pannilini, ed anche denari. (2) Raccolse id. id. c. s. (3) Arra e bar^a, sorta di ragno nero, punteggiato di rosso, creduto velenosissimo, benché il suo morso non produca che un po'di gonfiore 68 GIORNALE LIGUSTICO dos e sette bachianos po li passare su dolore; e si mossiu e’ femmina, Italiana sette biudas e sette bacliianas. S’àr^ia cando punghet' a malàidos causai a su ballu 'e San Vitu. Custu si pode puru appi{\icare chin sar maghias de su liminar\u. Nana chi custu lu fàchene sas maghiar\as, e cunsistit in pi{\ineddas de is tragos: las pònene sutta su ianile po esser fàcile a las iumpare a su od a sa chi chèrene male, e ana sa \ertesa chi iumpada depet' appiccare sa maghia. Eallu proìte si na' maghia de ianile. si b' a’ spiritor malos o diaulos, tando los lìgatia chin orasiònes e benedisiones (i). sette vedovi e sette celibi per fargli passare il dolore; se il morsicato è una donna, ballano sette vedove e sette zitelle. Il falangio quando morde gente ammalata lor cagiona il ballo di S. Vito. Questo male si puote anche anppiccicare colle fattucchierie del limitare o della soglia. Dicono che ciò fanno le maliarde e consiste in puppatole di straccio; le pongono sotto la soglia dell’uscio, perchè sia facile a far giungere a quegli od a quella alla quale vogliono male ed han certezza, che giunta deve attaccar la malia. Ecco perchè si dice magìa della soglia. Se poi vi sono spiriti mali o diavoli, allora li legano con orazioni e con benedizioni. XI. PO SOR MORTOS (Pei morti). Po sor mortos o sia' po sor Santos fàghene su pane ei sor papassinos, chi si fàchene de simula netta, im-pastada a binicotta, e si mischia a custa pasta tnéndulas, nuches, papassa, e si li dat’ a sa forma de su pinu i la còchene i-ssu furru. A sor parentes e amicos s' usa' de imbiare sor papassinos e paner durches. S’usa’ puru po pràndere de fàcher tnacca- Pei morti ossia per la festa dei Santi fanno i pani, ed i panini d’uva secca, che si fanno di semola pura, impastata col vino cotto; alla pasta si mescolano mandorle, noci, uva passa,e se le dà la forma di una pigna e la cuocciono al forno. Ai parenti ed amici s’usa di mandare in dono i papassini e pani dolci. Si usa pure da pranzo di fare maccheroni, e di — Ar^a e bar\a derivato dal latino, Varia, variegata; in latino antico, baria. Il ballo delle vedove ricorda la tarantella napoletana , ballo composto allo scopo di far guarire i morsicati dalla taràntola, ragno velenoso delle Puglie (i) Raccolse, id. id. GIORNALE LIGUSTICO 69 rones e de nde imbiare a sor poveros po sar animas ’e sor mortos. Sor riccos occhidene una 0 duar baccas e nde màndana sa fitta a parentes, amicos, poveros, ca est die de limu-sina. Una festighedda misera la fàchene in Gavòi nada de su corriolu; dana una fitta de petta (2). inviarne ai poveri, in suffragio delle anime dei morti. I ricchi fanno uccidere una 0 due vacche, e ne mandano una fetta a parenti, amici, poveri, perchè è giorno di limosina. Una festicciuola piccola la fanno in Gavoi (1) detta del brano di carne; danno una fetta di carne. XII. FESTA DE SU MESE SANT' ANDRÌA (Festa del mese di Novembre). Su mese principia' chin sa festa e sol mortos, in sa cale fàghene sol pabaesinos, e panes de saba; e fini’ chin sa festa de su santu ’e custu liimene, po sa cale ùsana de boc-chire sol mannales e de ispuntare sol binos nobos (3). Il mese principia colla festa dei morti, nella quale fanno i papas-sini, ed i pani di sapa; e finisce colla festa del santo di questo nome, per la quale usano di uccidere i maiali e di assaggiare i vini nuovi. XIII. SA FESTA ’E SANTU JUANNE (Le feste di San Giovanni). Sa {ente na’ chi a sa fine’ e su mundu, Santu Juanne at’ a pedirt a Deu sa grassia de salvare a tottu, po La gente dice che alla fine del mondo, San Giovanni chiederà a Dio la grazia di salvare tutti, per (1) Gavoi. — Paese del Circondario di Nuoro. Festa de corriolu dicesi comunemente la allegria, la cuccagna, che secondo un uso, oramai sparito nel Continente, accompagna le feste Sarde, nelle quali il ricco che s’allegra, non vuole che il povero resti a denti asciutti, ma gli dà una fetta di carne, e vino come a amico. (2) Raccolse, id. id. (3) Racolse la Signora M. Contini a Siniscola. 70 GIORNALE LIGUSTICO se refàghere de cudda chi Deu non li concedesti’ a biu, chi fia', de piàer’ inaris tres oras i-ssa festa sua; ca nacchi Deu li respondère’ : tando sos òmities isèttana prus sa die tua che i sa mia. Si e' beru, Deu V ischit. Nana puru chi i-ssa notte' e sa filili a a mesanotte sas animas innocentes bìdene a su chela abertu. Sas bachianas a su sero ’e sa fiiilia andana a signare sa trovodda, o s’erba de Santa Maria, o s'erba de battos, ca a su sero tottu sas erbas sun’ bonas. A su cramman^anu chena bessire a su sole, àndana a leare sas erbas, chi ana presu chin vettas nied-das las lògana dai raighinas, e las appòmpiana si ténini presos bab-baunos. Si incontrana a formìgula, crene chi ana a leare maridu massaju; si por cu muntone, leare porcariu, si babbaunos ruiu, o bacca ’e Deu, baccariu ; si rucas, ortulanu. Sas piljinnas ei puru sas bachianas liana una francada de s’erbas arrecoglidas, unu pagu de cadauna e nde fàghene sas re{etias, chi sun’ bicculos ’e vetta niedda coniente soddu, cosida a in-ghiriu, e bì panini sar erbas, tres pedrighittas ’e sale, ei la prendene a coddu chin sa cordonerà, oppuru las cosini a palas, a s’imbustu, ei a sos pillinnos las appì{{igan a su corittu i-ssas palas. A sas alas de Onniferi, de Orimi, de Oroteddi, sas bachianas àndana a iucher s’ abba muda, este a nàrrer chi àndana e tòrrana chena faeddare iuchende. S’ abba muda la léana a ue si sia' s' agattet a calchi puttu de Santu Giuanne, o chi b’ este istada cheija de su santu.Ndesbrùffana peri tottu sar domos ca custu faghe' fuire sos animales, tottu sos arrab- rifarsi di quella che Dio non li concedette quando era in vita, che era di far piovere denari per tre ore nel di della sua festa, perchè dicono che Dio gli rispondesse: allora gli uomini aspettano più la tua festa che non la mia. Se è vero 10 sa Dio. Dicono pure, che nella notte della vigilia, a mezzanotte, le anime innocenti vedono il cielo aperto. Le zitelle alla vigilia vanno a segnare (quasi consacrare) l’erba verbasco, oppure 1’ erba di Santa Maria (tignamica) oppure il maro o 1’ erba dei gatti, perchè alla sera (quando è buio) tutte le erbe son buone. All’indomani mattina prima del sorgere del sole (senza uscire 11 sole) vanno a pigliare le erbe che hanno legato con nastri neri (intorno intorno), le svelgono dalle radici, e le osservano se hanno (fra le foglie) inclusi (legati) insetti. Se trovano formiche, credono che piglieranno marito un agricoltore; se porcellino terrestre (insetto dei letamai muntonal{os) prendono un porcaio, se insetto rosso, ossia la coccinella detta vacca di Dio, un vaccaro; se bruchi, un ortolano. Le bambine ed anche le grandi zitelle (vacue) prendono una brancata dell’ erbe raccolte, un po’ ciascuna e ne fanno le ricette, che sono pezzettini di nastro nero y grandi come un io centesimi, cucito all’ ingiro e vi mettono le erbe, tre grumoli di sale, e li legano (i pezzetti di nastro) al collo col cordoncino nero, oppure le cuciono sulle spalle nel busto ed ai bambini li attaccano o cuciono nel giubbetto sopra le spalle. Nelle parti di On- GIORNALE LIGUSTICO 71 bios, ei sas puppias malas. Usano, puru de leare a s’abba de Santu Giuanne po si samunare a deun\u a tottu sa pessone ei sa cara. E si su puttu non s’agatta’, liana de cale si siat’ alba e in lùmene ’e Santu Giuanne si samìinana, po non leare vrina, po sor porros. A s'alas de Finiscala sos òmines a su man\anu ’e sa festa, caddighende a sa nuda, introna su caddu in mare e liana unu baritu po divossione ’e su santu. In cudda die ùsana de fàgbere a sos compares e comares brinchende asu-bra su fogu (i). niferi, di Orune, di Orotelli, le ragazze vanno a portare Vacqua muta, e a dire (cioè) che vanno e tornano senza parlare, portando 1’ acqua e recitando preci. L’acqua muta la prendono dovuuque si trovi in qualche pozzo di S. Giovanni, o che v’è stata chiesa del Santo. Ne spruzzano per tutte le case, perchè questo (rimedio) fa fuggire tutti gli animali, tutti i rettili (velenosi) eie fantasime. Usano pure pigliare l’acqua di San Giovanni per lavarsi a digiuno tutta la persona e la faccia. E se il pozzo non si trova, prendono di qualunque acqua ed in nome di S. Giovanni si lavano, per non essere ossessi, per i porri. Nelle parti di Siniscola, gli uomini al mattino della festa, cavalcano a dorso nudo, fanno entrare il cavallo in mare e prendono un bagno per divozione del santo. In quel giorno usano di fare i compari e le comari (di S. Giovanni) saltando sopra il fuoco. (Vedi in proposito a pag. 67-68 dei Canti popolari Sardi in dialetto logudorese da me editti, Torino Loescher 1891). XIV. SA FESTA DE SANTA LUGHIA. (La festa di Santa Lucia). Santa Lugbia é meraculo sa po sos ojos, ca nàrana , chi s’innamoradu bi nde los appa’ hogados. Inoght si faghe’ festa manna in onore de issa, Santa Lucia è miracolosa per gli occhi, perchè dicono che l’amante glieli abbia cavati. Qui si fa gran festa in onore di essa Santa il giorno (1) Raccolse, id. id. 72 GIORNALE LIGUSTICO sa die pustis, sa Pasca abrile (i), ei sa die de mesu Maju. In custa die àndana a sa Cresia chi este accur{u a mare a cdddu, e a pes\ ei sal feminas a pilos falados po prumissa. Su mancami bessi’ sa prufessone ei tottu sa gelile accumpàn\ana s' immagine fiti{as a vora de sa idda. Su sero cando la tòrrana, àndana sos ò-mines chin sos fusiles a s’ essi da de sa idda a rattoppare, e cando passati sos de sa festa lis grìdana : Non t' alluma! Non t'alluma! (ca sa {ente a cdddu giughe' su fusile). Si su chi este a cdddu e’ prudente, op-puru giughe cdddu chi time', non ispara/da/ e pone su fusile a terra. Ma bi nd' a' chi cando li gridati' gai, ispàrana a s’aria a cdddu ma-tessi. Cando 'énini tottu sos cddderis iséttana s’immagine e bàllana. Appena dae tesu s'idet’ a s'immagine·, sònana sai campanas, ei tottu su Baran{ellàdu si approntano chin su fusile e daghi passa' Santa Lugliìa ispàrana tjttu paris/i/. Bi sun' man-cari treghentos fusiles, attaleschì pà-red' una gherra manna, o battaglia· Sa Santa ία giùghene in professone po tottu sa ’idda e tando sol cadderis, chi addainnantis aìana curtu su palu (2), si pònini in fila i-ssa piatta, e ispàrana a su he s sir e de sa benei-scione, pustis àndana dae su priore chi ìis da/da/ aran{ada (3), e lis dopo la Pasqua d’ aprile, o di Risurrezione, e il giorno di mezzo Maggio, 16. In questo giorno vanno alla Chiesa della Santa, che è presso il mare, a cavallo ed a piedi; e le donne (vi vanno) a capelli sciolti, per voto fatto. Al mattino esce la Processione e tutto il popolo accompagna l’immagine della Santa fino fuori del paese. Alla sera quando la riportano (a Siniscola) vanno gli uomini coi fu. cili all’ uscita (o entrata) del paese ad incontrarla, e quando passano quelli che tornano dalla festa lor gridano: Non ti piglia! non ti piglia fuoco (perchè anche quelli che sono a cavallo portano il fucile). Se chi è a cavallo è prudente, oppure ha cavallo che teme rumore, non scarica e mette il fucile colla bocca verso il basso, a terra. Ma ve ne ha di quelli che quando lor gridano cosi, scaricano il fucile all’aria, anche stando lo stesso a cavallo. Quando sono giunti (in paese), tutti i cavalcanti aspettano l’immagine e intanto ballano. Appena da lontano si vede l’immagine, suonano le campane, e tutte le guardie campestri (Baranzellos) si preparano col fucile, e quando passa Santa Lucia scaricano il fucile tutti in un colpo. Vi son talora anche trecento fucili, dimodoché pare una guerra (1) Il lunedi di Pasqua in tutta la Cristianità viene festeggiato. (2) In tutte le feste di qualche considerazione il correre il pallio è come di rito in Sardegna. (3) Una specie di torrone fatto con mandorle tritate e miste a sottili fette di scorza di limone e cotte con miele e zucchero. GIORNALE LIGUSTICO 73 cumbida/da/ a' inu e b' anda’ chie chère' (i). Custa e' sa festa 'e Santa Lu ghia (2). grande o battaglia. La Santa la portano in processione per tutto il paese, e allora i cavalcanti che prima avevano corso il pallio (esercizio giocoso essenzialmente sardo ), si pongono in fila nella piazza e scaricano il fucile all’ uscire della benedizione, poi vanno dal priore che loro dà aranciata, e li invita a bere vino, e ci va chi vuole. Questa è la festa di Santa Lucia. Nella descrizione della festa di S. Lucia noi vediamo ricordata la festa cosmica del ritorno della Primavera, e la Diva Luce che dalla Risurrezione di Gesù Cristo in poi, illuminò, salvandolo e riscattandolo, dalla barbarie tutto il mondo, insieme alla Santa Protettora degli occhi, alla quale i Sardi, a causa di oftalmie frequenti, portano una divozione molto diffusa. Sul Continente, che io sappia, Santa Lucia è festeggiata soltanto il 12 dicembre ed è comune il proverbio : Santa Lucia, il giorno più corto che vi sia; almeno lo era (1) A Montericco circondario di Reggio Emilia recitano questo frammento di canto sacro che ricorda S. Lucia: In nome di Gesù e di Maria, La più bela la fo S. Lusia (1). Sebben la foss più ricca dal mar Tutt la vols spendar, tutt la vols dunâr La vols dunàr ai povar per l'amor di Dio La s’ cavè j occ d’or e d’arzent La j hà mandè al Re di Pasqua. (2) Raccolse, id. id. c. s. (1) Lusia, per la rima, ina comunemente si dice Lùsia. da lux. GIORNALE LIGUSTICO prima del Calendario Gregoriano. La festa del Lunedì di Pasqua e del 16 maggio è essenzialmente Sarda, ed è nazionale per l’isola, avuto riguardo all’accompagnamento che i cavalieri fanno della statuta della Santa, allo sparo dei fucili; nazionale e sociale per i dolciumi ed il vino distribuiti a chiunque si presenti, e per il ballo (su ballu lundu) indispensabile in tutte le feste religiose sarde. Il popolo sardo è assai caritatevole; non si celebra festa senza pensare che la prima e più efficace preghiera è 1’ elemosina. Come nella lesta di Siniscola caracollano dietro la statua della Santa i cavalli, cosi altrove seguono gravemente, inghirlandati ed infiocchettati i buei. Benché non sia ricordato nella descrizione della festa, non sarà mancato nè lo strepito dei tamburi, nè il suono delle tibie sarde, sas laoneddas, ricordate dal Padre Bresciani nel suo libro degli usi e costumi dell’isola, perchè nè tamburi, nè laoneddas mancano mai nelle processioni. Quest’ accompagnamento che era quello delle processioni della egizia Iside, della frigia Cibele, dei Salii romani, ricordato dai noti versi di Lucrezio: Tympana tenta tonant palmeis et cymbala circum Concava raucisonoque minantur cornua cantu, si sente a Cagliari ed a Sassari nelle processioni fatte in città, quindi non doveva mancare in quella di S. Lucia a Siniscola. SPIGOLATURE E NOTIZIE A proposito della correzione di un documento. — Allorquando Ludovico Antonio Muratori, stava ordinando i materiali per le sue Antichità Estensi, ricercò diligentemente negli Archivi pubblici e privati documenti a suo uopo, e, pur giovandosi di quelli già messi in luce da altri, volle riscontrarne, per quanto gli fu possibile, gli originali, a fine di purgarli GIORNALE LIGUSTICO 75 dagli errori onde potevano esser guasti per F ignoranza o 1’ inavvertenza de’ copisti. Fra questi v’ha un documento importantissimo, tratto per la prima volta dal codice Palla vicino, esistente nell’archivio della Cattedrale di Sarzana, e prodotto da Ferdinando Ughelli nella sua Italia Sacra (T. I, 904). Il Muratori non s’acquietava alla lezione datane dall’Ughelli, e avendo a fare altre ricerche nel codice ricordato, si rivolse ad un suo amico di Genova, Goffredo Filippi, perchè domandasse notizie e confronti a Buonaventura De Rossi sarzanese, studioso conoscitóre e raccoglitore delle cose di Luingiana. Piacque a questi in sommo grado la corrispondenza del dotto uomo e s’ affrettò a scrivergli direttamente (lett. da Sarzana 20 settembre 1710 ; nell’Archivio Muratoriano) facendogli rimettere la lettera per mezzo del Filippi. E perchè il Muratori, a cui tardò forse a giungere nelle mani, aveva dato incarico delle ricerche ad altri, il De Rossi scriveva al Filippi: « Casualmente ho saputo esservi in Sarzana altri commissionati per far diligenza delle consapute notizie, con ordine di prendere esatta copia della pace conclusa l’anno 1124 tra Andrea Vescovo di Luni e Malaspina e Wilelmo Francesco marchesi..... Ond’io, col sospetto che la commissione derivi dallo stesso sig. Muratori, ho preso il pensiero di far sapere a V. S., acciò ne ragguagli più a pieno il medesimo signore, che trovandosi il rogito della detta pace inserito dall’abate Ughelli nella sua Italia Sacra è superfluo copiarlo di nuovo dal Codice Pallavicino, si perchè I’Ughelli n’estrasse la copia in Sarzana ed avea condotto seco persona pratica di caratteri antichi, si perchè è poco che ne è stata trascritta altra copia e registrata in autentico al nuovo libro del gran registro di questa città per firma di due notari, che da me fu copiata, si come pur di mia mano è stato copiato tutto il gran registro medesimo per aver qualche pratica di caratteri antichi, e riconosciuto la nuova copia a confronto della stampata nell’ Italia Sacra dell’Ughelli, ho trovato in sostanza esser Fistessa de verbo ad verbum e non esservi alterazione veruna » (lett. da Sarzana, 8 ottobre 1710). Ma il Muratori non persuaso della correttezza di quel documento, tornò ad insistere, perchè fosse esaminato l’originale; perciò il De Rossi « per non tediare più indiscretamente » lo storico modenese, pregò il Filippi di fargli sapere « che per servirlo » avrebbe procurato « vedere di nuovo il codice Pelavesino per mezzo di qualche amico, per meglio riconoscere il già consaputo rogito » (lett. da Sarzana, 5 novembre 1710). Mantenne infatti la promessa e il 29 novembre dava ragguaglio al Muratori del risultato della sua indagine, a Riconobbi minutamente », egli dice, come asserisce il Rosmini (3), perchè egli non vedesse di buon occhio i consiglieri del fratello Gianmaria, il quale dopo aver ondeggiato fra ghibellini e guelfi, aveva nel 1410 richiamato Facino Cane e fatto pace con lui per servirsi del suo braccio contro i ribelli. In questa occorrenza s’ adoperò il Decembri per riconciliare i due principi; ma, essendo state le sue lettere intercettate e consegnate al conte di Biandrate, fu per ordine di lui arrestato e cacciato prigione nella torre Uie allora sorgeva presso Porta Romana. « Verum me existente » ducali secretario et inter caeteros urbis fremitus quiescente » piope jam felix evaseram (si brevis huius et fragilis aevi » felicitas dici potest) nisi in saevam et nimis efferatam » Facini Cani tyrannidem incidissem. Quo quidem impe-» rante carcere teterrimo longo tempore cruciatus, nulla alia » ratione quam quod domino meo duci (Gian Maria) tibique (1) Cod. Ambr. B. 116 sup., f. 131 r. (2) Cfr. Giulini, o. c., pag. 186. (3) St. di Milano, Vol. II, lib. VII. GIORNALE LIGUSTICO 91 » (Filippo Maria) nimis obsequi visus sum, fortunis arreptis » omnibus, fìliolisque depulsis, pestiferas aegritudines sum » perpessus, quibus jam diu exhaustus deperissem, nisi mors » aequa eiusdem sevitiae providisset » (1). Così narra la sua sciagura Uberto stesso a Filippo Maria Visconti nel prologo al libro IV del suo trattato De republica. Longo tempore, dice Uberto, nè FArgelati seppe definirne la durata e scrisse: « diu detentus est » (2). Ora a me pare che approssimativamente si possa calcolare. Infatti Uberto non fu carcerato prima che Facino Cane occupasse Pavia, e di ciò fa testimonianza Pier Candido nella Vita di Filippo Maria Visconti (3). Ora P occupazione di Pavia avvenne sui primi di gennaio del 1411; dunque in questo mese o nel dicembre delT anno avanti deve porsi la carcerazione di Uberto e non prima, chè nel Maggio del 1410 abbiamo una lettera di Uberto a un Bonfigli da Ravenna, nella quale lamenta bensì la infelicità dei tempi, ma non accenna ad alcuna sventura toccatagli (4). Ed a quando la data della scarcerazione? « Nisi mors æqua eiusdem sevitiæ providisset» ci dice Uberto; dunque egli fu liberato alla morte di Facino Cane (16 Maggio 1412), dopo un anno e mezzo di prigionia. (1) Cod. Ambr. B. 123 sup., f. 98 t. (2) Bibì. Scrip. Mediai., T. II, P. II, c. 2106. (3) u Quippe Facinus, de quo praescripsimus, temporum commoditate » percepta, cum Mediolani urbem per factionem recepisset, conversis signis » Papiam occupavit. Captus est ea tempestate et bonis omnibus exutus » Ubertus Dccember, genitor meus, lofaannis Matiae Secundi Mediolanen-» sium ducis secretarius, nam cum herum suum cum Philippo fratre » conciliare cuperet, litteris a Facino interceptis, custodiae immittitur > Muratori, R. J. S., T. XX, c. 1000. (4) Cod. Ambr. B. 123 sup., f. 230 r. 92 IV. Morto Facino, assassinato Giammaria, successo nel ducato Filippo Maria, a incominciare dal 1413 volsero meno tristi gli eventi per Milano. Il nuovo principe, in sulle prime tutta clemenza e bontà, intese l’animo solo all’assetto dello stato, cercando di riallacciare le fila di quella vasta tela, che il padre aveva tessuto. Tuttavia per Uberto non cessarono del tutto i guai, chè dalla lettera del Crisolora, altrove ricordata, si capisce come egli, infastidito da una malattia, dovette anche faticare per il riacquisto dei beni e per il collocamento dei figlioli. Uberto era andato sposo a Caterina, figlia di un Marrazzi, illustre medico pavese (1) e da esso aveva avuto quattro figli: Modesto, Pier Candido, Paolo Valerio ed Angelo Camillo. (2) In questo torno avrà avuto Modesto dai sedici ai venti anni. Pier Candido, di cui conosciamo esattamente 1 anno di nascita dal necrologio (3), era invece quattordicenne. (1) In più incontri Pier Candido Decembri accenna con riverenza al nonno materno. Cosi nel De Genitura: « ....Hune Marracius, a vus meus, vir physicae peritus, ut puerum me audisse memini in Germanorum alpibus adeptus λ etc. (cod. Ambr. D. 112 inf., f. 12 r.j ed in una lettera: «Legi alias quae Plinius scribit, sed minus de his cogor admirari cum mente repeto, quae a parente mea olim mihi puero relata sunt. Fuit enim eruditissimi medici filia, qui in utraque exercitatione er sciebat et probaverat multa », etc. (cod. Ambr. I 235 inf., 129 t.) (2) Che Modesto fosse il primogenito risulta da una lettera di Uberto (cod. Ambr. B 123 sup., f. 234. r) e che Angelo Camillo fosse minore di Pier Candido si rileva da una lettera di quest’ultimo (cod. Ambr. I 235 inf., f. 78 t.). Quanto a Paolo Valerio doveva stare fra Candido ed Angelo Camillo (cod. dell’ Univ. di Bologna 2387, f. 26 t.). (3) Cod. Ambr. B. 123 sup., f. 234 r. — Sassi, Hit. Lit-Tvp., Medio!., c. CCCIV. GIORNALE LIGUSTICO 93 Sappiamo da una lettera del Crisolara che Uberto stesso fu loro maestro e che ebbe intenzione di indirizzare prima Modesto poi Candido alla carriera eccclesiastica (i). Di Modesto poco conosciamo , se non che la fortuna non gli deve aver arriso. Dopo aver atteso con sollecitudine agli studi (2), ammogliatosi, con prole, finì i suoi giorni podestà in Castell’Arquate in quel di Piacenza, Tanno 1430 (3), lasciando due figlie Susanna e Prudenzia, che passarono sotto la tutela del fratello P. Candido (4). Paolo Valerio morì nel 1424, nel fiore degli anni in Genova (5). Candido ne fu afflittissimo e l’animo suo addolorato aprì in due lettere, piene di nobili sentimenti, al vescovo di Genova Pileo de’ Marini (6) e a Modesto (7). Anche il padre ne pianse amaramente la morte immatura (8). Intorno ad Angelo Camillo, (9) campato fino a tarda età, ci sarebbe molto a dire e il lettore potrà trovare di lui ampia notizia in quel mio studio su Pier Candido, che, come ho annunciato in principio, si sta ora pubblicando (10). (1) Cfr. R. Sabbadini, artic. cit. (2) Ce lo attesta P. Candido in una lettera al Ghilini: cod. Riccard. 827, f. 15 t. Si rileva anche da una lettera di Ognibene Scola, cod. dell’Univ. di Boi. 2387, f. 56 t. (3) Necrologio, 1. c. (4) Cod. Ambr. I 235 inf., ff. 78 t, 104 r. (5) Necrologio, 1. c. (6) Cod. dell’ Univ. di Bolog. 2387, f. 26 t — Fu data in luce recentemente dal Gabotto , Un nuovo contributo alla Storia dell’ Umanesimo Ligure, pag. 302. (7) Cod. dell’Univ. di Boi. 2387, f. 28 r. (8) Ibidem f. 30 r. (9) Un cenno ne danno I’Argelati, 0. c., T I, P II, c. 547 e il Cotta, Mus. Nov., p. 66. (10) L’albero della famiglia Decembri risulterebbe dunque così costituito: 94 GIORNALE LIGUSTICO Uberto dunque in questi primi anni che seguirono alla sua scarcerazione menò una vita non troppo commoda, fino ai 1419 almeno, quando il secondogenito Candido, ben accetto in corte per le sue doti intellettuali, essendo entrato come segretario presso il nuovo duca Filippo Maria, procurò al resto della famiglia una sicura esistenza (1). Ristabilitasi la calma in Milano, superate le angustie del vivere, libero da ogni preoccupazione Uberto tornò allora a quegli studi, cui aveva consacrato la sua giovinezza, e dal 1415 al 1420 compose le più importanti fra le sue opere originali, in grazia delle quali egli ottenne dal principe ricompense ANSELMO I Uberto Modesto P. Candido P. Valerio Angelo C amillo Candido Maria Candido Antonio (*) Prudenzia mar. Pietro da Sovico. Mori lasciando un infante e il marito che la seguì quasi subito : nel febbraio del 1478 figura già morto. (**) Susanna mar. Carlo Mantegazzi da Solbiate, che figura morto nel 1478. Ambrogio Rolando di Milano, famigliare del duca di Ferrara. Giovanni de’ Mantegazzi (**) (1) Cod. Ambr. B. 123 sup., f. 98 t. — Che Candido sia stato fatto segretario del duca nel 1419, e non nel 1426 come vorrebbe il Voigt, (o. c. 1. c.) ce lo attesta una sua lettera: cod. Ambr. I 235 ini., f. 109 r. (’) Cfr. Sassi, o. c. 1. c. ( ) Dallo spoglio degli atti dell’Archivio Notarile : per cortese comunicazione dell* Ing. E. Motta. Bibliotecario della Trivulziana. GIORNALE LIGUSTICO 95 ed onorevoli offici. Quando nell·'autunno del 1418 papa Martino V, reduce dal Concilio di Costanza, passando per le città italiane, acclamato, festeggiato, dopo essere stato salutato in Pavia dalla parola del Brivio (1), stava per entrare in Milano, venne dato da Filippo Maria incarico ad Uberto Decembri di recitare per la solennità un’ orazione. Infatti a’ 5 d’ottobre dello stesso anno, essendo giunto Martino V alle porte della città, incontrato da più che cento mila cittadini di ogni ordine (2), il Decembri alla presenza del popolo tennegli quel discorso che va ne’ codici sotto il titolo : « De adventu Martini Quinti Pontificis » (3). In esso dopo un lungo esordio s’intrattiene intorno alle deplorevoli peripezie dello scisma, pestifero, calamitoso, letale, che da quarant’ anni traviava la Chiesa, e, ricordati gli errori e le tenebre in ch’era caduta la fede, le discordie, i semi di guerra e le stragi, si consola che sì deplorevole stato di cose abbia ormai avuto termine per opera di Martino V : e poiché il nome di lui suonava appunto nella greca lingua strada, era quest’indizio ch’egli avrebbe certamente additato ai cristiani la strada della verità (4). Mercè la grazia di Filippo Maria e la benevolenza di cui godeva a corte il figlio Pier Candido, Uberto fu nel 1422 chiamato podestà a Treviglio (5); ma travagliato, pare, da (1) L’orazione del Brivio conservasi inedita nel cod. Ambr. B. 116 sup., f. 79 r. (2) Cod. Ambr. B. 124 sup., f. 235 t. (3) Ibidem. (4) Martino V della famiglia Colonna si chiamava Oddone: « Quis » enim alius veriorem nobis semitam ostendet quam Odo, quod græce » equidem via sonat? » Ibid., f. 236 t. ». (5) La notizia si desume da una lettera eh’ è in un codice della Comunale di Bergamo. V. Appendice, Elenco delle opere, Lettere, 2$. 96 quell’antica infermità lasciatagli dal carcere, nel nuovo ufficio non ritrovò quella calma e commodità che si riprometteva ed il luglio dello stesso anno propose a Modesto per lettera di cedergli il suo posto (r). Altre notizie non possiamo aggiungere sulla vita di Uberto Decembri. Egli mori a’ 7 del mese d’Aprile del 1427 in Treviglio come podestà, riconfermato probabilmente in carica in quello stesso anno (2). La sua salma, trasportata a Milano, ebbe sepolcro in S. Ambrogio (3). Sul sepolcro furono scolpite due epigrafi, che erano state dettate, secondo Γ uso, dallo stesso Uberto. Nella prima in lingua greca il Decembri raccomanda la propria anima a Dio, dicendo fidare in lui : Γ altra in versi latini suona così : Forte nescis: pariter stratis cum corpore membris Hic locus tenet ossa Uberti inclusa Decembris. Ille ducis Ligurum secreta peregit, el urbis ; Platonica dederat translata volumina (sic) turbis, Argivae ac Latiae linguarum volumina fultus : Viglevani natus, famosa est urbe sepultus. Noti tamen exstinxit saevo mors omnia telo : Terrea pars terrae cessit, pars optima caelo. V. Narrate, fin dove ci fu possibile, le vicende dell’uomo, cerchiamo ora di conoscere un po’ da vicino il letterato. Lamentava Uberto Decembri a’ suoi giorni che a Milano (1) Cod. Ambr. B. 123 sup., f. 234 r. (2) Cfr. Argelati, 0. c. 1. c — Parrebbe ch’egli sia statp riconfermato nella sua carica per intercessione del figlio P. Candido; cfr. Vita Plìilippi Mariae Vicecomitis, in Muratori, R. I. S., T. XX, cap. xxxm. (3) Nelle cui vicinanze, e propriamente in via Camminadella, possedeva una casa, cfr. Argelati, o. c., 1. c. GIORNALE LIGUSTICO 97 fosse decaduto il culto dei buoni studi e che, lasciati in non cale la filosofia, le lettere e tutto l’umano e il divino sapere, la cittadinanza attendesse d’avantaggio a quelle sordide arti manuali dei fabbri, degli spadari e degli orefici, che non esercitano Γ ingegno, ma unicamente il corpo. « Nunc autem » hac aetate quantum ingenii studiarumque vigeat dolentes » agnoscimus : nam illis iamdudum prorsus eiectis et velut » in exilium relegatis, artibus dumtaxat fabrilibus et sordidis, » quae solum corpus, non ingenium agitant, opera ceu rebus » maximis adhibentur » (i). Nonostante questa affermazione del Decembri, noi sappiamo come fino dagli ultimi anni del XIV e nei primi del seguente secolo una certa fioritura letteraria si manifestasse anche in Milano. E per fermo, a tacere del Petrarca, che , col suo soggiorno alla corte viscontea [1353-1361], apri in Milano un asilo alle muse, non è da dimenticarsi il favore concesso da Galeazzo al-Γ università di Pavia. È Uberto stesso che ci ha lasciato i nomi dei primi dottori chiamativi dal duca, e quelle poche righe gettano addirittura un fascio di luce sugli inizi dello Studio Pavese. Scrive dunque il Decembri che Galeazzo insignoritosi di Pavia, dopo averla munita di un castello e decorata di molti edifici, chiamò a professarvi diritto il milanese Signo-rolo degli Omodei e il bolognese Riccardo da Saliceto, dottori entrambi chiarissimi, e ad insegnarvi la medicina Mayno de’ Mayneri milanese e Albertino da Salso piacentino, pure maestri insigni (2). Ciò dunque fino dal tempo del primo duca, chè Γ università stette molto a cuore anche a Gian Galeazzo, noto per avervi nominato fra gli altri Baldo da Pe- ti) Cod. Ambr. B. 123 sup., f. 80 r. (2) Appendice, Doc. IV. Giorn. Ligustico. Anno XX. 7 98 GIORNALE LIGUSTICO rugia (1) dottore in entrambi i diritti e Marsilio da Santa Sofia per la medicina (2). Non basta, oltre alle cattedre universitarie, rivolse il duca speciali cure alla sua Biblioteca di Pavia e fece raccogliere con grandissimo zelo que’ volumi, nei quali gli alti ingegni di Grecia e di Roma avessero lasciato vestigia del loro valore; « nuiltosque iam veluti alto » ac procelloso pelago naufragium passos et paene submersos » aliosque quotquot fuit possibile reperire princeps humanis-» simus in portum salutis accepit » (3). Questo dimostra che Galeazzo , sia pure stato anche per arte di governo, favori gli studi, che fra i Milanesi stessi non mancò chi li coltivasse e che in fine le sordide arti fabbrili non avevano, come vorrebbe il Decembri, distrutto ogni amore per essi, se si sentiva qui il bisogno di istituire corsi universitari e di fare raccolta di libri. I contemporanei s’accordano del resto nel dire come il regno di Galeazzo sia stato favorevole ai letterati. Il cancelliere Pasquino Capelli, scopritore delle Famigliari dì Cicerone, in corrispondenza col Salutati, dilettantesi di studi, fu il mecenate di Antonio Loschi, che lo celebrò. Quest’ ultimo, vicentino, poeta, nelle grazie di Galeazzo, attese, durante il suo soggiorno in Milano, alle « Investigazioni sull’arte rettorica di molte orazioni di Cicerone » che gli procurarono gran fama (4). S’ è già detto della cultura di Pietro Filargo, arcivescovo di Milano, e di Manuele Crisolora, qui chiamato da Galeazzo: (1) Cfr. su Baldo da Perugia, De Savigny, Hist. du droit romani au vioyen-âge, T. IV, ch. LV. p. 233. (2) Cfr. su Marsiglio il Vedova, Biogr. degli scritti Padov., Vol. II. pag. 216. (3) Cod. Ambr. B. 123 sup., f. 132 t. II brano leggesi stampato presso il Bandini, Cat. cod. ht., T. Ili pag. 31s. (4) Cfr. Voigt, o. c., I, 502 — Magenta , 1 Visc. e gli Sforma nel Cast, di Pavia, I, 257. GIORNALE LIGUSTICO 99 inoltre Giuseppe Brivio ebbe vanto allora di poeta e di oratore (i), Gasparino Barzizza bergamasco, di insigne latinista (2), Giovanni Dondi dell’Orologio, di medico valente (3). Che se poi si volessero ricordare anche coloro che semplicemente si dilettarono di studi e usarono di preferenza la compagnia dei dotti non si dovrebbero dimenticare Bartolomeo Capra, segretario di Innocenzo VII, dalla sede vescovile di Cremona passato a quella di Milano (4), i fratelli Leone e Simone Moriggia (5), Lazzarino Resta (6), Beltramino Rivola , Andrea Arese, consigliere ducale (7), e 1’Abate di S. Ambrogio, Manfredo della Croce, ingegno di moltiforme dottrina, famigliare di Giammaria ed oratore per lui al Concilio di Costanza (8). Neppure le scuole furono trascurate, se è da prestar fede al Giulini, il quale, sull’autorità di Ericio Puteano (9), lasciò scritto che Gianmaria assegnò ad esse il luogo vicino al Palazzo pubblico della città nel Broletto Nuovo, d’onde poi ebbero il nome di scuole Palatine. Certo fra tutti costoro, per sapere, per attività letteraria, per grido chi richiama maggiormente sopra di sè 1’ attenzione (1) Cfr. Sassi, 0. c., pag. 339, (2) VoiGT, o. c. 1. c. — Il Barzizza insegnò la prima volta a Milano nel 1400, vi ritornò poi nel 1422. Cfr. Giulini, 0. c., lib. LXXVIII, p. 199 e Magenta, o. c., I, 154. (3) Cfr. sul Dondi il Vedova, 0. c., I, 335 e Magenta, o. c., I, 218. Era amico di Uberto: cod. Ambr. Β 123 sup., f. 98 t. (\) C(r. Sassi, Architp. med. series bist. cron., T. II, pag. 849 e seg. e Giulini, o. c., VI, pag. 148, 211, 217, 218, 260. (5) Cir. Argelati, o. c., T. II, P. II, c. 962-963. (6) Cfr. Argelati, o. c., T. II, P. I, c. 1208. (7) Cfr. Giulini, 0. c., lib. LXXVII-LXXVIII, passim. (8) Cfr. B. Aresius, Series Abb. S. Ambr., n. LXII. (9) Cfr. Erycius Puteanos, De rhetoribus et scolis Palatinis, Mediolani, MDCll, p. 28. 100 GIORNALI- LIGUSTICO dello studioso è pur sempre Uberto Decembri. In gara col Loschi e col Brivio nell’ arringo poetico, protetto dal Filargo, scolaro prediletto del Crisolora, ricercato ed amato dai Mo-riggia, dal Della Croce e da altri, stretto d’intimi rapporti con Bartolomeo Capra, e forse suo segretario (i), egli primeggia nella società letteraria milanese del tempo e le dà, per il genere dei suoi studi, il colore e il carattere umanistico. L’ epistolario suo non è però tale, a dir vero, da far molta luce nè sui contemporanei nè sulla vita di Uberto stesso. La corrispondenza col Salutati verte per lo più intorno ad argomenti morali o letterari : delle due lettere da Praga s è già fatto menzione. Della stessa natura, presso a poco, sono 1 rapporti epistolari che ha cogli altri. A Bartolomeo Capra scrive che non gli spedisce la Politeia di Platone, perchè teme non gli vada smarrita per la poca sicurezza delle strade; e, se ciò avvenisse, gli parrebbe di perdere metà dell essere suo: nello stesso tempo lo prega di fargli avere il più presto possibile Γ orazione di Demostene tradotta dal Bruni (2). Diretta a lui è una lettera del Capra, in data da Costanza 1416, nella quale il prelato prega Uberto di spedirgli tosto quella parte del De viris illustribus del Petrarca, dove si ragiona di Giulio Cesare (3). Tre lettere, le quali potrebbero presentare un certo interesse all’ occhio dello storico, sono (1) Ciò farebbe supporre una lettera al papa Giovanni XXIII di Uberto « parte Bartolomei Caprae archiepis. med. » (cod. Ambr. B. 123 sup. , f. 234 r.); che se per altro non gli fu segretario, il fatto d’averne assunte le veci dimostra sempre più la strettezza di rapporti che lo univano al Capra. (2) Certo si tratta dell’orazione contro Eschine tradotta dal Bruni circa il 1407 e dedicata appunto al Capra. Cfr. VoiGT, o. c., II, 160. (3) Appendice, Doc. V. Il Giulini, (o. c., Ili, 263) la cita come una prova dell’intervento del Capra al Concilio: noi la mettiamo in luce come un attestato della cultura del degno prelato. GIORNALE LIGUSTICO ΙΟΙ quelle già ricordate a Gian Galeazzo per la vittoria di Ca-salecchio, ad Alberico Da Barbiano, ai primari cittadini di Lodi. Le restanti sono lettere d’ufficio, ai Fiorentini, al papa Innocenzo VII, a Gregorio XII, ad Alessandro V, a Giovanni XXIII, quali uscivano costantemente dalle segreterie delle varie corti a quel tempo, e che stringevano, in mancanza di unità politica, in un legame morale gli Italiani. In Firenze Coluccio, in Rimini Pietro Turchi, in Roma Francesco da Fiano ed altri, in Milano il Loschi prima e Uberto Decembri poi, sono noti per questo genere di corrispondenza, che fu poi comune per tutto il secolo XV. VI. Fra i lavori originali di Uberto senza dubbio il trattato De republica è il più importante. Frutto dell’ età matura (i), se da una parte è notevole, perchè rivela la varia ed assodata cultura storico-filosofica dell’umanista, dall’altra non è meno interessante per le notizie che vi son sparse sui costumi, gli uomini e i fatti dell’ età che fu sua. La trattazione, sul tipo delle Tusculane, è in forma dialogica e si finge avvenuta a più riprese : interlocutori, oltre ad Uberto, Leone e Simone Moriggia e 1’abate di S. Ambrogio, Manfredo della Croce: il luogo, gli orti ambrosiani, annessi alla Chiesa, « illos, videlicet, quos olim Iohannes Archiepi-» scopus celeberrimus et clarissimus Liguriae dominus ab aliis » hortis maioribus pulcherrima statione secreverat »; il tempo, le ferie di Pasqua. I quattro libri sono preceduti da altrettanti (i) La data della composizione è da porsi nel 1420 o poco più in là, per questo che nel prologo al lib IV si accenna alla recente assunzione del figlio Candido alla segreteria del Duca: il che avvenne appunto nel 1419. 102 GIORNALE LIGUSTICO prologhi d’argomento estraneo al tema. Nel primo di essi, dopo aver considerata la mutabilità dei costumi umani, 1 autore ci dà quelle notizie sulla mancanza d’ogni cultura in Milano, eh’ ebbi già sopra occasione di produrre. Nel secondo dichiara di non volere per la sua prendere a modello la Repubblica di Platone e ne spiega il perchè: « libris enim suis, » quos de re publica subtilissime facundeque composuit, non-» nulla disserere nixus est, quae, licet possibilia judicentur, a » publicis tamen moribus longe distant'»; nè, a quel che pare, andava a genio ad Uberto quella comunione delle donne e delle cose tutte dal greco vagheggiata; ma pensava tosse assai meglio « ut singuli suas consortes gnatosque conoscerent ». Nel terzo ragionasi genericamente della virtù; nel quaito Ο Π infine 1’ Autore parla a lungo dei casi suoi e specie della ingiustizia sofferta da Facino Cane. Per ciò che riguarda la trattazione del tema, 1 autore incomincia dalla definizione dello stato, ne ricerca 1 origine e la trova nella necessità dei rapporti fra gli uomini: afferma esserne fondamento la giustizia, intorno alla quale lungamente s’intrattiene. Uberto restringe quindi 1’indagine allo stato di Milano: riferisce due opinioni sull’origine del nome della citta, credendo alcuni essere stata cosi chiamata perchè posta tra i due fiumi Adda e Ticino, altri da mille anni : accenna alla ubertosità del suolo, alla irrigazione ed alla superiorità di Milano sulle città finitime (i). Di qui passando alla diverse forme di (i) Non mi par necessario riportare testualmente il brano, perchè si tratta di notizie di seconda mano che il Decembri tolse probabilmente dal « De situ urbis Mediolani » (in Muratori, R. I. S., I, 205-277) 0 dal « De Mediolani civitate » di Benzo d’Alessandria o forse da qualche altra opera. Del resto per l’istoriografia milanese del sec. XIV cfr. il dotto opuscolo di L. A. Ferrai, Ben\o d'Alcss. 1 1 cronisti milanesi del sec. XV, in Bull, dcll'lsl. Stor. Ila!., n. 7. giornale ligustico 103 governo distingue la timocratica, l’oligarchica, la democratica, la tirannica : le esamina ad una ad una ed a proposito della forma democratica, ragionando dei facili commovimenti e tumulti delle plebi e degli ambiziosi che se ne fanno sgabello , non rispiarma pungenti invettive a Facino Cane ed Ottone Terzi, e ritrae con una vivissima pittura le miserevoli condizioni del ducato alla morte di Gian Galeazzo. Forma per lui preferibile, il principato: il principe sia prudente, giusto, moderato, magnifico e, sopratutto, religioso. Segue, dopo aver affermato essere profondo il sentimento religioso dei Milanesi, esponendo i criteri da osservarsi nella scelta dei rettori (custodes) dello Stato. Fa una sottile disquisizione sul diritto scritto, che distingue in naturale, umano, civile, municipale, ed in quello non scritto, che sta nella consuetudine e nei costumi, vario quindi da nazione a nazione. Per ciò che riguarda i cittadini nella vita privata, incomincia col dare precetti per i figliuoli. I genitori si guardino bene dal contrariarne le inclinazioni: le madri pensino ad allattare esse stesse i neonati e ne abbiano suprema cura, massime nella tenera età; se destinati poi alle armi vengano esercitati nella ginnastica, negli esercizi corporali, nè trascurino la lettura delle gesta degli antichi eroi, atte ad eccitarli a nobili imprese; se alle arti liberali invece, incomincino dalla grammatica latina e greca, per addestrarsi poi successivamente nella dialettica, nella rettorica, nell’aritmetica, nella geometria, nella musica e nella astrologia. E qui mi sia concessa una parentesi per far notare come in questi concetti pedagogici si senta l’alito dell’umanesimo. La massima che la gioventù dovesse essere allevata, non nei conventi, ma in mezzo al mondo e nelle grandi città, esercitata nella corsa, nel salto, nell’equitazione, nelle arti rettoriche e morali, era un frutto dei tempi nuovi e solo pochi anni innanzi era uscito da Padova un libretto di Pier Paolo Vergcrio De ingenuis moribus ac liberalibus studiis libellus, 104 GIORNALE LIGUSTICO contenente principi pedagogici inspirati a questi stessi criteri. Il Decembri si occupa più oltre del matrimonio, e, in genere, del diritto coniugale e tra un’ osservazione e Γ altra trova modo di dir molto male delle donne (i). L’ultimo libro è ancora dedicato ai doveri del principe: abbia egli cura grandissima della religione e delle cerimonie: abbia giudizio nella scelta dei consiglieri, vigili sulla disciplina militare, sopra l’erario pubblico, incoraggi le gare atletiche e ginnastiche. Rivolga speciali attenzioni alla medicina ed alla giustizia, eleggendo medici e dottori dietro l’esempio di Bologna, « in qua re iam di unostrisque temporibus floruit »; cerchi (i) « Fatuae etenim mulieres maritorum dementium liberalitalibus abu· » tentes, id solum curant ut crinibus alienis exquisitisque coloribus caput, » etiam natura sordidum, hedificent, frontem elevent, supercilia acu colo-» ribus deducant et constrictis uberibus adeo corpus alvumque arctant, ut » fetus enecent; caudamque pavonum in morem per coenum pulveremque » attrahant, ut his delinimentis insanos juvenes alliciant, ad quae agenda » liberius viri earundem cuculli opes patrimoniaque contribuunt, crines » ornant, vestes rugant, unguenta et colores emunt, sartores opificesque » sollicitant, ut decora manilia et caudas fabricent longiores, quo alienis » gratiores reddantur hominibus et ad ultimum consumptis luxu opibus » viros suos rideant et illudant » cod. cit., f. 91 t. Del resto che la vanità muliebre dovesse dar nell’ occhio ai nostri trecentisti ce lo attestano le molte divagazioni loro sul tema, in prosa e in rima. E chi non ricorda la canzone di Franco Sacchetti : Sempre ho avuto voglia.... in cui con arte finissima sono dipinti i vezzi e le civetterie delle giovinette fiorentine? E prima del Sacchetti, il Boccacci non mise in canzone le frascherie delle donne nel Corbaccio? (cfr. A. Hortis, Studi sulle op. lat. del Bocc., p. 72 nota). 11 Braggio, attingendo ai fonti di Antonio Astigiano (De varietate fortunae in Muratori, R. I. S., XIV, 1015) fa una pittura vivacissima dei costumi femminili del sec. XV, rifacendosi qua e là a quelli del secolo precedente, notevoli per lusso e licenza. Cfr. C. Braggio, La donna nel Sec. XV, in Giorn. Ligust., a XII, p. 22. GIORNALE LIGUSTICO che nello stato fioriscano i buoni studi e fra questi onori e tenga in alto pregio la filosofia: i poeti non siano allontanati, come vorrebbe Platone, se non quando al pari di Archiloco o di Ovidio corrompano la gioventù colle mollezze dell’arte loro. Tale, molto in breve, il contenuto del trattato De re-publica, il quale, al pari d’altre analoghe scritture del tempo, merita speciale attenzione in quanto lo stato, il cittadino ed il principe vi sono considerati da un nuovo punto di vista. Infatti, anziché le nome degli scolastici, subordinate ad un preconcetto religioso, troviamo qui i primi tentativi di ricondurre 1’ educazione politica ed intellettuale ad un tipo classico: il precetto stesso è suggerito dall’ etica di Aristotele o dagli Uffici di Cicerone. Questo, occorre dirlo?, segna un notevole progresso, chè Γ importanza data alla coltura necessaria al principe, alla sua magnificenza, l’esclusione d’ogni ingerenza divina nell’investitura del potere, un sentimento più vivo della dignità e un’aspirazione, per quanto vaga, alla libertà, fanno di tali umili eruditi dell’umanesimo i precursori dei cinquecentisti, tanto ardiri nelle loro teoriche politiche. E per questo rispetto mi sembra che il De republica di Uberto Decembri si debba avvicinare al « De institutione regiminis dignitatum » di Giovanni Tinti da Fabriano, un altro oscuro umanista del sec. XIV, che per il suo signore Battista Chiavello dettò precetti, i quali collimano appunto con quelli del nostro (i). VII. Fra le opere minori del Decembri debbonsi ricordare il dialogo « De morali philosophia » ed i due trattateli! « De modestia « e « De Candore ». Il Dialogo « De morali philo- (i) Cfr. F. Novati, Un umanista Fabrianese in Archivio Storico per le Marche e l'Umbria, Foligno 1885, VoL II, p. 101 e segg. ίθ6 GIORNALE LIGUSTICO sophia » si finge avvenuto fra l’autore, Beltramino Rivola, Lazzarino Resta e Andrea Arese, consigliere ducale, in casa di quest’ultimo. La data della composizione, perchè è menzionato qui il trattato « De republica » come di recente fattura, è da ritenersi cada tra il 1421 e il 22. Il dialogo, monotono, infarcito d’erudizione classica, affastellato di citazioni , prende argomento da alcune sentenze di Seneca per divagare in lunghi ragionamenti di morale pura ed anche di metafisica: in qualche punto sono confutazioni, altrove dichiarazioni dei principi di Seneca stesso. Le idee di Cicerone , o di qualche filosofo porgono qua e là materia di discussione: però nessuna originalità di pensiero, nessuna osservazione degna di nota. Ssraziatemente non ci sono nemmeno O O quei richiami preziosissimi ai costumi, agli uomini del tempo, che si scoprono a volte anche in simili indigeste trattazioni. Solo una notizia, anche questa d’indole assai generale, può fermare l’attenzione del lettore, nè credo superfluo rammentarla. Si tratta della descrizione dei sontuosi banchetti dei Francesi, i quali, per quello che Uberto ne dice, protraevano fino a notte i loro pasti, notevoli per la eleganza delle stoviglie e la ricchezza e l’abbondanza delle vivande (1). (1) Ecco il brano: « Tantus conviviorum ordo, tanta ferculorum maie-» stas et copia, tantus rerum omnium splendor, tanta aureae et argenteae » suppellectilis materia, nostra aetate vige: in Gallia, de qua Sardanapalus, » si viveret, et quilibet advena, licet sumptuosus et prodigus, non sufficeret » admirari. Omnia ferculorum genera, omnes saporum et condimentorum » species suis temporibus ministrantur, adeo ut peccatum in Spiritu Sancto » crederetur et maximo luendo supplicio si anseribus, pullis, edulis reli- » quisque domesticis et silvestribus animalibus aut piscibus externo teni- » pore quam saxonato [I.: sanxionato?] et suo proprio natura eiusdem » temporis vescerentur, aut ullae carnes, salsamenta vel pisces, fructus » denique, sine saporibus accomodis traderentur tantoque ordine, moro- » sitate et pompa ista tractantur, ut nihil illic accuratius fieri queat » cod, cit., f. 105 t. GIORNALE LIGUSTICO IO7 Il tràttatello « De Modestia » è dedicato al figlio Modesto e fu certamente composto prima degli altri lavori. L’ autore non intende la modestia nel significato morale di temperanza, sìin quello etimologico di moderazione, misura, accostandosi, forse non pensatamente, alla interpretazione che ne danno gli stoici presso Cicerone (1). Esamina le varie funzioni degli elementi che compongono il globo, le energie dell’acqua e del fuoco, la struttura degli animali, l’ordine dei pianeti, i movimenti degli astri, e poi conclude: « cathena illa, quae ele-« menta tam dispar a indissolubili lege conciliat, modestia est ». L’equilibrio universale, l’armonia delle diverse forze, la finalità inconscia e benefica è effetto della sapienza divina e di questa « naturae modestia ». Dal campo delle cose materiali assurgendo all’uomo, ne studia le parti del corpo obbedienti provvidenzialmente al capo, e da ultimo F animo, per il quale il vocabolo modestia assume il significato accennato prima di temperanza. Termina augurando al figlio Modesto di mantenersi degno del nome suo e proponendosi di trattare in seguito anche del candore in omaggio al secondogenito Candido. Nò deve essere corso molto tempo dalla composizione del « De modestia » a quest’ altro libro, il quale è forse il più piacevole a leggersi fra quelli di Uberto, massime nella prima parte, perchè esente da ogni sfoggio di erudizione. Enumera Fautore le cose candide in terra, dai marmi alle nevi, in cielo, dalla luna alla via lattea, gli animali che si distinguono per la nitidezza della loro pelle o delle loro piume, le biade , i frutti, ecc. Ricorda l’importanza ed il significato del color bianco nella storia: la toga candida degli aspiranti agli impieghi, la quale diede agli stessi il nome di candidati: i pretori ministravano la giustizia in abito bianco, (1) De ofu., I 40· ιο8 GIORNALE LIGUSTICO su bianche lapidi i loro editti venivano esposti, di bianca veste decoravansi gli dei , ecc. Da ultimo parla a lungo del candore dell’animo, specchio di tutte le virtù. Tentò anche il verso, ma a lui mancavano per eccellere la inspirazione e la classica venustà della forma. Se una facoltà predominava in Uberto non era certo la fantasia, ma lo spirito critico e un certo senso pratico delle cose e degli uomini; di più una generosa coscienza dei mali che funestavano l’Italia 10 distoglieva dalle Muse, alle quali, a parer suo, non si poteva chiedere che diletto. Mi diano fede i versi indirizzati al Malatesta e riportati in appendice. La sua inettitudine poetica gli venne rinfacciata in un carme da Giuseppe Brivio, il quale, fingendo averne avuto incarico dalle muse, lo rimprovera d’ aver manomesse le leggi metriche (i). Al che il Decembri rispose cortesemente doversi degli errori imputare l’amanuense (2). Ma il Brivio non accettò per buona la scusa ribadendo in una nuova poesia ad Uberto le sue critiche ed aggiungendo che le Muse s’ erano realmente scandolezzate dell’originale (3). Epperò a ragione il Sassi nota questo come uno dei rari esempi per quell’ età di contesa letteraria non trascesa ad accuse basse e violenti (4). Dell’ interesse storico dei carmi al Malatesta, al Loschi, all’arcivescovo Giovanni Visconti, s’ è già detto a suo luogo, nè del loro merito letterario vale la pena di occuparsi. Un curioso centone poetico compose poi 11 Nostro durante la sua prigionia. Sono quattordici distici, dei quali il primo verso è fattura del Decembri, mentre il secondo è cavato da qualche poeta noto medievale; i più anzi dai distici 0 dai monostici di Catone (5). Ciò indicano le parole (1) Cod. Ambr. B. 116 sup., f. 132 r. (2) Ibid., f, 133 t. (3) Ibid., f. 134 r. (4) O. c., p. 340. (5) Catonis Disticha, in Baehrens, Poetae Latini minores, III, 216 e seg. GIORNALE LIGUSTICO IO9 che stanno sempre di fianco ai distici: al primo verso, Ubertus, al secondo, Exemplum. Riportando i versi in appendice ho avuto cura di indicare, fin dove mi fu possibile, la provenienza dell’ Exemplum. (1) L’ autore supplica con questo centone l’amico Giovanni Teppa, consigliere ducale, a soccorrerlo. Vili. Il merito principale che va reso al Decembri come letterato è quello d’aver conosciuto e studiato la lingua greca proprio in que’ primi tempi in cui essa cominciava appena a colti varsi fra noi. E non è a credere fosse la sua una cognizione superficiale; anzi ci attesta Pier Candido, il padre suo esser stato più versato nella lingua greca che nella latina (2). La prova più luminosa della sua cultura ellenistica l’abbiamo nella versione, che in una col Crisolora fece della Politeia di Platone, la quale, abbenchè resa in un latino inelegante e qualche volta addirittura rozzo, ha sempre il pregio d’essere una delle prime interpretazioni del pensiero del filosofo greco. Questa traduzione ebbe notevole fama e diffusione ai suoi tempi. Il Guarino ne possedeva una copia e la conosceva tanto bene che, quando Pier Candido nel 1439 divulgò la sua nuova versione egli la giudicò un rifacimento e nulla più di quella di Uberto e del Crisolora (3) Andò anche fuori d’Italia e due colti prelati, Alfonso di Burgos (4) e Zanone Castiglione (5), che si trovavano negli anni (1) Appendice, Doc. VI. (2) Cod. Riccardiano 827, ff. 13 t. — 14 r. (3) Ibidem, f. 86. r. (4) Su Alfonso di Burgos cfr. Antonio Bibi. Hispati. vetus., T. II, lib. X, c. vm, col. 261 e seg. (5) Su Zanone Castiglione cfr. Gallia cbristiana, T. XI, c. 379 e seg. I IO GIORNALE LIGUSTICO 1436-39 al concilio di Basilea , ne acquistarono colà un esemplare (1). Ma Γ operosità letteraria del Decembri non si deve giudicare solo da quel poco die ci è pervenuto e che noi abbiamo potuto prendere in esame. Infatti il figlio, Angelo Decembri, lasciò scritto avere il padre suo tradotte dal greco orazioni di Demostene, Lisia e Platone (2); e ΓArgelati ricorda di lui alcuni carmi latini (3): lavori che il tempo non ci ha conservato. A noi è noto invece un compendio di storia romana, che Candido poi ripulì, corresse e dedicò al re Alfonso d’Aragona (4); ma non mette conto di parlarne, perchè uno dei soliti raffazzonamenti d’ erudizione indigesta. Ora, a voler dare un giudizio complessivo delle opere di Uberto Decembri, diremo che, se esse ebbero, vivo l’autore poco valore in sè, non ne avrebbero più avuto alcuno mezzo secolo più tardi, quando cioè l’umanesimo toccò il sommo della parabola ed alla scoperta, alla semplice versione, alla dilucidazione s’aggiunse 1’ordine, la critica, l’abbellimento. Giacché anche nell’ umanesimo vanno nettamente distinte queste due tasi, di preparazione e di perfezionamento. I dotti del primo periodo s’accontenteranno di ritrovare, tradurre, imitare, chiarire il sapere antico in un latino inelegante, iri un greco imbarbarito da frasi del basso impero; quelli del secondo attenderanno alla levigatura, e, immedesimati interamente nel mondo antico, ne trarranno le ragioni, l’abito, la legge del vivere moderno: la lingua, sia greca 0 latina, bruniranno alla squisita gentilezza dei classici. (1) Cod. Riccard. 827, f. 92 r. e 31 t. (2) De politia libraria, libri septem, Basileae, MDLXII p. 51, ^· I· (3) O. c., I. c. (4) Cod. della R. Bibl. dell’Univ. di Torino H. VII. 15, f. 25 r. — f 57 r. Cfr. Ion. P asinus, Cod. man. Bibl. R. Taur. Ath., T. Il, p. 305. GIORNALE I.IGUST1CO Uberto Decembri, cronologicamente, sta fra i primi e i secondi, ed a chi ami approfondire la storia di quegli eruditi, che fecero rifiorire la civiltà già offuscata e calpesta dalla barbarie civile e scolastica, non sarà riuscito discaro sapere anche di lui, che è uno degli anelli di congiunzione fra P età di Coluccio e quella del Poggio. Le traduzioni, la forma de’ componimenti originali, la natura delle trattazioni, l’amore appassionato per tutto ciò che sapesse di classicità, l’indagine, sono in lui tendenze umanistiche; che se la favilla del genio avesse avvivato 1’opera sua, anche il suo nome non sarebbe caduto afflitto in quell’oblio, donde abbiamo cercato sollevarlo. Mario Borsa. CANTI POPOLARI GHILARZESI prefazione. Mantengo la promessa fatta tre anni or sono, pubblicando i seguenti mutos di Ghilarza, in prov. di Cagliari. Il benemerito Spano, parlando dei dialetti di Ghilarza, di Sedilo, di Samugheo ec., scrive che «essi hanno acquistato una certa dolcezza e grato suono, appena diverso dal Màr-ghine e dal comune dialetto logudorese, specialmente nella soluzione di molte sillabe, dove ha parte la ^semplice; ma negli accenti c mutazioni di lettere, nonché in alcune inflessioni di tempi, propendono più al basso Campidano che ai Menomeni, dicendosi putfu per putta, pozzo; >//oi~fddii per moiteààu, piccolo vaso di sughero; deh naras per lu naras, lo dici ». (vedi Ortografia Sarda, voi. i. pag. 200). 112 GIORNALE LIGUSTICO Le inflessioni di tempi accennate dallo Spano, ho riscontrato che sono le seguenti : a) Cominciando da Ghilarza non si usa più nei verbi il passato rimoto, bensì il passato prossimo. Oggi, neanche a Ghilarza, dicono più: dd/i fattèsi, dd// nel^èsi, lo dissi, lo feci, ma: ζeo dd/« appo fatta, dd« appo nati, io 1’ ho fatto, 1’ ho detto. b) A Ghilarza i gerundi dei verbi terminano ancora in alide, ernie, inde-, ma ad Ortueri, a Samugheo, a Desulo, già si sentono le terminazioni campidanesi in andò, ed in endo. Amare, trovare, a Ghilarza suonano ancora interamente logudoresi in istimare, adattare; ad Ortueri ed a Samugheo dicono già: istimae, agattae; ad Oristano: istimai, agallai. Lo Spano notava che ai suoi tempi il dialetto comune di Ghilarza e suo distretto, era ancora logudorese, perchè nell’ insegnare il Catechismo e nel predicare, i sacerdoti si servivano di esso. Infatti nei ninnios e negli altitidos, già pubblicati, i quali sono cantati dalle donne, il devoto femmineo sesso dell’ Ave Maris stella, l’infiltrazione del dialetto campidanese si sente appena: invece in questi mutos cantati dai giovanotti, che girano un po’ il mondo, il dialetto campidanese si fa sentire di più; anche perchè oggidì la strada ferrata, e la provinciale, e parecchie comunali, mettono in comunicazione le due Provincie, molto di più di quanto non fossero, quando lo Spano scriveva (1840), malgrado che Ghilarza sia più vicina a Sassari che non a Cagliari. Il Signor Carta Demetrio, Censore nel Convitto Nazionale di Catanzaro, raccolse molti dei mutos che ora vengono alla luce. Essendo egli nativo di Ghilarza e pratico dei paesi dei quali si riportano qui i canti, mi è stato di grandissimo aiuto nella trascrizione o grafia adottata; glie ne faccio pubblici e cordiali ringraziamenti. Non so se le mutazioni di lettere alle quali accennava lo Spano, siano le seguenti; ad ogni modo ecco le osservazioni da me fatte in proposito. GIORNALE LIGUSTICO I I } La pronuncia del p si accosta moltissimo a quella del b : 1 ho segnata con p, per facilitare la traduzione dei vocaboli per mezzo del dizionario. Cosi pure ho segnato con c la pronuncia di questa consonante quando si accosta a un g duro. Con dd è contrassegnato il noto d linguale; con z la pronuncia di d + j (/ francese): zanta, zaes — essi danno, voi date. Quando / nella pronuncia si accosta ad un v fu segnato con f, e per contrapposto si segnò con v la pronuncia di questa lettera quando volge a /. Nei Canti popolari da me pubblicati due anni or sono, la ζ indica il g dolce, per es. gihiche, giudice si pronuncia quiche. A Ghilarza in alcuni vocaboli si sente ancora il g non affatto diventato z; s’è segnato con g. Il jota invece è già mutato in z, dicendosi, zeo, per jeo, io, Zomperdu per Jomperdu, Gionperdu, = Gian Pietro. La n -+- s, -f- v, H- f raddoppia e rafforza la consonante susseguente, quindi pronunciasi, cossolu per consolu consolazione (consuclo spagn.); cuvventu per cunvetilu — convento; cujjìssan per cunfissare = confessare. Ho segnato la erre in lettera più marcata nei casi in cui rappresenta una esse che etimologicamente dovrebbe esistere, come sarebbe in manov d’oro, fi^or meos, Jtiar dentes (femm.) che dovrebbero pronunciarsi : manos d'oro — mani d’oro, fizos ineos figli miei; àuas denles, due denti (i). Questo r sentesi : i.° quando due parole vicine terminano in s, come: brenor ’e frores, pieni di fiori, candelax 'e obera, candele di cera, parole che dovrebbero pronunciarsi prenos ’e frores, candelas ’e chera, 2.° quando tre parole terminano in ί-per es. lassaàdos wr macchlnes lasciale le stoltezze, invece di /flwaddoi sos mac-chlnes — 3.0 quando la s si trova in fine e davanti a parola cominciarne in d, m, p, v, come per es. ogor de diamante, (1) Vedi a questo proposito la piccola ma importantissima raccolta di mutos nuoresi, pubblicata dal Prof. Egidio Bellorini — Bergamo - 1892. Giono. Ltocntco. Λ««ο XX. g iï4 GIORNALE LIGUSTICO per ogos occhi, muncadorer mi leo, invece di muncadores mi ko; fazzoletti compro; irpelto per ispetto, io aspetto; irperan^ia, per isperanzia, speranza; ser vcrdadera invece di ses verdadera, sei veritiera. T indica la pronuncia dura di questa consonante quasi tosse d: per es. esliu pronunciasi esdiu, estate. Da ultimo la ζ riproduce il c dolce in civile, Franca, civile, Francia; le terminazioni: lia, dium, latine, come lgnazzia, ìastizu, (Egnatia, fastidium), Ignazia, affanno, pena. La struttura dei mutos sardi è la stessa degli strambotti, dei rispetti, degli stornelli e di altri canti amorosi del Continente. Domenico Buffa, mandando da Porto Maurizio, dove raccolse questo strambotto, al Sign. Conte Nigra che lo pubblicò: Suspira cor che la ragion tu Γ hai, Tu n’hai la casa versu la marina, Alla marina sunu pesci pesci, Alle muntagne sunu picurelle, A fe’ l’amù ghe vo’ de fie belle. aggiungeva: Ho inserito questo strambotto non perchè lo meritasse, ma per recare uno dei moltissimi esempi che si offersero nelle mie raccolte, in cui una parola trascina l’idea. Avviene spesso al popolo di cominciare il canto con un’ idea, e poi trascinato da una parola che nell’esprimerla gli esce di bocca, quasi per distrazione passare ad un altra. (Vedi Canti popolari del Piemonte pag. XIX). — Ora salvo la diversità del metro, nel quale il mutu sardo s’ accosta alla Copia spagnuola d’amore, nel resto è della stessa struttura dello strambotto citato, e del seguente stornello toscano: Fiorin di miglio, Ce l’hai mangiato quello spicchio d’aglio T’ ho detto di pigliarti e non ti piglio. GIORNALE LIGUSTICO Nei due primi versi c’è 1 ’istèrria, nell’ultimo c’è la torrada. Anche nello rispetto seguente noi abbiamo 1’ ist'erria nei due primi versi della i.» quartina, la torrada nei due ultimi; nella 2.* quartina troviamo poi una superfetazione non rara neppure nei mutos sardi: Istèrria Torrada Alte le mura della casa vostra, Le mie son basse, e ’un possono arrivare, Io non son degno della grazia vostra, Nemmeno di potervi salutare, Io non son degno di guardarvi in viso, 0 fior d’ arancio colto in paradiso, Io non son degno di guardarvi in volto, 0 fior d’arancio in paradiso colto. Il Giusti nel Y Amor Pacifico nota che: Nel primo incontro degli innamorati Si sa che non c’ è mai senso comune. Ora sembra che la musa popolare si trovi in questo stato, quando incomincia a cantare; il dolce o l’amaro è sempre in fondo. Noto da ultimo che la ripetizione del primo verso dell’ istèrria fatta quasi a preparare la rima dell’ ultimo verso della torrada, si riscontra nel cantare lo stornello toscano, colla differenza che si ripete il 2° non il i.° verso. Qualche mutu sardo mostra un’ idea continuata dal i.° al 4.0 verso, senza nè istèrria, nè torrada, come sarebbe quello che dice: Dottorino, dottore Dottor di medicina, L’affanno dell’ amore, Non lo guarisce la china. 116 GIORNALE LIGUSTIGO DICHIARAZIONI D’AMORE (Ghilarza). I. Zompérdu de Aragone, S’à tiràu ss’irpada, Po’ occhire unu puzzone, Pappande un’arenada, Giòbia de custa chida; A tie appo intregada, Coro, vida, pessone. I. Gianpietro d’Aragona, Tirò fuori la spada, Per uccidere un uccello, Mangiando [nte] una melagrana, Giovedì di questa settimana; A te ho consacrato interamente, Cuore, vita, persona. È questo uno dei pochi mutos che abbiano un’allusione alla storia, ma non saprei se qui si tratti di Pietro i.° d’ Aragona o d’ altri. II. Su pippìu de Innàzzia, Pranghed’ e non s’assèlia [da]; Sa tua bella grazzia, Su sentìdu m’ischèlia [da]. II. Il bambino d’Ignazia, Piange e non s’acqueta ; La tua bella grazia Il sentimento mi desta. Ischèliu è il fischio col quale il cacciatore cerca di attirare il daino alla portata del suo fucile. III. I-ssa funtana ’e susu, Biu ddu à s’urdinanzia; Duos gravellos de Franza, Pàren’ sor ogos tusu (i). III. Nella fontana di su, Bevuto ci ha l’attendente militare; Due garofani di Francia, Sembran gli occhi tuoi. (i) Due garofani per la splendidezza, perchè gli occhi rossi sarebbero certamente poco belli. Tusu da Inos [#]. GIORNALE LIGUSTICO II? IV. I-ssa porta ’e Turina. Ddu’ este su Re nou, Cu - ssu fusile ’e prata; Imprimidu i-ssu sinu, Porto su coro tou, E tue non ti nd’ agata[s]. V. Su para cappuzzinu, I-ss’ ortu si recrèa[da], Ca dd’ àd àrbure ’e orrosa, E una pramma frorida, E lizzos e viola[s] ; T’app’amare continu, Si tue mi cossolafs], Custa morta mia vida. VI. De Oristanis seo, Naschidu e battizzadu; M’appo anioràu zeo, Un’orrosa incrannada. VII. Unu puzzone ’e ’eranu, Càntad-i-ssa franesta; Si non bènis nottesta, T’irpetto crammanzanu. VIII. Si dd’ andò a-ssa festa Mi mudo s’ apposentu; (1) Sa notte de nottesta, ’Ured’ annos chentu. IV. Sulla porta di Torino C’è il Re nuovo, [forse Vitt. Em.] Col fucile d’argento; Impresso nel seno, Porto il tuo cuore, E tu non te ne accorgi. V. Il padre cappuccino, Nell’orto si ricrea, Perchè c’è albero di rosa, E una palma fiorita, E gigli e rose; T’amerò sempre, Se tu mi consoli, Questa morta mia vita. VI. Di Oristano sono, Nato e battezzato ; Mi sono innamorato io, Di una rosa incarnata. VII. Un uccello di primavera, Canta sulla finestra ; Se non vieni questa notte, T’aspetto (ispetto) doman mattina. VIII. Se vado alla festa, Adorno la mia camera ; La notte presente, Duri cento anni. (1) Attorno alle chiese di campagna sono fabbricate rozze camere, con muri senz’intonaco· ivi i novenanti (nuinanies) passano i nove giorni precedenti le feste più celebrate. Queste fabbriche chiamansi munitene!, monasteri, ed anche cumbessias, da cum-esse, mangiare insieme; nfatti ivi mangiano i pellegrini in comune. ιι8 GIORNALE LIGUSTICO IX. Sette picca perderi[s] Piccanta perdas i-ss’oru; De tantis cavaglieri[s], Zeo nd’ iscerru a coro. X. Sa tratture est’ (i) cantande, I-ssa mata ’e s’ olia ; Po tue seo irpirande, Perdo sa vida mia. XI. Sa fiza ’e don Peppinu, Andada a professare, A monza de cuvventu ; Sèmpere t’ appo portare , I-ssu coro continu, A dònnia momentu. IX. Sette scalpellini, Scalpellan pietre all’orlo; Di tanti cavalieri (signori), Io scelgo il mio amante. X. La tortora sta cantando, Nel cespuglio dell’olivo; Per te sto spirando (ispirande), Perdo la mia vita. XI. La figlia di don Peppino, Va a far professione, Qual monaca di convento ; Sempre ti porterò Nel cuore, eternamente, In ogni momento. (Ortueri). XII. Perdusèmene e beda, Bende’ cudda viuda; — Perdusèmene e beda — Su coro senti’ meda, Sa limba resta’ muda. XIII. Tiran, tiran, tirella, Càntanta in Piemonte; — Tiran, tiran, tirella — Dda fazzo die e notte , Po tue sa sentinella. XII. Prezzemolo e bietola, Vende quella vedova; — Prezzemolo e bietola, Il cuore sente molto, La lingua resta muta. XIII. Tiran, tiran, tirella, Cantano in Piemonte; — Tiran, tiran, tirella, -La faccio dì e notte, Per te la sentinella. (i) Devesi sentire la s- ma non il t di est. GIORNALE LIGUSTICO I ï 9 XIV. Su-ssole de s’istiu, ’Etta’ grandu calore; — Sa-ssole de s’istiu — Vivas fiamtnas de amore Po tue a’ su coro miu. XV. Daghì bessìa a-ss’ortu, M’ este intrdu su frittu; — Daghi bessìa a-ss’ortu-Senza fae delittu, Tue giai m’ ar mortu. XIV. Il sole dell’estate, Manda gran calore; — Il sole dell’estate — Vive fiamme d’ amore , Per te ha il cuor mio. XV. Appena io usciva (per andare) all’orto M’è venuto addosso il freddo; — Appena usciva all’ orto — Senza far delitto, Tu già m’hai ucciso. (Samugheo). XVI. Su Rre nostu à prestau, Tres truppar a-ssu Moro, Po dda binche’ sa glierra ; Su sàmbene ’e-ssu coro, Derramando est’ in terra, Po te, coro amàu. XVII. Crasa i-ssu monte Orre, Fàente una parada; Istella seberata, Bivendo in custa terra, T’ amo finza a mòrre[r]. XVIII. Biu appo uno Moro, Pappando mela crua De dóighi giardinofs]; Iscuru ! mi nd’ affino , De-ssa bellezza tua, Nde pergio su coro. XVI. Il Re nostro ha imprestato, Tre (corpi di) truppe al Moro, (i) Per vincerla, la guerra; Il sangue del cuore, Spargendo (sparso) è in terra, Per te, cuore amato. XVII. Domani sul Monte Orre, Fanno una parada; (2) Stella distinta , scelta Vivendo in questa terra, T’ amo fino alla morte. XVIII. Visto ho un Moro , Mangiante mele crude, Di dodici giardini, Tristo me! mi consumo, Per la tua bellezza, Ne perdo il cuore. (1) Guerra di Crimea? (2) Parada è una baracca di legno nella quale, sulle fiere si vendono dolci, liquori tee 120 GIORNALE LIGUSTICO LODI DELL’AMANTE (Désulo, paese alle falde del Gennargentu). 1. Carru zicchirianti, Carrigàu ’e linna; — Carru zicchirianti — Chigior fattos a pinna, Ogor de diamante. I. Carro cigolante (ticchiriante in log.) Caricato a (di) legna; — Carro cigolante, — Ciglia fatte a penna, (a disegno) Occhi di diamante. (Samugheo). II. Dominiga a merìe, Muncadorer mi leo, De arroba tannada, De dóighi colore[s]; Ca mudas tottu is fJore[s], Orrosa preziada, Non nd’ àda in Samugheo, Àttera che tie. III. Sa die ’e-ssu Patronu , Mi sego unu gravellu, Ddu pongio ind’unu pratu ; Sutile sess-e e artu, Zivile sess-e bellu, Tener dónnia donu. IV. Sennor Matteu Mura, Si nd’ àndada a Casteddu, Ca bàllad’ in Treattu; De Rei tenes trattu, Salomone in crebeddu, Sess-anzelu in figura. II. Domenica dopo pranzo, Fazzoletti compro (comprerò), Di stoffa tanè (scura), Di dodici colori; Sei d’ornamento a tutti i fiori, Rosa apprezzata, Non c’ è in Samugheo Altra quale te (che ti agguagli). III. Il giorno della festa del Patrono, Spicco (taglio) un garofano, Lo metto sopra un piatto; Sei magro e alto, Di faccia signorile, e bello, Hai (tieni) ogni leggiadria. IV. Il signor Matteo Mura, Va a Cagliari, Chè ei balla in teatro; Hai maniere di Re, Sei Salomone, per dottrina, (in Sei Angelo d’aspetto, [cervello). GIORNALE LIGUSTICO 121 V. Passando in Muristène[s], Già mi tiro sa fosa, Po intrare a gherrare; Non pozzo avvalorare, Custa istella lugosa Su valore chi tène[de]. V. Passando in Monastir, (i) Tiro fuori la spada, Per entrare (cominciare) a guer-Non posso calcolare [reggiare; Di cotesta stella risplendente, Il valore che ha. (Ortueri). VI. De Casteddu ni’ ammiro, Sa turre ’e-ss’ elefante ; — De Casteddu m’ammiro — Cara de diamante, Funtana 'e surpiro[s]. VII. \ Pillone ressignolu, Càntada i-ssa muntagna, A boghe dolorosa; Tue ser cudda rosa, De s’istella compagna, A tottu dar cossolu. VIII. A m’appicco sas crae[s], Issa mata ’e-ssa mela; — A m’ appicco sas craes — Lughe senza candela, I-ss’ apposentu fae[s]. IX. Femmina chi porta’ triccia, Non mi nd’ aggràdat’una; — Femmina chi porta’ triccia — Su ti bier es’ fortuna, Su ti lograre es’ diccia. VI. Ammiro di Cagliari, La torre dell’ elefante ; — Ammiro di Cagliari — Faccia di diamante, Fontana di sospiri. VII. Uccello rossignuolo, (2) Canta sulla montagna, A canto (a voce) doloroso; Tu sei quella rosa, Compagna, pari alla stella (Ve-Che a tutti dai consolazione, [nere, VIII. Appicco le chiavi, Ad un pedale (pianta) di melo ; — Appicco le chiavi — Luce senza candela, Nella camera fai. IX. Femmina che porti treccia, Non me ne piace alcuna; — Femmina che porta treccia — II vederti è fortuna, Il guadagnarti (sposarti) è toccare [il cielo. (1) Paese della provincia di Cagliari. (2) Si sente già il pillotti campidanese. 122 GIORNALE LIGUSTICO RISPOSTE D’AMORE (Ghilarza). De-ssa ventana biu, Sa frezza ’e-ss’ arrelloggiu; — De sa ventana biu — Si non incontras alloggili, Beni a-ssu coro miu. II. A-ssu cane ’e-ssu Re, dOi nanta : Portanova[s] ; — A-ssu cane ’e-ssu Re — Piga su coro a prova, E tene fide in me. III. Mela mia, mela ’e-ss’oro, Non pàppes pira crua; — Mela mia, mela ’e-ss’oro ■ Pìgaddu cua-cua, E tèneddu a-ssu coro. I. Dalla finestra vedo (bio log.) La freccia dell’orologio; — Dalla finestra vedo — Se non trovi alloggio, Vieni al cuore mio. II. Al cane del Re, Gli dicono (lo chiamano) Porta- — Al cane del Re — [nuove; Piglia il cuore a prova, Ed abbi fede in me. III. Mela mia, mela d’oro, Non mangiare pere crude ;■ — Mela mia, mela d’oro Pigliatelo di nascosto, E tientelo il mio cuore. (Ortueri). IV. Mamma mi pone velu, E zeo chérgio mantu ; — Mamma mi pone velu — Mi pares unu santu, Abbasciàu ’e-ssu chelu. V. Trer frades e tre-ssore[s], Gióganta a tressette; — Trer frades e tre-ssore[s] — Irpi ega cust’ amore, Nàrami coment’ este. IV. Mamma mi pone un velo, Ed io (invece) voglio un manto; — Mamma mi pone un velo — Mi sembri un santo, Disceso dal cielo. V. Tre fratelli e tre sorelle, Giocano a tresette; — Tre fratelli e tre sorelle — Manifesta quest’amore (ispiega) Dimmi come è. GIORNALE LIGUSTICO 123 RIPULSE E RIFIUTI (Ghilarza). I. I-ss’oru de-ssu mare, Mi nde ’oddo unu lizzu; No, ca non cherzo amare, Ca su amore es’ fastizu. II. Su molente i-ssa mola, Non chere’ camminare; Bae, bae a s’iscola, Lassa su fastizare. I. Sulla riva del mare, Mi raccolgo un giglio; No, chè non voglio più amare, Perchè l’amore è affanno. II. L’asino (che fa girare) alla macina, Non vuol camminare; Va, vattene a scuola , Lascia, smetti di darmi noia. (Samugheo). III. Una nave de oro, Ada pigàu su mare; — Una nave de oro — Ca es’ peccàu mortale, Non guster custu coro. IV. Mischineddu Samberiu, Ca non pode’ pappàe; — Mischineddu Samberiu -Non m’òbbrigas a t’amae, Zeo non nde tenzo geniu. V. I-ssa porta ’e Casteddu, Ddu’ àda una colunna A pintura ’e prata; Non d’ar tentu fortuna, De sa dimanda fatta, Póberu giovaneddu! III. Una nave d’ oro, Ha pigliato il mare; — Una nave d’ oro — Dacché è peccato mortale , Non devi gustare questo cuore. IV. Meschinello Saverio, Che non può’ mangiare; — Meschinello Saverio — Non m’obbligare ad amarti, Non mi riesci simpatico. V. Alla porta di Cagliari, C’è una colonna, Con pittura (a cornice di) d’ ar-Non hai avuto fortuna, [gento; Della dimanda fatta, Povero giovanetto! 124 GIORNALE LIGUSTICO VI. Sas candelar de chera; Pónente a-ssantu Antine, — Sas candelar de chera — Non chergio violera[s], Làssaddos sor macchìne[s]. VII. Degheotto appusento[s], Ddu’ ad’ i-ss’ oru ’e-ssu mare Sunti prenor de frore[s] ; — Degheotto appusento[s] — Donàu appo su cero; Sor varios penzamento[s], Neh’ appo lassàu andare. Vili. Passas e arrepassa[s] Passas e saluda[s] ; — Passas e arrepassafs] · Si arruga non tramuda[s] Su bonetto ddue lassa[s]. IX. Curridòriu ’e ferru, Tene’ Donn’ Irperanzia; — Curridòriu ’e ferru — Tènessa cuffidanzia, Chei su-ssole i-ssu ìerru (i). VI. Le candele di cera Pongono (sull· altare) a San Co- — Le candele di cera, — [stantino Non voglio frivolezze, Lascia le stupidaggini. VII. Diciotto camere, Vi sono alla riva del mare, Sono piene di fiori; — Diciotto camere — Donato ho il cuore, I varii altri pensieri, Li ho lasciati andare. Vili. Passi e ripassi, Passi e saluti ; — Passi e ripassi — Se non cambii strada, Ci rimetti il berretto. IX. Balcone (poggiuolo) di ferro, Ha Donna Speranza; — Balcone di ferro — Hai (meriti) la fiducia, Quale il sole d’ inverno. (Ortueri). X. Dèris i-ssu barraccu, Biu appo su pastore, Sendo i-mandra mullendo; T’appo nàu chi none, E tui repicchendo, Mi parir bellu maccu. X. Ieri nel barraccone, Visto ho il pastore, Essendo nella mandra, e mun-T’ho detto di no, [gendo ; E tu ripicchi (ridomandi), Mi sembri un bello stolto. (i) La noto proverbio dice: non ti fidare nè di s0 le d’ inverno, nè di nuvolo d’estate, nè d’ amor di donna , nè di cariti di frate, perchè poco durano. GIORNALE LIGUSTICO I25 XI. Piricoccheddu e pruna, Endent’ i-ssa parada ; Piricoccheddu e pruna In dònnia contonada, 1 ue nde fastizas una. XII. S’ aneddu meu est’ oro, Cun pérdas bintiresfe] ; — S’ aneddu meu est’ oro Malu cristiani! ses[e] Andas de coro in coro. XIII. Rampu de liccarissu, B’ appo i-ss’ umbra siccàu Po tenne’ su licore ; Su coro nd’ ar promissu , 0 malu traitore, Carru zicchiriàu ! XI. Albicocchini e prugne, Vendono nella barracca ; — Albicocchini e prugne — In ogni cantonata, Tu ne annoji una. XII. L’anello mio è d’oro , Con pietre (preziose) ventitré ; — L’anello mio è d’oro — Cattivo cristiano sei, Vai di cuore in cuore (sei un [farfallino). XIII. Ramo, sarmento di regolizia, C’ho all’ombra seccato, Per ricavarne il sugo; Π cuor 1’ hai già promesso, 0 cattivo traditore, Carro (che ha) cigolato ! GELOSIE E DISPETTI (Ghilarza). I Chimbanta camisola[s], Appo sestàu e cosiu ; — Chimbanta camisola[s] — Penzas ca non appo ischiu, Cun chie brullas e gioga[s]? II. Su muncadore de seda, Ddu porta’ Mariantonia ; — Su muncadore de seda — Pàres ànzela in groria, E non ser verdadera. I. Cinquanta camiciuole, Ho tagliato e cucito ; — Cinquanta camiciuole — Pensi che non abbia saputo, Con chi burli e scherzi? II. Il moccichino di seta, Lo porta Maria Antonia; — Il moccichino di seta — Sembri un angela dipinta (col-E non sei veritiera. [Γ aureola, 126 GIORNALE LIGUSTICO III. Crasa mi sezzo in barca, Po andare a sa festa; — Crasa mi sezzo in barca -Fàe sa picciocca onesta, E non fàzzas sa macca. IV. Pubusas Iroccadafs], Cu-vvarios colorefs], Fàlanta a s’idda mia; Dae sendo minore, Faende er mascarada[s] In cricca de amadore[s]. V. Su caddu de Tonara, Porta’ su frenu in dente[s]; Zeo t’ abbarro in cara, Crepeso arrebènte[s]. III. Domani mi metto (siedo) in barca, Per andare alla festa; — Domani mi imbarco Fa la ragazza per bene, E non fare la stolta. IV. Upupe piovute (nevicate), Con varii colori, Scendon sopra il mio paese; Fin da quando eri piccola, Stai (sei-es) facendo pagliacciate, In cerca di (nuovi) amanti. V. Il cavallo di Tonara, (i) Porta il freno fra i denti; Io ti fermo (e ti guardo) in faccia, Crepi tu, o scoppi. DISPREZZO (Desulo). I. Pillonis pei-grògu[s], Bòlanta in Samugheo; ’Asì mi falint is ogu[s], Cantu ti ollu zeo. II. Pillonis pei-grògu[s], E alar indoradafs]; Abbascia cussor ogu[s], Mongia mala, de bada[s]! I. Uccelli dai piègialli, Volano in Samugheo; Così mi caschino (falint) gli occhi, Quanto (come) ti voglio (ti amo) io. II. Uccelli dai piè gialli, E ali dorate; Abbassa quegli occhi, Monaca cattiva, è inutile! (non [me la fai) (i) Paese alle falde del Gennargentu. GIORNALE LIGUSTICO 127 III. A s’appusentu ’e susu, Arzio cras-a-merie, Po mi pònned’ a lizze[de]. Recontor dess’istoria ; — As’ appusentu ’e susu — Prego chi non manigie[s] Sa pinna po ni’ iscrìede, Ca non t’ appo i-memoria, Po vida mia , prus[u] ! IV. La zente de Norghidda, Piganta a Monteferru; Tui de chie ser fillu? Bessìu de s’ifferru ! III. Nella camera di sopra , Salgo domani dopo pranzo, Per mettermi a leggere, Racconti di storia; — Nella camera ili sopra — Ti prego di non maneggiare, Penna per iscrivermi, Non t’avrò mai più in mente, Per la mia vita, mai più! IV. La gente di Norbello, (1) Salgono a Monteferro (2); Tu di chi sei figlio? Uscito dall’inferno! PARTENZA E SEPARAZIONE (Ghilarza). I. Antonicu a-ssa gherra, Ite àndas a faè[re] ? — Antonicu a-ssa gherra -Cando non t’appo amare, Su chelu àd esse terra. II. Inùe as imparau, Custas fainar bellas ? — Inue às imparàu — Ti fazzo una cappella, Si ti bio torràu. I. Tonino alla guerra, Che vai tu a fare? — Tonino alla guerra -Quando non ti amerò, Il cielo sarà terra. (3) II. Dove hai imparato? Qnesti bei lavorucci? — Dove hai imparato -Ti faccio una cappella, Se ti vedo tornato. (1) Ora Norbello, mandamento di Ghilarza. (2) È detto in certe carte Monte Urtieu. (3) Cesserò, se il cielo potesse diventar terra. 128 GIORNALE LIGUSTICO E ti fazzo unu nizzu, Si ti bio torràu, Ss’ amore t’ apparizzo. E ddue ponzo unu vrore, Si ti bio torràu, T’ apparizzo ss’ amore. E ti faccio una nicchia , Se ti vedo tornato , L’ amor te lo apparecchio. E vi, ci metto un fiore Se ti vedo tornato T’ apparecchio 1’ amore. In questo mutu troviamo una superfetazione dell’ istèrria e della torrada dopo i primi quattro versi che le contengono. Infatti E ti \ian° una ηΐχχμ — E ddue potilo unu vrore sono aggiunte dell’istèrria ; Ss amore f apparilo — T' apparino ss’ amore — una aggiunta della torrada. III. Andande a ss’Arrosariu, Mi sego unu gravellu, Appenar fattu die; — Andande a ss’ Arrosariu 'More meu a ti bie[r], Ddu’ às a esser bellu, Bestìu de militariu ! IV. Sordàos i-ssa porta, Tóccanta s’arretiru, A ordine ’e ssu Rre; — Sordàos i-ssa porta — Arregòrdadi de me, E bettache un suspiru, Cando solu t’ incontra[s]. III. Andando al Rosario, (alla chiesa Mi spicco un garofano, [del) Appena fatto giorno ; — Andando al Rosario Amor mio se ti potessi vedere, Come sarai bello, Vestito da soldato ! IV. Soldati alla porta, Suonano la riiirata, Per ordine del Re ; — Soldati alla porta — Ricordati di me, Ed emetti un sospiro, Quando solo ti trovi. (Ortueri). V. Bae in-bonora , bàe , Torra cand’às a bènne[r]; — Bàe in-bonora, bàe — Su gosu de t’ amàe, No-ddu tórras a ténne[r]. V. Vai, vai in buonora, Torna quando verrai; — Vai, vai in buonora ■ Il piacere d’amarti, Non lo torni ad avere (i) (i) È troppo dolorosa la separazione dopo esserci amati tanto! GIORNALE LIGUSTICO 129 S’àndas a gherràe, Diffenditi a-ssa muda; — S’ àndas a gherràe -Bestia de viuda, Tue m’ àsagattàe ! VII. Mesa fatta a cumpassu, A-ssu muru dd’ arrimu ; Si mi lassas, ti lassù, Si m’istìmas, ti istimu. Vili. I-ssa mata ’e ss’olia, Anta allumau su fogu; Mancari non ti bia, Presente cu-ssor ogu[s]. VI. Se vai a guerreggiare, Difenditi alla muta; (1) '— Se vai a guerreggiare — Vestita da vedova, Tu mi troverai ! VII. Madia fatta a’compasso , Col muro d’ appoggio ; Se mi lasci, ti lascio, Se mi ami, t’amo. VIII. Nel cespuglio dell’olivo, Hanno acceso il fuoco; Benché non ti veda , Mi sei presente agli occhi. LONTANANZA (Ghilarza). Mischimi cuddu Moro, Est immesu ’e su nie; — Mischinu cuddu Moro Cando non bio a tie, Affrizziu és’ssu coro. II. Tira, eh’ appo a tirare, Tres perdas a-ssu ’entu; Zeo cherìa ’olare, Aimie es’-ssu penzamentu. I. Meschino quel moro, È im.nezzo alla neve; — Meschinello quel moro — Quando non vedo te, Afflitto è il cuore. II. Tira, che tirerò, Tre pietre contro il vento; Io voleva (vorrei) volare, Dove è (l’oggetto) il mio pensiero. (1) Senza far chiasso. Giorn. Ligustico. Anno XX. 9 130 Sa luna est’ecclissada, Po causa de-ssa nue; Morzo disisperada, Solu ca non bio a tue. IV. Sette errior de latte, Allontanu nche bio ; Beni pigande parte, De sos surpiror mio[s]! V. Ite bellu e’ ssoro, Chi zanta a-ssor pippìo[s] ! Bàzzi, ainùe er coro, Bàzzi, surpiror mio[s] ! III. La luna è nascosta, Per causa di una nuvola ; Muojo disperata, Soltanto perchè non ti vedo. IV. Sette rivi di latte, Lontani io vedo; Vieni pigliane parte, (1) Dei sospiri miei! V. Come bello è Γ oro, Che danno (zanta) ai bambini!, Andate dove è l’amante, Andate, sospiri miei! (Samugheo). VI. Puzzones chi ’olàe[s] E chi daes recreu ; Poìte non mi portàe[s] Novar de coro meu? VII. Si parties piseddo[s], Sor mios saludàe, Nàzzi’ chi m’ azzis biu , In d’ una dura cadena. — Si parties piseddo[s] — Bastante es-su pat'iu, No-mmi lasses in pena, Beni a mi cossolàe, Assumancu unu faeddu. Uccelli che volate, E che date piacere (a vedervi); Perchè non mi portate; Nuove del cuor mio? VII. Se partite, ragazzi, I miei salutate (imperativo) Dite che m’avete visto, In una dura catena, — Se partite, ragazzi Bastante è quel che ho patito, Non mi lasciar in pena, Vieni a consolarmi, Almeno (dammi)un abboccamento. (ί) K non pigànde pigliando. giornale Vili. S aera est in tristura, Suzzetta a fàe dannofs], Accanta a logu nostu; — S’ àera est’ in tristura — Deus àda dirpostu, De biver cun affanno[s]. Po sa mia sorte dura. (Sanluri Campidanese, IV. Cando frorint’ is mata[s] Is bingias sunt’ amena[s]; Si innozenti m’ agata[s], Ita sérbint’ is penafs]? LIGUSTICO 131 VIII. L’ aria è in tristezza, (temporale) Prossima a far danno, Dirimpetto al luogo nostro; — L’aria è in tristezza — Dio ha disposto, Che io viva con affanni, Per la mia sorte dura. Circondario di Cagliari'). IX. Quando fioriscono gli alberi, Le vigne son belle; Se mi trovi innocente, A cheservonole pene?(che mi dai) DOLORE (Ghilarza). I. Dottoreddu, dottore, Dottore ’emeighina[s[; Su f.istizu ’e ss’amore, No-ddu sana’ sa china. IL Sa bunnedda m’ es’ curza, Caru es’-su broccàu; £ ita fuo niedduzza, S’amore m’à iassàu. III. Andande a Monteferru, App' appidu unu mdu, E pilloneddor de oro; I. Dottorino, dottore, Dottor delle medicine; L’affanno dell’amore, Non lo risana il chinino. II. La gonnella m’è corta, E caro è il broccato; (per allungarla) Perchè ero (fuo per fia) brunetta, L’amante m’ha lasciato. III. Andando a Monteferro, Ho avuto (trovato) un nido, Con uccellini d’oro; 132 GIORNALE LIGUSTICO Custu amaru disterru Mi lòmped’ a-ssu coro, Sa paghe appo perdidu. IV. Dominiga in Norghiddo (1) E Lunis in Bauladu , (2) Màrtis in Oristani[s]; (3) Chi sia allebiadu, Fàghe a manera, coro, Tue sos pilor m’incànis. V. In zardinu, in zardinu, Ando criccande amenta; — In zardinu, in zardinu Cheres eh’ iste cuntenta, Cun fèrzas de continu? Questo amaro allontanamento Mi giunge al cuore, La pace ho perduta. IV. Domenica in Norbello, Lunedì in Bauladu, Martedì in Oristano ; Che io sia alleviato, Fai maniera (trova) cuor mio, Tu m’imbianchi, (incanutisci) i [capelli. V. In giardino, in giardino, Vado cercando menta ; — In giardino, in giardino — Vuoi che io (stia) sia contenta, Con freccie (dispiaceri) sempre? (Desulo). VI. Peso chizzo a manzanu, E po me es’ pelea ; — Peso chizzo a manzanu — Non cumbina - ss’ idea , S’ amore fudi vanu. VII. M’avvanto a connada, Sa prima ’e-ssa ’idda; — M’avvanto a connada — Sa fama torramidda, Ca mi-nde dd’ ar pigada. VI. Sorgo presto al mattino, E per me è affanno ; — Sorgo presto al mattino Non combina l’idea (l’accordo) L’amore fu (fuit, fuidi) vano. VII Mi vanto d’aver per cognata, La donna più bella del paese: — Mi vanto d’aver per cognata — La fama restituiscimila, Perchè me l’hai pigliata. (1) Ora Norbello , vedi pag. 127. (2) Bauladu id. (3) Occorrono qualche volta mutos di questo genere, che io direi geografici, perchè sono come elenchi di paesi vicini od intorno a quello in cui si trova il cantore. Vedi Canti sardi in dialetto logudorese, pag. 383. GIORNALE LIGUSTICO r33 vili. Duas pipiar dua[s], Giòganta i-ssa rena; Duas pipiar dua[s] — Seo ini mesu ’e cadena[s], Po sar maneras tuas. IX. Sa barca ista’ benendo, E porta’ vela de oro; — Sa barca ista’ benendo Si mi Crlccas[a], coro, M’ agàttas[a] pranghendo. Vili. Due bambine, due, Giuocano sull’arena (del mare); — Due bambine, due — Sono immezzo a catene, Per le maniere tue. IX. La barca sta venendo, E porta vela d’ oro ; — La barca sta venendo — Se mi cerchi, cuor mio, Mi trovi piangendo. (Ortueri). X. S’erriu ’e Muristène[s], Tottu es’ prenu ’e velludu; — S’erriu ’e Muristènefs] — In cussu coro duru, Cuppassìone tenefs]? XI. Is pàras de cuvventu, Ddos anta preub':o[s], De intrare a-ssa Corte; Caiido trista ti bio, A dònnia momentu, Mi dda prego sa morte. XII. De sa ventana ’e susu, Bio a tottu - ssu mare; — De sa ventana ’e susu — Maladittu su nàrrefr] : Non t’ appo a bider prus[u]! X. Il rio di Monastir, È pieno tutto di velluto; — Il rio di Monastir — In cotesto cuor duro, Compassione ne tieni? XI. I Padri del convento, Li hanno proibiti, Di accedere a Corte; Quando trista ti vedo, Ogni momento, Me la prego (invoco) la morte. XII. Dalla fimestra di su, Veggo tutto il mare; — Dalla finestra di su — Maledetto il dire: Non ti vedrò più! Giuseppe Ferraro. 134 GIORNALE LIGUSTICO MUGAHID [il re Mugetto de’ cronisti italiani] E LE SUE IMPRESE CONTRO LA SARDEGNA E LUNI [IOI5-IO16]. Sommario. — I. La vita di Mugahid , prima del suo sbarco in Sardegna, studiata negli storici arabi. — II. L’impresa di Mugahid contro la Sardegna e Luni secondo il racconto che ne fanno gli annalisti tedeschi, italiani e arabi. — III. La leggenda pisana e genovese Mugahid. — IV. Che cosa veramente operasse Mugahid nella Sardegna e a Luni. I. Il nome di Mugahid è rimasto famoso nelle cronache italiane del medioevo, che lo chiamano Mugetto, Motget, Musatto, Muscetto, Musetto, Muset e Musa. Fu creduto africano, ma era invece europeo e cristiano di origine; libeito un tempo di Al-Mansur, uno de’ capitani più famosi e degli uomini più illustri che siano comparsi tra i Mori di Spagna. Il soprannome di Amiri, giacché era chiamato Mugahid-ibn-Abd-Allah-al-Amiri, lo prese appunto dal suo signore, che apparteneva alla stirpe degli Arnir, e fu detto Al-Mansur [ Γ invincibile ] in premio del valore che mostrò sui campi di guerra. Il cronista arabo Marrekosci, nella sua Storia degli Almobadi, qualifica Mugahid come « rumi » (1); parola che, a giudizio dell’ Amari, « può significare schiavo greco, 0 italiano, e, in Spagna, uom delle schiatte sottomesse dai Musulmani » (2). Meglio che greco, 0 italiano, è da ritenersi spagnolo. Grandi elogi fanno di Mugahid gli scrittori (1) Marrekosci, The history of thè Almohades [testo arabo]; pag. 52. (2) Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia; voi. IH, part. I, pag. 4> nota 3. GIORNALE LIGUSTICO Π5 musulmani. Ibn-al-Atir, che nato a Gazirah nella Mesopotamia il 1160, combattè al fianco di Saladino e mori nel 1223, nel Kamil at taivarih [cronaca compiuta] parlando di lui e del figlio Alì-ibn-Mugahid, dice che « furono entrambi amanti della scienza e dei dotti; munificenti verso quelli, e li chiamavano a sè da ogni paese, lontano e vicino » (1). Ad-Dubbi, autore spagnolo della fine del secolo XII, ne dà la biografia nel Bugiai al Mugtabis, dipingendolo come « uomo erudito, valoroso, amante della scienza e dei dotti jj; e aggiunge che, « educato in Cordova, ei segnalossi per alto animo, fierezza e ardire » (2). Colla voce « scienza », tanto Ibn-al-Atir, quanto Ad-Dubbi, come nota Γ Amari, vollero significare « più specialmente il diritto con sue vaste ramificazioni » (3). Jbn-Haldun ha nella sua Storia universale un capitolo su Mugahid, dove afferma che « avealo educato Al-Mansur e gli avea fatte apprendere, al par degli altri suoi liberti, le varie lezioni del Corano, le tradizioni e la lingua araba »; e asserisce che « molto egli progredì in coteste discipline » (4). Le guerre civili che presero a desolare il califato di Cordova offrirono a Mugahid l'occasione di farsi largo e di rendersi potente. Morto Abd-el-Melek, figlio di Al-Mansur, che, al pari del padre, fu il padron vero di Cordova, non essendo califo che di nome il debole Al-Mowayed-Hescam II ; succedette a lui, nella carica di ministro, il fratello Abd-el-Rahman, incapace e dissoluto, che forzò il suo Signore a (ij Ibn-al-atir, Kamil at Tawarih; in Amari, Biblioteca arabo-sicula [versione italiana]; pag. 112. (2) Ad-Dubbi, Bugiai al Mugtabis; in Amari, Biblioteca arabo-sicula; pag. 111, nota 4. (3) Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia; vol. Ili, part. I, pag. 4, nota 5. (4) Ibn-Haldun, Storia universale [edizione del Cairo], vol. IV, pag. 164. 136 GIORNALE LIGUSTICO farlo erede del trono; principio e segnale d’una lunga serie di rivolgimenti. Mohammed-al-Mahdy fece crocifiggete Abd-el-Rahman, spacciò per morto Hescam e s’impadronì del califato; per altro di lì a poco fu vinto in battaglia da Solimano , della stirpe anch’ esso degli Omeiadi, che si fece ca-lifo col titolo di Mostain-Billah. Alla sua volta Mohammed-al-Mahdy sbalzò di seggio il rivale e riprese il comando, ma, poco dopo, ebbe mozza la testa, per ordine dello spogliato Hescam, rimesso sul trono dai sudditi; anche lui pei dar luogo a un rivale più fortunato, a Solimano, il unto di Mohammed-al-Mahdy. Per testimonianza dello storico ibn-Haldun, Mugahid abbandonò Cordova « il giorno della uccisione di Al-Mahdy, che fu nel quattrocento » [25 agosto 1009 - 14 agosto 1010J, « partì insieme cogli altri liberti di Banu-Amir e con molti del gund [milizia] di Spagna, e prestò giuramento ad Al-Murtadi » ; venuto « contro costoro Zavvi, nella pianura di Granata li ruppe e disperse, poi fu ucciso Al-Murtad », andato quindi Mugahid 3 Tortosa, « se ne impadionì, poi lasciolla; passò in Denia», nel regno di Valenza, e « occupò quello Stato » (1). Ibn-al-Atir nei suo Kamil at tawarih ha un capitolo sulla divisione della Spagna in tanti reami, e pone Mugahid appunto a reggere il principato di Denia e Algeziias. Aggiunge, per altro, che « venuto da Cordova, appo di esso il giureconsulto Abu-Muhammad-Abd-Allah-al-Mu iti con gran gente, Mugahid fece di costui una sembianza di califo, che operasse secondo il suo proprio volere, e prestogli il giura-mento di fedeltà in guimadi secondo dell’anno quattrocento » [27 novembre - 25 dicembre 1014]. Mu’iti, oltre essere un giureconsulto di vaglia, era chiaro per antica nobiltà, giacché discendeva da una schiatta collaterale agli Omeiadi. Per questa (1) Ibn-Haldun, Storia universale cit., vol. IV, pag. 164. GIORNALE LIGUSTICO M? ragione, il liberto Mugahid, che non osava aspirare ancora al principato, volse gli occhi sopra di lui e ne fece un simulacro di califo, e come tale lo onorò, ritenendo di fatto il comando per sè. Dopo un cinque mesi, a un dipresso, dacché Mu’iti stava in Denia con Mugahid e co’ suoi partigiani ( così prosegue il racconto lo storico musulmano) « passò insieme con lui nelle isole» (1), cioè alle Baleari: « isole vaste e fertili », al dire di Ad-Dubbi; e Mugahid « le occupò e tennele fortemente » (2). Fu di là che mosse alla conquista della Sardegna. E scritto nel Kamil: « indi Al-Mu’iti mandò in Sardegna Mugahid con centoventi navi, tra grandi e piccole, e con mille cavalli. Conquistò la Sardegna in rabi primo dell’ anno quattrocentosei » [19 agosto - 17 settembre 1015] (3). Con Ibn-al-Atir si accorda Ad-Dubbi. Ecco le sue parole: « da quelle [dalle Baleari] poi col naviglio assaltò la Sardegna, grande isola dei Rum, l’anno quattrocentosei o quattrocentosette [giugno 1015 - maggio 1016] ; insignorissi della più parte di cotesta isola ed espugnonne le tortezze » (4). Che vi fece « grande uccisione di cristiani e grande numero di cattivi » lo asserisce Ibn-al-Atir nel capitolo « su la divisione della Spagna in tanti reami »; torna a ripeterlo con particolarità nuove nel « racconto della scorreria nell’isola di Sardegna », e dice: « assalì quest’isola, la conquistò, uccise Malut », il capo de’ Sardi, « e trasse in cattività le donne e i bambini » (5). Questa non fu, pur troppo, la prima delle scorrerie de’ Sa- (1) Ibn-al-Atir, Kamil; in Amari, Biblioteca arabo-sicula, pag. in. (2) Ad-Dubbi, Bugiai al Mugtabis; in Amari, Biblioteca cit., pag. in. (3) Ibn-al-Atir, Kamil; in Amari, Biblioteca cit., pag. ni. (4) Ad Dubbi, Bugiat al Mugtabis: in Amari, Biblioteca cit., pag. ni, nota 4. (5) Ibn-al-Atir, Kamil; in Amari, Biblioteca cit., pag. 92. GIORNALE L1GUSTIGO raceni contro gli abitanti della Sardegna; « gente di proposito e valorosa, che non lascia mai l’arme »; a loro stessa confessione (i). Quando per comando del califo fatimita Al-Mansur-Ismail, l’anno trecento ventitré [n dicembre 934 - 29 novem-bre 935] Ya-qub-ibn-Ishaq, con trenta legni da guerra, si scagliò contro le terre dei Franchi, non solo mise la desolazione e 10 spavento sulle coste della Sardegna, ma corse a Genova, ne ruppe le mura, e catturate mille donne, tornò in Africa con tutta la preda (2). Lo racconta Ad-Dahabi di Damasco, che visse dal 1275 r347> lo ripete Ibn-al-Atir nel suo hamil; anzi annerisce le tinte: « i musulmani distrussero Genova e fecero preda di quanto v’era » (3). Il tunisino Ibn-Haldun, fiorito tra 1332 e il 1410, non senza compiacenza ricorda che i musulmani, nel colmo della prospera fortuna, avevano occupato il Mediterraneo da tutti « i lati, e grande v era stata la loro potenza e il loro predominio ; né poteano. affatto i popoli cristiani resister loro in alcuna delle costiere »; rammenta « gli splendidi trionfi » che vi ottennero; « la preda immensa che vi fecero »; né dimentica la conquista delle Baleari, della Sardegna, della Sicilia e delle altre isole minori; la presa di Genova, « donde ritornarono con trionfo e preda ». Poi conchiude : « allora i popoli cristiani e le loro armate si limitavano a navigar nelle parti settentrionali e orientali del Mediterraneo, voglio dir le costiere dei Franchi e degli Slavi e le isole di Romania, nè osavano trapassare quei passaggi, oltre i quali avvenia sempre che le armate dei Musulmani 11 sbranassero come il lione la sua preda » (4). (1) Ibn-Idris, Kitab nurhat al mustag, ecc. [Solazzo per chi si diletta a girare il mondo]; in Amari, Biblioteca cit., pag. 12. (2) Ad-Dahabi, Tarili al Islam [Cronaca dell’IsIam] ; in Amari, Biblioteca cit., pag. 186. (3) Ibn-al-Atir, Kamil; in Amari, Biblioteca cit., pag. 91. (4) Iiin-Haldun, Kitab al ibr, ecc. in Amari, Biblioteca cit., pag. 187. GIORNALE LIGUSTICO I39 II. Di una scorreria che Mugahid, durante la sua dominazione in Sardegna, fece su Luni non se ne trova ricordo in nessuno de’ cronisti arabi; la passano sotto silenzio i cronisti pisani. L’ unico a farne parola é Thietmarus, vescovo di Merseburg, vissuto dal 978 al 1018; per conseguenza contemporaneo di Mugahid. Così ne scrive nel suo Chronicon, in un luogo che risponde al J016: « In Longobardia (r) Saraceni navigio venientes Lunam civitatem, fugato pastore, invadunt, et cum potentia ac securitate fines illius regionis inhabitant, et uxoribus incolarum abutuntur. Quod cum domno apostolico, nomine Benedicto, fama deferret, omnes sanctae matris ecclesiae tam rectores, quam defensores congregans, rogat, ac precipit, ut inimicos Christi talia presumentes viriliter secum inrumperent, et adiuvante Domino occiderent. Insuper ineffabilem navium multitudinem tacito premisit, quae eis redeundi possibilitatem interciperent. Hoc rex Saracenus animadvertens , primo indignatur, et tandem paucis comitatus navicula periculum imminens evasit; sui vero omnes conveniunt, et adventates prius irruunt hostes, eosque mox fugientes,' miserabile dictu, tres dies et noctes prosternunt. Respexit tandem Deus, gemitu piorum placatus, et odientes se fugavit et in tantum devicit, ut nec uno de hiis relicto, interfectorum et eorundem spoliorum multitudinem victores numerare requirent. Tunc regina eorum capta, ob audaciam viri capite plectitur. Aurum capitale, eiusdem ornamentum, invicem gemmatum, papa sibi prae caeteris vendicavit, postque impe- (1) Come osserva il Baronio (Annales ecclesiastici, edizione di Lucca; XVI, 499), « Longobardia etiam dici consuevit omnis provincia quam incoluerunt Longobardi ». 140 GIORNALE LIGUSTICO latori suam transmisit partem, quae mille libris computabantur. Divisa omni preda victrix turba laeta mente ad propria revertitur et triumphanti Christo dignas persolverat odas. Rex autem predictus morte coniugis et sociorum turbatus, summo pontifici saccum castaneis refertum remisit et per hunc portitorem, tot se in proxima estate milites sibi esse laturus intimavit. Percepta hac legatione, papa marsuppium eundem, milio plenum, internuntio talibus dictis reddidit: Si non sufficiat sibi apostolicam satis laesisse dotem, secundo veniat et tot loricatos vel plus se hic inventurum pro certo sciat. Homo cogitat et loquitur, Deus iudicat, quem suppliciter quisque fidelis oret, ut talem plagam misericorditer amoveat et necessariam optatae pacis securitatem pius indulgeat » (2). Thietmarus, naturalmente, non poteva far altro che raccogliere e ripetere le notizie che correvano in Germania. Non è dunque da recar meraviglia se alcune delle particolarità da lui descritte non hanno fondamento nel vero. Ma però nel suo racconto un fondo di verità c’ è; e se si piglia a raffrontare insieme ciò che scrivono i cronisti arabi e ciò che scrivono i cronisti pisani verrà fatto di chiarirla pienamente. Rifacciamoci da5 cronisti arabi. Ibn-al-Atir, dopo aver detto che Mugahid assalì la Sardegna, uccise Malut condottiero dei Sardi e trasse in cattività le donne e i bambini, prosegue: « il che risaputo dai re dei Rum, si unirono contro di lui, e movendo dalla gran terra [l’Italia] con possente esercito alla volta di Sardegna, vennero alle mani coi musulmani; e questi furono rotti e cacciati dall’isola; prese alcune delle lor navi e fatti prigioni un fratello di M11-gahid e il suo figlio Alì-Ibn-Mugahid. I rimanenti se ne tornai ono in Denia. Non accaddero dopo ciò altre scorrerie in (2) Thietmari, Chronicon ; in Monumenta Germaniae historica. Scriptores; voi. Ili, pag. 850. GIORNALE LIGUSTICO I4I Sardegna » (χ). Ibn-Haldun n’ esce con dire: « Avea Mugahid portata la guerra in Sardegna, soggiogata quell’ isola e cacciatone i cristiani; i quali fecero prigione il suo figliuolo, che dopo alcun tempo fu da lui riscattato » (2). Più ricco di particolarità è Ad-Dubbi. Dopo aver narrata la conquista dell’isola, prosegue: «alienandosi intanto da Mugahid gli animi della sua milizia, e sopravvenendo rinforzi dei Rum, egli si proponea di abbandonare la Sardegna, ansioso di tornare in Spagna e disperdere i nemici che cospiravano contro di lui, quando i Rum gli piombarono addosso e presero la più parte delle sue navi. Io tengo da Abu-al-Hasan-Nugabah-ibn-Yahya la seguente narrazione, eh’ egli avea sentito da Sarih-ibn-Muhammad-ibn-abi-Muhammad-ibn-Hazm, e questi da Abu-al-Fatuh-Tabit-ibn-Muhammad-al-Gurgani. Io mi trovai, dicea quest’ ultimo con Abu-al-Gays-Mugahid (3), nella guerra di Sardegna. Egli era entrato con le navi in un porto dell’isola contro 1’ espresso ammonimento del suo primo pilota Abu-Harub, quand’ ecco levarsi un vento che ad una ad una gettò le nostre navi a terra; dove i Rum non aveano altra briga che di pigliare i nostri e ammazzarli. Ad ogni nave che si vedea cader nelle loro mani, Mugahid rompeva in altissimo pianto; non potendo nè egli, né altro uomo al mondo dare aiuto ai musulmani in quel furor del mare e dei venti. Allora Abu-Harub ci si fece incontro recitando questo verso: Piange Γ animale, ma io non gli dirò: Dio ti consoli; no, che questo animale piange per dappocaggine. E continuava Abu-Harub: Io Vavvertii bene di non ficcarsi qui; ma non mi die’ retta » (4). (1) Ibn-al-Atir, Kamil·, in Amari, Biblioteca arabo-sicula, pag. 92. (2) Ibn-Haldun, Storia universale, edizione del Cairo, vol. IV, pag. 164. (3) Abu-al-Gays è un soprannome che prese Mugahid e significa padre dell’esercito. Ebbe anche quello di muwaffaq, cioè: favorito da Dio. (4) Ad-Dubbi, Bugiai al Mugtabis; in Amari, Biblioteca cit., pag. 11 i,nota 4. 142 GIORNALE LIGUSTICO Bernardo Marangone, che nel 1150 fu ambasciator de’ Pisani a papa Eugenio III, e narrò i fatti di Pisa da’ principii della città fin presso al 1175, tace affatto dell’intromissione del pontefice; le armi de’ Pisani e de’ Genovesi, a suo dire, furon quelle che combatterono e vinsero Mugietto (così lo chiama) e lo combatterono e lo vinsero in due fatti d’ armi distinti, uno seguito nel 1015, uno nel 1016 (1). Il Chronicon Pisanum sui fragmentum auctoris incerti ricopia alla lettera ciò che scrive il Marangone (2). Gli Annales rerum Pisanorum ab anno $ητ usque ad annum 1176 si limitano a raccontare, che nel 1015 «Pisani et Januenses devicerunt Sardiniam», e che nel 1016 « rex Mugettus et Saraceni revicerunt Sardiniam; et eodem anno Pisani et Januenses recuperaverunt eatn » (3). Lorenzo Vernese, diacono dell’arcivescovo Pietro, che resse la Chiesa di Pisa dal 1104 al 1119 (4), a' soli Pisani dà il merito della vittoria, e sdegna pur rammentare i Genovesi, e tace dell’ opera che vi ebbe papa Benedetto Vili. Anche per lui son due le spedizioni fatte contro Mugahid. Nella prima, costui, alla vista del naviglio di Pisa, prende la fuga; torna a fuggir l’anno dopo e lascia in mano a’cristiani il figlio e la moglie prigioni. E il Vernese è testimonio autorevole; ciò che racconta l’ha udito da’vecchi: « docuere senex quaecumque retexo » (5). (1) Marangonis, Vetus chronicon Pisanum; in Archivio storico italiano, vol. VI, part. II, pag. 4. (2) Chronicon Pisanum,seu fragmentum auctoris incerti al· anno DCLXXXVIII usque ad annum mcxxxvi, ex vetusto codice manuscripto pergamene Benedicti Leoli; in Muratori, Rerum Halicarum scriptores, VI, 107. (3) Annales rerum pisanorum ab anno Christi dcccclxxi usque ad annum mclxxvi excripti ex veteri codice ms. viri clarissimi Caroli Stro^ae Thomae filii pairitii fiorentini; in Ughelli, Italia sacra [Romae, 1647]; 863. (4) Matthaei, Ecclesiae Pisanae historia ; I, 198 e 205. (5) Laurentii Vernensis, Petri, secundi archiepiscopi pisani, diaconi, GIORNALE LIGUSTICO III. Coll’ avvicendarsi degli anni le gesta di Mugahid, dal campo dei fatti, a mano a mano entrarono in quello della leggenda, e si formarono due leggende, la leggenda pisana e la leggenda genovese. Della leggenda pisana se ne trova un primo accenno nel Chronicon breve Pisanum ab anno 1004 usque ad annum 1178 (1). Sotto il 1017 secondo lo stile di Pisa, che corrisponde all’anno 1016 dell’èra volgare, si legge: « Venerabilis Benedictus papa, una cum universo clericatu et senatu, legatum Ostiensem episcopum ad civitatem Pisanam misit ut Mugettum regem de Sardinia expelleret. Romana sedes totam Sardiniam cum privilegio et vexillo sancti Petri Pisane civitati firmavit. Qua propter consules una cum episcopo Lamberto cum concordia populi ad invicem concordaverunt et facere promiserunt et vexillum sancti Petri cum privilegio ceperunt ». Ranieri Sardo, vissuto verso la fine del secolo XIV, che raccontò le vicende di Pisa dal 962 al 1400, non fa che ricopiare la narrazione dell’ignoto autore del Chronicon breve, e solo lo corregge nella cronologia, ponendo il fatto sotto «il millediecisette », ossia 1016. Ecco le sue parole: « nel tempo di messer Lamberto, vescovo di Pisa, lo papa colla sua chiericia mandoe a Pisa a predicare la croce in Sardigna contro li Saracini lo cardinale d’Ostia. Al quale lo vescovo e Ί Comune di Pisa s’ obbligonno di fare lo passaggio ; e rice-vettono lo gonfalone vermiglio, quasi dicesse loro: va e ven- rerum in Majorica Pisanorum ac de eorum triumpho Pisis habito anno salutis mcxiv et mcxv libri septem; in Muratori, Rerum italicarum scriptores; VI, 124-125. (1) Chronicon breve Pisanum ab anno Miv usque ad annum mclxxviii ex veteri codice; in Ughelli, Italia sacra [Romae, 1647], III, 884. τ44 GIORNALE LIGUSTICO dica la morte di Cristo. E fu loro brevilegiata la Sardigna, e passornovi e feciono grande danno » (i). Il Chronicon breve torna a parlare di Mugahid sotto l’anno 1020 (1019 dello stile comune). « Mugettus » (così scrive) « recepit castrum Joannis, quod sub Mediolanensi episcopatu erat. Et in alio anno Mugettus in Sardiniam est reversus. Et Pisani iterum cum Januensibus fugaverunt eum; et thesaurum, quem secum tulerat, habuerunt et totum Januensibus concesserunt, aliter vero venire noluerunt ». La conquista del « castrum Joannis » è taciuta dal Sardo, che dice : « anno Domini milleventiuno » (1020 dell’ èra comune) « lo re Mugetto fece suo isforso e venne in Sardigna e prese la corona del re e caccionne li Pisani che v’ erano. La Sardigna ritornò alli Pisani, anno sopra-scripto ». Di più soggiunge: «anno milleventiuno li Pisani fecero compagnia colli Genovesi a conquistare la Sardigna, e passonno in Sardigna, e per forza la preseno e miseno a rubba; e di piana concordia alli Genovesi rimase lo tezoro e alli Pisani la terra». L’ultimo accenno a Mugahid che si trova nel Chronicon breve è del 1050 (ossia 1049). « Mugettus rex » (così F anonimo) « cum magnu exercitu reversus est in Sardiniam et edificavit civitates et coronatus est ibi. Pisani vero una cum vexillo sancti Petri accepto, invaserunt regem et ceperunt illum et totam terram, et coronam Romano imperatori dederunt, et Pisa luit firmata de tota Sardinia a Romana sede ». Anche il Sardo, sotto il 1050 — alla pisana — afferma che « lo re Mugetto con suo isforzo prese la Sardigna e fecevi città e castella e molte fortezze», e «con volontà di Santa Chiesa, che le la brevilegiò, da capo li Pisani con loro isforzo e con loro navilii entronno in mare (1) Sardo, Cronaca pisana dall'anno 962 sino al 1400; nell’ Archivio storico italiano, toni VI, part. Il, pp. 76-77. GIORNALE LIGUSTICO 145 per passare in Sardigna e la fortuna li portò in Corsica. E dimorando quine per lo tempo contrario, lo re Mugetto, sentendo la loro venuta, arse tutta la Sardigna e poi si parti e andossene in Barbaria; e li Pisani presono allora tutta Pisola di Corsica, e poi la dienno al Vescovo, e poi ricoveronno la Sardigna e fecenovi grandi fortesse ». Il Chronicon Pisanum seu fragmentum auctoris incerti e con lui, e dietro lui, gli altri vecchi cronisti raccontano che nel 1004 «fuit capta Pisa a Saracenis» e che il ioii « stolus Saracenorum de Hispania venit Pisam et destruxit eam » (i). Ecco che il Sardo tira fuori Mugahid anche nella prima di quelle due imprese, e asserisce a faccia tosta, che nel « mil-lesei » (1005 dell’èra volgare) «la gente saracina dello re Mugetto, la quale tenia la Sardigna, vennero a Pisa e pre-senola, e le gente fuggitteno alli monti; li Toscani chi più potette più rubbò lo contado di Pisa ». Della seconda impresa ne fa parimente autore Mugahid, ma la vuole avvenuta non il ioii, bensì il 1028, ossia il 1029. « Lo detto re Mugetto » (son sue parole) « colli Saracini di Barbaria, essendo li pisani iti per mare per ricoverare la Sardigna, venneno a Pisa e arsenla ». Il 1030 (1029 dello stile comune) tira dì nuovo in ballo Mugahid. «Li Pisani », scrive, « preseno la città di Cartagine di Barbaria e lo re Mugetto e lo menomo a Roma, e fu fatto cristiano dal Papa, e fu coronato re di Cartagine; della quale città si fece poi Tunisi». All’infuori del battesimo, tutte queste fandonie vennero accolte a occhi chiusi dagli annalisti posteriori di Pisa, e per convincersene basta sfogliare il Taioli, il Rondoni e il Tronci. Della leggenda pisana intorno a Mugahid si fa eco anche (1) Chronicon Pisanum seu fragmentum auctoris incerti al· anno dclxxxviii usque ad annum mcxxxvi ex vetusto codice manuscripto pergamene Benedicti Leolii pisani; in Muratori, Rer. it. script. VI, 107. Giorn. Ligustico. Anno XX. io 146 una cronaca, fino a qui inedita, che si conserva nell'Archivio di Lucca; nella qual cronaca, che è di scrittura del secolo XIV, meno le ultime ventidue carte, che son di mano d’un cinquecentista, si alterna il racconto delle vicende di Pisa con quelle di tutto il mondo; lavoro quasi affatto ignoto agli eruditi (1) e meritevole senza dubbio d'esser fatto soggetto d’ uno studio particolare. Di Mugahid ne tocca per la prima volta sotto l’anno 1020, ossia 1021 alla pisana. « Nelli anni MXXI » (così l’anonimo cronista) « lo re Mugietto con grande armata ritornò in Sardigna e grande parte de lizula acquistata, li pisani facto ligha colli gienovezi, a richiesta della santa Ciesa, con grande armata pazzonno in Sardigna. Lo re Mugetto vedendo di non potere stare a difesa, prese partito segretamente, e molti arnesi vi lassò per non aver tempo, nè modo a poterli portare, de bono pacti i Genovesi co’ Pisani , che a’ gienovesi tocchasse li arnesi e ’l tezoro e alli pisani le terre. E nelli anni MXXII, essendo ditte armate pure ancho in Sardigna, e venuti all’ izula di Borano (sic), dov’ à molti porti, li gienovezi apensatamente assaglirono li pisani, che a battaglia non s’erano provveduti, donde fu grande la battaglia e con morte di molta giente, ma per la gratia de 1’ altissimo deo li pisani contra di loro ebeno vittoria e di tutta Pizula possa li cacciarono ». Torna a parlarne sotto li 1024 dello stile comune, con dire: « Nel MXXV sentendo li Pisani fanoci (sic) grande armata faciea lo re Mugetto e temendo che lui non venisse in Sardigna, subitamente feno armata e presto mandonno in Sardigna per quine aspettarlo. Lo ditto re Mugetto sentendo che Pisani erano iti in Sardigna con armata, prese lo re nuovo partito di venirne a Pisa e di trovarre la terra , e (1) Ctr. Bongi, Inventario del R. Archivio di Stato in Lucca; IV, 326 e seg. *47 provveduto, et venendo la trovò sprovveduta, improvvizo smontato in terra, la terra che non era murata cioè lo quinto della terra abruziò et rubbò et tornosene di subito in Barbaria». L ultima comparsa di Mugahid in questa cronaca è all anno 1049. (( Nelli anni ML Arrigho Sighondo et Papa Chimente Sicondo overo papa Leo IX lo re Mugetto ritornò in Sardigna con grande armata et aquistò la magior parte dell izula. E hedificovi molte fortesse et bastie. Li pisani a richiesta del santo padre et della Chieza romana et del ditto imperatore con loro brevilegio feno grande passagio d’armata colla crocie segnati. Et per contrari venti corseno in Chorsicha, et quine più et più giorni stando per tempo, preseno una parte dell’izula. E ritornato il tempo si misseno in mare a loro camino et arrivati in dell’izula di Sardigna in battaglia furono collo re Muggetto et quello rocto...... lo re morto et tutta l’izula racquistonno, e di nuovo li Pisani fattovi alcune fortesse et ritornati a Pisa, la corona del re Mugetto allo imperadore consegnata et data, et dal papa et dallo imperadore fue detta izula a pisani in feldo a pisani, et posonsi alcuno anno » (1). Anche i commentatori di Dante sfruttaron quella leggenda, anzi ebber mano a ingrandirla. Benvenuto da Imola scrive: « ohm Januenses et Pisani, duo potentissimi populi in mari, confoederati inter se magna classe recuperaverunt insulam Sardiniam de manibus Barbarorum infidelium Africae. Insula recuperata convenerunt inter se, quod Januenses avidi praedae asportarent quicquid praedae esset super terram, Pisani vero haberent solum nudum. Quo facto, Pisani, reparata et reformata insula, diviserunt eam in quatuor partes, quos appellaverunt Judicatus. Et constituerunt quatuor rectores, quos (1) Libreria del R. Archivio di Stalo in Lucca, codice n. 54, c. 20 t., 21 t. e 22. i4§ GIORNALE LIGUSTICO appellaverunt Judices ». Venuto poi a descrivere i quattro Giudicati e arrivato a quello di Gallura, lo dice: « sic vocatus a Comitibus Pisanis, quibus datus fuit iste Judicatus, qui portant gallum pro armatura » (i). Nel commento di Francesco ua Buti (n. 1324 φ 1406) si legge: « è da sapere che Pisola di Sardigna anticamente fu dell’infedeli e fu acquistata per li Pisani e per li Genovesi nelli anni Domini MXVI e ridotta alla fede catolica, e nel MXII fu racquistata dal re Musetto e da’ Saracini; e quel medesimo anno ancora da’ Pisani e Genovesi racquistata; et ordinati furono in essa quattro Giudicati, cioè quel di Gallura e quello d’Alborea e quello di Logodoro ovvero delle Torri e quello di Calieri. Et in ciascuno di questi era uno signore e governatore, che si chiamava Giudice » (2). Della leggenda genovese è da trovarsi la prima radice nelle contese che, appunto per cagione del possesso della Sardegna, si accesero tra Genova e Pisa il 1164; e chi se ne fa eco è Oberto cancelliere, il prosecutore di Caffaro (3); Avendo gli ambasciatori di Pisa affermato dinanzi a Federico Barbarossa che la Sardegna era di proprietà loro : « Sardinia nostra est »; i Genovesi « in piena curia » risposero: « illud, domine imperator, quod Pisani dicunt falsissimum est.... quia non suam, immo nostram, firmando et probando dicimus. Quoniam verum est, quod ab antiquo armis et vi subiugavimus illam, et in iudicatu Calarensi fuerunt parentes et antecessores nostri cum exercitu, et subiugaverunt illud iudicatum, et regem no- (1) Excerpta historica ex commentariis mss. Benvenuti de Imola in Compediam Dantis ah eo circiter annum mccclxxvi compositis et in Estensi Bibliotheca adservatis; in Muratori, Antiquitates Italicae medii aevi; I, 1089. (2) Da Buti, Commento sopra la Divina Commedia; I, 550. (3) Annali genovesi di Caffaro e de’ suoi continuatori dal mxcix al mccxciii; nuova edizione a cura di Luigi Tommaso Belgrano; I, 161. GIORNALE LIGUSTICO I49 mine Musaitum ceperunt et omnia sua, duxeruntque eum in civitatem nostram tamquam captum ostem. Et consules episcopum , qui tunc Janue erat, mandaverunt ad imperatorem Alamaniae ducentem secum predictum regem Musaitum, ut princeps Romanus cognosceret regnum istius regis esse nuper aditum et adiunctum dicioni et potestati Romani imperii per tideles et homines suos januenses ». IV. £ fuor d’ ogni dubbio che due soltanto furono le spedizioni di Mugahid contro la Sardegna, riuscite tutte e due disastrose per lui, quella del 1015 e quella dal 1016. Prima del 1015, come ne fanno la più larga testimonianza i cronisti musulmani, Mugahid non pose niai il piede in quell’isola; né tornò a rimettercelo dopo la sconfitta del 1016. Racconta infatti Ibn-al-Atir, che essendo piombati addosso a lui « i Franchi e i Rum, lo scacciarono dalla Sardegna, ond’egli fece ritorno in Spagna ». Aggiunge poi che essendo morto « in questo mezzo » Al-Mu’iti, si tuffò Al-Mugahid « nelle guerre civili della Spagna e vi si travagliò finch’ ei visse » (1). Si apprende dall’ altro cronista Ibn-Haldun, che Mugahid « prepose in Maiorca in sostituzione al figliuolo del suo fratello, il suo liberto Al-Aglab, e ciò fu l’anno ventotto » [25 ottobre 1036 - 13 ottobre 1037], e che poi « si avvicendarono continuamente le guerre tra Mugahid, Hayran principe di Murcia e Ibn-Abì-Amun principe di Valenza, fino a che Mugahid venne a morte l’anno trentasei » [29 luglio 1044- ^ luglio 1045] (2). Che papa Benedetto VIII s’intromettesse nel far cacciare (1) Ibn-al-Atir, Kamil at tawarih [Cronaca compiuta]; in Amari, Biblioteca arabo-sicula, pag. 111-112. (2) Ibn-Haldun, Storia universale (edizione del Cairo); vol. IV, p. 164. 150 GIORNALE LIGUSTICO via fylugahid dalla Sardegna, come afferma il contemporaneo Thietmarus, è un fatto che gli storici si accordano nell’ammettere e riconoscere, a cominciare dal Baronio a venire al Muratori, al Gazzano, al Manno, al Wenrich, al Martini, al Dove, all’ Amari e al Guglielmotti. Anzi il Manno asserisce che Benedetto fu a ciò stimolato dalle preci che « a tal uopo gli si faceano con patria carità da Ilario Cao, nobile sardo », il quale dimorava a Roma col figlio Costantino e col nipote Anastasio (i); e cita la iscrizione che, a ricordo di Anastasio suo padre, dello zio Ilario e del cugino Costantino, murò a Roma nella chiesa di S. Crisonogo il cardinale Benedetto Cao 1’ anno 1068, nella quale appunto si legge: ilari precibvs Sardiniam jj a saracenis || papa liberari cvravit (2). La parte però avuta dal Papa nell’ impresa è stata di soverchio ingrandita, soprattutto dal Muratori. Facendosi eco di ciò che racconta il vescovo di Merseburg, asserisce che Benedetto « non perdè tempo a mettere in armi quanti popoli potè per terra e per mare, e che spedì un’ armata navale davanti a Luni, affinchè quegl’infedeli non potessero scappare coi loro legni »: e della spedizione contro Mugahid dell’’anno 1015, che vuole invece avvenuta nel 1016, ne fa solo artefice il Papa; e sostiene che soltanto nell’anno seguente « i Pisani e Genovesi andarono in Sardegna »; e appunto nel 1017 mette l’invio del vescovo d’ Ostia a Pisa « per animare quel popolo a cacciar fuori di Sardegna Mugetto » e soggiunge che il pontefice « lo stesso probabilmente fece a Genova » (3). Il (1) Manno, Storia della Sardegna (edizione di Capolago); I, 375. (2) Cfr. Tola, Dizionario biografico dei Sardi illustri; I, 169 e segg. Il Manno (Op. cit. I, 376) dice che questa iscrizione « fu rinnovata nel 1501 da un altro distinto personaggio della stessa famiglia, chiamato rrancesco, uno dei camerieri segreti di Alessandro VI ». (3) Muratori, Annali d’Italia (edizione di Monaco); VI, 54-55 e 56-57. giornale ligustico Rohrbacher, dal canto suo, asserisce che Benedetto « assembrò i vescovi tutti quanti e i difensori delle chiese ed ingiunse loro di muover seco ad assalire il nemico, sperando, col divino aiuto di metterlo a morte » (i). Il Gregorovius non si perita a dire: « egli stesso in persona guidava un esercito contro gli infedeli » (2). La verità nuda è, che Mughaid durante F impresa di Sardegna, fece una scorreria sulle coste d’Italia, tra Genova e Pisa, approdando a Luni, che saccheggiò; poi se ne ritrasse (3); scorreria non avvenuta il ioió, al tempo cioè della seconda conquista della Sardegna, come pretende il Guglielmotti (4); ma il 1015, « prima 0 dopo la vittoria sopra Malot », e « piuttosto prima che dopo », secondo che opina l’Amari (5). E che avvenisse prima, lo prova la importanza grandissima che gli dà Thiemarus, che tace affatto della conquista della Sardegna e restringe il fatto a Luni. Le prime novelle rorse in Germania e arrivate a’ suoi orecchi dovettero assere unicamente di Luni. Appunto a questo si deve se a Luni soltanto ha rannodato il racconto; non al trattarsi di « un insulto sopra una città imperiale», come crede 1’Amari, che altra ragione non sa darne, ed è ragione debole, a parer mio. Del resto, la scorreria su Luni, e più che questa scorreria, 1’ essersi Mugahid annidato nella vicina Sardegna, dalla quale (1) Rohrbacher, Storia universale della Chiesa (edizione torinese del Marietti); VII, 311. (2) Gregorovius, Storia della città di Roma nel medio evo (traduzione del Manzato); IV, 31. (3) Emilio Ferrari di Castelnovo di Magra fece soggetto di un romanzo questa scorreria di Mugahid su Luni. Cfr. Il Vescovo ed il Saraceno, racconto storico di Emilio Ferrari, Sarzana, dalla tipografia di Cosimo Fre-diani, 1864; in 12.° di pp. 36. (4) Guglielmotti, Storia della marina pontificia nel medio evo; I, 209. (5) Amari, Storia dei Musulmani in Sicilia; III, 9. I52 GIORNALE LIGUSTICO poteva a piacer suo piombare sulle nostre coste dalle foci del Varo a quelle del Tevere, dovette impensierire papa Benedetto, e con lui, e al pari di lui, le due città di Genova e Pisa; allora soggette tuttavia al dominio marchionale e per conseguenza non anche libere, ma già poderose in mare e prospere ne’ commerci; a cui il soggiorno di Mugahid nella Sardegna, naturalmente, oltre essere un pruno negli occhi, era un continuo pericolo e una continua minaccia. Il papa non ebbe dunque a durar molta fatica a tirarle nell’ impresa; la quale, come osserva col suo acume l’Amari, « stava tutta nella forza, interesse e volontà dei Pisani e dei Genovesi » (i). Fu il naviglio delle due potenti città che per due volte combattè e vinse Mugahid; è opera loro, non del papa, se venne per sempre scacciato dall’isola; il papa non si mosse da Roma, non si mise a capo dell’armata, nè fece il guerriero; torse vagheggiò per il primo quella levata d’àrmi; ebbe certo parte principalissima perchè si effettuasse; ed è merito grande. Si deve pure considerare come una favola 1’ aver Benedetto conceduto per privilegio il possesso della Sardegna a’ Pisani. Il testo di questo privilegio, e quello della bolla, con cui si pretende che papa Leone IX l’abbia, il 1050, confermato e rinnovato, non è mai stato prodotto da alcuno; non fu allegato nelle contese che tra Genova e Pisa si agitarono per il possesso della Sardegna dinanzi al Barbarossa nel 1164, ne tacciono il Marangone e gli altri più antichi scrittori delle cose di Pisa. Il primo a farne parola è il Chronicon breve, tonte non solo sospetta, come la ritenevono il Lami e il Muratori, ma addirittura fallace; e ne fa parola accompagnando il racconto con una serie di particolarità che in nessun modo reggono in faccia alla critica; l’avere cioè il vescovo d’Ostia, (1) Amari, Op. cit. Ili, 8. GIORNALE LIGUSTICO I53 legato del papa, fatto a’ Consoli di Pisa e a Lamberto, vescovo di essa città, la consegna del vessillo di S. Pietro. In quel tempo [1015-1016] a Pisa non vi erano anche i Consoli. Si trovano adombrati, ma senza nominarli, ne’ patti che Enrico IV strinse co’ Pisani il 1080; sono ricordati per la prima volta, facendone speciale menzione, in una carta del I094 C1)· Nè in quel giro d’anni reggeva la Chiesa di Pisa Lamberto, che non è mai esistito. N’ era invece vescovo Azzone I; e che ne fu vescovo dal 1015 al 1031 lo dimostrano il Grandi (2) e il Mattei (3) co’ documenti alla mano. Parimente è il Chronicon breve che per il primo racconta, che le due città nell’accingersi all’impresa, fermassero il patto che a’ Genovesi toccasse il bottino, a’ Pisani le terre da conquistarsi. « Genuenses et Pisani annales inter se differunt », scrìve Oberto Foglietta, « nam Musactum captum et ad Caesarem a Genuensibus adductum (4) Pisani prorsus comprimunt; quoque de partitione insulae et spoliorum a Pisanis traditur, eius rei nulla est apud Genuenses mentio. Porro parum verisimile est Genuenses parte infinito intervallo inferiore contentos fuisse: neque in tot contentionibus de iure imperii in ea insula coram Caesare saepe iactatis, Pisani hanc divisionem hac convenuta umquam proposuerunt, quibus ipsorum caussa tantopere iuvari potuisset » (5). Certo, se questo (1) Muratori, Antiquitates italicae medii aevi; III, 20 e segg., IV, 1009-1010. (2) Grandi, Epistola de Pandectis; p. 121. (3) Matthei, Ecclesiae Pisanae historia; I, 161 e seg. (4) A me nasce il dubbio che il figlio di Mugahid, che di fatti restò prigioniero e che poi fu riscattato, venisse dai Genovesi consegnato al-Γ Imperatore e che da questa consegna tragga origine la fola che Mu-orahid fu dato nelle mani di Cesare. (5) Folietae, Historiae Genuensium libri XII, Genuae, 1585, c. 13 t. *54 GIORNALE LIGUSTICO patto tosse esistito , Γ occasione per metterlo fuori e farcisi torte era quella delle contese agitate dinanzi alla curia del-Γ imperator Federico I; e il non averlo accampato, è una prova evidente che questo patto non c’ era. I Pisani, sulla facciata della lor cattedrale, insigne monumento d’arte, che è ormai fuor di dubbio, che per tutto il corso dell’ XI secolo non ebbe il suo compimento, vollero con una serie d’iscrizioni ricordate le proprie geste. Non manca quella che rammenta le vittorie contro Mugahid; scolpita, come F altre, a in rozzi e abbreviati caratteri» (i). È questa : HIC MAIORA TIBI POST HEC URBS CLARA DEDISTI VIRIb[«5] EXIMIIS CU [ni] SUP[/r]ATA TUIS GENS SARACENORuj/»] PERIIT SINE LAUDE SUORU[ni] HINC TIBI SARDINIA DEBITA SE [m] PER ERIT ANNI d[lW«]nI Μ. XXXIII. La cronologia sbagliata la mostra posteriore e d’assai al-1’ avvenimento. Suona però meno superbamente del verso con cui Lorenzo Vernese, il cantore della conquista di Maiorca, chiude P episodio di Mugahid: « Erepti Sardi iugulis, tutique fuerunt » Indeque tota manent Pisanis subdita regno. II Marangone invece si limita a dire che dopo la sconfitta del Saraceno «Pisani vero et Januenses re versi sunt Turrim, in quo insurrexerunt Januenses et Pisanos, et Pisani vicerunt illos et eiecerunt eos de Sardinea » (2). I Pisani volevano (1) Da Morrona, Pisa illustrata nelle arti del disegno (seconda edizione); J, 155- (2) Nel Breviarium Pisanae historiae, come lo chiama il Muratori (Rer. ital. script. VI, 167), non compilato dal canonico Michele da Vico, giornale ligustico *55 la parte del leone, e mal tollerandolo i Genovesi, vennero alle mani e questi ultimi ebbero la peggio. I Pisani non re-staron pero padroni dell’isola. A ragione scrive il Dove: « Itaque ut paucis dicam, bellis Museticis feliciter gestis opportunas Pisani nacti sunt in Sardinia navium stationes libe-ramque latius in dies mercaturas faciendi facultatem » (i). A ragione ripete Γ Amari: « i mercanti di Pisa cominciarono a esercitare in Sardegna una clientela su quei giudici o regoli bisognosi di lor denaro e di lor forze navali; tennero fattorie, forse usurparono privilegi commerciali; nelle quali brighe ebbero sempre a gareggiare coi mercanti genovesi » (2). Se i pontefici Benedetto Vili e Leone IX avesser donato la Sardegna aJ Pisani, e se i Pisani ne fossero di fatto stati i padroni, Gregorio VII si sarebbe rivolto a loro, non già a quattro Giudici di Arborea, di Cagliari, di Torres e di Gallura, quando nel 1073 2^z'° v°ce per lamentare intiepidita « quella carità che negli antichi tempi era sempre stata tra’ Sardi e i pontefici », confessando, non senza dolore, che quegli isolani « erano ormai divenuti più stranieri di Roma, che gli abitanti degli estremi confini della terra » (3). Si ri- come par supponga il Bonaini, ma semplicemente da lui finito di copiare il 10 agosto 1371 (1370 s. c.), accozzaglia di più e diversi brani di cronache, con interpolazioni, si legge: «Pisani et Januenses cura in Turritano » Judicatu essent, Januenses voluerunt Pisanos de Sardinea expellere et » sibi eam retinere, sed quamvis ipsi bello incoeperint tamen devicti a » Pisanis fuerunt, ita quod Pisani de tota Sardinea Januenses expule-» runt ». Una copia del Breviarium Pisanae historiae, fatta nel secolo XVI da Francesco Del Fiorentino, si conserva nell’Archivio di Stato in Lucca. Cfr. Bongi, Inventario del R. Archivio di Stato in Lucca·, IV, 325-326. (1) Dove A. De Sardinia insula contentioni inter Pontifices Romanos atque Imperatores materiam praebente Corsicanae quoque historiae ratione adhibita. Berolini, apud E. S. Mittlerum et filium, 1866; p. 74. (2) Amari, Op. cit., III, 10. (3) Manno, Storia di Sardegna; I, 389. GIORNALE LIGUSTICO volse a’ Giudici , perchè il comando dell’ isola stava nelle mani loro. Quello di Cagliari nel 1103 donò a’ Pisani: « teloneum de hyberno et de estate et de sale, ita ut populus pisanus sit amicus sibi et regno suo »; fece ad essi, di li a poco, una nuova donazione «ut populus pisanus sit amicus mihi et in regno meo et non offendant regnum meum studiose ». Un altro de’ Giudici liberò « nobilissimos et pru-dentissimos cives pisanos ab omni tributo seu tolineo, quod usque hodie pisani ipsi seu antecessoribus eius dare soliti erant, ut semper cives Pisani sint liberi atque immunes ab omni dacito atque tributo » (1). E dall’ impresa fatta in comune contro Mugahid che trae la sua origine 1’ odio feroce che si accese tra Genova e Pisa, d’ allora in poi sempre in guerra tra loro; odio che doveva soltanto aver fine di li a dugento sessantotto anni; ma nel-1’ acque della Meloria e collo sterminio di Pisa. Massa, 4 marzo 1893. Giovanni Sforza. SPIGOLATURE E NOTIZIE Negli Atti (Proceedings) della Regia Società Geografica di Londra, il segretario nel ministero delle Indie, Clements R. Maekham ha pubblicato una nuova ed importante biografia di Cristoforo Colombo con la guida delle più accurate ricerche. Dimostra che la prima terra ritrovata è 1’ o-dierna isola Watling detta S. Salvador, ed espone le induzioni onde fu condotto Colombo alle successive scoperte, dichiarandosi contrario alle pretese del Vespucci. * * * Ferdinando Carbonero ha pubblicato un libro di documenti intorno a Cristoforo Colombo. Fra le altre cose curiose, rileva che il venerdì, ritenuto come giorno di malaugurio , fu invece ben spesso propizio al gran navigatore. (1) Tola, Codice diplomatico di Sardegna; I. GIORNALE LIGUSTICO *57 * * * In occasione del quarto centenario della scoperta dell’ America, la Società storica del Maine (Stati Uniti d’ America) ha pubblicato un notevole fascicolo, tutto dedicato al famosissimo avvenimento: Maine Historical Society. Columbus Day; Portland. Me. 20 october 1892. Apre il fascicolo un vigoroso ed elevato canto (Columbus) dell’ esimia scrittrice Mrs. Elisa-bella Cavala, tanto benemerita della diffusione della cultura italiana nell’America del Nord; e seguono importanti articoli di /. Pbinny Baxter (« Three suggestive Maps»), di B. L. Whitman (« A memorable Voyage»), di G. F. Talbot ( « The Character of Columbus » ), di H. L. Burraie (« Some of thè Portraits of Columbus »), di /. Williamson («Where was Columbus buried?») e di H. L. Cbapman (« joel Barlow and thè Colum-biad »). Adornano la bella pubblicazione commemorativa due zincotlpie, che riproducono i due celebri ritratti di Colombo, quello del Yanez e quello della Galleria Medicea (Dalla Cultura). BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Della vita e delle opere di Cennino Cennini da Colle di Val d’ Elsa. Discorso del Prop. Ugo Nomi Venerosi Pesciolini. Siena, tip. S. Bernardino, 1892. L’autore ha recitato questo discorso per la distribuzione dei premi agli alunni del Seminario-Collegio di Colle di Val d’ Elsa, e in luogo di ciancie o di ampollose vacuità, ha benissimo scelto un argomento locale che poteva riuscire utile ai giovani e degno della solennità. Nel discorrere del Cennini egli si mostra pienamente informato di quanto è stato detto e scritto intorno a lui in Italia e fuori, onde la sua trattazione riesce compiuta in ogni sua parte, sempre però ne’ limiti voluti dalla opportunità. Poiché lasciando stare tutto quanto ha tratto alla erudizione, ai riscontri, alle opinioni ed alle controversie, di che tuttavia si tocca sobriamente ne! testo, ci dà le più certe e sicure notizie sulla vita e sulle opere del pittore e dello scrittore, illustrando le sue affermazioni con importanti note storiche, letterarie e bibliografiche, nulla omettendo di ciò che al suo argomento si riferisce. Così riesce al fine propostosi, espresso da lui in questa sentenza : « Io mi propongo di dirvi alcun che della sua vita e delle sue opere (del Cennini), ponendo innanzi notizie di studi recenti di più valentuomini ed alcune novissime, GIORNALE LIGUSTICO desiderando assai che il nome di un vostro concittadino cosi illustre e benemerito, nelle istorie vostre appena accennato, meglio si conosca oggidì e si apprezzi, a decoro di quel luogo che gli diede i natali ». Undici lettere di Gioachino Rossini aggiuntovi un brano di musica inedita e alcuni appunti sparsi sulla musica Rossiniana in Siena. Per cura di Alessandro Allmayer. Siena tip. S. Bernardino, 1892. L’accademia dei Rozzi di Siena, volle festeggiare il centenario del grande Maestro dando incarico aH’Allmayer di apprestare ana pubblicazione opportuna. tgli ha raccolto queste undici lettere, esemplandole sugli autografi, dei quali ha mantenuto esattamente la gtafia. Sono curiose, quantunque non importanti, e giovano al vagheggiato epistolario Rossiniano a cui attende il Mazzatinti. Hanno dato iuogo all’editore di illustrarle con abbondanti annotazioni, nelle quali porge minutamente ragione d’ogni cosa che a queste lettere ed al loro autore si riferisce. Il cenno sulla musica del Rossini in Siena è importante per le notizie delle rappresentazioni pubbliche e private. Questo opuscolo è condotto con amore e diligenza, onde se ne può onorare l’Accademia che ebbe la inano felice nel scegliere chi poteva cosi bene interpretare il suo desiderio. De la condition des Juifs de Mantoue au seizième siècle d’apres un livre récent par Charles Dejob. Paris, 1892. (Estratto). Il genialissimo scrittore francese, che mostra tanta conoscenza e tanto interesse delle cose italiane, ha preso argomento dall’opera magistrale del D’Ancona sulle Origini del teatro italiano, per far conoscere la condizione degli Ebrei a Mantova nel cinquecento. Egli si è rifatto all’Appendice intitolata: Gli Ebrei di Mantova ed il teatro, posta dal D’Ancona a corredo della sua opera, e ne ha esposte in ben inteso quadro sintetico le notizie che vi si leggono, circondandole di opportune e savie osservazioni, le quali scaturiscono dai fatti e guidano ai giudizi. Anche il nostro giornale si è occupato due volte degli Ebrei. Due nostri eruditi collaboratori vi inserirono i loro scritti sull’argomento: il march. Marcello Staglieno discorse de Gli Ebrei in Genova (Anno 1876) e il comm. Giulio Rezasco parlò intorno al Segno degli Ebrei (Anno 1888-89). Statuto del comune di Bagnone dell’anno r/72 da un codice del secolo XVI pubblicato per la prima volta da Jacopo Bicchierai. Firenze, Bencini, 1891. È in volgare con alcuni vocaboli dialettali. Consta di sette rubriche, nelle quali sono condensati questi ordinamenti comunali comprovati per GIORNALE LIGUSTICO I59 mano del notaro e cancelliere del Capitanato, li 29 dicembre 1572. Uno statuto dello stesso comune venne compilato sedici anni innanzi, e si trova nel R. Archivio di Firenze in un volume, dove hannovi altresì gli statuti della Podesteria di Bagnone approvati nel 1491. L’editore ha esemplata la stampa sopra un manoscritto di sua proprietà, tenendo bensì a riscontro l’altro qui sopra indicato del 1556, sul quale il presente, « sebbene più ristretto e meno frazionato nei titoli, è totalmente foggiato, fino ad esserne copia letterale ». Savie e buone note danno ragione di certe disposizioni e spiegano alcuni vocaboli. I. Malaguzzi. L'archivio di stato in Modena durante il triennio 1888-89-90. Modena, Soc. Tip., 1891 (Estratto). Con questa relazione, 1 egregio direttore dell’ importante Archivio modenese, ha voluto mettere sotto gli occhi degli studiosi tutto quanto venne fatto nei tre anni sovraindicati, per 1’ ordinamento dei documenti e per l’incremento delle preziose collezioni di carte storiche. Le tavole dei concentramenti d’atti, dei doni e dei lavori d’ordinamento, eseguite con cura e diligenza, ci fanno conoscere le serie e le date di documenti nuovamente entrati, i loro riparti, 0 quelli ai quali venne dato nuovo assetto, il numero dei mazzi e dei volumi. Osservabile fra i doni, quello dd dott. Boccolari di documenti e memorie sui da Montecuccolo, c. l’altro del conte d’Espa-gnac, dell’ Archivio dell’ antica abbazia camaldolese in S. Maria di Van-gadizza, i cui atti muovono dal 954. Seguono le labelle delle comunicazioni di documenti agli studiosi; utilissime tanto per conoscere quali notizie possono essere tratte da quelle carte, come di quali argomenti fecero soggetto di ricerca gli eruditi. Il quadro statistico riassuntivo dei lavori d ufficio chiude la pubblicazione; alla quale il Malaguzzi ha premesso acconcie notizie sull archivio, sui lavori compiuti ed in corso, sui metodi, sulle modalità, con acute osservazioni rispetto alla terminologia archivistica, al personale, ed a più altre cose degne d’esser conosciute. Due lettere inedite di Fr. Ambrogio Landucci da Siena Agostiniano Vescovo di Porfirio, Sagrista del Papa Urbano Vili al dottore M. Cosimo Useppi messe in luce ed illustrate per cura del Prop. Ugo Nomi Venerosi Pesciolini. Siena, Tip. cooperativa, 1892. Sono due lettere di semplice complimento; l’una del 5 gennaio, l’altra del 20 agosto 1655· Leditoie vi ha preposto accurate notizie biografiche tanto del Landucci come dell’Useppi, e le ha fatte seguire da larghe e diligenti note illustrative, volte specialmente a rilevare le benemerenze e la fama di alcuni soggetti della famiglia Useppi. 16o GIORNALE LIGUSTICO Una tradizione su Cristoforo Colombo in Siena. Omaggio degli studenti della R. Università di Siena alla città di Genova nel IV Centenario Colombiano. Per cura di Alessandro Allmayer e Gino Ciani. Siena, Tip. S. Bernardino, 1892. La tradizione è questa: « Colombo sarebbe stato scolaro nello studio di Siena, sarebbe stato devotissimo della Vergine Maria in Portico detta di Fontegiusta, avrebbela invocata, avrebbe ad essa sciolto un voto nella spedizione d’America, e da questa ritornato, avrebbe mandato in ringraziamento alla Chiesa di Fontegiusta delle armi e delle ossa di balena a perenne ricordo della grazia ricevuta ». Si ignora a qual tempo risalga la tradizione, ma innanzi al 1726 non se ne trova menzione negli scrittori. Ne parlano, il Gigli ripetutamente, il Masetti, il Buonsignori, il Merlotti, il Bandini-Piccolomini : tutti scrittori del secolo scorso e del presente. Donde il Gigli, che primo divulgò la storiella, l’abbia presa non si sa: che sia parto della sua fervida fantasia? Certo non vi sono documenti che provino, e neanche accennino, al fatto che Colombo abbia studiato a Siena, e le congetture ingegnose degli autori di questo opuscolo non suffragono la tradizione; siccome nulla si può dire rispetto al voto, tanto più che delle ossa di balena, lo rilevano giustamente gli autori, si conosce la provenienza da un brano della storia di Sigismondo Tizio, il quale, contemporaneo di Colombo, tace affatto intorno alla tradizione soprariferita. Per noi è questo argomento di grande importanza, e conforta la data recente, e certamente fantastica, della tradizione stessa, In ogni modo hanno fatto bene gli autori a rinfrescare ed illustrare questo aneddoto colombiano, ignorato da tutti quanti scrissero del gran navigatore. La pubblicazione è condotta bene, con piena conoscenza della materia, e studio accurato delle fonti. Nouvellistes italiens a Paris en 1498 par Leon G. Pelissier. Paris, 1892 (Estratto). Dall’Archivio di Milano trae 1’editore una serie di avvisi che alcuni a-genti italiani a Parigi, scrivevano ai loro signori nel 1498. E questo un anno storicamente importante, poiché la morte inopinata di Carlo VIII fece sì che sul trono di Francia salisse Luigi XII; onde un cambiamento notevolissimo nella politica, del quale l’Italia indi a breve doveva risentire gli effetti non lieti. Naturale perciò in quel subito, il desiderio di tutti i governi, e dei signori d’alto affare, delle pubbliche faccende scrutatori solleciti, di essere informati di quanto si faceva alla corte del re, dei propositi, dei giudizi, delle previsioni. Si tratta dunque di segreti informatori, i quali con accortezza dovevano fare accurate e destre indagini per sapere e subito riferire sommariamente le notizie. Il Pelissier li ha giustamente chiamati novellisti, secondo il significato storico-politico che ha acquistato il vocabolo, in ispecie dopo gli studi sulle gazzette. Egli in una succosa avvertenza dà ragione dei documenti, della loro natura, delle cause storiche che li produssero, di coloro che gli hanno scritti, e del contenuto. Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO L’ATTIVITÀ POLITICA DI PIER CANDIDO DECEMBRIO I. Intorno agli uomini del secolo xv molto si è scritto, e più ancora si ha da scrivere in avvenire a volerne intendere pienamente i casi molteplici, P animo vario, Γ opera soverchia. Tra le altre figure merita posto cospicuo Pier Candido De-cembrio, di famiglia vigevanasca, ma nato, secondo 1’ opinione comune, in Pavia, addì 24 ottobre 1399, morto in Milano il 12 novembre 1478, del quale si hanno fin qui poche e non esatte notizie (1). Io non istarò a ridire i giudizi più o meno strampalati che ne ripeterono a sazietà critici antichi ed eruditi moderni, da’ rigori del Cortese (2), del A^ossio (3), del Voigt (4), alle lodi di Henry Estienne (5) e delPArgelati (6) e agli entusiasmi giovanilmente baldi di Attilio Butti (7). Biasimo acerbo gli toccò in vita da’ suoi nemici, che vedremo parecchi, rinomati, possenti (8), ma a riunir tutti gli elogi che gli furono indirizzati da' contemporanei non basterebbe forse un volume (9). E neanche ritesserò l’elenco interminato delle sue opere, che un epitaffio, forse men bugiardo che non usi codesta mala specie di onori postumi, fa salire, senza le volgari, a 127 (10). In tenera età, conobbe Emanuele Crisolora, maestro di greco di suo padre Uberto (11); ma la miglior scuola ebbe in famiglia, dottissimo il genitore, volti alle lettere tutti gli altri suoi fratelli, cui sempre amò di tenero affetto, come fa prova la corrispondenza con Angelo (12) ed il sincero dolore onde vibrò 1’ animo suo alla morte di Paolo Giorn. Ligustico. Anno XX. i j i62 GIORNALE LIGUSTICO Valerio (13). Alle lusinghe amorose concesse quel tantoché si confà a ciascun giovane (14), ma il suo ideale fu assai presto Γ ozio tranquillo ed agiato dell’ uomo colto, possibilmente nella quiete rusticale di qualche amena villetta (15), perocché sentì forte la dolcezza della natura e la ritrasse in pagine calde di affetto (16). Come più tardi a lui chiedevano pareri i giovani (17), non isdegnò in giovinezza richiederne altrui (18), ed a parole almeno, si mostrò sempre assai modesto (19), ancorché non tralasciasse di conservare e riunire in volume anche le lettere scritte nell’ adolescenza (20). Aveva del letterato un nobile concetto (21), e diceva di preporre ad ogni cosa la verità e la sincerità, (22), nel che, vedremo, la condotta del diplomatico non fu sempre consona a’ principi dell’ uora di studio. Dotato di arguto senso critico, mordeva raramente all’ amo delle imposture e degli errori letterari del medio evo (23), pur dilettandosi di veder altri abboccarvi, al qual fine spacciava e fabbricava egli stesso documenti apocrifi dell’ antichità (24). Entusiasta alla lettura del libro X di Quintiliano (25), mordace dinanzi al linguaggio marineresco del veneziano Francesco Barbaro ("26); rigoroso nell’ esame di alcune versioni di Leonardo Bruni (27); a volte umorista, a volte caustico fino al sarcasmo nelle polemiche letterarie e personali (28), ricercatore senza riuscirvi sempre del bello stile latino (29); il Decembrio fu ancora, come 1 a-mico suo Lorenzo Valla, cultore di studi biblici e teologici (30), e, come pochi altri umanisti, apprezzatore e cultore della poesia volgare (31), nel che sembra antivenire di un mezzo secolo all’ età sua. Non è senza interesse la severità con cui, pur riconoscendone il talento, si esprime più di una volta intorno al Petrarca (32). Giovinetto, fu a Genova presso la famiglia D’ Oria (33); onde le sue molte relazioni con Genovesi (34). Dal 1419 al '23 appare alla corte di Milano; nel '23 si trova a Fi- GIORNALE LIGUSTICO 163 renze (35); nel '25 era a Roma con Martino V, da cui ricevette impulso a scrivere (36). Assai per tempo entrò in rapporto con Gasparino Barzizza, Guarino Veronese, Francesco Barbaro e Maffeo Vegio, godè il favore e Γ intimità di Bartolomeo Capra e di Francesco Pizolpasso, arcivescovi di Milano (37), fu in assai stretta relazione con Alfonso di Santa Maria di Cartagena, vescovo di Burgos, col duca Um-fredo di Gloucester (38) e, in genere, con tutto il mondo umanistico: Lapo da Castiglionchio, Ambrogio Traversaria Leonardo Bruni, Lorenzo Valla, Poggio Bracciolini, Nicolò Nicoli, Antonio Loschi, Ogniben Scola, Giovanni Stella, Antonio da Rho, Cencio Romano, Bartolomeo da Sulmona, Nicolò da Correggio, Ugolino da Parma, Bonino Mombrizio, Gregorio Tifernate, Prospero Schiaffini, due Strozzi, il Biondo, il Tribraco e molte altre persone, con cui ci resta in gran parte la preziosa corrispondenza (39). Chi volesse ricercarne più particolarmente le tendenze — ed io spero di farlo altrove —, dovrebbe notare che fu superstizioso e credulo ne’ sogni e visioni (40); che, come uomo, gli mancò la concezione larga e serena del mondo, come scrittore, non arrivò a foggiare alcun’opera vasta per materia ed ispirito, e nelle sue biografie — le cose migliori — piegò troppo all’ imitazione, pur riuscendo con essa a colori vivi ed a ritratti efficaci, talvolta a scapito della verità (41). E troppe altre cose sarebbero ad osservare, che qui si troverebbero fuor di luogo, altrove saranno del tutto necessarie (42). II. Fra le caratteristiche del secolo XV vuol essere annoverata anche questa, che i letterati di allora non si straniavano affatto dalla vita contemporanea, assorti ognora in un malsano feticismo dell’ antichità greco-romana, ma dalla tranquillità 164 GIORNALE LIGUSTICO dello studio uscivano frequentemente a’ rumori della società in mezzo a cui vivevano, e della penna usavano a ben altri scopi che di pura rievocazione del mondo antico, storici e soldati insieme, diplomatici e poeti, eruditi e statisti (43). Come tanti altri, cosi anche il Decembrio, nominato fin dal 1419 segretario ducale di Milano, in età, come vanta egli stesso, di appena vent’ anni (44). Era 1’ anno 1424, e fiera si combatteva nel regno napoletano la guerra di Alfonso di Aragona contro Giovanna II e Luigi III d’Angiò, cui sorreggevano Filippo Maria Visconti ed il pontefice Martino V. Braccio da Montone, condottiero dell’Aragonese, stringeva di assedio la città di Aquila nel-l’Abbruzzo; traevano a soccorrerla Francesco Sforza, Miche-letto Attendolo ed altri capitani angioini sotto il comando di Giacomo Candola, e nella mischia che segui cadde ferito Braccio, morto indi a poco per non aver lasciato medicare le sue piaghe, nè voluto prendere cibo alcuno (45)· Or Filippo Maria temeva sovratutto i condottieri vincitori: la sua politica era d’ impedire che niun d’ essi fosse tanto potente da costituire un serio pericolo per lo Stato suo. Il successo dello Sforza era di natura da incutergli timore: conveniva, senza alienarselo, mostrar buone disposizioni verso i duci bracceschi, e a tal iscopo giovava una commemorazione del morto capitano. L’ incarico fu affidato al giovanetto suo segretario Pier Candido, in età allora di 25 anni non ancora compiuti (46). Egli seppe trarsene discretamente, con soddisfazione del Duca: volgendosi in forma epistolare a Feltrino Boiardo, rallegravasi della vittoria riportata, dolevasi della morte di tanto avversario, anzi affermava che il suo signore aveva mandato aiuti alla regina ed al pontefice, non fiuta guerra a Braccio, di cui aveva sempre apprezzata 1’ amicizia (47). L’ artificioso discorso ebbe il meritato premio, chè 1’ anno dopo sembra fosse il nostro Decembrio mandato giornale ligustico con qualche missione presso il papa (48), e, senza dubbio, andò nell’ ottobre oratore a Venezia. Nella guerra coi Fiorentini, le truppe viscontee di Romagna difettavano di vettovaglie : già una volta la republica di S. Marco, antica alleata dei Duchi di Milano contro i Carraresi di Padova, aveva concesso di trarne da’ suoi domini; or Pier Candido era inviato a richiedere fosse rinnovato il favore, ed il 7 del mese riceveva in proposito le necessarie istruzioni. Doveva procedere d’ intesa con Marco di Castelletto e, se vi si fosse trovato ancora, con Zanino Ratazzi, il primo de’ quali Γ avrebbe informato de’ modi consueti a tenersi dagli oratori lombardi presso la Serenissima ed introdotto presso il Doge, cui aveva incarico di far visita e recitare i complimenti d’ uso (49). La missione par riuscisse benino, onde di nuovo era mandato nell’ agosto del seguente anno 1426 ad Amedeo Vili duca di Savoia (50), sebbene stavolta con esito non felice. Fino al principio del 1426 la fortuna aveva sempre favorito Filippo Maria; a partire da quell’ epoca incomincia il periodo discendente dell’astro di lui. Causa precipua, i sospetti nutriti contro il Carmagnola prima, contro Francesco Sforza dipoi, pei quali entrambi questi valentissimi condottieri passarono 1’ un dopo 1’ altro presso i suoi nemici. In due campagne (1426-1427), Brescia e Bergamo furono riperdute per sempre dal Biscione visconteo, ed il Carmagnola, vincitore a Maclodio, riportava al Doge il bastone di capitano fra l’allegrezza ed il plauso di popolo infinito (maggio 1428). In questa circostanza, Guarino Veronese, allora insegnante a Ferrara, ma di patria suddita a Venezia, componeva un discorso in lode del fortunato venturiero, delle cui cresta di-ceva piena l’Italia. Rifattane la vita, lo scrittore rammemorava la giovinezza di lui sotto Facino Cane, lo stato pe’ suoi meriti ricostituito al Visconti, la gelosia e l’ingratitudine del 166 principe che « lo costrinse a cercar riparo in più sicuro porto ». Guarino era ben lontano dall’ immaginare, in quel fulgore di gloria del suo eroe, che, fra pochi anni, egli, scampato da Milano, avrebbe lasciato il capo in Venezia; ridevano facili pel momento i lieti pronostici di fama pari ad Alessandro, a Pompeo e ad altri massimi capitani del mondo antico, se non a quel Scipione che il bravo umanista poneva primo fra rutti (51). Ma l’esercitazione retorica di Guarino poteva servire come manifesto politico a vergogna e danno del duca di Milano, e se riscosse il plauso da alcuni che a questa portata non avevano occhio, ovvero non se ne preoccupavano punto, al segretario visconteo, cui la trasmise Cambio Zam-beccari, doveva sentire di acerbo assai. Pier Candido aveva cercato altra volta egli stesso P amicizia di Guarino (52), e l’ebbe cara anche più tardi (53); tuttavia non gli parve lasciar senza risposta il panegirico del Carmagnola, anzi prese a ribatterlo in tuono aspro, fiero, aggressivo, pigliandosela col lodatore non meno che col lodato (54). A Guarino dava la baia per aver paragonato il condottiero subalpino, fra gli altri, ad Ettore e ad Aiace, quasi i Veneziani ed i Fiorentini fossero giganti, ed a loro indirizzo lanciava la frecciata.. « È noto a sufficienza il valore degli uni e degli altri ! » Accoppiando contumelie a sarcasmo, lo diceva « pazzo arrogante » e soggiungeva, a proposito di un’ altra reminiscenza classica del discorso guariniano: « Di M. Perperna sarebbe stato più prudente il tacere; poiché un traditore non è da paragonare ad un galantuomo »: era un bel modo di dir traditore il Bussone e ricordare il proverbio volgare: « Non parlar di corda in casa di appiccato ». Facino Cane diceva e rappresentava come uom sedizioso e violento ; lo Stato affermava, naturalmente, reso al Visconti dal senno e dalla prudenza di lui medesimo, non dal braccio e dalla mente di alcun duce, tanto meno del Carmagnola. Alla cedola veneziana era con- GIORNALE LIGUSTICO 167 traposto così altro più acerbo libello : scherma ambidestra di grande interesse, nè senza importanza in quel sorgere ed affermarsi del nuovo fattore politico della publica opinione. Più tardi Guarino fece ammenda onorevole del suo scritto con altrettante e maggiori lodi a Filippo Maria (55); ma il Panormita, ossia Antonio Beccadelli di Palermo, da cui n’ebbe allora il saggio consiglio, ancorché nel frattempo fosse già passato al servizio di Milano (56), sorse nondimeno in persona a confutare la replica di Decembrio, guadagnandosene in tal modo P inimicizia. Era onesto ricambio della difesa che Guarino solo aveva osato assumere deiP Ermafrodito, P osceno libretto di versi causa di tante ire contro il poeta siciliano, ma di qui appunto si ofìerse buon giuoco al Decembrio di ridiscendere in campo con una più acerba invettiva contro entrambi gli umanisti avversari. Scrittane la « prima parte », Pier Candido si proponeva di farla seguire da una seconda (57), nella quale forse doveva esser parola più particolarmente di Guarino, di cui non dice quasi nulla nella prima, ancorché da qualche accenno sembri doversi dedurre 1’ intenzione di osservare maggior riserbo a riguardo di lui. Nell’armeggìo, la polemica, di letteraria fatta politica, risaliva man mano verso le origini sue: nell’ invettiva decembriana In An-thonium Siculum, Panormitanum et Guarinum eius preeeptorem » la questione del Carmagnola è ornai passata in seconda linea. Il segretario visconteo ricorda solo i benefizi fatti infrat-tanto dal suo signore al Beccadelli, di cui non sarà forse temerarietà, dato il secolo XV, sospettare qualche gelosia — causa non ultima della virulenza dell’ assalto, che è invero degno di quella età di gladialori letterari. Con interesse può venir rilevata anche alcun’ amara allusione a Cosimo de’ Medici, il cittadino di Firenze più di ogni altro amico di Venezia, cui il Panormita aveva dedicato il suo Ermafrodito « quasi Virgilio a Mecenate ». Del rimanente, un esame 168 GIORNALE LIGUSTICO particolareggiato dal documento condurrebbe forse troppo lontano dal disegno del presente scritto, tanto più che le cose maggiormente notevoli furono già messe in chiaro da altri (58): gioverà solo accennare come le precedenti ostilità fra il De-cembrio ed il Panormita spieghino perchè Antonio da Rho mandasse al primo la sua invettiva contro il secondo, che temeva veder soppressa dall’ impronto isolano. Fresco della propria lotta, Pier Candido non avrebbe mancato, nè mancò, di darvi la desiderata diffusione (59). Echeggiava ancora la polemica ora narrata, quando il Decembrio fu chiamato un’ altra volta a valersi della sua penna a vantaggio politico e militare del duca di Milano. Nel 1431 (60), riaccesa la guerra fra il Visconti e la lega di Venezia e Firenze, i fuorusciti genovesi, sovvenuti di rinforzi dagli alleati, tentavano un colpo di mano su Genova stessa, allora dipendenza viscontea, e rompevano una flotta ligure presso Rapallo. Cosi iniziata direttamente la guerra fra Venezia e Genova, la republica di San Marco mandava una squadra di ventotto navi nelle acque di Scio, la bell’isola dell’Egeo infeudata a’ Giustiniani, su cui ella stendeva il suo avido sguardo. L’ annunzio di quest’ attentato non dovette spiacer troppo al governo milanese, in quanto serviva mirabilmente ad infiammare i Genovesi alla lotta contro gli antichi rivali; nè mancò 1’ azione de’ letterati a suffragare le aspirazioni di Filippo Maria Visconti. Entrambi i rivali — Panormita e Decembrio — scrissero un’ orazione ciascuno per suscitar 1’ entusiasmo ligure contro il nemico : quest’ ultimo ricordava le antiche vittorie, le gloriose imprese passate, stimolo a nuove e maggiori, recava esempi antichi, niun’arme lasciava neghittosa nel vecchio arsenale della retorica, nè mancava di profondo senso della realtà del momento quando ammoniva Genova dell’ imminenza del pericolo di Scio e della necessità di trarre prontamente in soccorso di quella (61). L’isola GIORNALE LIGUSTICO 169 infatti fu salva, ma più pel valore degli abitanti che per soccorsi esteriori, e niun altro fatto notevole di guerra marittima ebbe luogo fino alla conchiusione della pace a Ferrara nel-1’aprile del 1433. Anche stavolta la pace nel fatto durò poco, ed ecco di nuovo Pier Candido autore di un discorso contro Firenze, la più acerba e ostinata fra le potenze avverse al Visconti. Leonardo Bruni aveva composto un’ orazione De laudibus Florentiae, in cui preponeva la sua città all’antica Roma, rammentandone le più gloriose imprese, fra cui la resistenza ai tiranni lombardi: erano, come sempre, esercitazioni retoriche non isprovviste di più lunga portata. Di ripicco, il Decembrio scrive una prolissa recriminazione De laudibus Mediola-nensium urbis in comparatione Florentiae, nella quale, rifacendo egli pure la storia degli ultimi tempi non meno che de’ remoti, tende a provare la superiorità della capitale viscontea e de’ suoi signori sulla loro fiera nemica (62). Il primo abbozzo, almeno, era steso certo nel 1434 (63), ma poi, dopo la vittoria del Piccinino ad Imola (28 agosto 34), avendo Filippo Maria prescelto il sistema volpino di rimanere ufficialmente in pace, mentre i suoi condottieri, fintamente licenziati, davano grave travaglio a Firenze senza alcun pericolo di lui, la publicazione par ne rimanesse sospesa fino alla nuova guerra aperta nel 1437 (64). Dagli amici, cui la mandò, Pier Candido ebbe molti elogi di quest’ orazione per Milano (65), ma si può credere che neanche allora fosse troppo largamente diffusa, s’ egli potè dedicarla più tardi, senza mancare di convenienza, al secondo successore del Visconti, Galeazzo Maria Sforza (66). ( Continua). Ferdinando Gabotto. I70 GIORNALE LIGUSTICO NOTE i) Senza ricordare gli accenni di minor importanza, hanno ancora valore gli articoli del Zeno, Diss. Voss., t. I, pp. 202 e segg. ; dell’Argelati, Bibl. script, medio]., t. II, parte II, pp. 2099 e segg., e del Tiraboschi, St. lett. it., t. VI, parte III, pp. 966 e segg., ed. Venezia, Antonelli, 1824. Interessanti le notizie e i documenti in De Rosmini , Filelfo, t. III ; pagine 29-34, 150-160, ed in Bwm, I fattori della republica ambrosiana, Ver-celli, Gallardi ed Ugo, 1891 (Cfr. la mia recensione in La Letteratura, S. II, t. VI, p. 394, Torino, 1891). Si annunzia ora un lavoro del Dottor Mario Borsa , ed io pure stenderò presto 0 tardi una Vita di Pier Candido Decembrio, per cui ho raccolto un gran materiale, com’ ebbi già ad avvertire nella citata recensione, e di nuovo nel mio libro Un nuovo contributo alla storia dell’ Umanesimo ligure, p. 285, Genova, Sordomuti, 1892. In questo publicai 25 lunghi documenti sul D. (2) De hominibus doctis, in Galletti , Philippi Villani liber « De civitatis Florentiae famoris civibus » etc., p. 229, Firenze, Mazzoni, 1847. « Eodemque in genere et Candidus habebatur, sed avidior duritatis (in confronto coll’Aurispa, nelle traduzioni dal greco), quod orationis moestitia insolentius uteretur ». (3) De historicis latinis, p. 583, Lugduni Batavorum, Ex officina Ioannis Maire, 1651: « Latine vertit Appianum Alexandrinum, quamquam, sive ob græci exemplaris vitium , sive alia de caussa , parum ei feliciter hoc negotium successerit, ut omnino iure Sigismundus Gelenius novam interpretationem fuerit aggressus». (4) Il risorg. dell’ ani. class., trad. Valbusa, t. I, p. 514. (5) Apud Zeno, t. I, p. 204. (6) Loco citato. (7) Op. cit., pp. 25 e segg. (8) Specialmente il Panormita ed il Filelfo. (9) Ad alcune testimonianze accenna il Zeno, pp. 208-209. Eccone qualcun’altra inedita. Guarnerio Castiglioni in P. C. Decembrii, Epistularum, Serie B (Cod. Bolognese 2387), Ep. 8, f. iov.·. « Epistolam tuam ad me delatam... letus reverensque legi, que miro redolet ingenio ac tanta elegantia floret, ut nudius fidius te oratorem illum esse putaverim, quem Cicero , ut omni ratione perficiat, vult esse rerum omnium atque GIORNALE LIGUSTICO I?! scientiarum noticias consecutus. Cum enim ante oculos pono quantum ex literis tuis intellectus tui prestantia patefacta fuerit, tantus oboritur meritorum tuorum animo meo cumulus, ut iam me plane magis ad referendum tibi que mihi prorsus indigna ascripseras, quam ad similia exemplo tuo facienda satis idoneum videam. Hinc ergo vir a virtute, ut aliqui putant, sive virtus a viro dicatur, ut multi voluere, morabis, te virum appellabo, quem non tantum laudabo, sed admirabor, quod verba tua, que ornatissima sunt, altissima speculatione atque exhortatione gratissima solidum mihi consilium imitande virtutis tue afferunt... Paucos admodum arbitror ex familia principis, qui tecum virtuti conferri vel in dicendi elegantia comparari possint » (22 novembre 1423). Filippo Alzate , ibidem , B , ep. 3°> f· 58 v. ; « Quantum te cupiam videre, Candide, faciunt hoc virtutes tue. Cupio etiam tecum amicitia fundamenta iacere, fitque etiam hoc relatu virtuosi et utriusque nostrum, ut opinor, amantissimi Milani Alzate, qui mihi de te multa mecum commentatus est quam benignus et humanus sis, et quam egregie atque ornate dicas. Id ego conspexi in litteris, quas ad Aloysium Crottum deferri voluisti. Sunt adeo ornate, adeo pie, adeo denique periucunde, ut nihil amplius ad eloquentiam addi queat. Amo ego preterea viros prestantes, et eloquentes maxime facio, et mihi denique comparare studeo. Tu vero me posthac amabis et cognosces, et me tuo quam liberaliter uteris... Ex Navigio ». Giovan Antonio Vimercati, in P. C. Decembrii, Epistularum, Serie R (Codice Riccardiano 827), ep. 9, f. 4.V.: « Si singulares et innumerabiles virtutes tuas, quae me persepe in admirationem et admodum grandem perducere solent, ipse mecum metiar et diligenter ponderem, nihil est, clarissime Candide, quo te non iu-dicem virum prudentissimum hac nostra tempestate florere et aliis, neque id iniuria dictum esse putent, si qui sunt, facile preponendum. Et haud dubito quin te antiqui nostri viri illustres, a quibus hæc omnia singularia opera, quae nobis ante oculos extant, tradita fuere, in collegam suum reciperent, teque recepto et gauderent et tuas istas virtutes summe admirarentur. Quid enim in te est quod non utilitati onovique esse possit? Quod morbi genus aut inveniri aut excogitari posset? Profecto si quisquam recte de te iudicare voluerit, te humanum, optimum, doctissimumque esse non dubitabit verbis constantibus asseverare ». Maffeo Muziano , ibidem, R, ep. 64, f. 39 >. : « Haec actio competit proprie, vir insignis et literatissime: vendicare debes merito haec opuscula. Nam inter ceteros mihi notos, non dicam corrector, diminutor nec iniunctor sis horum et similium operum , ne arrogantia tingar, sed potius et melius eorundem interpres es et perfectus ». Rolando Talenti, ibidem, ep. 108, f. 57 v. GIORNALE LIGUSTICO (al duca Umtredo di Gloucester). « Nam vir doctissimus, Petrus Candidus nomine, latinae linguae graecaeque peritus, cum multa de virtute tua et singulari cupiditate studiorum humanitatis intelexisset, statuissetque Politicam divini Platonis latinis litteris tradere, res dignissima visa est quod tue celsitudini dedicaret, existimans opere pretium optimis operibus iuvare desiderio studiorum tuorum , et nonnihil addere tuo nomini ad decus et gloriam »; e io stesso Umfredo di Gloucester, ibidem, ep. x18, f. 63 r.: Expectatissimas litteras tuas accepimus una cum Platonis libris, Candide lepidissime, quorum quidem adventus adeo carissimus nobis fuit, ut nulla potuissemus affici maiori voluptate... Ex quo tibi maximas habemus gratias, habebimusque quoad vitam tuebimur, quod tantum tamque arduum ac excellentissimum opus nostra causa ac nomine elaboraveris. Unde certum est, et nos tua hac opera ac studio, et te etiam non mediocrem laudem et gloriam exportaturum. Sunt enim eiusmodi ut etiam invitum ad legendum excitarent, tanta est Platonis in primis gravitas et elegantia, tum etiam orationis tuae adeo aptissima interpretatio, ut non possimus recte dicere, cui potissimum magis debeamus, an sibi qui princeps huius disciplinae extiterit, an tibi qui sepultam eam ac pene extinctam negligentia nostra excitari et in lucem efferri pro virili parte studueris. Egregiam quidem et praestantissimam tibi provinciam delegisti, etc.». Testimonianze di Battista di Jacopo, Filippo Coppola, Giovanni Stella, Raffaele Adorno, Andrea Bartolomeo Imperiale, vedi nel mio cit. libro Un nuovo contr. ecc. pp. 293 e segg.; del Valla, in Sabbadini, Cronologia della vita del Panormita e del Valla, pp. 101-103, Firenze, Le Monnier, 1891; dell’ arcivescovo di Milano Francesco Pizolpasso, pure in Sabbadini, Storia e crìtica di alcuni testi latini, pp. 406 e segg. (estr. dal Museo di Ant. del Comparent); altre ancora di parecchi, v. più innanzi. (10) Argelati, Le,, ne registra 36, ma la sua serie è lungi dall’esser compiuta, come avrò a mostrare nella mia Vita del Decembrio. (11) Sabbadini, L’ultimo ventennio della vita di Manuele Crisolora, in Giorn. Ligust. , t. XVII, pp. 327-328. Indipendentemente dal passo male interpretato di una lettera di Pier Candido (in Ambrogii Traversarii, Epist., XXIV, 69), è certo che il Decembrio fu a Firenze, ma più tardi, nel 1423. Cfr. una sua lettera ad Abbondio Salario, in Cod. B., 2, f. 2 v., in data 12 aprile [1423]. (12) Scelgo, tra le altre, una letterina di consigli paterni, in Cod. R., 161, f. 85 v.: « P. Candidus Angelo Decembri salutem. Multa enim ex te dietim audio, scribis enim multa, sed id quod summe aveo nequaquam audio. Quid enim opus est tot occupationibus vanis et inanibus? Explica GIORNALE LIGUSTICO animum tuum aliquando, et omissis nugis, studio et litteris vaca, quae te meliorem in dies facient. Modo librariorum mendas arguis, modo inter nationes iudicas quis melior est, aut quis deterior; sed non ea, qua decet, vii. Bonus is est, ut inquit Plato, qui bonam habet animam, malus qui malam et iniustam possidet: impudicitia enim, iniustitia ac timiditas animae contraria sunt, nec incerta documenta. Itaque litteris adhibeto operam, sed virtuti prius, cuius etiam expertes nulli litteris commendari promerentur. Vale ». (13) Cfr. la sua lettera a Pileo De Marini, in Nuovo contr. alia St. Uman. Lig., pp. 302-304. L’ efficacia della medesima è tanto più notevole se si paragona colla retorica che infarcisce la lettera di Uberto Decembrio a Pier Candido sulla morte di Paolo Valerio, di cui era pur padre, non solo fratello. Essa è in Cod. B., f. 30. (14) Lettera ad Antonio da Rho, in Cod. B., 24, f. 47. «Venusta illa et scitula puella, venerabilis pater, que alias apud te querelam de me ingentem attulit, subito, mutatis 'mimo dilectis moribus suis, amorem palam professa est, quem ulterius tollerare nullo modo posse confitetur. Gaudeo equidem magnopere me ab ea adamari, dummodo is verus amor, non simulatus sit, plusque honestatis apud me quam voluptatis nomen valeat. Quid enim iucundius quam amare, presertim a puella venusta et lepida? Tu vero, mi pater, hec ioco me dicere existimas. Serio intelliges; quippe, etsi professioni tue et religioni hec prorsus aliena fore noverim, benignitas tamen et clementia solita me inducunt, ut vanitates meas apud te confiteri non erubescam, potissime ut, consiho fretus tuo, pretenta transilire retia , non incidere his laqueis et vincis queam. Misit nuper ad me illa felix anima nuntium eloquentissimum facetiis et blanditiis omnibus refertum, mihi presertim cognitum, dictitantem, ut facile cognoscere posses nullam ulterius in minis, totam in precibus spem consistere. Iam cessant classica ; iam ferri usus exolvit. Lepidis nugis res agitur: quid opus est verba verbis recensere? Aurem adhibere visum est, nori animum. Fassus sum me illi victum ulterius tantam moram sustinere non posse, si modo illa debitum suum faciat, ut que falso de me ementita est apud te, veridicis excusationibus emendet. Pollicetur itaque se facturam omnia, sed quia ad presen-tiam tuam peroportune accedere, nebulone assistente patre, nullomodo queat, missuram tibi epistolam, veritatis testem, facinorum suorum consciam, quam miro in modo rogo, pater colendissime, licet indignam professionis tue, suscipe, non recuses et legere. Cognosces enim in quantum se muliebris extendat audacia, quantum insano furori licitum sit. Exemplar autem ipsius epistole deprecor, ut per nuntium proprium, quem 174 GIORNALE LIGUSTICO ad te hac causa destino, mihi transmittere digneris, ut videam. Et tu vale, nostri memor ». L’avvertenza che il destinatario di questa lettera è un frate, ne rileva l’importanza e dispensa da ogni altro commento. (15) Lettera a Cambio Zambeccari, in Cod. B., 23, f. 46 v. : « Nulla fere dies, vir magnifice, nulla dabitur hora, quin tui continuo memor sim, quin potius tecum colloqui aut aliquid meditari familiari et assueti illo sermone ccncipiam. Sic est elapsi temporis plerumque iucunda recordatio, nec, ut apud Tragicum legimus, quod fuit durum pati, imo quod gratum olim fuit, meminisse gratius est. O temporum incredibilem fugam! O solatia numquam reditura! Quis amorum nostrorum blandicias, peregrinationes, iucunditatem, mellifluorum voluptatem studiorum, assiduas curarum dulcium meditationes, calamo posset complecti? que omnia iam pene occiderant, cum ipsi adhuc vivimus! E contra, tot infaustos volubilis fortune casus in tanta evi brevitate perpessos dum mecum ipse considero , non futurorum conditionem exhorrescere et preteritorum temporum fuga letari ipse non possum. Iuvat enim, ut apud Virgilium nostrum est, evasisse tot urbes argolicas, mediosque fugam tenuisse per hostes. Rite ergo hostes, quorum blandiciis mens nostra, veluti laqueis, irretitur, ut presentis vite desiderio pellecti, graviora patiendi iura sentiamus. Ego vero, vir magnifice, etsi non continuo per etatem ab his dissolutis curis et cogitationibus evaserim, solito tamen minus avidus et quodammodo fessus studiorum iuvenilium esse cepi, nec que iuvant, eque, ut solitum est, animum oblectent meum, tanta in dies rerum mutatio in nobis, imo nostri in rebus ipsis sit. Quorum hec tam multa? Ut aliquid de me sentiret humanitas tua, ac perciperet utrum studiis an voluptati, que his in locis nullum feie gradum obtinet, operam potius darem. Non dubito quin et de me vicissim, cum e tantis respirare curis licuerit, aliquando memor sis. Id enim etsi nolis, multarum rerum insidens recordacio interdum elabi non sinit. Hec igitur mihi consuetudo est: plerumque enim aut lego aliquid aut scribo, sepe varia camporum spatia ememus, aut pedestres aut equestresve copias aut navales in ipso fluenti Eridano longo agmine conspicio, et nunc Romanorum , nunc Graiorum ducum memor, queque ab illis strenue gesta sunt mente percurrens, non minus celebrari litteris memoriam nostram, quam illorum, posse suspi:or, si modo ingeniis nostris locus is, ut priscis, et honoris tantumdem litteris tribueretur, quod armis sepe tributum est. Comediam autem inceptam et tedio presentis belli et eorum memorie, quibus inscripta est, aliqua ex parte absolutam dereliqui, pluriesque repetitam, sive ingenio, sive voluntate destitutus, penitus omisi. Itaque illam ne expectaveris, quippe, ut de tragedia sua inquit Octavius, Menedemus GIORNALE LIGUSTICO *75 noster spongie adhesit. Valeat itaque comedia, valeant amores et delicie nostre, valeant ioci, blandicie, susurri, oscula, amplexus, morsunculi et festiva solatia, et tu vive, nostrum decus, nostri memor ». La commedia è l'Afrodisia , intorno a cui il Tiraboschi riferisce un passo tolto dallo stesso Cod. B., 22, f. 46, pure allo Zambeccari. Nella lettera riferita per intiero è in germe il disegno dei lavori storici del Decembrio. Sul suo desiderio di ozio letterErio, cfr. Cod. R., 19, f. 17 r. a Nicolò Arimboldo: « Habes quae necessaria optimis et bene institutis viris sunt, ocium, libros, ingenium, regionem amoenam et uberem ». (16) Lettera a Bartolomeo Rivola, Cod. B., 19, ff. 43-45: «...Totius ville herentisque regionis amenitas, ac finitimornm montium oppida nemorosis collibus superiecta, ipsorum denique studiorum morumque nostrorum amicissima solitudo atque iucunditas, hec me tibi scribere cogunt. Restat autem ut ipsius ville ambitum formamque describam, quod et tibi gratissimum et mihi iocundissimum esse non dubito. Montes duo, parvo intervallo longis inter se iuncti tractibus, porriguntur, utrosque vero lacus interluit, omnium, qui memorantur, lucidissimus, et licet Magni nomen obtineat, re ipsa multorum inferior: in hac tamen nostra Liguria longe celeberrimus est. Horum igitur, quos dixi, montium, alter, qui ville fronti obversus est, solem orientem perspicit, vitibus habundans, oleam etiam fert, segetiousque et aliis cum ad victum hominum necessariis, tum ad pecorum apumque pascus feracissimus; alter, vero, qui ad occidentem pergit, primo cultu non cedit: in medio subiecta planicies, quantum lacus cedit, extenditur, et quantum aque, tantum illius fere vallis terre possident. Hec autem planicies occidentem monti, quo tuetur adheret, deinde extenta in lacum desinit , qui alterum orienti obversum montem verberat, quem superius agricolture aptissimum dixi. In margine itaque planiciei, ipsisque, ut ita dicam, aquarum labiis, villa sita est, omnium quondam, que istis in montibus conspiciuntur, pulchrior, ditiorque, nobilissimorumque incolarum multitudine nulli cedens, populi quoque magnitudine ftequentior, nunc autem, ut non mihi soli, sed aliis quoque visum est, qui has terras accuratius perspexerunt, cunctarum inferior, dissensionibus contentionibus-que partium diruta, ad nihilum redacta est, incolarumque in ea summa inopia, cum pars bellorum violentia ceciderit, pars propriis bonis spoliata , fame et inedia, per externas urbes errando, consumpta sit; hi vero, qui resta-verunt, adeo sunt rari, ut aut nulli, aut certe paucissimi videantur. Sed ut ad propositum redeam , quum ville descriptionem tantummodo exponere ingressus sum, patentes portus in lacum dimittit, qui etiam in magna ventorum tempestate navicula tute accipere ac tueri possint. Ipsa prospectu i76 GIORNALE LIGUSTICO amplior, in margine quasi tota distenditur; cum ingrederis arctior effecta, ipso fine admodum parva est. A tergo fluvius labitur, nunc parvus , at nivibus liquefactis exurgit, saxeo ponte ripas adnexus, ex quo aditus in finitimam villam excipit, que Transflumen ipso loci sito nominata est. Sed de hac alias. Nunc redeo ad alteram, quam Canobiuin appellari, cum inventorem nec nominis aut originis sciamus, iamdudum dicere ausus non sum. Qua septentrioni patet, latioribus campis accincta est, tanta olivarum copia refertis, ut in oris maritimis, que hoc arborum genere potissime habundare creduntur, ubertatem iam suffecisse crediderim. Vinee etiam inter eas, sed rarissime, nam in montibus uberior copia est, protrahuntur, ita ut videntium oculos oblectent et studiosissimorum animos nonnihil vel ad legendum, vel ad scribendum allicere possint. Vitium vero precipua natura, raro tribus, sepissime duobus sarmentorum et vinculorum brachiis continentur, uvarum prestantis saporis frequentissime, ut vinorum ipsorum potus indicat, que istis in locis exprimuntur. Segetes rariores modicam in frugem exurgunt ; nam huius fructus inopia terra ad nihilum reducta, pene sterilis est, maximumque omnium malorum damnum hoc sustinet. Ad hanc autem egestatem sterilitatemque frugum multa iucundissima commoda coniuncta sunt: saluberrimus aer; terra nunc olivarum, nunc aliarum arborum aspectu semper vivens; aure magis quam venti estatis temporibus perpetue flantes, aquarum et montium prospectus patentissimi ; fontes ad necessarium usum semper scatentes ex altissimis montibus, per ville medium usque in lacum decurrentes, ut sufficere ad omnem usum possint; victus, maxime carnium, vini et herbarum habundantia, facillimus; et, ut paucis concludam, dum pax adsit, nihil hac terra uberius, nihil pulchrius, nihil studioso et frugi homini dignius inveniri potest ». Cfr. altra lettera al Raudense, Cod. R., 35, f. i~j v. : « Silvanus noster bene valet, nam paci studet et quieti, nec ullum nisi cum litteris bellum habet: Is, nempe, Lactantio suo sic affectus est, ut cum mundum periturum affirmant, is putet periisse. Fessus itaque non tam presentibus, quam futuris curis, abiit, nescio an extra Urbis nostrae moenia.... Quot florum species hic in locis gigni putas multicolorum? quot fontes labi argenteis calculis? quot pomiferorum arborum frondes assidue quati ventis crepitantibus ? quot denique ramis insidere avis demulcentes aera? Silvanus tamen noster meliora his, letiora opperitur ». (17) Tra gli altri Cristoforo Lampugnano, Cod. R., 37, f. 18 r.\ «Ad te mitto , suavissime Candide, cantilenam primam his quidem pedibus a me contextam, quam nunc ex tempore edidi, eoque casibus meis infortu-natoque amori meo sit congrua et aptissima. Quam si probaveris, lae- GIORNALE LIGUSTICO I77 tabor ; quippe sin autem, multo maiorem iocunditatem capiam, modo ne pigeat errores ad me transcribere meos, quo te praeceptore possim, si quando libuerit, aliam meliorem ornationemve componere. Caeterum per latorem presentium velim ad me mittas tuam , quam pulcherrimam esse hac mane intellexi. Vale ». (18) Così mandava Y Afrodisia al Zambeccari. Cfr. sopra, n. 15, e vedi anche n. 19. (19) Lettera a Tomaso Cambiatore, Cod. B., 38, f. 63: '< Sensi noviter ex Gallasio Corrigio, viro, meo iudicio, et humanitatis summe et optimarum artium prestantissimo, de te ac statu tuo quod rnirum in modum scire cupiebam. Nova satis exoptanda, de quibus pro amicitie mee iure atque vi maxime congratulor , licet aliter de professione tua sperare et humanitas et virtus ipsa non permittant. Doleo tamen amicitiam nostram sic negligi a te ut nihil litteris tuis scribere, nihil nuntio isto fidelissimo mihi indicare dignatus sis. Ego enim, mi Thoma, de salute tua non minus anxius sum, quam qui te vel plurimum amet, et si quid beneficii vel commoditatis ocio tuo afferre possim, libentissime contulerim ; teque eodem animo erga me ut sis, magnopere desidero. Verum autem, postquam ocii tempus, ut intelligo, nactus es, exoratum a caritate tua velim, ut quibusdam libellis studiorum meorum iuvenilium, quos tibi destino, aliquantulum operis impendere eosque emendare et legere non recuses, ut tua opera, tua d.ligentia ac testimonio in publicum securius transire valeant. Nec enim que in adulescentia conscripsi multifacere est animus; verum, cum studiorum meorum primicie extiterint, non omnino contemnende aut abiciende mihi vise sunt. Iuvat equidem et Virgilii nostri Priapeiam et Rusticum ac quorundam doctorum opuscula ex puericia lectitare, et quantum illi postea ingenio doctrinaque prestiterint, ex eorum principiis agnoscere. Hos igitur libellos ea de causa potissimum servandos esse duxi, ut ceterorum scriptorum meorum vim ac progressum deinceps innuerem, et si quid ornamenti litteris tuis addicerem aut pretermitterem , ex eorum successu facile perpenderem. Nolim tamen hoc adulescentie mee testimonio tantum licentie mihi assumere, ut doctorum virorum iudicia contemnam aut reiciam, sed ut limatiores potius correctioresque proferam, sic ut etatis defectus magis quam ingenii in illis adesse appareat, utque in corpore nostro membra quedam minus perfecta non tamen perversa aut distorta censeri queant. Tu itaque, pro tua eruditione, diligentia, doctrina, hec opuscula, ut prescripsi, legere et corrigere non recuses, mihique subinde ingenii tui iudicium certissimum transmittere, utrum in apertum mitti queant et familiarium nostrorum votis annuere, qui id a me summopere Gior. Ligustico. Anne XX. 12 I78 GIORNALE LIGUSTICO efflagitant, an potius supprimendi sint, ne que lucem studiis nostris afferre cupimus, tenebres parent. Vale ». Cfr. lettera a Sceva Corte, Cod. R., 102, f. 51 v.: « Gaius Antonius, germanus tuus, novum in me suscitat certamen. Nam tuo nomine orationem exigit ut conficiam in laudem illius inclyti principis tui Marchionis Mantuani, quam te non tam perorare velle existimat, quam in decus meum offerre , potissimum apud pudicissima™ consortem suam , in cuius conspectu ambiguam de me sententiam nonnullis habitam fuisse affirmat utrum Arretino et Guarino in dicendi arte superior ipse, an par, an potius inferior habendus sim. Iuvat me quod in tantorum virorum contubernio in famam veniam amore potius quam iu-dicio tuo? Quae enim in me facultas? quae dicendi copia, quae vis adesse potest, ut, non dicam cum his doctissimis aetatis nostrae viris , sed cum infimis comparari queam ? Scripsi igitur ut potius satisfacerem voluntati tue, quam ut me illi studiosorum [numero] vellem coaequare. Non enim affectione peraguntur qui ad veram gloriam benemeritos deducere solent; sed studio, labore, industria, multisque vigiliis in nomen virtutis ascenditur ». (20) Lettera dedicatoria della collezione B. a Bartolomeo Capra, 1, f. 1 r.: « Frequenter a me ex his humanitatis studiis quibus ipse admodum edoctus es, quedam exigere consuevisti aut obscuriori vetustate, aut recentiori claritate conspicua. Ego itaque mihi, conscius eximie affectionis tue , quam erga iuvenilia opuscula mea, nec satis accurate quidem scripta, prestitisti, minime differendum existimavi vel desiderio tuo satisfacere, vel humanitati. . .. Epistolas itaque, quas olim variis temporibus, diversis personis, in adulescentia conscripseram, prout queque et dietim suppetebant, ad te mittere institui , non quod eas tanti existimem, ut digne essent que ad te mitterentur, sed ut opusculorum nostrorum gustum quempiam tibi sufficerem, et eas legens memoriam nostri diutius conserves. Addicere etiam nonnullorum eruditorum responsiones et epistolas ciceroniano modo visus est, ut dignitate eloquentiaque scriptorum clarorum nostris litteris splendorem redderemus ». (21) A Simonino Ghilini, in Cod. R., 103, f. 54?·.: «Unum est in quo merito consoler cum doctorum virorum commemoratione coniunxisse me continuo patrocinia veritatis; nam cum multi, aut ostentandi ingeuii aut diluendi otii gratia litteris incumberent, haec nostra semper opinio fuit prodesse quamplurimis ». (22) A Francesco Pizolpasso, in Cod. R., 179, f. 100 r.: «Cognovi ex litteris tuis, reverendissime pater, dignitatem tuam aliquantulum erga meas scriptiones excitari et irasci. Nescio an id acciderit ex incuria mea, an ita datum sit, ut Comicus inquit, quod obsequium amicos, veritas odium par it. 179 Pure tamen et simpliciter scripsisse me profiteor, et haec laudata omnibus saeculis consuetudo fuit, ut pro indaganda veritate, de quacumque et cuiuscumque opinione queri posset: Pythagorici soli in verba magistri periurabant » . (23) In una lettera al Capra, Cod. B., 5, ff. 5-6, dimostra che i Commentarii de hello gallico e de bello civili sono di C. Giulio Cesare, non di Giulio Celso, com’era falsa opinione di molti; ed in altra a Zenone Annidano, in Cod. R., 50, f. 24 r., scrive: « Diffìcile est Leonardo Arretino, viro litteris graecis erudito, non credere de his Platonis, ut ait, epistolis quae putat; mini, vero, quam longe a tanti philosophi, non dicam elegantia, sed auctoritate et dignitate videntur abesse, verum a scriptore nequaquam rerum platonicarum inscio, sed versuto, admodum confictae et exaratae. Tanta cura prestandae veritatis, ut fides ex diligentia depereat; pauca etenim in illis pressa et gravia; multavero elata et iactantia; que-dam rerum etiam referta minimarum, ut ex historia illius magis sumpta, quam ab ipso videantur perscripta; nec Plutarchum errasse, sed Leonardum facilius putem credidisse. Verum unicuique suum estiudicium ». Parimenti, scrivendo a Leonardo Bruni stesso, Cod. B., 3?, ff. 60-65, dice: « Ea igitur que in antiquis quibusdam commentariis de Alexandri Magni gestis, inepte magis quam ineleganter scripta noviter comperi, ad te mitto. Facile quidem ingenio tuo fuerit fabulam ab historia discernere, sive illa Alexandri, sive alterius Graeci, ut opinor, scriptoris verba fuerint ». Chè se manda la pretesa lettera di Cornelio Nepote, premessa allo Pseudo-Darete, al Zambeccari (Cod. B., 25, ff. 48 e 49) ed a Francesco Pizoìpasso (Cod. R., 66, f. 30, edita in Sabbadini, Storia e critica, pp. 358-359), si tratta di un testo antico, la cui falsità fu messa in luce solo dalla critica moderna e non poteva essere sospettata nel Quattrocento. (24) Una lettera da lui composta e spacciata come di Vergilio a Mecenate, v. in Sabbadini, Valla, p. 23, n. 10. Eccone un’altra in nome di Pompeo Magno al Senato, in Cod. R., 13, f. 7: « Gneus Pompeius Magnus Senatui romano salutem. Si adversus vos patriamque et deos penates tot labores et pericula suscepissem, quot a prima adolescentia ductu meo scelestissimi hostes fusi, et vobis salus quaesita est, nihil amplius in absentem me statuissetis, quam adhuc agitis, P[atres] C[onscripti], quem contra aetatem proiectum ad bellum sevissimum cum exercitu optime merito, quantum est in vobis, fame miserrima omnium morte confecistis. Hac in spe populus Romanus liberos suos ad bellum misit? Haec sunt praemia pro vulneribus et totiens ob rem publicam fuso sanguine? Fessus scribendo mittendoque legatos, omnes opes et spes privatas meas con- ι8ο GIORNALE LIGUSTICO sumpsi, cum interim a vobis per triennium vix annuus sumptus datus est. Per deos immortales, utrum censetis me mercem aerarii praestare, an exercitum sine frumento et stipendio habere posse? Equidem fateor, me ad hoc bellum maiore studio quam consilio profectum. Quippe qui nomine meo, imperio a vobis accepto, diebus quadraginta exercitum paravi hostésque in cervicibus iam Italiae agentes, ab Alpibus in Hispaniam summovi , per eas iter aliud atque Annibal nobis opportunius patefeci. Recepi Galliam, Pyrenaeum, Lacetaniam, Indigetes, et primum impetum Sertorii victoris novis militibus ac multo paucioribus sustinui, hiememque in castris inter sevissimos hostes, non per oppida, neque ex ambitione mea egi. Que deinde prelia aut expeditiones hibernas , oppida excisa at recepta enumerem, quando res plus valent quam verba? Castra hostium apud Sucronem capta et proelium apud flumen Durium , et dux hostium Gherenius cum urbe Valentia et exercitu deleti, satis vobis clara sunt; pro quibus, o ingrati patres, egestatem et famem redditis. Itaque meo et exercitui hostium par conditio est, namque stipendium neutri datur, victorque uterque in Italiam venire potest. Quod ego vos moneo quae-soque ut animadvertatis, non cogatis necessitatibus privatim mihi consulere. Hispaniam Citeriorem , quae non ab hostibus tenetur, nos aut Sertorius ad interitionem vastavimus praeter maritimas civitates, et ultro nobis sumptui onerique. Gallia superiore anno Metelli exercitum stipendio trumentoque aluit, et.nunc malis fructibus ipsa vix agitat. Ego non rem familiarem, modum verum etiam fidem consumpsi. Reliquo vos estis, qui nisi subvenietis , invito et predicente me, exercitus hinc et cum eo omne bellum Hispaniae in Italia transgredietur ». Il più singolare si è che avendo il Decembrio mandata questa lettera al Crotti, ed asserendo alcuni che tosse una falsificazione recente, egli, in altra lettera al medesimo (R., 15, f. 8), se la piglia con loro, trattandoli d’ignoranti ed invidiosi, ed afferma: « Visum est epistolam illam, cum auctoris nomine, tum stilo sententiisque percelebrem , ad te mittere , quam quidem ex antiquissimo volumine Francisci Pizolpassi, praesulis nostri prestantissimi, fideliter excerpsi, ut, quamquam per se stilo liqueat esse Pompeii, testimonium tamen possit afferre vetus exemplar ». Quest’ affermazione potrebbe anche esser vera, ma 1’ apparente recidività sta contro il Decembrio. (25) Lettera a Francesco Pizolpasso, in Cod. R., 61, f. 18 v.: « Hactenus Quintiliani tui libros vidisse memineram, nunc me illos legisse profiteor, nundum tamen olfecisse. Nulla satis digna laus tanto ac tam divino operi impendi potest ab his qui eloquentiae diffidunt. Vixit enim non sibi tantum, sed omnibus, qui bene vixit, qui huiusmodi doctrinae elegantiam ad GIORNALE LIGUSTICO i8r posteros usque transmisit. Unum non commiserim, ut decimum eiusdem librum, decimum inquam, quetn attentissime et accuratissime legas, nih'l profecto, eruditius dicam an utilius, legisse fatebere ». (26) Lettera ad Ambrogio Crivelli, in Cod. R., 69 , f. 32 r. : « Nuper ad manus meas delata est quaedam litterula Francisci Barbari, viri docti et singularis, quam ut diligentius inspicias vehementer cupio. Erit enim tibi exemplar non eleganter scribendi quidem, sed vitia quae in oratione saepe eveniunt declinandi. Frequens enim vitium unicuique est secundum artem suam verba facere: sic agricola ad boves omnia refert et aratrum, ad maleum faber et incudem , nauta vero ac mercator ad ratem ac rudentes. Hoc autem ut evites te potissimum admoneo. Audi Barbarum ipsum, qui, ut civis Venetus, nihil praeter naves cogitat ac remos, omnes-que querelas suas ad haec refert. « Facere non possum », inquit, « quin aegre et moleste feram nobis in puppi rei publicae sedentibus». Ecce in primis de puppi mentio; deinde: « Ita transversum agi, ut non solum naufragium expectandum sit, sed presentem viris intentent omnia mortem » — maris enim pericula metitur; demum: « Quod imperitia magis quo-rundam hominum quam vi procellae » — procella quoque ad maris pericula refertur. Sed haec quoquo modo, ni denuo repeteret: «Ego nobis-cum doleo tantam vim esse tempestatis »; iterum ad ventos et imbres et nauticam tempestatem se divertit. Nec his contentus addit : « Ego inter tot fluctus et scopulos rectam tenere constitui [viam], etiam si in portum venire non possum ». Sentis? Denuo de navi et portu habetur ratio. Deinde: « Et quia viro gubernatore opus est, gubernacnla non desero ». Subiungit enim: « Pene ut submersus sim »; sicque ad pristina regreditur: « Tamen, si deus voluerit, aut enavigandum aut recto animo pereundum est ». Audis hominem non mente solum, sed calamo et papiro per arida Brixiae saxa navigantem, nec ab artifìcio suo recedentem? Quae enim tibi curae esse velim, ne, cum dictes aliquid aut scribes, sic ab opinione rapiaris, ut tuae dumtaxat consuetudini, non autem dignitati videaris inservire. Vale ». Sui rapporti anteriori fra il Decembrio ed il Barbaro, cordialissimi, come del resto anche dopo, cfr. sovratutto una lettera del primo a Guarino, Cod. B., 18, f. 43, dove si legge: « Itaque missus nuper ab 111."1® D. meo Venetias, Barbarum tuum et te in reditu saltem meo, intueri non gaudebam solum, sed exultabam ». L'accenno al viaggio a Venezia determina la data 1425, come si vedrà più innanzi. Del medesimo anno, pertanto, è anche la lettera B. 17, f. 42, al Barbaro stesso. (27) Lettere a Lancilotto Crotto, Cod. R., 78, f. 37 r., ed a Francesco Barbaro, ibidem, 91, f. 46 r. 182 GIORNALE LIGUSTICO (28) Ne vedremo esempi più innanzi. (29) Agli accennati giudizi del Cortese e del Voigt servono di controllo i passi riferiti in abbondanza. Cfr. anche Butti, pp. 26-27. (30) Lettera a Michele Pizolpasso, fratello dell’arcivescovo, Cod. R., 41, f. 20 r. : « Saepe questus sum , Michael optime, Scripturam sacram pluribus in locis a vera interpretatione esse depravatam, non Hyeronimi viri doctissimi et sanctissimi culpa, sed vitio scriptorum , in qua re nonnulli nebulones, incolae cellarum urbanarum, mihi adversati sunt, ex spiritu vini sententias suas proferrentes. Quorum ut inscitiam lutuentam arguamus, mitto quae nuper in badagieusi monasterio in veteri biblia repperi verba uxoris Job in emendatis Bibliis nostris deficientia. Vale. Dixit autem illi Uxor sua, etc. ». Ed in altra ad Enrico priore del monastero di San Girolamo, ibidem, 137, f. 74 v.. « Quaniobrem cum Ecclesiastem ipsum nuperrime in graeco legerem, eiusque memoria, modo amicissimi mei sortem, modo meam ingemiscerem, nunc illum intempestivo felicem obitu putarem, nunc me miserum, qui his herumnis superessem. haud ineptum visum est si quid graecis litteris profecissem ab hoc primum auspicari, et duce Hieronymo sanctissimo et doctissimo viro iter arduum et obstrusum incohare. Transtuli itaque fidelissime non modo libellum ipsum Ecclesiastis, sed ple-rosque Sacrae Scripturae libros, ut in graeco scriptos legeram, nulla addita abiectave sententia, ne verbo quidem, nisi quantum concinnitas ipsa cogebat, dempto aut imminuto, quos tibi potissimum delegi; non ut ingenium ostentem meum, aut hec admodum necessaria tibi existimem, quae a sanctissimis et doctissimis viris ex Hebraeorum fontibus hausta sunt uberius, se ob eam benivolentiam, quam tibi multis verbis attestatus sum, etiam studiis comprobarem meis». Ancora, nella già citata lettera a Francesco Pizolpasso, R., 179, dopo le parole riferite nella n. 22, continua: « Queritur tua dignitas me Hieronymum insectari: ego verba, non hominem insector, quem multis laboribus ac vigiliis quotidie conquiro. Adducis multa cur debeam Hieronymo acquiescere, auctoritate dumtaxat; et ut interea multos [libros] in litteris tuis annotatos legere velim, amice admones. Hos igitur testes arbitratu tuo assummam ; non meo. Cur Ruffinum in his non addicit tua benignitas perlibenter scirem : an quia ipse litteras graecas nondum norat? Dixi Hieronymum in prologo Bibliae historiam de Platone posuisse ignotam Plutarcho et caeteris doctis viris ; dixi in libro Sapientiae Philonis, qui Salomoni falso ascribitur, pro « iusto » « iustos » posuisse; dixi in libris Job quasdam particulas imperfecte transtulisse: an haec sub modio a me celantur? Adsunt libri. Nusquam Philonis liber apud Hebraeos , ut idem profitetur Hieronvmus. Num ergo Chrisostomus graecum GIORNALE LIGUSTICO 183 ignoravit? Haec non reprehendo, sed admiror ab homine docto tam multa praeter veritatem dici potuisse: an hoc sacrilegium est? De virginitate nil disputo, de continentia, de virtutibus caeteris. Puto enim sanctissimum hominem fuisse Hieronymum, sed hominem tamen, et qui didicerit aetate, et qui erraverit, et qui correxerit, et qui mutaverit, ut caeteri solent. Solet dicere Annaeus Seneca, vir omni doctrina eruditissimus, eos, qui praecessere nos Sapientes, non viam nobis veritatis perclusisse , sed aperuisse. Tu, autem, nefas ducis bucham aperire in eum, qui in commento suo in Ecclesiastem Platonem, Socratem, Aristotelem, omnes denique viros illustres ac sapientes, stultos dixerit; cui tamem ignoscimus: dixit enim quae utilia sibi arbitrabatur, sed an vera Deus novit. Haec non temere scripta sunt a me, sed veritatis indagandae causam, quam qui deserit, et autori-tati magis putet inherendum , ne medius fidius plus sapit quam sapere oporteat. Itaque, ut in sacris perhibetur scripturis, si male locutus sum, testimoniom perhibe de malo ; si autem bene, cur me caedis? Longius fortasse oratio mea fieret, ni modum adhiberem ». La risposta a questa lettera, e quella a cui risponde, nella quale il Pizolpasso poneva in favore di San Girolamo 1' autorità di Sant’Agostino e di San Cirillo di fronte a quella di Rufino, si leggono nello stesso Cod. R., 178 e 180. Il Decembrio scrisse pure una Vita S. Ambrosii, secondo che dice in una sua lettera a Bonino Mombrizio in Cod. Ambrosiano (AI 250 inf.) 230 inf., ep. 253. (31) « Carmina varia italica » registra I’Argelati, p. 2015, e nell’inventario della biblioteca visconteo-sforzesca del 1 ottobre 1469, edito dal Mazzatinti, in Giorn. Stor. lett. it., t. I, p. 57, leggesi: « Librazolo de d[omino] Pietro Candido, in versi, de facti del nostro 111."° S.”.— Librazolo del s[opra] s[cripto] al nostro I.ra0 S.re, in vulghare ». Di una vita del Petrarca e commenti alle poesie volgari del medesimo è cenno in una lettera di Federico Gallo al Decembrio in Cod. Al *3°inf·, 197, sul che cfr. la nota seguente. (32) Lettera ad Antonio Loschi, Cod. B., 27, f. 56: « Exigis a me crebris epistulis tuis, nec minus silentium meum damnas, ut de Francisci Petrarche operibus eiusque vita quid senserim aliquando ad te scribere instituam. Ego vero, etsi voluntati tue in hac re satisfacere summe cupiam, multorum tamen iudicium auctoritatemque devitans, quibus viri huius tabelle grate esse solent, libentius oculo que sentiam tibi innueri, quam litteris meis scribere ausim. Nec enim omnia bene dicta in publicum, sicut nec omnia bene facta in lucem, pace Ciceronis dicam , collocari volunt ; nec tu cum amicule tue collum amplecteris, vel oscularis, malam rem te facere existimas, cum plurimorum tamen aspectum ac noticias reformides. 184 GIORNALE LIGUSTICO Parietes itaque nostris domibus necessitas et honestas... Verum, ut requisitioni tue satisfaciam, sic habeto. Franciscus Petrarcha, florentinus natione, homo quidem celebris fame continentisque vite fuit; suis vero temporibus quasi sidus ob litteraturam et poesim habitus, illustrium principum amicitia claruit. Ceterum ingenio arido et exili, sed adeo tumenti, ut veterum virorum prestantissima opera usque ad insaniam imitaretur. Sic Virgilium bucolico carmine, sic Tullium soluta oratione, sic doctos historiarum scriptores, quos nominatim referre longum foret, emulatus ; sic denique poetas, ut ex Platonis politia tam multisciens ne in urbe quidem locum mereretur. Nos tamen, omni acerbitate remota, de ipsius operibus partius disseremus. Prophanum quidem esset apud ignavos quosdam et inhertes et litterarum industria temerius aucupantes, id perferre, sed que credi digna possint, cum volueris, ad exemplar in operibus suis annotabimus, ut, si lector sapiat, intelligat. Nec enim omnibus, et maxime tardiusculis, id facile quod sentiremus persuadere possemus ». Vedi anche la lettera al Fazino, in Un nuovo contr., p. 177, n. Per contro, scrivendo a Filippo Maria Visconti, Cod. B., 45, ff. 104 e segg., dice: « Francischus Petrarcha, vir scientia et eloquentia, et, quod his longe precipuum est, moribus ac virtute perfulgens ». (33) Lettera de! Coppola al Decembrio nel mio Nuovo Contr., pp. 294 e segg.. (34) Cfr. il mio Nuovo Contr., pp. 380 e segg.. (35) Cfr. sopra, n. 11. (36) Lettera a Martino V, in Cod. B., 16, ff. 41-42. (37) questi due arcivescovi mecenati mi occuperò altrove di proposito. (38) Sulle relazioni italiane del duca Umfredo di Gloucester uscirà presto un mio lavoro. Per ora mi limito a publicar qui una lettera al Decembrio del cosidetto Tito Livio da Forlì, che taglia corto a’ dubbi ed agli errori del VoiGT, t. II, p. 248. La traggo da R., 155, f. 83: « Titus Livius Frulovisus (sic) P. Candido salutem. Sic ratio mearum peregrinationum exigit, me(me) quod interdum versipellem faciam. Ego a vobis abiens, ut verum non inficiar, ex principibus nauseans, adeo stomachatus sum, ut ipsorum ieiunium aliquantisper sit habendum cum popularibus viventi: quamobrem recta Tolosam profectus, inter phisicos et artistas doctor unus declaratus sum, inde recta Bargusium, quam Barzanonam vocant, ubi memor quantum tibi debeam, statini, ut per librarios mihi licitum fuit, historiam illam clarissimi regis Anglorum transcribi iussi, pluriesque mittere volui, me semper frustrati sunt tabellarii, tandem com Bonromeis mihi GIORNALE LIGUSTICO __e_ 185 convenit, qui negociantur istic, quod illam sibi darem ; pollicentes quod dabunt operam ut illam habeas, habent et a me hanc epistolam, quam non celeriter (sic) reddi spero. Verum, quoniam inter nos verba fecimus super Cornelio illo physico, cuius exem'plum misisti Serenissimo Principi meo d. d. Duci Cloucestriae, et super Galieno, pro nostra amicitia te rogatum velim, si tibi facultas illa prisca datur librorum eius, me litteris tuis certum facere velis, quod ad te pecuniam mittam, et quanta opus est. Galieni plura volumina possideo, et cum recordor te Simplicium eius mentionem fecisse, quod semper cuiusque docti et non vulgaris maximi feci, te scire velim quod Galienus librum fecit De simplici medicina, quem co-muniter precedunt alii duo De elementis et De complexione, quos ego teneo. Si, praeter istos, scripsit alia Simplicia, quae possis habere, te rogo et, si vis, supplico, huiusce rei me magistrum facias, et an mihi spes sit, si nummos quos satis esse docebis misero, libros habendi, ego non tardabo, neque me negligentem neque rei minus cupidum dices. Insuper salutem dicas verbis meis viro nobili Petro Mantegacio mihi amicissimo, et vere digno qui in amicorum numero habeatur. Ego ad illum scripsissem , et iam ter verbis omnibus illud feceram , modo quasi desperans hanc epistolam dedit, et Bargusiae viget praeterea pestilentia, quod mihi non parvo fuit incomodo, nam ruralia colo, neque infirmum ullum visito. Si mutabitur aer, hic mihi bene facturum spero. Vale ». Cui il Decembrio rispondeva, tra le altre cose (R., 156, f. 184): « Historiam tuam libentissime vidi; libros vero requisitos mittam, si licuerit, per Bonromeos tuos. Tanti enim facio virtutem tuam, ut nihil arduum mihi putem in quo tibi queam complacere. Sincere tecum loquor, etc. ». (39) I codici principali che contengono la corrispondenza del Decembrio sono quattro, cioè B, R , A 1 23S illf·, ed uno di proprietà del marchese Saporiti (S), di cui dà notizie il Butti, l. c., e che io non ho finora potuto vedere (Cfr. su questi codici Un nuovo contr., pp. 285-286). Ecco la tavola alfabetica dei corrispondenti del Decembrio, coll’avvertenza che segno con asterisco i documenti che non sono propriamente lettere di lui o a lui. Il numero indica le lettere di ogni codice, senza distinzione di libri. Abiate Giacomo, R, 93. Accolti Francesco, A, 182. Acelozamma Leonello, A, 71, 72, 73 > 74· Adorno Raffaele, B, 50. Alfonso vescovo di Burgos, R, 166, 168, 167, 169, 170, 171, 172, 173, 174; A, 32, 33, 86, 87, 88, 167, 168, 169, 170. Alzate Filippo, B, 30, ji. Alzate Milano, B, 55; R, 73. Annidano Vincenzo, A, 165, 190, 191, 192, 210. GIORNALE LIGUSTICO Amidano Zenone, R, 50, 51, 52, 54, 62, 72, 141, 165. Ammannaii Giacomo, A, 116, 224. Antonio (frate dell’ordine dei Ge« suati), A, 104. Antonio vescovo, di Modena, A, 141. Aragona (d’) Alfonso, A, 20, 26, 27> 38, 39. Si, 52, 136, 137, 138, 139, 140. Aragona (d’) Ferdinando, R, 95 *, 96*; A, 90. Aragona (d’) Pietro, R, 158. Arcemboldo Nicolò, R, 19, 20, 21, 34, 63, 164; A, 79, 80, 81, 82. Arsago Nicolò, A, 188. Aurispa Nicolò, R, 22. Barbarigo Girolamo, A, 219, 221*. Barbaro Francesco, B, 17; R, 23, 94; A, 30, 31. Barbaro Zaccaria , A , 220, 221*, 223. Bartolomeo cardinal di Ravenna, A, 201, 202, 215, 230. Barzizza Gasparino, B, 6, Bechetti Giacomo, B, 32, 52; R, 58, 79, 196; A, 129. Bendedei Filippo, A, 250. Bentivoglio Antonio, R. 87. Bentivoglio G. B., A, 153, 156. Biondo Flavio, A, 18, 19. Birago Andrea, A, 163. Birago Lampugnino, R, 99, ioo, 101, 197, 206; A, 55,128,135. Boiardo Feltrino, B, 10; R, 33. Bossi Teodoro, B, 29, 56. Bottigella Gian Matteo, A, 213. Bruni Leonardo, B, 33; R, 44. Calcaterra Giovanni, A, 106. Cambiatore Tomaso, B, 15, 38, 41. Camillo Angelo, A, 155. Canziano Luigi, A, 154. Capra Bartolomeo, B, 1, 5, 14, 20, 21. Carpano Andrea, A, 58, 59. Carpi Giacomo, A, 172, 173. Casate Scipione, A, 56. Casella Lodovico, A, 1, 93, 98, 124, 262, 265, 269. Castello Girolamo, A, 234. Castiglionchio (da) Lapo, R, 46, 47, 48, 86. Castiglione Guarnerio, B, 7, 8; R, 38. Castiglione Zenone, R, 27, 154. Cencio Romano, R, 31. Clacteria Giacomo, A, 37. Constabili Alberto, R, 26, 42, 80. Conte (Del) Ruggero, A. 40, 41, 68, 69, 142, 143, 146, 147, 174, 242. Conte (Del) Simone, A, 152. Coppola Filippo, B, 3, 4. Correggio Galassio, R, 32. Correggio Nicolò, A, 254, 255, 256, 257, 258. Corte Sceva, R, 102; A, 61, 89, 92, 94, 105. Cotta Pietro, R, 4. Cremona Antonio, B, 54. Crivelli Ambrogio, R, 69. Crivelli Lancilotto, R, 201. Crivelli Lodrisio, R, 205. Croce Francesco, A, 196, 228. # Crotto Lancilotto, R, 78. Crotto Luigi, R, 12, 15. Davalos Inigo, A, 53, 63, 90, 91, 95, 96, 118, 259. Decembrio Angelo, R, 70, 76, 77, 97, 98, 134, 159, 160, 161, 162, 163. Decembrio Modesto, B, 12. Decembrio Uberto, B, 13. Decio Lancilotto, A, 42, 43. Enrico Ispano, A, 28 GIORNALE LIGUSTICO 187 Enrico priore di San Cristoforo, R, 135. Este (d’) Leonello, A, 8, 9, 10, 11, 13, 14, 15, 16, 70; (altre in S.). Este (d’) Nicolò, A, 243. Eugenio IV papa. A, 164. Fano (da) Cristoforo, R, 150, 151, 152. Fazino Bartolomeo, A, 251, 263. Federico d’ Urbino, A, 22. Federico III imperatore, R, 182. Ferrara (da) Lelio, A, 266. Fieschi Carlo. B, 9. Filippo duca di Borgogna, A, 24. Fissetaga abate, A, 112, 119, 148. Florio segretario ducale, B, 37. Forlì (da) Tito Livio, R, 155, 156. Fregoso Tomaso, A, 107. Gaio Antonio, R, 7, 8. Gallo Federico, A, 158, 194, 19s, 197. Gatto Gian Francesco, A, 2J2. Gaza Teodoro, A, 97. Genario Fermo, A, 150, 151. Genovesi (Orazione ai), B, 49. Ghilini Simonino, R, 2, 29, 4$, 56 , 88, 103 , 126, 140, 147, 175, 195, 208. Gioachino (frate), A, 117, 126, 217. Giovanni certosino, A, 240, 241. Giovanni vescovo d’Arras, A, 157. Guarino Veronese, B, 18, 43*; R, 28. Guglielmo certosino, R, 148, 149. Imperiale Andrea Bart., R, 5, 6, 11, 14, 128, 129. Jacopo (Di) Battista, R, 198, 199. Lampugnano Cristoforo, R, 37. Lampugnano Perei valle, A, 227, 233. Lardis (de) Costantino , A , 249 , 260, 264, 267. Landriano Gerardo, B, 35, 36; A, 2, 3, 4, 5, 6, 7· Libanorio Francesco, A, 248. Loschi Antonio, B, 27 ; A, 108. Marescallo Francesco, A, 261. Marinis (de) Pileo, B, 11. Martino V papa, B, 16. Mazzancolli Giovanni, A, 64, 65. Mercander Berengario, R, 157. Milano (Governatori di), A, 12, 23, 218. Mombrizio Bonino, A, 115, 122, 253, Muzano Giov. Francesco, A, 120. Muziano Matteo, B, 34; R, 64, 89, 90. Nicoli Nicolò, B, 40; R, 25. Nicolò V, papa, A, 50. Nicoloso poeta, R, 202, 203, 204. Occa Antonio, A, 149. Panormita Antonio, B, 48*; R, 95*. Parma (Governatori di), A, 17. Parma (da) Ugolino, R, 39; A, 127. Petronio Lodovico. A , 83, 102, 103, 132, 133, 134, 171- 193 » 206, 226, 231. Piccinino Francesco, R, 67; A, 180. Pietrasanta Francesco, A, 44,45. Pietro vescovo di Brescia. A, 34. Pio II papa, A, 54, 101, 125. Pisano Antonio, B, 53. Pisano Ugolinc, A, 57. Pizolpasso Francesco, R, 3, 53, 59, 61, 66, 82, 85, 142, 143, 144, 145, 146, 176, 177. 178. 179, 180, 181, 183, 184, 185, 186, 187, 188, 189, 190, 191, 192, 193, 194- Pizolpasso Michele, R, 36, 40, 41, +3. 49- 71. 83, 84, i36, i37> 138, 139, 200; A, 205, 232. Platone Teodoro, A, 237, 238. ι88 GIORNALE LIGUSTIGO Poggio Fiorentino, R, 24, 127; A, 46, 47» 48, 49, 76, 77, 78· Pompeo al Senato romano, R, 13*. Prato Guidone, A, 62, 160. Resta Lazarino, A, 84. Rho (da) Antonio, B, 24, 51; R, 35, 207; A, 29. Riccio Zanino, B, 26. Rieti (da) Angelo, A, 176. Rinaldo contestabile, A, 268. Rivola Bartolomeo, B, 19. Sabino Francesco, R, 60, Salario Abbondio, B, 2; R, 65, 91, 92. Santa Croce (Cardinale di), R, 57. Schi affiti i Prospero, A, .162, 166, 198, 199, 200. Scola Ognibene, B, 28. Scotto Alberto, A, 130, 246, 247. Siena (da) Cipriano, A, 229. Siena (Popolo di), A, 99, 100. Simonetta Cicco, A, 60, no, 113, 114, 121, 123, 131, 175, 183, 184, 187, 211. Soanense Pietro, R, 74, 75. Stella Giovanni, B, 39. Stella Gottardo, A, 145. Strozza Nicolò, A, 235. Strozza Tito, A, 244. Sulmonense Bartolomeo, A, 222. Talenti Rolando, R, 105, 106, 107, 108*, no, 112, 113, 115. Tifernate Gregorio, A, 35. Tranchedino Nicodemo, R, 1; A, 85, 161 , 177, 178, 179, 185, 186, 189; altre in S. Traversari Ambrogio, R, iò, 17. Treviso (Vescovo di), A, 225. Tribraco poeta, A, 245. Triviense Mattia, A, 109, 159. Trivulzio Arasmino, R, 81 *. Umfredo di Gloucester, R, 104*, 109, in, 114, 116, 117, 118, 119, 120, 121, 122, 123, 124, 125; A, 25, 66, 67, 207, 208, 209, 216. Valla Lorenzo, R , 55, 130, 131. Vegio Eustachio, R, 153. Vegio Mafeo, R, 18, 132, 133. Vetgelense (Vescovo), A, 21. Vienna (Delfino di), A, 144. Vimercati Giov. Antonio, R, 9, 10. Vimercati Ottavio, A, 203, 204, 214, 239. Virgilio a Mecenate, A, 236*. Visconti A. (frate), B, 45. Visconti Filippo Maria, B, 46, 47; altre in S. Visconti Francesco, A , 181, 212. Zambeccari Cambio, B, 22, 23, 25, 44· Zannono vescovo di Baiona, R, 68. Iti questa tavola ho trascurato appositamente di notare, per ragion di spazio e di tempo, quali lettere siano già a stampa, e quali contengansi pure in altri codici minori; inoltre non ho tenuto conto delle dediche in capo a testi dedicati, nè dei documenti di archivio, parecchi de’ quali publico più innanzi in questo stesso lavoro. (40) Vedi la lettera allo Schiaffini sulla morte della prima moglie Caterina Bossi, in Un nuovo contr., p. 209. (41) Come nella vita di Filippo Maria Visconti, in Muratori, R. 1. S., t. XX, pp. 981 e segg. GIORNALE LIGUSTICO 189 (42) Gioverà avvertire che nelle note precedenti non ho addotto per ogni accenno del testo tutte le prove che avrei potuto , ma solo alcune scelte di regola ira documenti inediti. (43) Cfr. il mio lavoro Ricerche intorno allo storiografo quattrocentista Lodrisio Crivelli, pp. 12-14. Firenze, Cellini, 1891. (44) Cod. A, I, 235 inf·, f. 109 r. (45) Cipolla, Storia delle signorie, pp. 388-590. (46) Che il Decembrio ne ricevesse mandato dal duca, appare da una lettera del Capra a lui, Cod. B., 20, f. 30 v. : « Ex Lusco nostro, viro, quantum mea fuit opinio, evi nostri doctissimo, te noviter iussu principis nostri super conflictu et morte Brachii de Montono quandam epistolam edidisse [cognovi], quam ille vir, cuius ego iudicium in omni re quam maxime facio , tantum tamque sonora voce laudavit , ut mentem meam , variis involutam ac pene sepultam curis, incredibiliter oblectarit. Gaudeo et supra modum exuito, cum sentio quod cepisti te humo tollere atque hominum volitare per ora ». E chiede l’orazione, desiderando vivamente di leggerla- (47) Cod. B., 10, ff. 20-26. Ne reco i brani più interessanti. « Pluribus undique nuntiis et literis, spectabilis miles et amice noster carissime, inopinatum et auribus nostris pene increditum Magnifici Brachii de Forte-brachiis et armigerarum suarum gentium dolentes audivimus. Tanta quippe fortune vis est, ut quem merito semper ex fama et virtutibus suis cognovimus , tandem, sanctissimi domini nostri pape ac Serenissime domine regine Iohanne subsidiis adiuti, necnon propriis gentibus oppugnare coacti simus, et cuius victoria potiti iuste exultare debuimus, superatum tamen invite sentiamus. Sed, quum desideratam iamdudum sacrosancte ecclesie pacem nec minus universis Italie partibus tranquillitatem ex hac provenisse confidimus, contra voluntatem nostram ut gratulemur necesse est. Si enim illius inclita portenta non minus ceteris Italie principibus quam Ecclesie suspecta esse poterant, quis est cui comune patrie commodum gratum sit, qui non eversione letetur et gaudeat? Quamquam virtutem suam reputantes, quae, ut dicitur, allicit homines facitque ut eos diligamus quos etiam non vidimus, non possumus tamen tanti viri adversitate non commoveri. Erat enim ea probitate et fama preditus, que non modo nostrum, qui semper excellentes homines libentissime fovimus, verum cuiusvis crudelissimi hostis animum flectere et ad admirationem adducere posset, ut si bellorum causas odiremus, eundem tamen ex ineritis suis diligeremus. Itaque infortunium eius animo volventibus, non sine quadam mentis amaritudine de ipso licet reminisci. Nostis enim alias cum illustri fratre 190 GIORNALE LIGUSTICO nostro domino Marcinone Estensi nobiscum essetis, fieretque, ut plerumque consuevit, inter nos de excellentium virorum prestantia non iniucunda concertatio, quinam rei militaris peritia, annorum exercitatione, ceterisque virtutibus laude digniores nostri temporis duces bellorum censerentur, mul-tique ex famosissimis quondam viris tum etiam viventibus quosdam proferrent, alterique alterum, probabilibus adductis rationibus, compararent, nos semper magnificum Brachium ceteris pretulisse, vobiscumque in eadem opinione constantissime perseverasse... Nota erat orbi viri probitas, noti mores , nota felicitas , ut cuivis recte iudicanti luce clarius reliquis preponendum illum esse constaret et nos ore ceteris iuste censuisse. Sed tam violenta plerumque fortune temeritas est, ut et in ipsos quos, suis exigentibus meritis , enixe dileximus , manus nostras armet invitas.... Sic feruntur casus nostri, immo volvuntur, ut que posse concupivimus, potuisse doleamus. Satis notam vobis omnibus causam suspicamur, ex qua, fortuna ipsa cogente, impulsi sumus gentium nostrarum presidiis exultantem solita vincendi fiducia virum opprimere, et quem fama dileximus, ut omnes meritos consuevimus , non sine magna armigerorum suorum strage prosternere... Nec enim magnificum quondam Brachium, sed belli causam poties oderamus, nec illi hostes, sed Ecclesie et tranquillitati Italie fautores extitimus... Nobis autem, preclarissimi viri casum cogitantibus, quem, ut alia omittamus , nullum etate nostra bellice artis gloria prestantiorem diceie audemus, tam infelici sorte prostrati, non iniustissime dolere licuerit. Exultamns quidem, ut par est, iuxta exoptataque victoria, victi tamen adversitate commoremur. Nos enim italicam pacem non solum optavimus, vero omni studio industriaque quesivimus; Ecclesie sanctissimique pontificis statum, maxime omnipotentis Dei reverentia, semper fovimus, et enixe; omnibus vero, qui honestissimis his causis adversati sunt, conatibus et viribus obstitimus. Prestantes tamen viros et virtutum gloria insignes ut diligamus, fortuneque imbecillitate commoti, adversis eorum rebus doleamus, et humanitas suadet, et nullus, nisi crudelis aut invidus, reprehensione dignum iudicabit... Quamquam quis digne obitum magnifici quondam Brachii putet esse deplorandum, si modo vite sue seriem diligenter inspexerit? Ipse etenim, dum vixit, exercitus magnos felicissime duxit, civitates rexit, multas et illustres victorias obtinuit, inimicis suis — et his quidem famosissimis — superior sepe fuit. Cum diucius fortuna prospere usus esset, gloriosissime vita elapsus est. Quid autem prestabilius quam strenuum virum in mediis hostium catervis generose dimicantem cum honore et gloria interire? Non enim mors inclita, constanti ac magno viro, sed turpitudo potius mortis repudianda est. Is igitur felix est censendus, GIORNALE LIGUSTICO I9I quem bene gestarum prius rerum memoria illustrat... Quis enim illius infelicitate glorietur, qui fortiter animoseque occubuerit, in quam facillime idem minori cum gloria possit incidere? Quamobrem non tantum vos, quem semper virtutis huius famosissimi viri amantissimos esse cognovimus, verum etiam quoscumque fame et probitatis sue dilectores exhortamur ut, lacrimis penitus abstersis, se potius tam eximio fortune munere ab eadem spoliatos, quam illum ob id infortunium credentes, ingemiscant. Inimici vero, si ex eorum potentia peritiaque militari, aut maiori quadam alia virtute ab ipsis superatum eundem intelligerent, non tam superbe tamen exultare deberent, quin et se mortales esse meminissent, quibus graviores plerumque casus et quotidie incumbunt. Cum vero id a fortuna, que sepenumero peiores favet, et quadam fatorum violentia evenisse concipiant, nulla digna causa est cur tantopere de illius adversitate glo-rientur ». La commemorazione porta la data « ex castro nostro Vigle-vanì » i luglio 1425. Braccio era stato sconfìtto il 2 giugno. (48) Lettera cit. a Martino V, Cod. B., 16, ff. 41-42. (49) Documento in Osio, Docc. diplom. tratti dagli arch. milan., t. II, num. 86, pp. 157-158, Milano, Bernardoni, 1869. (50) Ibidem, n. 151, p. 259. (51) Il testo, fra i molti codici in cui si trova, è anche in B., 43, ff. 78-87. Comincia con lodi sperticate , affermando che del Carmagnola « magnitudo et virtutis prestantia eruditissimum scriptorem, aut magnum quendam poetam efflagitat », e termina: « Nulla enim tam ingens, tam clara, tam admirabilis res gesta est, quam non vetustas obscuret et oblivio, nisi litterarum splendor et scribentium lumen accenderit ». Sull’epoca in cui fu scritto il panegirico, Sabbadini, Vita di Guarino Veronese, § 250, p. no, Genova, Sordomuti, 1891. La preminenza di Scipione, ibidem, § 259, p. 115, e Storia del Cieeronianismo, pp. in e segg., Torino, Loescher, 1886. (52) Lettera di Pier Candido a Guarino, Cod. B., 18, f. 43: « Guarine mi eruditissime, diu te ob inclitam famam tuam adamavi, teque presentem intueri sepius exoptavi. In est enim quasi omnibus, ut scis, ingens desiderium videndi eos, quos ex celebri quadam virtute famosos audiverint. Ego quoque, etsi non admodum his edoctus studiis sim, quibus ipse eruditissimus prohiberis, summopere tamen te semper videre concupivi ». E dopo il passo già riferito a proposito di Francesco Barbaro, conchiude: « Interim tanta spe frustratus, continere amplius silentium non quivi. Hec itaque celeriter et breviter scripsisse libuerit, ut ignoti amici noticiam habeas, eiusque opera in rebus tuis fidenter utaris et me diligas ne solus diligam ». (53) Altra, Cod. R., 28, f. 14: « Inhexaustum mihi risum excitarunt 192 GIORNALE LIGUSTICO epistulae tuae, ita facetiis partim fortuitis refertis, partim a te lepide conscriptis », e termina: « Vale, amice dilectissime, et si quid a me tibi gratun: fieri posse existimas, impera ». (54) Cod. B., 44, ff. 87-96: « Non inquirendum est, vir insignis (il Zambeccarï) si qui excellenti ingenio magnaque eloquentia prediti multos dignis laudibus extollere, nonnullos vero meritis conviciis afficere ausi sint, cum Guarinus Veronensis, cuius epistolam noviter legendam mihi tradidisti, vir in dicendi facultate mediocris, eam sibi gloriam vendicare conatus sit.... Non modicam mihi bilem excitavit quedam insolens in eo et inconsulta loquendi scurrilitas... Illa profecto risu dignissima viva sunt, que secuntur, nec ulla nostri culpa est tantarum rerum reprehensio, sed illius qui tam inepte scribit, ut merito reprehendatur ». Il Sabbadini, Vita di Guarino, § 250, p. ni, assegna la risposta del Decembrio al 1432, ma dal posto che occupa nel Cod. B. (libro V, 2, mentre libro Vili, 1, è, come or ora vedremo, del 1431, (1 documenti sono disposti in ordine cronologico), la riterrei del 1428 stesso o, al più tardi, del 1429. (55) Sabbadini, § 251, 1. c. (56) Idem, Cronologia della vita del Panormita e del Valla, p. 47. (57) “ Sed quia multa de levitate et impudentia dicta sunt, multaque de latrociniis dicenda superant, reliquum in aliud volumen distinguemus, ut cuique parti proprius assignetur locus ». (38) Cod. B. , 48, ff. 112-128 r. II Sabbadini, Cron. Panorm. e Valla, ne ha dato appunto un’ analisi sommaria e parecchi estratti ragguardevoli. Aggiungo pertanto solo in nota qualche altro brano inedito, a cominciare dal principio: « Novis monstris infamis scatet insula; nulla nobis a Vulcano requies. Illinc fulminibus, hinc epistolis opus est: multiplex utrinque labor siculis obstare latronibus. Quo me vertam? Cuius auxilia implorem? Dubito Iovis ne nomen inclitum, an Alcidis nati vires, an tuas potius, Filippe dux et decus nostrum , vires invocem : tua enim ab omni parte gloria hostilibus armis petitur, quamquam nonnullos admirari cogor, qui cum a te premiis et honoribus magnificentissimis aucti sint, tuis tamen insultent titulis, emulorum tuorum laudes cupidissime foveant. Itaque orationis illius impudicissime et spurcissime, cui non minus pro excellentia tua ac pietate, quam pro innocentia mea responsum aliquod daturus sum, mucro quidem nobis intenditur, acies vero virtuti ac dignitati tue infligitur. O audaciam, inscitiam contemnendam!... Tuas a nobis, Antoni, tegnas, tuas litterulas ignorari credis, quin et Guarini, viri, meo iudicio, satis docti, te appellari ac credi cupis, homo omnium ineptissime? Quasi inter tua et illius scripta nihil aut modicum intersit... At etiam novo di- GIORNALE LIGUSTICO I93 cendi genere innixus, Mecenatem quendam etate nostra apprime commentas eras, nisi invidia, ut plerumque fit, conatibus fortuna tuis obstitisset! Non inepte sane, ut ipse merito subinde nomen Virgilii assequere. Facili quidem erat homini tuis artibus litterisque imbuto quique non mediocriter hac Mecenatis laude teneretur, pares tibi gratias referre... Sic ille Mecenas, tu Virgilius: sic clam provincias sorte dividitis... Ceterum fuerit Mecenas... cum is doctissimus magnum , ut Anneus inquit, romane eloquende exemplum daturus, nisi illum felicitas enervasset. Hic autem tuus illi quam dissimilis!... Novum profecto bellum cum hermine, non dicam impurissimo , ut ex versibus suis coniectari licet, sed cum pedicone nefario, siculo predone ac fugitivo) mihi indicitur, in quo auditorum omnium fidem caritatemque testor, si quid forte professioni mee et etati minus aptum aut honestum scripsisse videar, non mihi potius, sed illi succenseri velint, qui huiusmodi orationem primus in publicum efferre ausus est ... Ί anta dicendi impudentia sive impunitas post pyrraticos cursus tibi su-perest, ut in optimum quemque procaci lingua et fetidis moribus insultes, et cum manu solitus obesse nequeas, impudicis verbis non desinas dese-vire? Ad tuain igitur epistolam seu, quod maius, oratiunculam explicandam accedamus. Respondimus igitur ad partes singulas, nec discipulo nobis opus est, ut tibi preceptore... Primum itaque, quod ad nos attinet, de Curio nostro aut Fabricio parva dicenda sunt, qui partim mores nostros aliunde didicisse, partim prospexisse dicit. Magna profecto tibi rerum tuarum quies ac securitas , qui aliorum mores sic examinas atque perponderas,. tuos autem non dicam mores, sed errores, oblivisceris ! An tua adulteria,, furta, incesta, latrocinia, nobis ignota esse reris? Que meretrix, quis caupor quis sicarius , quis leno tota Italia , quem tua vita lateat? Cui non familiaris ac domesticus fueris? cum quo non lucem aut ipse diviseris? Qui nunc paliatus et crepidatus, facie lurida, incessu pigro, subductis superciliis, verba trutinas, epistolas meditaris et apologos? Empedoclem, cum videas, censeas, tanta in vultu dignitas, tanta in incessu gravitas ! Imprimis itaque verecundiam a nobis exigis. Id certe laude dignum, si a viro utique spectato et gravi quereretur... Tu, inquam, verecundiam, cuius magna tibi semper inopia, qua regione illam habitare reris? In lupanari? Ut Hermafrodito tuo fidelis custos addita, e latere eius numquam discedat... Nunc, ut de legatione quam obicere nobis visus es, pauca respondeo... Si qui forte sunt, quorum e numero te solum autumo, qui me tabellarium vocent, non mirum aut iniuriam existimo: si quidem quicumque litteras defert aut tabellas, tabellarius, et qui macheram macellarius, ut pater olim tuus... Quod igitur officium, vel quod servitium pro tuo annuo stipendio Giorn. Ligustico. Anno XX. 194 GIORNALE LIGUSTICO preclarissimo duci nostro exhibes? Nullum arbitror. Sunt tamen apud nos rerum tuarum non indocti, ne te forte ab omnibus ignorari putes, qui te non tabellarium, sed spintriam ac menstruosarum libidinum repertorem dictitent et affirment. Sic ego tabellarius, tu priaparius ; ego litteras et calamos, tu pennes queris et mentulas, ego ceram et sigillum gestito, tu foramina merdivoma scrutaris et fetes; ego papirum et attramentum, tu centones contractas et menstrua ; ego denique epistolas scribo, tu puellas imberbes subigis et inclinas ac postremo cunnos et podices, officine tue instrumenta continua, putidis sculpis unguibus... At etiam ausus es — quid est autem quod infamis leno iste non audeat? — me exploratorem palam dicere , ut meo non solum nomini , sed et principis nostri glorie ac dignitati eternas maculas inureris... Has igitur pro suis in te beneficiis illu."° duci nostro gratias refers?... Epistolam meam, tuo iudicio tuisque litteris, ad Guarinum hinc evolasse scribis. Quid tibi cum Guarino, perfide ? His presertim temporibus , cum nullus Veneti nominis aut glorie emulus esse possit, qui non acceptissimus nostro principi merito existimetur?... Primum igitur ex te quero... que te potissimum res excitaverit ut nobililatem mihi obiectare, ut probrum, ausus sis... Veritus es ne tibi macellum et pistrinum obiectarem?... In qua re (poesi) quam propiciam adeptus fortunam fueris, quis ignorat? Parvo admodum animi labore, magno corporis, modico temporis spatio, omnem illam famosam poesim adeptus es, cum interim p receptori tuo (Guarino?), preter nates et femora, nihil in discipline premium constitisses... Quid expectas, Virgili novelle? Mecenas tuus in deorum numero relatus est.... Nunc quereris orationem illam celeberrimam preceptoris tui a me incommode epistolam appellari. Magna dissensio ! Non memineram in Senatu, audiente comite Francisco, populo vero veneto applaudente, fuisse recitatam... Putabam a Guarino, viro utique inglorio, ipsi comiti fideliter delatam extitisse. Ceterum miror cur tu, docte vir, epistolam tuam, qua laudibus et preconiis nostris implevisti... epistolam, inquam, non orationem voces, cum in omni populo, prius quam ad manus nostras applicuerit, a te recitata et lecta sit. Est ne aliud quod obicias, bipedum nequissime?... Miror cur preceptoris tui ineptias a me tantopere corrigi et refelli doleas. An quia forte Venetorum causam, ut optaras, haud commode sustinuisse visus est? Id certe arbitror... Tu principis nostri, tu gentium nostrarum letaris iniuriis ; ipse, ut par est, eorum meritis et laudibus exulto; tu Venetos nostrarum rerum dominos, ipse e contra nostrum principem suarum dominum videre malim; tu comitem Franciscum duce nostro prudentiorom ac feliciorem haberi cupis, ipse comitem principi nostro longe imparem ; tu denique urbis GIORNALE LIGUSTICO *95 nostre gloriam, tu ducum nostrorum iam.im conaris evertere, ipse eorum res gestas tuis maritimis ductoribus precellere contendo.... Utrum laudabilius quidem est, me illiteratum domino meo fidum , an te poetam , ut dicis, eruditum, verum proditorem, in dictatura anteponere ?... Cum autem rationes a me redditas refellere non possis, cunfutare non audeas, crucem enim extimescis, totis in me viribus ac mores meos et disciplinam irruisti. Sed quid a me in Guarini vita simile, quid proterve dictum aut scriptum extat?... Si tibi tanta Veneti imperii reverentia, tanta caritas inest, calamum arripe, Gallam et xMelchinam advoca: superest non contemnenda belli ■series, Padum classibus opertum, viros illos bellatores egregios a mulieribus uno impetu bello captos ediscere. Hec tibi illius guariniani triumphi reliquie supersunt; hic Comitis tui stratagemata cernere erit ». Seguono i passi riportati dal Sabbadini sul soggiorno del Panormita a Bologna ed a Roma, indi: « Venisti Florentiam... ut a Medicis tuis viatici quippiam abroderes. Quid tua ibi sodalicia referam ? quid ebrietates? quid adulteria? Cum nulla dies non sine scortis, sine conviciis, abs te translata sit, dum Hermafroditum tuum in lupanari, velut in stabili matrimonio, collocares. Deinde cum omnes tuis ineptiis, tuis sordibus, invisos et alienos effecisses, Lucam advolas, ne ulla urbs immunis tuis flagitiis redderetur. Hic subito, sive casu, sive nonnullorum insidiis agnitus, servari ceptus es, et, ut breviter exponam, hic omne vie cureque levamen, Ergotulum tuum, amisisti: hic te, pater optime, fessum deserit. Qui risus de te, qui ioci per universam urbem extiterunt ! Errabat nebulo, obvios quosque percunctabatur, Plautinum senem dixerint thesauri furem insectantem; nec secus ut Tv-rintum hilam, sic Ergotulum nemus omne sonabat. Quid Appennini transitum , cum denuo in Italiam revertereris? Quid labores tuos narrem ? Extimare perfacile est, homunculum fragilem, solviagiis tunice oris terram lambentibus, per tot montium confragosa, per tot lubrica vallium, per tot amnes tumidos, non sine crebris lapsibus et magnis periculis transivisse. Quid ferrarienses hortulos a te tantopore deploratos? Quid vetulam tuam edentulam dicam, cum de te urbs tota plauderet, et mimo notior, cunctorum digitis oculisque notareris? ». L’invettiva si chiude colla riferita promessa di una seconda parte. La data è certo posteriore alla battaglia fluviale di Cremona (giugno 1431) perchè vi si allude; ed un passo che accenna al Panormita come poeta laureato parrebbe doverla ritardare oltre il maggio 1432, nel qual tempo ebbe luogo la laurea del siciliano in Parma (Sabbadini, Cron. Panorm. c Valla, pp. 41-43). Tuttavia è singolare che non vi si alluda al Carmagnola come già morto, mentre la sua decapitazione ebbe luogo appunto il 5 maggio '32· (Cipolla, p. 353). Potrà 196 GIORNALE LIGUSTICO pur essere di qualche interesse avvertire che esiste pure un’ invettiva in versi col titolo P. C. Decembrii in Antonium Panormitam apologia (Universitaria di Pavia, Carte Gianurini), satira sanguinosa messa in bocca al Beccadelli, dovo vogliono esser rilevati i distici: Italicam colui gentem, mensisque superbis Pontificum assuetus brachus herilis eram, cumque sacerdotum colerem mensasque thorosque, indignos cecini religione sonos, vulvas et coleos, etc. (59) Sabbadini, Cron. Panorm. e Valla, p. 9-10. Cfr. lettera di ricevuta del Decembrio al Raudense, Cod. B., 51, f. [32. (60) Non 1435, come per errore di stampa (Cfr. infatti, p. 131 , n. 1) si legge nel mio libro Un nuovo contr., p. 289. (61) Ne trassi il testo dal codice B. e lo publicai integralmente nel citato Nuovo contr., pp. 306-310. Una lettera di encomio di Raffaele Adorno, ibidem, p. 310-311. (62) La Laudatio del Bruni fu studiata ed in parte edita dal Kirner, Della « L. u. F. » di L. Bruni, Livorno, 1889, e dal Klette, Beitràge {ur Geschicbte und Literatur der italianischen Gelebrtenrenaissance, t. II, pp. 28-34, 84-105. Cfr. anche Wotke, Beitràge \ur L. Bruni aus Areno, in Wiener Studien, t. XI, pp. 291-308, 1889. La Laudatio del Decembrio è per intero (in una versione italiana di Carlo di San Giorgio) nel Cod. Estense di Modena, VII, B, 12, ed un brano di tale versione fu stampato dal Muratori, R. I. S., t. XX, pp. 1085-1089. È curioso e notevole che esso riguarda appunto la battaglia fluviale di Cremona, cui consigliava ironicamente il Panormita a cantare. (63) Lettera del Vimercati al Decembrio e del D. al V., in Cod. R., 9 e 10, ff. 4-5. Nella prima: * Ea igitur ex re, Candide mi, te magnopere rogo ut ad me quamprimum orationem tuam mittas, quam nuper composuisse diceris contra illam Arretini, quam de laudibus Florentiae scripserat ». Nella seconda: « Orationem autem requisitam et alias pollicitam tibi debeo et mittam cum primum per necessitudines meas transcribendi tempus aderit ». Siccome, fino a prova contraria, ho forti argomenti per ritenere che il carteggio del Decembrio sia disposto press’a poco in ordine cronologico, cosi poiché R, 19, f. 10 r. allude, come vedremo, ad un viaggio di Pier Candido in Germania ed in Francia che durò dall’aprile alla fine dell’anno 1435, e R, 9 e 10, non possono appartenere al tempo del soggiorno all’ estero, ne viene di necessità che esse lettere debbano porsi, al più tardi, prima dell’aprile 1435. Ma, se GIORNALE LIGUSTICO I97 si tien conto del tempo che dovette passare tra la compilazione della Laudatio, la notizia avutane dal Vimercati , la lettera del medesimo e la risposta del Decembrio, si arriva facilmente al 1434. E che questa data sia realmente la vera, si può conchiudere anche in un altro modo. Nella lettera di Andrea Bartolomeo Imperiali da me stampata in Nuovo contr., pp. 311-312, si legge: « Scripsi pridie ad spectatum Carolum Lomellinum, nostre Pontice classis PREFECTo, epistolam quandam... Orationem illam Leonardi Arretini nusquam habere potui ». Or Carlo Lomellini cornane dava la flotta del Ponto e vi compieva imprese con varia fortuna appunto nel 1433-34. Vedi Canale, Della Crimea, del suo commercio e de' suoi dominatori, t. II, pp. 53-54, Genova, Jacchia, 1855. (64) Sabbadini, Cron. Panorm. e Valla, pp. 76-79. (65) Ibidem. Cfr. il mio Nuovo contr., p. 315. Non so trattenermi dal riferire intera la seguente lettera di Maffeo Vegio, Cod. R., 129, f. 73 r: « Legi, Candide, litteras tuas unaque aureum opus tuum, in quo, si credis mihi, visus es adeo te superasse, ut pene alter factus esse videaris: occurrebat tanta dicendi ubertas, tantum flumen, tanta vis ingenii, senten-tiarumque maiestas, splendor, ornatus, ut iam videreris, Candide, candido sole candidior. Neque iudicio tantum meo, quod perexiguum est, fidem adhibeto : non contentus lectione mea, curavi ut a multis et doctis quidem legeretur. Quotquot legerunt, — summum namque id mihi studium fuit, — probarunt; hercle, non probarunt, sed commendarunt, sei ad coelos usque laudibus extulerunt. Est opus ipsum cum materia et inventione sua praestans et admirabile, tum auctoris dignitate magnificum, tum sententiis et elegantia, planoque et dilucido quodam dicendi filo splendidissimum, ut qui non ipsum probaverit, vel desipiat certe, vel invideat. Conferunt nonnihil etiam amicissimae voces meae, neque deest mihi hominum be-nivolentia, neque fides, neque favor plurimus. Convenerunt iam plerique iuvenum , certatimque id exarant monimentisque reponunt. Iam prodiit convolavitque; doleo sed quam maxime non esse id consummatum. Ouod si consumaveris perfecerisque aliquando, nil dubito quin cura vel tantum mea ducentas in manus exemplatum evadat. Crede mihi, qui neque nugis neque vano aut fallaci sermoni uti soleo; persequitor, obsecro, tam elegans et perinsigne scriptum , quod in omnes dies duraturum , teque immortalitati consecraturum est; persequitor, bone Candide, ne te inertiae tradas, qui caeteros diligentia anteire soles. Ad fores video occupationes tuas, quas etsi non leves intelligam, minime tamen te absterrebunt, si cogitaveris oculisque anteposueris C. Caesarem, qui longiores altioresque inter curas, vel lectitabat tamen, vel memorabile semper aliquid scripti- 198 tabat, cuius scripta et maximo in pretio sunt, , et voluptati non modicae legentibus cedunt. Adcinge te igitur operi magno, ut es semper, animo ; perge ac tutum et alacriter quae coepisti exequere: opus ego ipsum perficiendum, cum voles, remittam. Quod diu ad te non scripserim, impedimento fuit mala valitudo , qua vix nunc absolvi incipio. Vale ». Singolare è la storia dei rapporti del Decembrio col Vegio. Il primo, infatti, cosi scriveva al segretario ducale. Florio , Cod. B., 37, f. 67: « Postquam a te discessi, nactus ociandi tempus, versiculos illos Maphei cuiusdam Veggii prius a me visos et a te collaudatos, denuo revidere et lectitare institui. Nam que bene sunt scripta et ornate, ut ait Flaccus, decies repetita placebunt. Volui insuper iudicium meum compescere, neque fortasse me temeritate quadam aut ignorantia versus illos damnasse aut partius laudare existimaret. Verum, quanto diligentius eos intueor, tanto editionis illorum permaxime gaudeo. Ceterum a Catone (Sacco), viro peritissimo, tantopere laudatos esse demiror, quamquam Catonem istum non Uticensem, sed alium quendam Catonem iurisperitum egregium fuisse audeo, et qui optime leges noverit. Mapheus vero iste non mediocri laude mihi dignus visus es, qui in etati iuvenili tantum opus aggredi, quantum ne senex quidem perficere possim, conatus sit, licet uberiori laude quoque dignum existimarem si suis versibus, non alienis, opus illud perficere potius ten-taverit: non enim solum Virgilio addictus est, cuius omnibus fere in locis circumcidit, sed meos etiam quosdam versiculos, quos adulescentior edidi, consectatur, eosque... nescio quo pactu ad illius manus pervenerint, presertim cum illos semper studiose suppresserim, quos scio eum nequaquam pro sua modestia insimulaturum, et si audeat, minime possit. Ego nempe equum mecum, etiamsi cauda mutilus, auribus detruncatis, defectis crinibus, ad me deducatur, cognoverim. Versiculos etiam meos, quos idem quibusdam in locis distorquet ac reflectit, permutatque hinc inde, facile dignosco. Mihi tamen non ingratum est meos versus tanti existimari ut cum virgilianis iniungi mereantur, dummodo grates mihi referat, quas ego illi maximas ago, qui me ac mea tanti facere dignatus sit. Ex his igitur que omnes exequi longum foret, gustum quempiam tibi sufficiam, ut et Franciscum nostrum, virum eruditum, ac consocios tuos veritas ipsa non lateat,... Hec enim per octo iam elapsos annos, ne quis ficta putet, a me adolescentulo perscripta sunt et penes me servata, me invito in lucem prodierunt, que tibi in omnem casum ostendere cupio et Catoni illo multiscio cupio ostendi, cui alias, si tempus aderit, super his plura scribere est animus. Vale ». Cfr. Argelati, p. 210, num. .36. (66) Klette, /. c. (Conlinun). GIORNALE LIGUSTICO I99 UN UMANISTA VIGEVANASCO DEL SECOLO XIV. (Continuaçioue e fine v. a pagina 111.) I. - ELENCO DELLE OPERE a) Lettere. (Cod. Ambr. B 123 sup. ff.“ 216 i- 217 t) Ubertus Coluccio Piero sai. Inc. : « Inter ceteras virtutis potentias » Explic.: « cupiens te bene diu et feliciter valere » (1390?). (ibid. f.° 218 r e t) Ad eundem. Inc. : « Antequam tuam hanc satyram » Explic.·. « ad anteriora converte. Papie, in vigilia natalis domini vmj Kalend. Januarii » (1390?). (ibid. ff.*1 218 t - 219 t) Ad amicum de miseria humanae vitae consolatio (Salutati). Inc.: Etsi te, vir diu composite » Explic.: « desine fata deum flecti sperare precando » (?) (ibid. ff.11 219 t ~ 221 r) Ad amicum de Gentilium operibus iudicium (Salutati). Inc. : « Gratum mihi fuit, imo gratissimum » Explic.: « ut tu prudentiori obsequi iudicio. Vale Pragae vm Kalendas Martij » (1399). (ibid. f.° 221 r t t) « Ad eundem descriptio Pragensis urbis et nonnulla de moribus populi in ea existentis ». Inc.: « Iocundum est mihi, frater amantissime » Explic.: « nunc sum novus incola terrae. Vale Pragae mj Nonas Martij » (1399)· (ibid. ff." 221 t - 222 t) Ad eundem de eadem urbe et moribus incolarum copiosius. 200 GIORNALE LIGUSTICO Inc.: « Iam nunc, frater carissime, huius urbis » Explic.: « maiorum suorum sensere cervices. Vale Pragae pridie Kal. Martij 1399 ». (ibid. ff.‘‘ 222 t - 223 t) Ad Ippolitum (?) adhortatio ad religionis minorum observantiam. Inc. : « Aetate fili, religione pater et frater » Explic.: « votive ac feliciter dirigat in agendis ». Vale(?). (ibid. ff.u 223 t - 224 r) Ad eundem. Inc.: « Vix Cristofori tui carminibus » Explic.: « et ne confundantur ex tenebris educere ». Vale (?). (ibid. f.° 224 r) Ad Collucium Pierium florentinum secretarium. Inc.: « Si gravis valetudo, qua plurimis » Explic. : « et paratum ad conformia votis vestris » (?). (ibid. f.° 224 i) Responsio Uberti Decembri ad Antonium (Vimercati). Inc.: « Equidem gratissimum mihi fuit » Explic.: « Valete et mihi vero ubique percipite » (1426). (ibid. f.° 227 /) Epistola Uberti Decembri ad 111. Johannem Galeaz ducem Mediolani pro victoria insigni habita. Inc. : « Nunc tandem, princeps serenissime » Explic.: « pariter votis concurrentibus stabilire » (1402',. (ibid. ff.11 228 r - 229 t) Ubertus Decembrius nomine Iohannis Mariae Ducis Mediolani in Magnum Conestabilem (Alberico da Barbiano). Inc.: « Adeone perversa sunt humanae ». Explic.: « quosque versa vice fuerit imitandum » (1406?). (ibid. f.° 229 t) Uber. Dec. ducalis secretarii ad Laudensium cives primores. Inc. : « Quosque tandem, Laudenses antiqui » Explic.: « eligendum utilius censueritis judicate » (?). (ibid. f.° 230 r) Epistola Uberti Decembri Bonfilo de Ravena. Inc.: « Dulciter admisi fateor tua » Explic.: « mihi longe abesse poetae ». Vale, Mediolani quinto nonas Maij 1410. GIORNALE LIGUSTICO 201 (ibid. f.° 230 t) Innocentio Papae VII nomine Iohannis Mariae ducis Mediolani — Ub. Decembri. Inc. : « Tanta beatitudinis vestrae litterarum » Explic. : « dignetur Altissimus felicissimis incrementis » (?). (ibid. f.° 231 r) Imperatori Romanorum parte Gebellinae partis Mediolanensis — Ub. Decembri. Inc.: « Humillima recomandatione praemissa » Explic.: « et totius christiani climatis firmamentum » (?). (ibid. f.° 2311) Graegorio papae XII parte Johannis Mariae ducis Mediolani per Ub. Decembrium. Inc. : « Non est mirum sanctissime » Esplic.: « roboret et secundet. Data Mediolani die decimo Decembris» (?) (ibid. f.° 232 r) Nomine Iohannis et Filippi Mariae Vicecomitum Alexandro V papae Epistola. Ub. Decembri. Inc. : « Gaudent nunc reges gentium » Explic.: « per suam misericordem clementiam conservari. Data Mediolani die p.° Julij 1409 ». (ibid. f.“ 232 i) Alexandro V Summo Pontifici Ub. Decembrius. Inc. : « Beatissime pater, dixi Modesto nuper » Explic.: « esse iam ab diu suas devotissimas creaturas » (1409-1410). (ibid. f.° 232 t) Bartholomeo Caprae episcopo cremonensi. — Ub. Decembrius. Inc.: « Dix (sic) me affectare magnopere » Explic.: «cui me ut filium parenti propicio recomitto » (1407-1410). (ibid. f.° 234 r) Ub. Decembrius Modesto filio primogenito. Inc.: « Geminae mihi nuper, Modeste » Explic.: « dat escam omnibus temporibus opportunis. Iterum vale. Dat. Trivilij XXVII Julij » (1422). (ibid. f.° 234 r) Ub. Decembrius Papae Ioanni XXIII parte Bartholomei Caprae Archiepiscopi Mediolani. Inc. : « Si huius archiepiscopalis gratiam » Explic.: « suorumque fidelium devotissimum relatorem » (?). 202 GIORNALE LIGUSTICO (ibid. f.° 2341) Ub. Decembrius Symoni Morigiae. Inc.: « Heri dum beatorum Ambrosii » Explic.: « quin te quotidie nugis meis ex papiro obruerem. Ex Me· diol. » (?). (ibid. f.* 235 r) Ub. Decembrius Leoni Morigiae. Inc.: « Hodiernus mihi dies materiam » Explic.: « ad ripasque prospiciant capitis vertigine raperentur » (?), (Bibl. Comun. di Bergamo, Cab, Λ fil;' I, 20 f.° 47 re/) Epistola ad consolamen amici ne nimium doleat de morte patris, compilata per ma-turimum et eloquentem virum dominum Ubertum de Decembris de Vi· glevano, existentem pro Potestate Trivilii, anno Dm. mccccxxii. Inc.: « Ubertus December de Viglevano Bonzohanni (sic) de Buschis pl. sal. d. Etsi casum, frater egregie, tui condam celeberrimi ». Explic.: « Vale, me offero votis tuis. E Trivillis V.'° Kal. Decembris, anno dm. mccccxxii ». (Cod. dell’ Univers, di Bologna 2387 f.e 30 r) Ad Candidum per Ubertum genitorem suum. Inc.: « Anaxagoras ut scriptum est » Explic.: « haec tam inculta conscripsi » {1424). b) Versi. (Bibl. Naz. di Parigi, Fonds Latin Nouvelles Acquisitions n. 1152 (mss. del sec. xv) f.° 64 r e t) Hos versus misit Ubertus December de Vigliveno domino Johanni Teppae (Toppae?) consiliario illustrissimi domini Johannis Mariae ducis Mediolani etc. ipso Uberto existente in Ro-cheta portae Romanae Mediolani, carceratus de mandato Facini Comitis Blandratae. Inc.: « Aufer aquam vino; stant prata virentia sico » Explic.: « Si tibi sit carus, noli desistere coeptis » (1). (Cod. Ambr. B 116 sup. f.° 131 r) Ad reverendissimum patrem D. Johan-nem Vicecomitem electum Archiepiscopum Mediolanensium. Sono 14 esametri: (1) Comunicazione dell’ Egregio Sig. Prof. F. Novati. GIORNALE LIGUSTICO 203 Inc.: « Alta Vicecomitum celebres dedit aula Johannes » Explic.: « Conciliare tuos curabis laudibus almis ». (ibidem) Ad magnificum ac excelsum dominum Malatestam de Mala-testis Cesenae etc., dominum suum singularissimum. Sono 33 esametri: Inc. : « Quamquam perpetuo dux hoc memorandus in aevo » Explic.: « Praeberi ut priscum capiat solitumque vigorem ». (ibid. f.° 133/) Ad egregium doctumque virum Josephum de Brippio. Sono 20 esametri in risposta al Brivio: Inc. : « Si mea Calliope vidisset carmina forma » Explic.: Relege quosque sequens ostendit pagina versus ». (ibid. f.° 120r) (Cfr. Ant. de Luschis Carmina p. 39, Patavii 1858) Ad virum praestantem et conspicuum Antonium Luscum de Vincentia, Musarum celebritate famosum, responsiva. Sono 59 esametri in morte di Gian Galeazzo: Inc.: « Solamen praestasse pium tua carmina, Lusche » Explic.: « Muneribus spoliata suis illesa recedat ». Vale. Datum Mediolani xxi Octobris apud templum admirabile Virginis gloriosae. (Cod. Ambr. B 123 sup. f.° 132/) Versus editi ab Uberto Decembrio, viro graecis latinisque litteris eruditissimo, in traductione librorum Platonis De Republicn, quam nebulo quidam Antonius Cassarinus nixus est redarguere quadam sicula loquacitate. (nota del figlio Pier Candido). Sono 6 esametri: « Postquam nulla libros concessa licentia nobis Cernere politicos Ciceronis, lege notatos, Platonis speculemur opus, quo fonte bibisse Tullius asseritur, latio sermone relatum. Principio, pater alme, tuum, pie Christe, juvamen Esse velis, dextramque meo suppone labori ». c) Sermoni ed orazioni. (Cod. Ambr. B 123 sup. f.° 23 5 r e t) Oratio Uberti Decembri ad Cardinales. 204 GIORNALE LIGUSTICO È solo 1’ esordio : Inc. : « Etsi causae subsint plurimae, cur mihi » Explic. : « hoc rudi dicendi exordio reputem ». (ibid. ff.*1 235 t - 237 r) De adventu Martini Quinti Pontificis. Inc.: « Gaudiose ad modum plurimi adventum » Exphc.: « qui vivit et regnat in secula seculorum. Amen ». (Bib. Com. di Bergamo Gab. A fila I, 20 f.° 471) Sermo factus per d. Ubertum Decembrem ad missam novi sacerdotis. d) Trattati. (Cod. Ambr. B 123 sup. ff.u 8or - 103»·) Uberti Decembri ad illustrissimum Dominum Filippum Mariam Ducem Mediolani totiusque Liguriae, De Republica libri IV. Inc.: « Ingens profecto varietas, dux clarissime, omnibus in rebus » Explic.: « cum annuissent ceteri, abscessimus edes proprias laetis animis repetentes ». (ibid. ff.“ i2or - 125 t) Uberti Decembri ad Modestum filium eius De Modestia liber. Inc.: « Multa animo plerumque volventi ea potissimum quae » Explic.: « post nubila namque naturaliter serena succedunt. Valete interea sicut opto. Finit ». (ibid. ff.“ 104 r - 117 i) Uberti Decembri Moralis philosophiae Dialogus lib. II. Inc. : « Veritas vim saepenumero cogitanti nihil » Explic.: « die jam inclinata discessimus, Ciceronis moralibus in diem alterem reservatis ». (ibid. ff.“ 1261 — 130?·) Ad Candidum De Candore Liber. Inc.: Cum orbis totius decus atque ornamenta considero » Explic.: « et proximus efficietur eternaliter majestatis. Finit ». (Bib. Com. di Bergamo Gab. A fila I, 20 f.° 48 r) Utrum majoris sit dignitatis an Marchio an Comes. GIORNALE LIGUSTICO 205 (Cod. della R. Bibl. dell’Univ. di Torino H VII 14, ff.H 25 r - 37 r) Uberti Decembris Romanae Historiae breve compendium. Inc. : « Regum, consulum, imperatorum ac ducum Romanorum exercitum nomina » Explic.: « et hic finis bellorum et pacationis imperi dici potest. Finis deo laus ». e) Versioni. (Cod. Ambr. B 123 sup. ff.u 133 r - 215 r) Platonis de Republica, Uberti Decembri traductio. Inc.: « Heri ad Piream cum Glaucone Aristonis accessi, deam oraturus eiusque celebritatem visurus » Explic. : « hic et in millenario annorum itinere quod enarravimus , nos feliciter habeamus ». II. — DOCUMENTI i. [Cod. Ambr. B 123 sup. ff.” 2271-2281*] Epistola Uberti Decembri ad III. Johannem Gnleai ducem Mediolani pro victoria insigni habita. Nunc tandem, princeps serenissime italicaeque pacis reparator et columna, astuciam puritas, mendacium veritas, nebulam claritas et superbiam vicit humilitas! Nunc tandem, ut superno visum est numini, hostilis furor, cunctorum pacem optantium precibus, ceu aura tenuis et fumus evanuit! Deus bone, quam miranda et inscrutabilia sunt tuae opera deitatis ! Bononiensis civitas, cuius ope et spe hi hostes statum italicum subvertere nitebantur, ducali Ligurum imperio, sponte ac liberrime populo universo iubilante ac volente, supposita, cunctis spem liquit amplissimam non posse nisi de cetero in pace solida et quieta consistere. Quis enim digne satis sufficiat admirari nedum narrare tam inopinatae tamque felicis et divinae rei eventum, ubi primum hostes oppressi, conflicti, trucidati, capti et prorsus deleti sunt, ut vix e cunctis quisque evaserit, qui calamitatem eorum hu-iusmodis posset, oculis humcntibus et cordis singultibus, nunciare ? Ubi hostium ductores maximi, famosi et spectabiles, miserrime fuere captivi, inter quos, quia prolixum foret nimium singulos numerare, duo Paduae domini filii et Berardonus, dux exercitus, gentium tuarum manucapti sub fida custodia detinentur? Quid de aliis loquar, qui, Bononiensi urbe subacta, capti sunt et poenas debitas meritaque supplicia sustulerunt? Quorum vir ille versutus et varius Johannes de Bentivoliis, ingratitudinis erga tuam clementiam non par- 206 GIORNALE LIGUSTICO vum exempium, quem illius infeliciter dominio praefeceras civitatis, cruenta civium manu, conspectu publico, frustatim caesus, vitam calamitosam cum gemitu et eiulatibus dereliquit. Quid nunc ages Florentia, imo teae urbis nequissimi possessores, qui veneno pestifero et seditionibus innumeris urbes italicas inficere, seducere, subvertere et blandis deceptibus alicere summopere studuerunt, ut eorum more sub falsae titillo libertatis artem tirannicam, cruentam et immanissimam exercerent? Quorum mores non sunt paci morem imponere, parcere subiectis et debellare superbos, ut virgilianus Anchises Augusto Caesari romanoque populo suadebat, sed bella et scandala in dies auctius excitare nedum extera sed civilia, eorumque optimates cives et viros scientia et nobilitate conspicuos patriis laribus abdicare, exterminare et pellere, ac finitimos populos, a quibus saepe beneficia maxima receperunt, gratitudinis et beneficentiae vice, palam et clandestine propulsare, violare, decipere et in exquisitis insidiarum ingeniis soffocare, quae- omnia durum esset exprimere ac tediosum nou minus audire quam scribere. Quid, iterum dico, facies, nisi ut quam primum, ne pereas, ut imminenti et iamiam cadenii succuras exicio, hos spurios natos tuos et parentis propriae subversores perditoresque extermines, abdices et confundas, nec patiaris ulterius tuae sinum incolere civitatis, quorum virtus, ni statim rei-cias, pestem, mihi crede, letiferam ac irremediabilem germinabit? Duceni hunc corruscum, insignem et gloriosum amplectere, qui pacem desiderat, pacem postulat, quaerit et praeparat, cuius causa cunctas, ut conspicis, Italiae triumphaliter permeat civitates, hunc sequere, huic obtempera, cui obedire regnare est, hunc orbis terrae patrocinium et regionis quietem italiae vere poteris nuncupare! Quid cogitas, quid haesitas? An te mendaces iterum ac mortiferae in-solentissimorum virorum biaudiciae detinent, quos si iamdiu a tuo gremio candidissimo propulsasses rem publicam tuam, quam nunc miserabilem, felicissiman inspectares? Hi sunt qui, valentissimis viris tuae urbis expulsis, caesis, spoliatis et trucidatis cadaveribus, exteras nixi sunt summis semper sumptibus ac angustiis introducere nationes, qui, pace violata, quae firmissima putabatur, olim pluries, nuper vero de Alamaniae sedibus Novum Electum, quem imperatorem falso vocabulo nominabant, contra ducem Ligurum, sub pacis umbra pacifice dormientem, aliquorum rebellium inani spe praebita, inducere, non tardarunt, qui, ipsum vanis promissionibus, multarum lamen pecuniarum summis allectum, in Brixiense territorium primum intromit-tera magnis cum sudoribus procurarunt. GIORNALE LIGUSTICO 207 Postmodum, quia non successerat, principe se tegente, compulsi sunt metu ducali exercitus ipsum Novum Electum ac novum hominem Paduae et Veneciis relegare, ubi cum aliquo tempore infeliciter et tediose nec minori tempore consisteret tandem ad propria, amisso et lacero agmiue, turpissime remeavit. Interea princeps humanissimus, turbatam pacem inspiciens et foedera violata, iterum et de novo cunctis tentavit pacem ingeniis reparare. Sed frustra princeps serenissimus movebatur: ad intima iam cordis vulnus excesserat civium tuorum virorum. Florentia non permisit: bellum bellum ingeminans contra ducem. Bello igitur, ut pax fieret, quae verborum tractatibus fieri nequiverat agi luit omnimode necessarium. — Itaque Bononiense solum totius hostilis ligae fundamentum et robur invaditur. Quid secutum fuerit notum est, quid futurum sit potest ex huiusmodi preambulis satis verisimiliter iudicari. — Exsurge igitur Florentia et jam demum torporem ac somnium excucias hnsque scelestos et perniciosos homines pelle, qui te lacerant, radunt et sangninem tuum suggunt ! Et hunc devotissimum ducem, virtutum comitiva conspicuum, venereris, aniT plexerit et eo cupide perfruaris, dum licet, pocius quam civium tuorum insolentiis et crebit iniuriis post sumptus intollerabiles, damna, impensas, rninas, incendia vi subici compellaris ! Aliarum te moneat conditio civitatum, quae in finitimo territorio continentur, quas manus pacifica septro olim fero ducis regit: quanta videlicet libertate, securitate, pace, divitiis et quiete permaneant et in dies meliora concipiant! Quibus omnium, civium tuorum pertinatia, iam diu cares aliosque dum turbare niteris multa ipsa durius affligeris et turbaris. Melius est tarde quam tardius expergisci : pacem amplectere, quietem cape, quam siile cruore, sine sumptibus datur acquirere. Quid ahesitas et ora convertis? An Alamannum rursus expectas exercitum, Gallicum vel Hiberum, qui te liberet, qui Liguriae ducem opprimat? Inaniter ac leviter nimium ista conciperes : nosti quanto exercitu quamque notabili, quo omnino privata es, princeps ipse affluat, quantoque in dies numerosius pcssit affluere, cui resistere properam numquaui posses. Quamquam, o bone deus, etiam si posses, quid iocundius et optabilius quam in pace et quiete consistere et statum italicum, olim orbis dcmi-num, unire, solidare et connectere ac omnium pariter votis concurrentibus stabilire ? 2o8 GIORNALE LIGUSTICO II. [Cod. Ambr. B 116 sup. f.° 131 r e t] Ad Magnificum ac excelsum D. Malatestam de Malateslis Ceseuae eie. d. suum sii Quamquam perpetuo dux hoc memorandus in aevo Tres dederit fratres regimen stabilire suorum Natorum, e numero quorum tu scriberis unus, Haud tamen incombens humesis haec sarcina maior Quam tibi succedit, socero ducis atque parenti. Nam postquam excessit ad propria Carolos, alter Tutorum insignis, quo nec praestantior usquam Est visus populis, ad te nunc ora retorquent Sperantes patriae medicari vulnera cives Iam lacerae, auxilium stratisque impendere rebus. Tu pater atque socer, rector, tutor atque minister, Tu status esque caput, prior urbis, fortior armis, Cui sua duxque dedit tractare negocia soli. Eia, age, pone modum rebus! Sic vulnera cures, Introitus spectes arctos simul exitus urbis, Quid valeat populus impendere, divide nummos Exiguos ubi casus erit et videris urguens, Invisi ut valeant arceri finibus hostes Vel tu si potius pacem dare legeris urbi Gratius id fuerit, nam quo via largior isti Praebetur patriae, felicior illa resurget. Quam pudet, o pietas, ubem nunc crimine quassam, Afflicatam, pressam, laceram sebusque carentem, Quae quondam externas fama transcenderat urbes, Quaeque caput Ligurum Tusco septrumque tremendum Cuius erat cunctas diffusa potentia partes! Improba sedicio belli civilis amorem Discussit patriae; potuit discordia saeva Quod neque vis ferri potuit, nec torva potestas. Spes tamen alta manet, fratrum sub imagine, finem Cladibus imponi per te tandemque fugatis Hostibus aut pacem populo vel forte triumphum Praeberi, ut priscum capiat solitumque vigorem. Ubertus. igularissitnus. j GIORNALE LIGUSTICO 209 III. [Cod. Ambr. B 125 sup. ff.*» 228 r - 229 r] Uberti Decembri nomine Iohamiis Mariae Ducis Mediolani, in Magnum Ccncstabileiu. Adeone perversa sunt humanae conditionis officia, adeone perfidiaè ingratitudinis et nequitiae locus est, ut pro bonis mala, pro beneficiis insidias, pro clementia odium, pro muneribus iacula satagant nonnulli contra humanae conditionis et elementis naturae primodia, veluti quoddam antidotum, exibere? Usque adeo fides periit et divinae ultionis timor ut, veritate compressa, iuramentis, promissis et foederibus violatis, fedifragos, proditores, sicarios, sceleratos, atroces, perfidos et immanes non vereantur quam plurimi fronte meretricia sese publice nominari? usque adeo miseriarum cumulus est adauctus, ut, virtutis et verae laudis locum, infamia, frontuositas et verecordia et pestis vitiorum reliquorum subentrarint? Credimus nedum Italicis, verum etiam nationibus exteris notum esse quanta humanitate, clementia, largitate, affectione et honore Comitem Albericum de Barbiano, qui Magnum Conestabilem Regni Siciliae se appellat, piae, recolendaeque memoriae princepes, olim dux Mediolani genitor noster, semper extollere nixus est. Neminem tractavit humanius, dulcius ac liberius, neminem tantis beneficiis et copiosis muneribus decoravit, neminem ad famae celebritatem uberius aut altius sublimavit. Primo namque eius miserabilis captivitate sentita in Regno Apuliae, a qua propter ingentem redemptionis summam non poterat Venusini ducis, cuius captivus dicebatur, vinculis liberari nec aliunde liberationis huiusmodi subsidia praebebantur, princeps humanissimus, pietate permotus, nullis meritis praeuntibus, imo nec eo viro nisi nuda fama praecognito, illico ad eum militem eggregium d. Iacobum de la Cruce transmittere procuravit cum commissione videlicet ipsum liberandi, etiam si expendere debuisset quinquaginta milia florenorum. Qui, cum citatis gressibus illuc venisset, ipsnm ab ergastulis, in quibus marcescere alioquin poterat, liberavit, pro redemptione aliisque muneribus summa praestita XXVII (milia) florenorum. Qua quidem liberatione conclusa, dum idem Comes faciem principis clementissimi visitasset, primum redemptionis illius pecuniam sibi liberrime condonavit equosque pecunias et alia donaria gratiosa; ad haec ipsum generalem exercituum suorum constituit capitaneum cum provvisione continua quingentorum mense singulo ducatorum et stipendio lanciarum trecentarum ac peditum et insuper duo castra pulcherrima atque fortissima Giorn. Ligustico. Anno XX. 14 210 GIORNALE LtGUSTICO in Veronesi et Parmensi confinibus sibi et haeredibus cum suis introitibus et iurditionibus infeudavit. Quorum occasione Comes idem Albericus, pro se et haeredibus suis, dicto domino duci pro se et filiis fidelitatis et homagii solemne praestitit ac debitum iuramentum promissionesque fecit principi praelibato de serviendo sibi omni tempore fidelissime et devote quodque a servitiis praefati domini aut filiorum aliqua occasione recederet nisi de voluntate et speciali licentia domini praelibati, sed quod semper teneretur et continuo in servitiis praefati domini et natorum perseverare fideliter, sicut de his omnibus patet publicis documentis, sigillo dicti Comitis Alberici in veritatis testimonium solemniter roboratis. Sed, Deus bone, ubinam fides, ubi sacratissima iuramenta, ubi promissa, ubi sigilla pendentia, ubi foedera, ubi tantorum benificiorum et munerum recordatio i Omnia ingratissimi viri huius, si viri vocabulum promeretur, violavit impietas, abolevit improbitas, et proditio sceleratissima deturpavit. Nunquam tantae ingratitudinis, impietatis et sceleris exemplar vidit Italia! Fecisti nunc, Alberice, ut grandis de te fama praesentibus et posteri oriatur, ut omnium per te olim gestorum memoriam senilis proditionis infamia turpiter abolescat; exemplum de te bonae et celebris gratitudinis posuisti. Te nunc Italia in altissima turpitudinis et proditionis specula collocatum poterit ut infame, funestum et miserabile prodigium intueri. Heu, mentes futurorum ecce mortalium ! Potuit dux clementissimus saepius tuos actus inspiciens signa huiusmodi proditionis agnoscere, sed ipsum pia affectio et singularis decipit humanitas. Dum olim te et Comitem Iohannem nepotem tuum contra Florentinorum copias transmisisset, quid aliud egisti nisi quod primum, pecunia a Florentinis accepta, cuius cupiditate omnia scelera perpetrasti, Comitem Iohannem cum eius comitiva de exercitu recedere suasisti? Demum qualiter postmodum in ea expeditione te habueris, te gesseris, notum est. Utinani non ivisses, ne tanto damno dux innocentissimus plecteretur, uti-nam tunc princeps, ne deterioira sequerentur, te cum tua ypocrisi avaritia et simulatione perfida dimisisset ! Quinimo arbitratus ex benefitiorum acervo posse pectus avidissimum saturare et rursus pro maleficiis beneficia cumulavit, nam, praedictis male gestis non obstantibus et comitis Iohannis fuga ad principis hostes, tamen, ut possetis pariter castra vestra et bona patrimonialia defensare, casu necessario, ambobus xxvm [milia] largitus exstitit florenorum. Interea num-quam princeps humanissimus, quamquam promissa pacta obstarent, liberam tibi eundi quo velles licentiam denegavit, nec ex absentia salarium aliquod denegavit. Nosti praeterea quanta calamitate quantoque in exter- GroRNALE LIGUSTICO 211 minio post tui mortem nepotis extiteris; supplicasti principi ut tibi in eximio excidio subveniret; an tum tardum fore sensisti? Illico provisum est non solum bona propria defensare, quinimo contra hostes te acerrimos vindicare. Venit ad te serenissimus ille miles d. Iacobus de la Cruce cum pleno ducis mandato, qui, ne quid tibi ad votum deficere permitteret, illico stipendio pro equis DCCC cum multis peditibus et pecuniis procuravit, gravibus cum impensis, quod circa terminum expensis illustrissimi principis perduravit. Ut posses tua comodius tractare negotia militem d. Octobonum de Tertiis cum equitibus necessario ad tuum obsequium destinavit. Tacemus nunc ingentia munera, quibus in eo bello in bombardis magnis et parvis et in pecuniis opportunis et uxori tuae, dum eam duceres, largitate munificentissima propinavit. Quot artibus insuper et ingeniis operatus fuit cum Marchione Estense, ut Comitem Manfredum, nepotem tuum captivum dimitteret, testis es. Innumera alia quis posset beneficia numerare, quibus humanissimus princeps te studuit sublimare? Deo teste, admiratione confundimur dum praedicta purius contemplamur, quod ille noster genitor tantum beneficiis esse studuit, exadversoque quod tu, ceu aspis surda aut basilicus (sic) aut adamas, nullo potueris beneficio remolliri ! Imo, quod miserius, deterius, ingratius et detestabilius omni scelere dici potest, pro his tot et tantis pii principis muneribus, virus asperrimum seminasti con-traque parentem et conservatorem beneficum, cuius nudum nomen, et si promissa quaecumque cessarent, deberis totis medulis et visceribus venerari, virus fundere decrevisti, non aliter quam civis scelestus et proditor contra patriam, improbusqu; filius contra parentem mansuetissumum et benignum. Primo videlicet, ipso vivente, ante et post recessum Novi Electi de finibus Lombardiae, .Ium esses in stipendio dicti ducis contra Iohannem de Ben-tivoliis, qui cum ligae potentia contra ducem hostiliter se habebat et cepsisses cum gentibus et sub nomine dicti ducis quinque castra sita in territorio Bononiensi, tamen non fuisti veritus dicere sucessive quod illa castra tuo nomine occupasses. Princeps tum humanissimus tuas versucias non inspectans, sed animo sublimi et altissimo quaecumque despiciens, tibi pro gestis erga Bononiam, castrum unum pulcherninium situm ad confinia territorii Ymole, valore plusquam xxv milium ducatorum, liberissime condonavit, promisistique dicta castra dicto domino duci illico, prout deditum fuerat, redibere. Interea casus acerbissimae mortis tanti principis insecutus, promisisti tunc satis constanter et de novo numquam deserere filios et haeredes sed imo modis omnibus observare et ingeniis. Sed effectus rei in- 212 GIORNALE LIGUSTICO dicat quam velociter in sensum reprobum sis conversus, nam qui, ducis benignitate, de secretis consilariis, comisariis et conservatoribus testamenti extiteras cum ingenti fiducia constitutus et qui xx [milia] receperas florenorum, ut una cum magnifico d. Pandulfo contra Florentiam equitares, passu lento ad tua castra, derelictis hostibus, fugitasti, ubi cum pluries rogatus extiteris, ut ad ordinatum exercitum festinares, dolores primo levae tibiae te solicitantibus alligasti, postmodum, quia excusatio illa non valde verisimilis videbatur, licentia eundi ad partes Apuliae postulasti, et dum illa licentia non daretur, obstantibus impedimentis et belli cladibus variis et diversis, tandem promisisti contentari quod tua brigata in nostris servitus remaneret, dummodo pagas tuas reciperes de praesenti quod quidem, ut omnis excusatio prorsus evelleretur, extitit adimpletum. Nam dominus Iacobus antedictus nostro nomine tuo cancellario xxm [milia] tradidit du«_atorum, die sequenti, dum pecunias antedictas noveras recepisse, dicto d Iacobo rendisti (sic) quod volebas cassari cum comitiva, frivola alligatione proposita, quia nolebas stare cum societate Eustorgii de Manfredis. Tantus fervor cordi tuo inerat promissa foedera violandi! Cuius rei maximum argumentum est quia non cum aliquibus ex colligatis nostris, aut cum exteris aut longinquis nationibus, verum cum nostris eruentissimis et hodiosissimis hostibus te locasti. In qua re sperasti nobis grave et pernitiosum ingerere nocumentum. Sed longe faleris, vir, vigente magis speramus in divina potentia, quae vires et innocentiam nostram fovet, quam nocentium scelera vindicare, quam de tua proditione vilissima et viribus ignavissimis, dubitemus, quas equidem minoris roboris facimus et momenti, quam arundinem ventorum impulsibus agitatam, sperantes in divina justicia, quae ius suum iuxta merita tribuit unicuique, quod brevi temporis lapsu exemplum dabis Italiae quantum proditio rebellioque tua fuerint exemplaris. Haec autem quantum in nobis fuerit omni populo cunctisque nationibus esse volumus manifesta, non ut beneficia quae genitor noster aut nos egerimus in quiempiam praedicemus, sed ut huius miserrimi hominis et vilissimi proditoris conditio cunctis populis et gentibus sit aperta, ut nosci possent a quibus cavendum, quosque versa vice fuerit imitandum. 213 IV. [Cod. Ambr. B 12j sup. f.° 233 r] Bartolomeus di la Capra Mtitolanmà archiepiscopi UIurta Drcimbru Cum Serenissimus dominus, Rex Romanorum, ob causam optet habere recollecta in unum distincte et aperte omnia gesta Gaii Julij Caesaris, hicque nequeam requisitus satisfacere voto suo, ceu opto, propter incredibilem hic librorum, curia Romana digressa, raritatem, pro hac re implenda, ad quem potius recurram quam ad te, qui et studiosissimus es et libros, quos super hac materia videas, facile habere potes cupisque, ut certo mihi persuadeo, meis requisitionibus, ob meam in te constantem benevolentiam, morem gerere. Abs te itaque summa cum instantia deposco, ut si tibi appareat Petrarcham eius viri gesta, in commentariis suis, diffusius scripta et a Suentonio tracta, bene et apte coartasse in libro, quem de viris illustribus conscripsit, des operam pro spe mea ut exemplar illius particulae quam ocissime habeam, si etiam mea causa, qui ita fidenter hoc onus tibi impono, id manu propria transcribere oporteat. Longe maius tua causa aditurus ubi autem Petrarcha minus supplesset, adijcias velim quicquid peritiae tuae apparuerit celebratione dignum et mittas per latorem praesentium, quem hac de causa sola mitto. Hoc mihi gratius facere nihil potes. Dat. Constantiae die xvm Maii 1416. V. [Cod. Ambr. B 123 sup. f.° 101 t] Dal trattato « De Republica » ... Princeps etenim ille clarissimus et pace omnium Vicecomitum reliquorum longe magnanimus Galeaz Vicecomes, huis nostri principis (Filippo Maria) avus, Papiensi urbe bellica virtute subacta, arceque illa nobilissima in urbis eiusdem vertice fabricata, aliaque arce in fronte pontis Ticini, pro ipsius custodia, stabilita, ipsaque civitate viarum ordinibus et haedificiis decorata, studium solemne aedificandum duxit, doctoribus et magistris illustribus et famosis, undique conquisitis. In iure enim civili Segnorolum de Homodeis mediolanensem et Rica-dum de Saliceto bononiensem, doctores clarissimos, in medicina Maynum de Mayneriis mediolanensem et Albertinum de Salso placentinum, magi- 214 GIORNALE LIGUSTICO stros praecipuos atque claros habere studuit pro illius studii fundamento. Post hunc vero principem non minor animo filius [Gian Galeazzo] sed longe amplior dignitate, potestate, fortunisque, non solum Papicnse studium ampliavit, famosissimisque ductoribus decoravit, ut Baldo de Perusis, doctore sui temporis celeberrimo in iuris utriusque peritia, Massilioque de Sancta Sophia in medicina, alisque viris eruditissimis et famosis; verum etiam Bononiense studium Paduanumque, quarum tunc urbium imperium obtinebat, celebritate doctorum, magistrorumque summa cura et ingenio decoravit: noster autem princeps [Filippo Maria] qui paternae mortis ruinas hucusque sat habuit reparare, necdum in solidum reparavit, idem agere affectans, patria imitando vestigia, Papiense studium jam ferme more solito composuerat, nisi aëris pestiferi calamitas vetuisset. Nunc autem salubritate aetheris superventa, et Studium illud et illam Bibliothecam famosissimam, cui non est nostro in orbe simillima, prorsus decrevit facere reparare, quam quondam eius genitor voluminibus tam graecis quam latinis omnis artis omnisque scientiae refertam loco splendidissimo collocavit. VI. [Bib. Nazion. di Parigi, Fonds Latin Nouvelles Acquisitions η. 1152 (mss. del sec xv) f.° 64 r e t] Hos versus misit Ubertus December de Vtglheuo domino Johanni Teppae [Toppae't] Consiliario Illustris sin: i dm. Johann is Mariae ducis Mediolani etc.t ipso Uberto esistente in Rochrta portae ro-manae Mediolani, carceratus de mandato Facini Comitis Blandratae. Aufer aquam vino, stant prata virentia sico; Nemo sibi satis est, eget omnis amicus amico. P] Experior pravum mundi tamen undique morem ; Nullus amor durat nisi fructus servat amorem. [?] Ut vocum accentus fidibus discordat acerbis, Omne genus pestis superat mens dissona verbis. PÌ Decipit incautos verveces carmine licus Qui simulat verbis nec corde est fidus amicus. (Cat, Dibt. I. 26) 21 Tu cunctis servire stude, tibi inagna parantur Sic bonus esto bonis ne te mala dama sequantur (Cat. Disi. J. u) Quis numerare queat clades quas carcere tuli? Quae praestare potes ne bis promiseris ulli. M Hst mea sors tristis sterili simillima fago, Nara sine doctrina vita est quasi mortis imago (Cat. Dist. 111. i) Conatur quidam me contra incendere piras Semper enim deus iniustas ulciscitur iras. (Cat. Dist. IV. 54) Sit tua res licet praesenti turbine salva, Fronte capillata post est occasio calva (Cat. Dist. II, 26) Sic tibi contingat gressu mors ultima lento; Sermones blandos blesosque vitare memento (Cat. Dist. 111. 4) Quod peccasse peior querar singula clarent Temporibus peccata latent et tempore parent. (Cat. Dist. II. 8) Forte deus pronis dabit in mare carinis Non eodem cursu respondent ultima primis (Cat. Dist. 1. 18) Hst tuus Ubertus istis, pater optime, lectis, Si tibi sit carus noli desistere coeptis (Cat. Dist. 1. 9) Servitur votis nec fer mea carmina vento, Si potes ignotis etiam prodesse memento. (Cat. Dist. II. 1) 216 GIORNALE LIGUSTICO VARIETÀ RONDINELLA PELLEGRINA, CHE RITORNI....... Il politeismo era Γ adorazione delle forze della Natura, secondo il clima, il modo di vivere, le tradizioni di ogni popolo; quindi se questa religione era diversa da un popolo all’altro in apparenza, in sostanza poi si riduceva ad avere per tutti un identico fondamento. Ciò spiega il trapasso dei riti religiosi dagli Egiziani ai Greci, ai Romani, ecc., non per comunanza d’origine soltanto, ma eziandio per somiglianza di processo della mente umana. Però dalla causa i popoli passarono facilmente ad adorare gli effetti delle forze della Natura, e dei fenomeni cosmici ; e personificandoli, quasi li chiamarono a compagni della rappresentazione della vita multiforme, che ogni anno si ripete sulla terra. Al sopravvenire della primavera le rondini partono dal-1’ Egitto dove hanno svernato, per venire nell’ Europa : cosi han fatto dacché mondo è mondo. Altri uccelli emigrano annualmente dai climi caldi e temperati e viceversa, ma Γ uomo non li ricorda, perché come fanno le rondini, le gru, le cicogne, non circondano l’uomo di cure, non mostrano di amarlo, e non ne sono amati (i). Non c’ è popolo che (i) Dante ci ricorda: a) E come gli stornei ne portan 1’ ali Nel freddo tempo a schiera larga e piena, Cosi quel fiato di spiriti mali. b) E come i gru van cantando i lor lai, Facendo in aer di sè lunga riga. 217 non abbia ricordato qualcuna delle specie degli uccelli migratori. Gli antichi Arabi avevano una festa chiamata la venuta delle cicogne, colla quale si rallegravano della partenza della stagione umida od invernale, perchè questo uccello non andava presso di essi, se non quando era passato il freddo. Nel Monferrato il popolo dice che la primavera non viene, se il cucolo non la va a pigliare, ossia se non si sente a cantare quest’ uccello. Ora noi sappiamo che intorno ad esso anche nella Svezia, c’ è la superstizione di ascoltarne il canto come il volgo fa pure da noi, e di augurarsi bene o male secondo le volte che il canto si ripete, o secondo il motivo pel quale si è interrogato il suo augurio (i). Ma se è certo che non viene il cuculo nello stesso tempo, e da noi e nella Svezia, è pur certo che la ricorrenza annuale della primavera dal medesimo ricordata, è uguale presso due popoli tanto lontani, quanto sono gli Italiani e gli Svedesi. Strabone dice c) Quale sovresso il nido si rigira, Poiché ha pasciuto la cicogna i figli, E come quel che è pasto la rimira. E quale il cicogtiin che leva l’ala Per voglia di volare, e non s’attenta D’abbandonare il nido e giù la cala. d) Nell’ ora che comincia i dolci lai La rondinella, presso la mattina, Forse a memoria dei suoi primi guai. (i) A Montericco, presso Reggio, dicono: a) Quand al canta el méral / A sen fora d’invéran / Quand al canta al cucch / A sen fora d’tutt = Quando canta il merlo / Siam fuori del-l’inverno / Quando canta il cuculo / Siam fuori in tutto. b) Cucch bel cucch — Da la pirucca in co’ — Sappiam dir quant ani g’ ho — Cucch da la penna bisa — Sappiam dir quant’ ani g’ ho — Nanz che em marida? = Cucolo, bel cucolo — Dalla parrucca in capo Sappimi dire, quanti anni ho io?—Cucolo dalla penna bigia — Sappimi dire, quanti anni ho (da passare) — Prima che mi mariti? 21 s GIORNALE L1GUSTIGO che il primo nome dei Pelasgi era Pelarglii, cioè cicogne, perchè questi popoli navigatori e nomadi non approdavano, come i Normanni, alle spiagge del mare se non alla primavera. In Toscana ho sentito ricordare questo proverbio; viene il Cucco, passa via Lucco, cioè: viene il cucolo, il Lucchese va via, per ricordare le emigrazioni vernine che i Lucchesi fanno nelle Maremme toscane, ritornando a casa alla primavera. Così fanno i coltellinai Trentini, i caldarrostai dei Gri-gioni, gli spazzacamini Svizzeri. Ritornando ora alle rondini, gli antichi Egiziani alla loro partenza celebravano la festa del Vascello di Iside. Questa Dea protettrice della navigazione ed insieme della generazione degli animali e della vegetazione delle piante, era quindi festeggiata quando i blandi zeffiri si mostrano favorevoli ai naviganti, e ai dolci tepori della primavera si muove il sangue nelle vene degli uomini, e la linfa delle piante. Iside, (cioè la Terra ed insieme Cerere e Venere) allestiva il suo vascello in cerca del marito Osiride, cioè del Sole che colla primavera fa sentire più caldi i suoi raggi. I Romani avevano consacrate le rondini agli Dei Lari ed a Venere, perchè le rondini colla primavera ritornano al nido antico, e mostrano di conservare il culto delle memorie avite, e perchè col loro ritorno si rinnovella la Natura tuttaquanta. 1 Greci avevano posto le rondini sotto la protezione di Apollo e delle Grazie (i). Nelle feste Pyanepsie (Plutarco: Vita di Teseo, cap. 22), che si facevano in primavera e d’autunno, offrivano i Greci ad Apollo V ir estone, 0 ramo d’ulivo, adorno di frutta e di dolciumi, quasi invitando il Dio a far (1) Nell’ Alto Monferrato le rondini son chiamate galline del Signore e della Madonna, perchè vengono poco prima di Pasqua, ed indicano della Madonna la prima gran festa, che è l’Annunziata (25 marzo), che viene dopo quella di S. Giuseppe (19) indicante il vecchio anno che passa. GIORNALE LIGUSTICO 219 germinare nella bella stagione che s’apriva, fiori che nel-Γ autunno si cangiassero in frutti. Le Grazie compagne del biondo Dio erano il simbolo del rinnovamento degli affetti. Noi pure abbiamo l’iresione o ramo d’olivo benedetto. Si porta in mano nella domenica antecedente alla Pasqua, che come nella vita religiosa ricorda il trionfo di Gesù Cristo sulla morte e la liberazione dell’ umanità dalla schiavitù del demonio, così nel corso dell’anno indica la fine dell’inverno. I Greci moderni nel giorno della loro Pasqua, si baciano (fra amici e fra parenti) dicendo Chisio’s - artisti - alito’s artisti. Cristo è risorto - è veramente risorto. In Monferrato usano baciarsi nel momento che suona il Gloria del Sabato Santo, come per indicare che alla mistica e religiosa ricordanza della rinnovazione spirituale e cosmica, della vita sensibile ed ultra-sensibile, non può mettersi base più stabile dell’ amore. Pei poveri della Grecia antica F arrivo delle rondinelle era di buon augurio: essi andavano di casa in casa cantando alle porte il chelidonisma 0 canto della rondine, col quale imploravano la elemosina. Questo buscarsi il pane colla scusa di un canto chiamavasi appunto chelidoniam e chiroponèin, cioè faticare colle mani, ingegnarsi, volgarmente raspare. Il canto e F uso sono rimasti anche nella Grecia moderna. Il Tommaseo ed il Passow riportano un canto greco dei nostri tempi, che incomincia colle parole: chelidonàchi mu gorgo - Gorgòmu chelidoni — e ricorda che la rondine ha portato il bel tempo e le uova rosse (1). (1) A Carpeneto d’ Acqui, due canti infantili ricordano la rondine e la primavera : a) Rundanin-nha va zù dar pra’ — Ra va ciamèe cui d’Uà — Cùi d’Uà nun voro vnì — Rundanin-nha ra vòo muri — Sra vòo muri ch’ra mòira — Aj farumma ’na ca nova — Sra vòo scampée, eh’ ra scampa — Aj farumma ’na ca bianca. = Rondinella va giù dal prato — Va a 220 GIORNALE LIGUSTICO L uso di vendere uova cotte col guscio tinto in rosso, e di giuocare con esse fra due o più persone, delle quali alcune sono i tenitori dell' uovo da rompere, e gli altri i battitori, è comune in molte provincie dell’Alta Italia. Ora è un giuoco che si ta qualche settimana prima di Pasqua; antichissimamente fu una festa simbolica della nuova generazione, accennata dall equinozio di primavera e dai fenomeni cosmici che 1 accompagnavano. I Romani ed i Greci si purificavano colle uova e ne ponevano nei pasti funebri, dette cene di Ecate, sui trivii, per purificare gli estinti. Nella occasione della benedizione delle case, fatta nella Settimana Santa, è uso pressoché generale in Italia di dare al sacerdote ova, per sua mercede; nè è vietato di dare soldi od altro. La Chiesa suol benedire le ova che si mangiano nella festa di Pasqua. A Carpeneto d’Acqui, mia patria, l’uso (ed il canto) greco della rondinella è noto sotto il nome di cannone delle uova, appunto perchè il canto comincia colle parole: datemi ova, datemi ova. I giovanotti usano (od usavano, perchè fin dal 1868, quando io raccolsi i Canti popolari dell’Alto Monferrato, la costumanza si andava perdendo) nelle due settimane prima di Pasqua, andare sotto le finestre delle loro belle a cantare strambotti, a fare serenate, e poi chiedere con un chiamare quei di Ovada (paese del Genovesato) — Quei di Ovada non vonno venire — Rondinella vuol morire — Se vuol morire, muoja — Le faremo una casa nuova — Se vuol campare campi — Le faremo una casa bianca. b) Rundanin-n'na andà t’ ei staja — Dime an po cma1 t’ r’ hai pasaja? Cun n’ aragn e na muschin-nha — Sauta e baia rundanin-nha — Cun aragn e na muschetta — sauta e baia rundanetta = Rondinella dove sei stata Dimmi un po’ come l’hai passata? — Con un ragno e una mo-schina — Salta e balla rondinina — Con un ragno e una moschetta — Salta e balla rondinetta. GIORNALE LIGUSTICO 221 canto ad hoc uova, frutta secche, vino, ecc., che vengono poi consumati in un gran pranzo il lunedì di Pasqua. In detto giorno usa celebrare colle merende fatte all’aperto, e lungi dalle case, il rinnovamento dell’anno cosmico. Festa senza pranzo non è festa : il ventre pieno è una condizione necessaria del godimento spirituale, quindi il Manzoni ricordava ai ricchi di donare ai poveri pel giorno di Pasqua. I Sardi per indicare una festa poco lieta dicono: iscialu chena bròu, scialo, convito, senza brodo, senza grasse vivande. Nel canto Monferrino che riporto, qualche stroia non è di lode, ma si è posta, perchè succede che talora i cantori non si vedano corrisposti e mutino la lode in biasimo. In Calabria, come notò il Dorsa, nei suoi: Usi e costumi calabresi, specialmente fra le popolazioni di rito greco-unito , vige lo stesso uso di Carpeneto d’Acqui, sotto il nome di Calimèra. I cantori la antivigilia del dì delle Palme, vanno in giro, cantando di porta in porta, nn canto sacro che ha per soggetto la passione di Gesù Cristo, e ricevono in elemosina, fichi secchi, mele, noci, prosciutti che mangian poi il lunedì dopo Pasqua. Ecco il nostro canto : Bunaseira sur patrun — Cun ra sura patrun-nha, Summa vnii a pijée licenza — Si vurèi ca sun-nhu. O da zà chi n’ diso nent — L’è segn chi sun cuutenti, Sunirumma, cantirumma — Starumma alegramente. Buona sera signor padrone — Colla signora padrona — Siamo venuti a pigliare licenza se volete che soniamo. — Di già che non dicono niente — È segno che son contenti — Suoneremo, canteremo, staremo allegramente. Questo preludio ricorda che in Sardegna nella canzone dei Tre Re celebrante le feste dell’Epifania e del Natale, che sono anch’esse un ricordo cosmico religioso, i cantori dicono: su chi nos dades, leàmus, quello che ci date prendiamo, sia larda, saltila o petta, sia lardo, salsiccia, o carne. GIORNALE LIGUSTICO Dopo il preludio il canto monferrfno entra in argomento: Dem dir jovi, dem dir jovi — Dr.i galin-nha neira, L’è passa lu carnuvè — L' è vni ra primaveira. Dem dir jovi, dem dir jovi — Dra galin-nha bianca, L è passà lu carnuvè — Vinrà ra staman-nha santa. Dein dir jovi, dem dir jovi — Dra galin-nha grisa, L è passà lu carnuvè — Vinrà ra ramuriva. Dem dir jovi, dem di jovi — Dra galin-nha russa, L è passà lu carnuvè — Vinrà ra panticusta. Datemi ova, datemi ova — Della gallina nera — È passato carnevale È venuta primavera — Datemi ova, datemi ova — Della gallina bianca E passato carnevale — Verrà la settimana Santa — Datemi ova, datemi ova — Della gallina grigia — È passato carnevele, verrà la domenica delle Palme — Datemi ova, datemi ova — Della gallina rossa — È passato carnevale, verrà la Pentecoste. Questa parte del canto, è il il ricordo della nuova stagione, die si può appunto comprendere fra Carnevale e Pentecoste, dagli ultimi di febbraio agli ultimi di maggio. Ant ista casa, gentil casa — U jè na fija biunda, U jè qui in giovinin — Uj ven a fèe ra runda. Ant ista casa, gentil casa — U jè d’jomi murèisi, I pijran u so pintun — I ni daran da bèive. Ant ista casa, gentil casa — U jè done muruse, Daran man ar so panère — I ni daran dir nuse. Si n’ àurei feve ar barcun — Feve an po’ a ra fhestra, U jè qui in giovinin — Vòo dì ’na parola unesta. Den da bèive, den da bèive — Vin di muscatello, Dir pi bell e dir pi bun — Chi jabe ant ir vassello. Ant ista casa, gentil casa — Us sent ir gali a cantare, Eu jè na bela fija. — R’ e’ ancù da maridare. Ant ista casa, gentil casa — Uj canta ir cuccu, S’ u jè dir fi je da maridèe — Chi posso fèe ra muffa. Ant ista casa, gentil casa — U’ j canta ir merlu, S’ u jè dir fie de maridèe — Chi posso feje u zerbu Den dir jovi, den dir jovi — Dir vòstir galin-nhe, I n’ han dicc i vocc avsin — Chi n’ hei dir casse pin-nhe. GIORNALE LIGUSTICO 223 Si vurrei detie dir jovi — Nun fene più aspicciare, Che ra lin-nha cavarca i monti — E non voi pi fèe ciaro. Ma qui drent a custa casa — U jè dra brava gente Si livran sü dant u lecc — Ni daran cumpimento. In questa casa, gentil casa — C’ è una ragazza bionda — C’ è qui un giovinotto — Le viene a far la ronda. — In questa casa, gentil casa — Ci stan uomini cortesi — Piglieranno i lor pintoni — Ci daranno da bere. — In questa casa, gentil casa — Ci son donne amorose — Daran mano a lor paniere — Ne daranno noci. — Se non volete farvi al balcone — Fatevi alla finestra — C’è qui un giovinotto — Vuol dire una parola onesta. — Dateci da bere — Vino di moscatello — Del più bello e del più buono (migliore) — Che abbiate nella botte. — In questa casa, gentil casa — si sente il gallo a cantare — E c’è una bella ragazza — è ancor da maritare. — In questa casa, gentil casa — Ci canta il cucolo — Se ci son ragazze da maritare — Possano far la muffa (nessuno le sposi). — In questa casa, gentil casa — Ci canta il merlo — Se ci sono ragazze da maritare — Possano far zolla (mettere radici, non levarsi più di casa ) — Dateci ova, dateci ova — Delle vostre galline — Ci dissero i vostri vicini — che ne avete le casse piene. — Se volete darci ova — Non fateci più aspettare — Che la luna passa i monti — E non vuol più far luce — Ma già dentro a questa casa — C’ è della brava gente — Si leveranno dal letto — Verranno a farci (darci) accoglienza. E le accoglienze talora sono di balli, alla luce della luna ed al suono delle fisarmoniche, talora invece si chiude la la finestra in faccia ai cantori per indicare che è tempo perso. Mi raccontava mio padre che nel 1848 i giovanotti di Car-peneto raccolsero nella occasione del presente Canto in ova, in salami, in capponi, tanto da invitare a pranzo, per due domeniche di seguito, i loro compagni dei vicini paesi di Montaldo e di Trisobbio. Il Frizzi, storico ferrarese, narra che i Principi d’Este, solevano verso la fine d’ aprile od ai primi di maggio girare per Ferrara con un ramoscello fiorito in mano, seguiti dalla turba dei cortigiani. I sudditi davano in quella occasione (0 di buona 0 di mala voglia) al Principe, ova, agnelli, vitelli, capponi, pezze di panno, e perfino oggetti d’arte. Quanto si raccoglieva di commestibile era consumato 224 GIORNALE LIGUSTICO dal Duca e dai suoi in allegre cene, il resto era venduto a scopo di beneficenza. Gli Egiziani nell’occasione della festa del Vascello di Iside, sacrificavano alla Dea, rappresentante la forza vegetativa della terra, molti agnelli. Quest’uso ricordato dallo Zodiaco, che indica con un ariete l’equinozio di primavera, passò agli Ebrei ed ai Cristiani. I Sardi che ricordano tutte le feste relative a Gesù Cristo col nome di Pasca, chiamano quella di Pasqua, Antonina, dagli ancones, agnelli (i), dalla antica offerta che in oggi non ha più alcun significato, ma lo ebbe in antico. L agnello di Dio, che le peccata toglie, rappresentava la purità degli intendimenti della nuova fede sorta sulla antica, quasi un ver sacrum avesse chiamato i fedeli ad una emigrazione, ad una nuova colonia, ad un nuovo sciame. Anche oggidì il Papa benedice le palme, due agnelli bianchi, la lana dei quali servirà a preparare, non so quali indumenti sacri, seguitando una tradizione religiosa ed etnica di noi italiani. Le raccolte di frutta, di dolciumi, di ova, di agnelli; la allegria e la pace che generalmente regnano dappertutto in questa occasione; il cambiamento di casa, fatto in molti luoghi a Pasqua, mostrano che la uscita del popolo Ebreo dall’Egitto commemorata nella Pasqua nostra, aveva trovato nelle menti del popolo latino, omogeneità di tradizioni se non di fatto, certo nelle idee. La festa era nuova, ma lo spirito che l’animava era antico. I Romani che avevano consacrato le rondinelle a Venere ed agli Dei Lari, ritenevano pure quale protettrice dei navi- (i) Natale è detto: Pascha Nadale — Γ Epifania: Paschinunti o Paschi-xedda (Pasquetta a Carpeneto d’ Acqui) — Pentecoste, Pascarosa o Pasca fiores perchè : a sa missa cantada, hètana su fiore a sa {ente eh’ este in cheja = durante la messa cantata, gettano il fiore (fiori) addosso alla gente che è in chiesa. giornale ligustico 225 ganti, specialmente per quelli che s'imbarcavano a primavera, Afrodite, la Dea di Cipro, Γ Astarte dei Fenicii. Erodoto nel parlare della Egizia Iside, notava che essa non era se non la Venere celeste. Orazio non raccomandava la nave che portava Virgilio in Atene, al Dio Nettuno, ma a Venere: Sic te Diva Potens Cypri / Sic fratres Helenae, lucida sidera / Vento-rumque regat pater / Obstrictis aliis praeter Japyga / Navis, quo tibi creditum / Debes Virgilium, finibus atticis. I Romani fino a Teodosio celebrarono in quest’ epoca dèl- 1 anno la festa della Dea Flora. Tazio, Re Sabino, e socio di Romolo nel Regno, ne aveva per il primo introdotto il culto a Roma. Si sacrificavano agnelli nei molti Luci allora esistenti intorno alla città, poi si tornava in essa portando in mano rami d’ alberi fioriti (iresione dei Greci). Nel 580 (a. C.) la lesta dalle idi di marzo si protrasse agli ultimi di aprile, dando origine a disordini che costrinsero lo Stato ad abolirla. La poesia classica non dimenticò di cantare il fatto cosmico dell equinozio di primavera. E poiché i grandi poeti, attingono la loro grandezza dalla imitazione della Natura, abbellendola colle grazie dell’ arte, vedasi come Orazio nella Ode IV del del libro i.°, abbia raccolte le tradizioni popolari antiche e contemporanee intorno a questo tema, invariabile nella so stanza, e tanto variamente cantato : Solvitur acris hieras grata vice veris et Favoni, Trahuntque siccas raacchinae carinas. Ac neque iam stabulis gaudet pecus, aut arator igni, Nec prata canis albicant pruinis. Jam Cytherea choros ducit Venus, imminente Luna: Junctaeque Nymphis Gratiae decentes Alterno terram quatiunt pede, dum graves Cyclopum Vulcanus ardens urit officinas. Nunc decet aut viridi nitidum caput impedire myrto, Aut flore, terrae quem ferunt solutae. Nunc et in umbrosis Fauuc decet immolare lucis, Seu poscat agn.i, sive malit haedo. Giorn. Ligustico, Anno XX. Xr 226 Questa solennità cosmica non è certamente celebrata dappertutto allo stesso tempo; è anticipata nei paesi di clima temperato, è ritardata nei climi freddi, ma dappertutto è celebrata nel modo stesso, con suoni, canti, convegni, passeggiate, a piedi, in barca. È la prima festa della buona stagione, alla quale, il cielo, la terra, la natura animale e la vegetativa prendono parte per festeggiare Γ uomo. Cosi deve essere stata celebrata sull’altipiano di Pamir, dagli Arva, nostri antichissimi padri, dopo, che : il monte Himalaya era stato veramente monte nevoso secondoch'e suona il suo nome per qualche mese. E le selve si erano vedute coperte di nevi e di brine, debolmente soleggiate, dominate da venti freddi ed acuti. Ed il sole coi suoi raggi tremolanti, velati dai brumali e freddi vapori era apparso simile alla luna : il suo splendore insensibile in sul mattino, era stato giocondo al senso sul mezzogiorno. Ed i fiumi si eran visti colle acque velate da vapori, colle sabbie delle loro rive bagnate dalle nevi, e solo al canto si discernevano le gru che stavano lungb essi (i). Sotto il nome di UH, o di festa della buona stagione, gli abitanti moderni dell’ India senza distinzione di credenti in Brama, o in Gesù Cristo, o in Maometto, celebrano il ritorno della primavera, cantando le lodi di Visnù gopaul o pastore, vanamali od ornato di fiori, Cesava o dai bei capelli. Le innumerevoli sette, le divisioni sociali, i titoli più o meno antichi di nobiltà, le differenze della fortuna, non contano più ; tutti pensano a darsi bel tempo, tutti si rallegrano dell’ anno novello quando : Zeffiro torna e ’l bel tempo rimena / E i fiori e Γ erbe, sua dolce famiglia / E garrir Progne e pianger Filomena / E primavera candida e vermiglia. / Ridono i prati e il ciel si rasserena / Giove si allegra di mirar sua figlia / l’aria e l’acqua e la terra è d’amor piena / ogni (i) Valmici — Ramajana — Libro III, cap. 22. GIORNALE LIGUSTICO 227 animai d’amar si riconsiglia /. Tutto è lecito nella festa di Uli; tutti si gettano addosso a piene mani il fiore purpureo della tuba indiana ο 1 ’abira, acqua tinta in rosso del fiore stesso. Scherzi indecenti di giorno e di notte, riunioni tenute alla luce di numerosi doppieri; tutto è lecito quello che è libito, per le donne al pari che per gli uomini, in quel carnevale della primavera indiana, che alla festa tradizionale, associa la bellezza della regione, come splendida gemma incastonata in anello prezioso. G. Ferraro. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Charles Dejob, L’Instruction publique en France et en Italie au dix-neuvième siècle, Paris, Colin (1892). Sotto questo titolo ΓΑ., oggimai ben noto per la piena conoscenza della letteratura e della storia italiana, raccoglie quattro scritti assai notevoli, i quali hanno un legame comune, poiché trattano argomenti che si riferiscono alla pubblica istruzione in Francia ed in Italia. Vero è che il primo e l’ultimo riguardano questa in ispecial modo, mentre gli altri due appartengono direttamente a quella; ma giustamente ha rilevato l’A. che fra tutti e quattro corre un legame ideale, intimo, di riflessione e di pensiero. Poiché chi non guarda soltanto alla superficie, e non si compiace della pura e semplice aridità dei fatti, risale alle cagioni, scruta gli effetti, entra nell’ intimo senso delle cose; ed allora assorge a quelle osservazioni complesse, donde appariscono evidenti i punti di contatto, gli anelli che congiungono, anche nell’ apparente contrasto, 0 là dove meno si crederebbe alla affinità ed alla stretta parentela. Di che porge bella prova il libro presente, 228 GIORNALE LIGUSTICO le cui parti, se possono srare da se, e sembrare disgregate, hanno però quell’ intimo legame al quale accennavamo, riferendosi alla storia generale e svolgendo un concetto che nella mente dell’A. si è venuto maturando, ed ha preso forma e colorito per fermarsi ad illustrare punti speciali della storia del pubblico insegnamento. Onde se da un lato noi vediamo in qual guisa lo Stato promosse Γ istruzione nel primo periodo del secolo xix, e qual parte importante v’ ebbe P insegnamento libero, dall’ altro è chiarita Γ influenza esercitata tra noi da quei medesimi intendimenti, i quali valsero a rinnovare 1’ educazione e la cultura con larghezza e vigoria. Il primo studio, che specialmente riguarda gli istituti femminili fondati in Italia per opera di Napoleone, manifesta ben chiaro il fine nobilissimo a cui egli intendeva; quello cioè di curare, secondo i tempi mutati, Γ educazione della donna, per apparecchiare le madri alla ventura generazione, la quale doveva correre una via tanto diversa dal vecchio passato. L’A. cerca dapprima dimostrare comesi esagerasse, muovendo i più alti lamenti contro il governo francese, nell’ erronea supposizione che volesse costringere gli italiani ad adottare il proprio idioma, per cancellare, con la lingua italiana, ogni sentimento di nazionalità. L’ esame imparziale dei fiuti manifesta che se vi furono per avventura dei fanatici, nella mente dei quali poteva esser sorta una simile idea, ciò non era di certo nell’ animo e negli intendimenti di Napoleone, il quale desiderava si che lo studio della lingua e della cultura francese fosse bastevolmente conosciuta, ma voleva che andasse di conserva con esso lo studio dell’ italiano. Ed è merito incontestato di quel periodo di governo, anche oggi spesso giudicato senza equanimità e con evidente prevenzione, di aver sparso dovunque i germi e il lume dell’ istruzione, in quei paesi persino, dove per innanzi signoreggiavano il pregiudizio e 1’ ignoranza. GIORNALE LIGUSTICO 229 Con un rapido sguardo alle condizioni della educazione femminile in Italia prima della rivoluzione, il Dejob si apre la via a toccare dei primi tentativi fatti dalla Cisalpina per provvedere a questa parte importantissima dello svolgimento sociale, donde col discorso ci guida a rilevare in qual guisa Napoleone riconobbe il bisogno di restaurare la cultura ed il carattere della donna, applicando all’Italia i suoi concetti didattici. Di qui ebbero vita gli istituti di Bologna, di Milano, di Lodi, di Verona e di Napoli. Se al primo, non diretta-mente istituito dal governo, ma soltanto protetto, mancò fortuna, ciò fu per cause affatto indipendenti dal concetto fondamentale onde sorse, e dal fine a cui intendeva. Ma cosi non avvenne degli altri, i quali ebbero vigore e rigoglio non piccolo, e resistettero al variar dei governi, ed alle politiche vicende, giungendo fino ai nostri giorni. Segno sicuro che rispondevano ad un vero e sentito bisogno, e le basi sulle quali ebbero inizio furono solide e ferme. Il Dejob, con abbondanza di notizie, desunte da sicure fonti, con opportuna esposizione, e acuta disamina, discorre di tutti questi istituti, dicendo del loro ordinamento amministrativo e didattico, del personale ad essi preposto, dei difetti, delle migliorie, delle modalità, dei frutti che la società n’ ebbe a risentire. Illustrano questa parte le appendici, nelle quali ΓΑ. ha raccolto le più particolari notizie e alcuni documenti intorno all’ argomento di cui egli ragiona; perciò noi leggiamo non solo quanto si riferisce agli istituti innanzi citati e alla loro storia fino al presente, ma eziandio notizie singolari ed ignorate sui progetti di Napoleone per la istituzione di licei francesi in tutte le capitali d’ Europa, intorno ai professori che insegnarono il francese in Italia, agli alunni ed agli insegnanti italiani nel collegio di Sorèze, al corso d’ italiano stabilito nella scuola commerciale di Lione, infine al Ginguené che ebbe si strette relazioni con l’Italia. Notizie importanti che lumeggiano la 230 GIORNALE LIGUSTICO reciproca influenza delle due nazioni nell’ ordine intellettuale e morale, e che ΓΑ. ha tratto con molta cura dai giornali e dai documenti contemporanei. Riguardano più specialmente la Francia le due scritture che seguono, nella prima delle quali si tratta dell’ insegnamento superiore libero, nell’ altra del Villemain alla Sorbona. Narra il Dejob con abbondanza di notizie, e non comune diligenza 1 istoria del celebre Museo istituito da Pilàtre de Rozier alcuni anni innanzi la rivoluzione, e durato, quantunque con nome diverso, fino al 1849. Ne mostra Γ importanza, il grido in cui giustamente si levò, e l’estimazione in cui fu tenuto, cosi per il suo ordinamento, come per gli uomini insigni chiamati ad insegnarvi. Intorno a lui raggruppa ΓΑ. tutto il movimento didattico, scientifico e letterario ond’ ebbe vanto la Francia; quadro che ci mette sotto gli occhi in qual guisa venne svolgendosi l’insegnamento libero; quale spirito ad esso presiedeva; quali difficoltà ed ostacoli vide innalzarsi contro, e come gli riuscì superarli. Le conseguenze che trae, le osservazioni che raccoglie dal suo studio sono assai importanti e ci sembrano chiare, dritte e luminose. I medesimi pregi dobbiamo riconoscete nello studio intorno al Villemain, considerato qui soltanto dal lato pedagogico. Da queste pagine emerge ben delineata la figura dell’ insegnante con i suoi pregi e i suoi difetti. Egli è giudicato e per se, e in relazione con i tempi suoi, e con i suoi contemporanei; onde riesce ben chiarita l’influenza da lui e dalle sue dottrine esercitata nella società colta. All’ Italia ci richiama 1’ ultimo scritto a proposito delle edizioni di classici per le scuole. Quivi l’A. pone alcuni termini di confronto fra il metodo usato in Francia, e quello invalso fra noi nella pubblicazione di quei testi, rilevando, come il nostro si manifesti per qualche rispetto migliore e più accettabile dell’ altro. Critica alcuni libri scolastici 0 per- GIORNALE LIGUSTICO 23 I chè non è rigorosamente osservata Γ onestà, o perchè il commento si ferma singolarmente sopra i difetti, senza richiamare Γ attenzione sulle bellezze del pensiero e dello stile. Nè egli vorrebbe si lodasse troppo e sempre, ugualmente contrario all’ eccesso della lode e del biasimo; onde apprezza chi ha saputo seguire una via di mezzo, secondo verità e giustizia. Cosi pure non si mostra troppo tenero della erudizione soverchia, in ispecie là dove manchino quei rilievi estetici, acuti e sobri in un tempo, che obbligano la mente a riflettere e educano il gusto. Vorrebbe insomma che il libro posto nelle mani ai giovinetti fosse una guida utile a far bene intendere gli autori, ed una lettura piacevole ed istruttiva. Difficoltà massima perciò, la convenienza e il criterio degli illustratori e commentatori nel sapersi adattare all’ età e al grado di cultura dei giovani, ai quali i testi sono destinati. N. C. Goldoni, La Locandiera, Commedia annotata per le scuole da F. Martini, Verona, D. Tedeschi, 1893. Il Prof. F. Martini, pigliando occasione dal recente programma del Ministro di pubblica istruzione per le scuole normali del Regno, ha pubblicato la sempre viva e verde Locandiera del Goldoni, corredata di una breve notizia e di pregevoli note. È di questa fatica del diligente editore che voglio parlare. A prima giunta può parere affatto superfluo l’annotare una commedia del Goldoni; eppure non è, non parliamo delle giovinette per cui le osservazioni linguistiche hanno sempre una speciale importanza, ma neanche per un gran numero di colti lettori, e basterebbe a provarlo questa immortale Locandiera. Ognuno sa, ad esempio, che il Gol-doni come un diversivo alla costante attenzione attirata sopra di sè dalla protagonista e forse per quali’ amore ai mej^i caratteri ne’ quali egli fu sovrano, consertò all’ azione princi- 232 GIORNALE LIGUSTICO pale l’episodio delle comiche Ortensia e Dejanira, che, in cerca di avventure e di un cavaliere più sodo che non siano quelli da commedia, capitano alla locanda di Mirandolina. A me — e chi sa a quanti altri ? — era avvenuto di leggere altra volta quelle vivaci scene , senza però tenere il debito conto del risalto che in bocca a due abili attrici doveva prendere quel linguaggio malizioso, tutto infiorato e screziato dal gergo dei comici dell’arte. È uno spiraglio nella vita del 700 e di una speciale e curiosa classe di persone, che al grande veneziano piacque di aprire con quel rapido intuito del vero e del comico che egli possedeva in grado cosi eminente. Ma certe curiosità del passato e appartenenti ormai alla storia, diventano per noi bisognevoli più che mai di un commento. È la 50rte che è già toccata al Giorno del Parini, e anche il Goldoni, sebbene in proporzione assai minore, non può sottrarsene, quando insieme con quella verità che è eterna, perchè essenzialmente umana, egli mette sulla scena i tipi del suo secolo. Così latta illustrazione ci è data dal Prof. Martini con bella ed opportuna erudizione, e per essa ancor rivivono alla mente del lettore quelle figure, che senza questo, sarebbero ornai difficilmente comprese dal nostro pubblico, e già gli attori moderni, rappresentando la Locandiera, stimano miglior partito il sopprimerle. Cito per tutte le scene XVIII e XIX dell’Atto primo, e la XIII dell’ atto secondo. Ho recato un esempio, potrei portarne dieci altri buoni ed utili per la illustrazione sul costume del Settecento, 0 per i riferimenti che la lingua del Goldoni ha ben di spesso con il dialetto veneziano. E io per me mi augurei che anche per altre commedie, le più celebrate almeno, venisse intrapresa la stessa fatica : riuscirebbe certo gradita non solo alle scuole, ma a molti dei nostri ed ai forestieri che non sempre sanno e possono debitamente apprezzare la meravigliosa ricchezza del genio più originale ed inconsciente che abbia avuto l’Italia. 233 Il centenario della sua morte, celebrato poc’ anzi, ha dimostrato la stima in cui esso è tenuto, oggi come or fa un secolo : e di quanti ingegni può dirsi altrettanto? Un alto intelletto, che nell’ arguzia bonaria e scintillante molto gli rassomigliò, voglio dire Alessandro Manzoni, riconosceva in lui, e la lode ha speciale valore sulle labbra di chi non ne era prodigo davvero, « una pittura la più varia e fedele di costumi, un’ abbondanza di caratteri originali e ben mantenuti, non solo nei personaggi principali, ma anche nei secondari , una fecondità di invenzioni, un ingegnoso artifizio d’intrecci, e tanti altri requisiti , primari in tal genere di componimento » (i). Varia e fedele pittura di costumi e meritamente, poiché non è vero che il Goldoni abbia rappresentato sulla scena soltanto il popolino e la borghesia: chi non riconosce, per esempio, in questo stolido del marchese di Forlimpopoli il tipo di molti tra quei patrizi veneti del secolo scorso, in cui la boria veniva a zuffa perpetua con la povertà? Anzi, se un appunto devo fare al Prof. Martini, è di essersi scordato di avvertirne nel poemio, o in nota, le sue giovani lettrici: nella scena Vili dell'atto primo in cui il marchese è perfino tentato di sposare Mirandolina, se uno sproposito cosi grosso gli fosse permesso dalla sua nascita, Γ annotatore giustamente osserva che « i patrizi veneti potevano bensi sposare una donna del popolo, ma se tale matrimonio non era approvato dal Gran Consiglio i figliuoli che ne nascevano non erano riconosciuti per nobili ». Ora il trovarlo nell’ elenco de’ personaggi sotto la denominazione di marchese di Forlimpopoli, potrebbe indurre confusione nelle giovani lettrici, quando non sappiano che il geloso governo della sua patria obbligava il Goldoni a cosi fatte cautele. Inezie! So che il prof. Martini ha messo mano al commento (i) Cantù, A. Man{oni, Reminiscenze, II, 199. 234 GIORNALE LIGUSTICO di un altra commedia goldoniana: eguagli, e sarà la miglior lode, in bontà questo della Locandiera. Carlo Braggio. L. G. Pelissier. La politique du, marquis de Manloue pendant la lutte de Lotus XII et de Ludovic Sforma 1498-1500, Le Puy, Marchessou, 1892 (Estratto). Dopo Γ importante lavoro di Renier e Luzio, che ci mette dinanzi con molta verità la figura di Gian Francesco Gon-zaga, marchese di Mantova, il vincitore di Fornovo, rilevando in ispecie la politica da lui adottata e la parte presa alle vicende italiane, questo del Pelissier se ne può dire quasi un seguito o meglio un importante compimento, poiché si occupa più specialmente di quel capitano negli ultimi tre anni del secolo XV. Il periodo storico è di sommo rilievo per gli avvenimenti a cui diede luogo P assunzione al trono di Francia di Luigi XII, il quale mostrò subito quali fossero le cupide mire che agitavano l’animo suo, a danni di Ludovico il Moro. Nè tardò a scoprire i suoi disegni, ricercando nei nemici del duca di Milano i suoi alleati. I veneziani, prima d’ ogni altro, come quelli che meglio erano atti per la loro condizione ad aiutarlo, con lo stringersi addosso a Ludovico danneggiandolo ne’ suoi domini. Vecchie e nuove cagioni di rancore tenevano il duca e la repubblica sempre pronti alle offese; pronti a spiare il momento opportuno di venire alle mani. Il Gonzaga, signore di uno stato posto in mezzo ai due contendenti, si trovava in una condizione felice da un lato , pericolosa dall’ altro; onde gli conveniva adottare una politica rispetto ai vicini di tal natura da mantenere l’integrità del suo dominio, e procacciarsi maggiori vantaggi possibili. D’altra parte, ambizioso, e già salito in fama come capitano, bisognevole di largo censo per GIORNALE LIGUSTICO 235 mantenere il suo fasto e la sua potenza , gli conveniva governarsi con accortezza non comune per raggiungere i suoi fini. Oltreché, si a Ludovico come ai Veneziani, dietro ai quali stava Luigi XII, importava per molte ragioni politiche non averlo avversario dichiarato ed aperto. Questo egli non ignorava, e fece del suo meglio per volgere a suo prò codesta favorevole condizione in cui si trovava. Ctrto, seguire i dettami della morale pura non poteva, senza mettere a repentaglio i suoi vantaggi; e poi, ben dice il Pelissier, « le XVIe siècle n’a jamais associé la morale à la politique ». Quindi assistiamo ai frequenti e studiati voltafaccia di questo avveduto politico , il quale mentre si getta nelle braccia di una delle parti, con un abbandono che apparisce sincero, pensa al modo di non scontentare 1’ altra, e cospira per tenersi aperta una via che gli consenta di tornare a questa. Le ire dei traditi non lo commuovono; nè invero, dopo il legittimo scoppio, durano molto , stretti come essi sono dalla necessità politica a non averlo nemico. E il Gonzaga sa avvedutamente allontanare le bufere minacciate e rifornirsi di danaro, mettendo quasi se stesso all’ incanto. « Ainsi » , conchiude Γ autore , « la tortueuse politique de François de Gonzague l’avait conduit au succès. A travers tant d’intrigues, de volte-faces, de fourberies , il avait élégamment sauvé son état et sa réputation de rusé diplomate ». È una pagina assolutamente nuova della storia italiana che il Pelissier ci fa conoscere. Invano se ne cercherebbe notizia negli scrittori. Sono i documenti tratti dagli archivi di Milano, di Mantova, di Modena, di Venezia che hanno dato modo all’autore di narrare con minuti e interessanti particolari questo curiosissimo episodio. Egli lo ha fatto da per suo, e con quella acutezza con quel discernimento che è proprio delle sue scritture. Mosso così da fondamenti sicuri, ha ben determinato lo svolgimento e i limiti del suo lavoro, il quale 236 giornale ligustico non è solamente una raccolta di notizie, ma una ben ordinata narrazione di fatti, con rilievi e giudizi da questi desunti e pieni di retto criterio e di seria verità. N. SPIGOLATURE E NOTIZIE * * * Una pubblicazione utilissima alla storia genovese sul cadere del secolo scorso e sui primi del seguente è la Correspondance diplomatique del barone di Redon di Belleville che fu console a Livorno e a Genova dal 1796 al 1802. * * * Fra i Documenti vaticani contro l’eresia luterana, editi da Bartolomeo Fontana ne troviamo alcuni assai curiosi riguardanti la Liguria. Tre brevi pontifìci della stessa data, 4 settembre 1556, riguardano i disordini degli Agostiniani, specie in fatto di costumi. Uno del 30 giugno 1564 s’ Γ'^ε' risce alla cattura di alcuni soldati Corsi sospetti d’eresia; ed un altro del dicembre 1569 al conte di Tenda lo invita a far prendere due de’ suoi terrazzani pure sospetti (cf. Archivio della R. Società Romana di storia patria, XV, pp. 443-446, 460, 473). * * * Alla storia genovese si riferisce una importante pubblicazione del professor Pietro Vigo: Statuti e provvisioni del castello e comune di Livorno. Dove, nella introduzione, facendo suo prò di nuovi documenti attinti dagli archivi dì Firenze e di Genova, illustra quel periodo storico, rimasto quasi interamente nella oscurità, in cui Livorno passò in dominio dei genovesi per Γ acquisto fattone dal maresciallo Boncicault, fino a che non venne ceduto ai Fiorentini da Tommaso di Campofregoso. * * * -Negli Annales du Midi (IV, 1892) Antonio Thomas ha pubblicato: Soldats italiens au service de la France en 141"]· Quivi meglio chiarisce ciò che già si sapeva sui soccotsi forniti al re di Francia dai genovesi, affermandosi che non solo alcuni nobili si erano recati in Francia in servigio GIORNALE LIGUSTICO del re, ma v’avevano condotto ben millecinquecento balestrieri genovesi, comandati da Luigi di Guastalla. * * Nella Rivista storica italiana (anno X, fase. i.°) Alberto Salvagnini pubblica un resoconto del contenuto della Raccolta Colombiana in corso di stampa; e Carlo Merkel una recensione: Di alcuni recenti studi interno a Cristoforo Colombo, nella quale parla, analizzandolo, del libro di Cesare De Lollis; della biografia di Colombo dettata da Josefa, del lavoro d’Ibarra y Rodriguez intitolato : D. Ferdinando el Catoìico y el drscubrimiento de America; della pubblicazione inglese collettiva : Columbus and bis discovery of America; della raccolta di scritti colombiani edita per cura del Magnabal sotto il titolo: Cbistophe Colomb et l’universiti de Salamanque; dell’ opuscolo di Angel.de Altolaguirre y Duval: Llegada de Colon a Portugal; infine dei due libercoli, del Fazio: Della patria di Cristoforo Colombo, e di Suonino Sabazio: Intorno alla patria di Cristoforo Colombo. Di questi due ultimi rende la giustizia che si meritano. A proposito del Fazio sono da rammentare le gustose lettere aperte pubblicate (ed una è sotto il torchio) dal Centurini. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Cinque lettere inedite di C. 7. Frugoni a Mons. Angelo Fabbroni, Forlì, tip. Bordandini, 1891. Lettere inedite di C. I. Frugoni a Mons. Angelo Fabbroni, Forlì, tip. Bordandini, 1892. Gli autografi di queste lettere si conservano nella biblioteca comunale di Forlì, insieme ad altre parecchie pur del Frugoni. Le prime furono scelte e pubblicate da Alfonso Bertoldi con la consueta cura e diligenza; il quale giustamente le reputa « di non poca importanza per determinare meglio alcuni episodi della vita del poeta, che fu pur tanta parte della letteratura del tempo suo ». Chi ne mettesse insieme l’epistolario, farebbe opera buona, e, per quel che ne abbiamo veduto, si può aggiungere curiosa e proficua. Nelle lettere qui pubblicate si tocca delle prime relazioni del poeta con la celebre Corilla. Voleva che egli l’andasse a prendere a Bologna e la conducesse a Parma; « la ringraziai », scrive, « de’ suoi troppo per me fevorevoli sentimenti, e mi scusai se non volava a prenderla ed a tra- 238 GIORNALE LIGUSTICO sportarla fra noi, dicendole che io non era assai ricco, nè assai giovane per far questo come più convenivasi. Ella mi ha scritto dei versi, nei quali largamente spende la solita moneta di Parnaso idest lodi grande-dissime ». Rispose « tingendo i suoi versi di qualche colore anacreontico ed oraziano u. Però dichiara il suo « terreno stanco di produrre », onde ha a bisogno d’ essere arricchito ed eccitato a nuova fecondità ». — Ad un pittore che gli avea fatto chiedere consiglio per un quadro da mandare al concorso dell’ Accademia rispondeva « che egli esponga Γ arrivo di Furio Camillo liberatore della patria, e non ommetta di far vedere l’oro, che si era apportato per il riscatto de’ Romani, e il nemico che l’aveva con lor patteggiato. Non deggiono i pittori eruditi far contro la storia, ma possono molte cose tutte vere insieme comporre ed accordare, onde maggior vaghezza e lode ne venga al loro quadro». — E a proposito di poesie d’occasione esce a dire: « Matrimoni, monache, lauree, dottorati sono gl’ infelicissimi quotidiani argomenti, ne’ quali si occupa suo malgrado e si rende stucchevole la nostra poesia. Io da qualche tempo ho trovato modo di scrivere sopra tali soggetti con dirne nulla, o così poco, che nulla può parere ». — Infine avendogli il Fabbroni comunicato il divi-samento di dettare la sua vita, scrive: « Non mi parlate più di scrivere la vita mia, che vi farebbe poco onore, perchè è tutta senza miracoli. Ad un illustre scrittore di vite illustri farebbe vergogna una vita, come la mia, mal cominciata, peggio seguita e che vi vorrà tutta la suprema misericordia perchè finisca bene. Che volete mai dire di me? Che di quindici anni mi fecero frate, senza che ne sapessi nulla, che mi privarono de’ beni paterni, della libertà, con una professione la più invalida che siesi mai fatta, sebben me ne sono state tolte le prove; che dopo più anni miseramente perduti fra chiostri, la pontificia salutar grazia mi sciolse, ma i beni miei non mi potè rendere; che vissi secolare in miserie, nelle quali pur sarei, se la munificenza dell’ augustissimo Infante mio signore non si fosse degnato tender la reai sua mano ver me, e levarmi dall’oscurità e dall’indigenza: che ho fatto sempre il mestiere del poeta, e 1’ ho fatto assai mediocremente, a segno che mi fanno terrore le stampe che soggettano gli autori al pubblico che non perdona. E quando, mio carissimo sig. abate Fabbroni, avrete tutte queste cose con istorica eloquenza ordinate e descritte, che buon grado ve ne saprà il mondo, e che gloria ne verrà a voi ed a me? Lasciatemi pure morire tutto con tutto il volgo degli uomini, e fate vivere oltre il sepolcro altri nomi che ne son degni ». Non valsero le modeste istanze del poeta, ché il Fabbroni ne scrisse, coni’è noto, l’elogio. GIORNALE LIGUSTICO 239 Altre nove lettere mette fuori il Mazzatinti. Anche in queste si parla per lo più dei suoi componimenti poetici che Γ amico gli richiedeva sovente. « Imparerete finalmente voi », scrive, « ed imparerà il degno vostro fratello a stimolarmi a mandar versi. Ne manderò tanti che alfine noiato e stanco mi pregherete a non mandarne più ». £ manda nuove composizioni sue. Scrive un’ epistola per monaca ad istanza di una donna a cui non seppe dir di no; « ma ncn potendo soffrire l'argomento che tutto dì ci fa scriver versi infelicissimi, ho procurato d’ uscir d’ impegno con un immaginazione che forse non dispiacerà ». Sapendo il Fabbroni occupato sempre a scrivere le vite degli illustri italiani, loda la sua operosità : « le vite che avete scritte e che pensate scrivere in appresso saranno sempre bene accolte dalla repubblica letteraria e vi faranno onore ». Si duole di una pirateria letteraria: « non so comprendere come siasi rappresentato un dramma da me preso dal francese, intitolato Castore e Polluce, o sia i Tindaridi, e che chi lo ha costi pubblicato se lo sia appropriato, senza 0 tacerne l’autore, 0 dire che l’autore o sia traduttore era io, sono queste imposture intollerabili. Vero è che quel dramma non importa molto a me ; ma tuttavia esso é mio, e non posso gradire che altri se lo usurpi ». Del convento di S. Domenico in Sarzana e di una terracotta dei della Robbia. Appunti su documenti inediti per Clinio Cottafavi, Sarzana, tip. Lunense, 1892. Si asseriva che il convento di S. Domenico in Sarzana fosse stato eretto a’ tempi del Santo stesso, il quale s’era quivi recato; gli scrittori locali, a maggiore onoranza della terra, avevano accettata la tradizione, accolta altresì dal P. Gian Maria Borzino cronista dell’ ordine. Ma il Cottafavi con la scorta di documenti sicuri stabilisce assai chiaramente che il cenobio venne edificato fra il 1294 e il 1303. Si trovava fuori la porta di S. Domenico in direzione del baluardo detto lo Spuntone, poi lo Spaccato (così denominato il luogo dall’ aver aperto il muro di cinta per dar adito alla via maestra che conduce a Genova), e oggi piazza S. Giorgio, e fu poi ababbandonato e distrutto, ma nè da Enrico VII nè da Castruccio , come vuole la leggenda, sì verso la metà del secolo xv, secondo prova l’A. recando un atto del 1442 con cui si conserva memoria della consacrazione fatta dal vescovo Pietrasanta della chiesa nuova e dell’ attiguo cimitero. Le cagioni di questo cambiamento non si conoscono, certo nel 1472 il vecchio convento non esisteva più. Neppure può ritenersi per vero, ciò che si scrisse, dell’aver i frati 240 GIORNALE LIGUSTICO abbandonato Sarzana due anni dopo che la terra cadde in mano di Ludovico ed Agostino Fregoso. Anche qui i documenti danno agio al C. di constatare come i domenicani rimanessero nella loro sede fino alla soppressione del 1798. Chiesa e convento venuti in potere del Demanio lurono venduti all’ asta, ed acquistati dagli Accademici Impavidi, i quali vi eressero Γ attuale teatro. Era opinione dei più che dalla diruta chiesa passasse in mano di uno degli Accademici, il Valenti, un’ancona di terracotta invetriata rappresentante S. Girolamo, da lui poi depositata nell’Oratorio omonimo. Ma l’A. con Γ aiuto dei documenti prova che quell’ opera d’ arte, sempre bella, quantunque danneggiata, non fu mai in S. Domenico, mentre si ritrova menzionata nelle visite episcopali come esistente in quell’ oratorio, sorto circa il 1473 ’n terreno di proprietà dei Domenicani, ed acquistato dalla confraternita di S. Girolamo, istituita fra il 1470 e il 1471. Quattro documenti tratti dagli Archivi Notarili e del Comune di Sarzana, corredano il testo di questo opuscolo assai lodevole per diligenza, dirittura di ragionamento e buon metodo. Tuttavia rileviamo che Sarzana non venne « presa violentemente nel 1437 da Nicolò e Francesco Piccinino » (p. 7), chè il primo soltanto compì questa impresa mentre il secondo la occupò nel 1445. Les sources milanaises de l’histoire de Louis XII aux archives de Milan par L. G. Pelissier, Paris, Leroüx, 1892 (Estratto). Ecco buon materiale per la storia di Luigi XII in Italia. Il P. descrive tre registri di documenti che si conservano nell’archivio di Milano e ne contengono parecchi del re di Francia nel periodo della sua dominazione sul milanese. Il primo è di Lettere ducali dal i486 al 1506, 1’altro comprende gli anni 1501-1512, e il terzo dal 1487 va al 1500. Correda il suo spoglio, fatto con molta cura, una serie di documenti editi per intero. Troviamo nel primo registro una Donation par Louis XII a Filippo di Fhsco d’une pension annuelle de 1000 livres sur les revenus da duché de Valence, révocable si la même pension lui est ultérieurement assignée sur d’autres revenus. È del luglio 1500. Nel secondo registro è la Confirmatio privilegiorum et beneficiorum ar-chiepiscopatus lannue, datata da Genova il 28 agosto 1502, e riprodotta per disteso. Nel terzo si trova la Confirmation à Baptistina de Auria alors famme de Giovanni Doria, de ses privilèges et biens dans la diocèse de Tortone; ha la data dell’ 8 settembre 1499. P a squale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO 24I L’ATTIVITÀ POLITICA DI PIER CANDIDO DECE M BRIO III. Agire sulla opinione publica mediante opportuni discorsi era ufficio ragguardevole e delicato; non meno, forse più, recarsi in ambasciata a trattar difficili affari presso le potenze d’Italia, anzi d’ Europa. Di legazioni sostenute dal Decembrio tra il ’26 ed il '31 è memoria bensì, ma non più che memoria. A proposito d’ una di esse — dove non è detto — Antonio Panormita ebbe ad accusare Pier Candido di spionaggio (67); d’ altra, in Romagna, si sa non togliesse all’ umanista facoltà di attendere a’ diletti suoi sludi letterari (68). Nell’ aprile de '35 ricevette missione di capitale importanza: andare insieme con Cristoforo da Velate all’ imperator Sigismondo, il quale, dopo esser stato lungamente favoreggiatore del duca di Milano, or, mutate disposizioni, inclinava verso la lega veneto-fiorentina. Il 21 del mese ricevevano gli oratori le necessarie istruzioni : dovevano portar seco una parte della somma di 5400 ducati dovuti alla cancelleria imperiale per 1’ emissione di privilegi concessi al Visconti, ma di ciò era dato loro incarico di non parlare, e dir anzi di non aver portato nulla, finché, scandagliati i sentimenti del-Γ Imperatore, non iscorgessero conveniente e giovevole la numerazione del danaro. In tal caso veniva loro data facoltà di sborsarlo al cancelliere Gaspare Slick, con mostra di averlo ricevuto solo allora; anzi tentassero prima di non dar nulla, adducendo a ragione la promessa di Sigismondo di concedere Giorn. Ligustico. Anno XX. 16 242 GIORNALE LIGUSTICO gratuitamente i privilegi, e, a peggior partito, col pagamento di quella parte della somma, vedessero modo di conseguire il condono del rimanente (69). Ma non qui si arrestava 1’0-peia affidata al Decembrio. Durava ancora in Francia Γ aspra gueira de Cent’anni tra i Valois ed i re d’Inghilterra, nè prima dei 21 settembre di quell’ anno fu conchiuso 1’ accordo di Alias fra Carlo \ II e Filippo di Borgogna, per cui questo potente vassallo riaderiva al suo principe legittimo e naturale. Contemporaneamente, Renato d’Angiò, liberato dalla prigionia in cui era caduto nella battaglia di BulgneviIle con giuiamento di restituirsi in carcere ad ogni richiesta dello stesso duca di Borgogna, aveva lealmente ottemperato all’invito nell estate del 1434, e stando egli in mano de’ suoi nemici per la questione della successione di Lorena, era stato chiamato in marzo 1435 a succedere nel reame di Napoli a Giovanna II, nel che aveva tutto il favore di Filippo Maria Visconti e de’ Genovesi, nemici nati dell’altro pretendente Alfonso di Aragona (70). Pier Candido pertanto, terminata la missione col Da Velate presso l’Imperatore, ricevette mandato d intervenire al congresso di Arras, donde non partì che il 25 settembre, con gran desiderio del Borgognone di procedere ad un trattato di alleanza col suo signore: propo-nevasi di recarsi a Digione, per favorire le pratiche di liberazione di Renato, e fece infatti il viaggio col cancelliere di * OD Borgogna e col cardinale di Santa Croce, mercè del quale sfuggì a parecchi pericoli. In Digione potè abboccarsi con Renato, e sebbene per la molta guardia non ne avesse altro che preghiera di raccomandazicne al principe lombardo, la domane, 28 ottobre, intese da un fidato di lui comunicazioni di molta importanza. Il Decembrio fe’ del suo meglio in favore dell’ illustre prigione, indi a poco liberato a patti meno gravosi che non credesse; ma infrattauto era accaduta la battaglia navale di Ponza, ed Alfonso di Aragona, preso dai GIORNALE LIGUSTICO 243 Genovesi e condotto a Milano, acquistava la preziosa alleanza del Visconti: saggia politica, che Amedeo Vili, visitato il 3 novembre in Ripaglia da Pier Candido, consigliava pur egli, confortandola con molte ragioni, dall’esperienza mostrate vane perchè troppo sottili (71). Rientrato infine in Milano, il diplomatico umanista d’ogni cosa dava accurata relazione al suo signore (72), ed indi a poco era di nuovo chiamato a servirlo del suo talento vigoroso di letterato e statista. Contro tutte le previsioni de’ politici, Genova, indegnata dell’ accoglienza fatta da Filippo Maria ad Alfonso e, più, dal-Γ ordine di aiutare il nemico del giorno avanti, insorgeva in dicembre del '35 contro la signoria milanese e ribatteva ogni tentativo del Visconti per ricuperarla pubblicando, sembra, un manifesto a giustificazione della sua condotta. Il Decembrio, che nel ’3i aveva esaltato i Genovesi per infiammarli contro Venezia, or ne ribatteva il manifesto con un’orazione in cui li rimprovera, si può credere, della nuova ribellione e cerca torse di persuaderli a rientrare in dovere sotto il giusto e saggio governo del Bidone (73). Certo sarebbe cosa interessante e curiosa ritrovare questo discorso e paragonarlo coll’altro da me altra volta stampato. Quanto a risultamenti politici, non occorre dire che furono affatto negativi, e Genova perseverò, a dispetto d’ogni minaccia o lusinga, nell’autonomia riacquistata e nella guerra contro il re diAragona. Parrebbe che il cattivo esito dell’ alleanza di Filippo Maria con Alfonso rispetto alla Liguria avrebbe dovuto staccare od almeno raffreddare il primo verso il secondo, ma non fu così. Troppi altri e più veri e gravi interessi collegavano insieme i due principi, e la loro amicizia crebbe anzi ogni dì più. Io non addurrò certo come documento politico di molta importanza una lettera che Antonio Panormita, l’antico avversario di Pier Candido or passato presso l’Aragonese, ebbe a dirigere al Duca di Milano in nome del giovane Ferdinando GIORNALE LIGUSTICO venuto allora di Spagna (74), nè la risposta scritta, singoiar coincidenza, del Decembrio medesimo (75); ancorché il fatto di per sé solo non manchi di significato come attestazione del-Γ intimità tutta particolare delle due corti. Piuttosto vuol essere ricordato come la fama dell’umanista lombardo, quale estensore di orazioni politiche, uscisse assai per tempo dalla cerchia de’ paesi dipendeati del suo signore, onde prima il giureconsulto Sceva Corte (o da Corte) si faceva redigere da lui un panegirico pel marchese di Mantova (76) e, poco più tardi, nel 1442, egli fosse pure chiamato a tessere l'elogio funebre di Nicolò III d’Este, signor di Ferrara, cui succedeva il mecenate Leonello (77). Ma queste si possono dir quasi semplici divagazioni dell’ attività politica di Pier Candido, tuttodì rivolta a cose di gran lunga maggiori. Non è invero di scarso interesse per la storia generale d’Italia nel Quattrocento che la volpe milanese, come suol chiamarsi il Visconti, cercasse dopo la pace di Cremona (20 novembre 1443), un riavvicinamento a Firenze, incominciando quell’ evoluzione nel sistema delle alleanze che doveva entro un decennio essere condotta a compimento dalla prudente energia di Francesco Sforza. È noto come il 24 settembre 1443 si stringesse lega fra Milano, Venezia e Firenze contro i condottieri bracceschi ed il pontefice Eugenio IV (78), ma non che l’estate appresso Filippo Maria, ad ingraziarsi vieppiù la publica opinione della città deU’Arno,commettesse altrui di scriverne a lungo le lodi a Poggio Bracciolini, che, sebbene al servizio della Curia, era sempre amico diletto del Medici e dittatore del cerchio letterario fiorentino (79). Il Decembrio, che aveva detto tanto male di Firenze nella Laudatio Mediolani, fu anche stavolta costretto dalla vicenda politica a disdire 111 certo modo 1’ opera sua precedente scrivendo egli stesso la lettera (80). La quale sarebbe pur bello possedere e confrontare ancor essa colla Laudatio, per vedere una volta GIORNALE LIGUSTICO 245 di più 1’ acrobatismo e la ginnica pieghevolezza della penna degli umanisti, lodatori oggi colle medesime arti di quanto ieri avevano con acerbità biasimato. Vizio, del resto, non della letteratura solo, ma di tutta intera la società e la vita del secolo XV — e forse non del XV soltanto. Press’ a poco verso lo stesso tempo dell' epistola De laudibus Florentinorum, il segretario visconteo fu mandato d’urgenza ambasciatore (81), ed ancorché non sia certo trattarsi della medesima missione, consta che nel '43 per l’appunto fu parecchio tempo ambasciatore a Siena (82) e poi a Roma (83). In missione diplomatica appare di nuovo a Venezia nel 1445, se è proprio sua una lettera volgare a Francesco Sforza, in cui si parla di denari dovuti dalla Republica di San Marco al medesimo, di flotte destinate ad operare sulle coste anconitane, di pratiche infelici di Sigismondo Malatesta a Parma, di altre del marchese di Ferrara con Venezia ecc. (84). (66). A ritenerla di Pier Candido , passato al servizio dello Sforza stesso, potrebbe specialmente indurre la disgrazia incorsa allora da lui presso il Visconti e cagionata , a quanto pare, da calunnie di Francesco Filelfo (85) ; nondimeno al riguardo mancano argomenti decisivi, e dell’attività politica del Decembrio nulla trovai per ora di certo fino alla morte di Filippo Maria, avvenuta, come ognun sa , il 13 agosto 1443 (86). La riconciliazione, del resto più apparente che reale, avvenuta nel ’47 fra il duca di Milano e suo genero era durata assai poco, e, dopo i casi della Marca, la guerra era stata rotta di nuovo in Lombardia, con gran successo di Venezia. A ristabilire la pace erasi riunito a Ferrara un congresso di rappresentanti delle principali potenze italiche, ed in quella città si trovava allora anche il Decembrio. Nella capitale lombarda una mano di giovani audaci ed avventurosi proclamò tosto la « Sacra Republica Ambrosiana », ed è opinione in- 246 GIORNALE LIGUSTICO veterata che nell’incertezza e confusione di quel momento, Pier Candido fosse tra coloro che più favoreggiarono col volere e coll’ opera quell’ utopia un istante avverata, anzi, qualcuno ha connesso in certo modo aila differenza di colore politico 1’ animosità tra il Decembrio stesso e Francesco Filelfo e le fiere polemiche indi tra loro dibattute (87). Non è qui il luogo di rinarrare la lotta micidiale di penna e di artifizi combattuta fra i due umanisti del cerchio milanese ; la quale, come già si è accennato, ebbe inizio assai prima della morte dell’ ultimo Visconti e si protrasse molto più tardi (88). Ben giova notare che di entrambi i rivali fu poco dissimile la condotta politica durante il breve periodo della libertà di Milano; nè dell’uno migliore o, ad essere veramente esatti, più republicana dell’altro. Così del Filelfo, come del Decembrio, era interesse promuovere la grandezza dello Sforza, che da principio non dovette sembrare affatto inconciliabile colla conservazione di forme republicane: l’uno e l’altro si adoperarono subdolamente a tal fine, anzi se di Francesco non rimangono che offerte e poscia elogi a cose finite (89), di Pier Candido si hanno bell’ e buone informazioni e consigli, colla domanda al condottiere, singolarmente significativa, di una cifra per corrispondere segretamente e sinceramente con lui (90). Pare che nell’ agosto '47 lo preoccupasse essenzialmente il pensiero di ostare alla disgregazione del ducato ed allo smembramento cercatone dall’ ambizione di Venezia, mentre niuna veduta politica era nel suo rivale; ma ciò accentua, non scema, 1’ entità dell’operato del Decembrio. Questi, nominato segretario della Republica, forse per raccomandazione dello Sforza stesso, si trovò poi in condizioni assai diverse dal rivale rispetto a quello, quando il condottiero, nell’ autunno del '48, mutò parte volgendosi dalla lega con Milano a quella con Venezia. Allora, in primo luogo 1’ ufficio suo — cui non dovette parergli onesto nè conve- GIORNALE LIGUSTICO 247 niente, e torse non avrebbe potuto senza pericolo abbandonare — ; poi la paura di veder Milano fatta suddita dell’ e-mula Republica di San Marco e tutto disfatto lo Stato di Lombardia, lo mossero e costrinsero a scrivere a Lodovico di Savoia e a Carlo d’ Orlean, lettere obbrobriose allo Sforza, non però personalmente, ma in nome e di mandato espresso del governo ambrosiano (91). Però egli si potè vantare più tardi di non aver voluto andar ambasciatore a Federico III, re de’ Romani, per dargli la signoria della città (92;; il che era un vero servizio reso al condottiero, col quale non sarebbe impossibile avesse continuato le pratiche segrete, contando egli amici principalmente fra quegli uomini ragguardevoli che, per amor di parte ghibellina, e per salvare il primato di Milano sulle città lombarde, non erano punto restii a ricever duca ad onesti patti il genero del Visconti e fecero di fatto prevalere il loro avviso nel febbraio '50 (93). Sta 1’ accusa, ma non è dimostrata, che Pier Candido cooperasse a far insorger Vigevano contro lo Sforza nel novembre del ’48 (94), e quand’anche in quel primo bollor di sdegno contro il nuovo alleato dell’ esecrata Venezia potesse aver sollecitato alcuno alla ribellione in nome proprio, non come segretario della Republica ambrosiana, è assolutamente infondato il giudizio eh’ ei dovesse abbandonare Milano all’ entrarvi del nuovo signore per. istuggire alla disgrazia e forse alla vendetta di lui (95). Se passò indi a Roma, piuttosto che fermarsi nella nuova corte sforzesca, non fu per ribrezzo di servitù aulica o timore di principe contrastato : nè Roma era libera, nè il nuovo duca era mal disposto verso il Decembrio; al quale, anzi, accennante poco dipoi a passare da Roma a Napoli presso re Alfonso — pur dello Sforza nemico —, faceva scrivere dal cancelliere Simonetta parole non pur cordiali, ma che mostrano a dirittura come il vantato republi-cano perseverasse nell’ ufficio d’ informatore politico del go- 248 GIORNALE LIGUSTICO verno lombardo. Ufficio invero non molto nobile, eh’ egli nondimeno seppe rialzare coll’ avvedutezza di conciliar sempre, e spesso con profondo senso della convenienza publica generale, 1 interesse d'’ ambi i signori a cui serviva (96). Ma, nel primo stabilirsi della signoria sforzesca in Milano, la guerra esteriore e lo sconvolgimento intestino facevano men grato il soggiorno, minori troppo le speranze di mecenatismo che non avesse un uomo ornai riputato come Pier Candido; per contro, affascinava l’animo di tutti quanti gli umanisti l’inaspettata fortuna di un lor compagno, divenuto papa Nicolò V, da cui movevano cortesi inviti a venire presso di lui, traduttori, abbreviatori, segretari (97). Più di ogni altro, il Decembrio — grande amico di vescovi, prelati, cardinali; per veisioni dal greco stimatissimo; diplomatico sperimentato infine — doveva gradire e trovar sede propizia alla corte pontificia. V’ era già in dicembre '50, e forse v’ andò prima ancora (98) : ebbe un segretariato e, più tardi, la suprema ispezione degli abbreviatori apostolici (99). Nè molto passò che, nuova prova de’ suoi buoni rapporti collo Sforza, a lui era appunto mandato dal pontefice in ottobre 1451 (100), e qualche anno dopo, in febbraio 1454, si adoperava efficacemente a Roma per la duchessa di Milano (101). iv. Morto Nicolo V nel marzo 1455, Pier Candido non continuò gran tempo nell’ ufficio suo di segretario apostolico sotto il nuovo papa Callisto III: egli preferì in breve cercarsi un altro soggiorno, e si recò a Napoli presso il re Alfonso d’Aragona, cui presentò l’intera versione di Appiano. Tornò poscia in Lombardia per accudire ad alcuni aftari e pigliar voce dallo Sforza, al quale non aveva cessato mai d’ inviare, in ogni occorrenza, preziose notizie. Appunto GIORNALE LIGUSTICO 249 nel giugno 3 56, ripassando per Roma, scrivevagli delle impressioni, paure e disposti della Curia all’ avvicinarsi di Giacomo Piccinino, le cui mosse, regolate d’ intesa col re di Napoli, destavano non poco sospetto in tutti i potentati italiani, principalmente a Firenze e nel Papa (102). È un documento breve, ma di non iscarso interesse (103), come del resto tutti quelli degli informatori sforzeschi, specialmente se uomini d’ alto affare quali il Decembrio. Infierendo a quel tempo la peste in Roma, Pier Candido fu trattenuto a scontare la quarantena d’uso prima di passare il Po, concedendogli però il duca di Milano, poiché non era stato fermato a’ confini come sarebbe stato debito, di rimanere in una villa dell' amico suo Nicolò Arcimboldo, in Parmigiana (104). Soltanto il 4 agosto gli fu data facoltà di venire nella capitale lombarda (105), dove non tardarono a raggiungerlo lettere di Alfonso d’Aragona allo Sforza impetranti gli fosse data licenza di ripassare e stabilirsi a Napoli a’ suoi servizi nella solita qualità di segretario. La licenza fu immantinente concessa con onorevolissime lettere al re (106) ; epperò il Decembrio, ordinate le cose sue di Lombardia, ripartiva presto pel mezzogiorno d’Italia; e già in principio di dicembre era di nuovo di passaggio per Roma. Avendo quivi avuto notizia di una disegnata promozione di cardinali che al duca di Milano doveva interessare assai, si affrettò a tramettergliela con apposito biglietto (107). A Napoli, poi, fu sua cura principale adoperarsi a promuovere una sincera e cordiale intesa fra l’Aragonese e lo Sforza; al qual proposito è veramente notevole per altezza e perspicacia di vedute politiche una lettera da lui indirizzata a quest’ultimo il 3 settembre 1457 (108). Disgraziatamente per la figura del nostro umanista, la sua condotta politica non appar sempre ugualmente nobile, e o dicesse soltanto per adulazione al principe lombardo, o facesse da senno per favorirlo, spiace, anzi ripugna, vederlo scrivere 250 GIORNALE LIGUSTICO dipoi al medesimo che si era offerto di andare ambasciatore a Venezia in nome di Ferdinando, figlio e successore di Alfonso, per scrutare il segreto di un negoziato e dargliene piena ed esatta contezza (109). Neanche stavolta fu stabile la dimora del Decembrio in Napoli : ^Alfonso morì nel giugno del '58, ed in settembre egli ripartiva già da Milano, dove intanto aveva fatto ritorno, con particolare commissione del Duca pel nuovo Re (110). Ti a via, fermavasi in Roma presso il pontefice Pio II, successore di Callisto III e ben altrimenti disposto di lui verso Ferdinando ed i suoi alleati. Il senno dello Sforza erasi persuaso facilmente del vantaggio, anzi necessità, di unirsi col- I Aragonese, come gli aveva consigliato Γ anno avanti Pier Candido ; ed il nuovo papa, nel suo ardore di raccór tutta Italia contro il Turco, favoriva a tutto potere i due principi. II segretario umanista si trattenne alcun tempo presso il pontefice uscito egli pure dall’ Umanesimo, e n’ ebbe 0 si procurò 1 incarico di scrivere in nome di lui una lunga commendatizia del principe lombardo all’Imperatore Federico III affinchè si riconciliasse col medesimo e gli concedesse Γ investitura del Ducato. Nel documento si rammemorano i servigi resi alla Chiesa dallo Sforza sotto il pontificato di Callisto III, e di nuovo sotto lo stesso Pio II, contro gli attentati di Giacomo Piccinino, e tutte le altre svariate benemerenze di lui verso la pace d’Italia e la guerra contro gl’ infedeli; la conchiusione è l’invio di apposito ambasciatore della Curia a conseguire gl’ intenti propostisi con questo magnifico elogio in istile alto e risonante (ni). Sulla fine dell’ anno 1458, quando il Decembrio si ridusse finalmente di nuovo al suo posto a Napoli, la situazione politica generale d’ Italia era non poco oscurata. Perdurava la guerra tra Federico d’ Urbino e Pandolfo Sigismondo Mala-testa di Rimini, favorito l’uno dagli Aragonesi, l’altro da’ GIORNALE LIGUSTICO 25I Veneziani; s’ aggiungeva il timore di commovimenti interni nel Regno e di una nuova spedizione angioina, mentre si accentuava la gelosia di Venezia verso Milano ed il Papa (112). Tanto più preziose quindi le lettere informatrici che Pier Candido trasmetteva a Francesco Sforza, due delle quali, in parte cifrate, riguardano i timori ed intrighi della Republica di San Marco, nonché i pericoli dello Stato napoletano. Di queste, 1’ una è del 6 dicembre '58 (113); l’altra, del 17 gennaio (114). Ma appunto i gravi rivolgimenti del Regno, che incominciarono a far dubitare delle sorti della dinastia aragonese nel corso del '59, non permisero al Decembrio di rimanere molto più a lungo al servizio della medesima ; onde ripigliava 1’ ufficio di segretario apostolico presso Pio II, presso il quale , dopo un periodo di soggiorno a Milano , tornava precisamente nel giugno '64 (115). Due mesi dopo, la morte del papa lo rigettò nella travagliosa ricerca di un nuovo signore; ma ornai, invecchiato, si ritraeva Pier Candido dalla diplomazia e dagli uffici publici ; e sebbene peregrinasse ancora a Ferrara ed altrove, di partecipazione sua agli eventi politici del tempo non si ha più — almeno finora — notizia. Ridottosi in Lombardia, nel *73 appar citato a comparir dinanzi al Consiglio segreto di Milano a farvi le sue difese, con gravi minaccie trascorrendo il termine fissato; ma per quali ragioni, non è detto (116). Degli ultimi suoi anni scarseggia ogni sorta di documenti : proprio verso il termine della sua vita appare impigliato in brighe, e forse in litigi, d’indole finanziaria (117). Ma su Pier Candido non è detta 1’ ultima parola: nuove ricerche potranno, spero, non mutar le linee generali del presente lavoro e della sua figura come uomo politico, ma certo dare maggior vivezza ad un quadro, oggi per isvariate ragioni non colorito quanto sarebbe a desiderare. Il Decembrio è personaggio cospicuo del Quattrocento sotto più di un riguardo, e questo della sua 2 52 GIORNALE LIGUSTICO azione quale diplomatico e statista era forse finora l’aspetto che dava luogo a maggiori inesattezze ed errori di giudizio e di fatto. Sarebbe pur tempo che certi equivoci fossero dissipati per sempre ! Bra (Piemonte), 12 Marzo '93. Ferdinando Gabotto. NOTE (67) Cfr. sopra, 11. 58. (68) V. lettera dell’imperiale al Decembrio, in Nuovo Contr. Um.lig. p·31Ï- (69") In Osio, t. Ili, n. 133, pp. 126-127. (70) Lecoy de la Marche, Le roi René, t. I, pp. 84-120, Parigi, 1875. (71) « Poi, passando tra Tonone e Ripagli, ritrovai el duca de Savoia, e visitandolo per mio debito , me disse queste parole: Recomandeme al signore mio figliolo, e pregalo per mia parte voglia presto expedire li miei ambassatori. Poi, mostrando de conferire meco, mi disse: Ho avuto grandissimo piacere de la victoria del dicto mio figliolo e de la presa del re d’Aragona. Certo è stato uno miracolo de Dio, nè credo, cinquecento anni passati, se vedesse si gran fato. Pertanto, se mio figliolo si sa bene intendere con lo dito re, o sia d’acordio con lui, corno fi dito, ne seguirà mirabeli effetti. Prima eh’ arà lo modo de segnorezare i Genovesi che mai non ha avuto fino a questo tempo. Appresso, essendo tuta la nobilitate de Italia unita e concorde, el dicto mio figliolo non harà più a dubitare de Venetiani e de Firentini, et harà el modo de potere ben conservare el Stato suo, el qual modo non ha mai avuto fin a questa giornata ». (72) Doc. in Osio, t. Ili, n. 139, pp. 132-134. Nel carteggio letterario del Decembrio è più volte ricordo di questo viaggio. Vedi lettera a Nicolò Arcimboldo, Cod. R, 19, f. 19?·.: « Superum clementia es ultimis, ut aiunt, terrae finibus ad hanc urbtm et, quod magis ad rem pertinet, sospes ad te redii. Cum vero de tua absentia mecum ipse stomacharer tacitus... nolui de salute mea te amplius incertum degere, ut vicissim de tuis curis nonnulla praesentiscerem. Trium igitur mensium spado Germaniae potiores partes pervagatus sum, et quicquid Reni fluminis illustrium oppidorum ripis situm est, eodem semper alveo lapsus ad Hesperos. Dein Barbantiae non ignobiles partes ac Flandriae, Belgice quoque pro- GIORNALE LIGUSTICO 253 vintiae latissimos et inuberes campos peragravi, post, rediturus ad Ligures, campanam Galliam et Allobrogum inaequale solum fontibus madidum et nivibus hispidas Alpes perreptavi. Sic denique, ut Orpheus ille thrachius, ex Inferis ap Superos emersi, Eurydicem denuo non quaesiturus occiduam. Tu vale, deinde tuorum memor ». Cui risponde rallegramenti l’Arcimboldo, ibidem, 20: « Gaudeo, Candide mi, te ex ultimis Galliae finibus ad nos rediisse sanum ; atque eo magis gaudeo quod scio te hac legatione consecutum, ut et principis mandata potueris, quod in te fuit, exequi, et eas presens aspicere partes orbis, quas tute aliquando descripseras ». Così in una lettera di Pier Candido al Cardinale di Santa Croce, ibidem, 57, f. 27 v.\ « Novit tua paternitas quae mens nobis , qui animus foret, dum Galliae transalpinae latissimos et inuberes campos transiremus, hostibus undique infestos: eundem hic animum, eandem curam esse puta, nisi quod hostes hic, quos timemus, aspicimus... Nihil est autem, quod magis cupiam, quam humanissimam faciem tuam intueri, benignam manum tuam osculari , qui me coecum e transalpinis tenebris ad italicam lucem detulere, qua nil splendidius, nil iocundius, si paci modum imponeret Dei manus». (73) Lettera a Giacomo Bechetti, in Cod. R, 58, f. 28: « Angelus germanus meus, cui transcribendam dedi orationem illam in Ianuenses, quam principi nostro transmisi, nuper mihi retulit non admodum diligenter ipsam cum exemplari revidisse aut correxisse propter dubitatum a ple-risque Principis discessum ab hoc Urbe, sed ita succinte exaratam transmisisse. Quare, cum multa aut minus perfecte, vel secus adiuncta esse possint, his annexum exemplum ita lituratum, ut ad me dimissum est, tibi mitto. Cum enim non dubitem ad manus tuas perventuram, gratissimum mihi feceris, si partiunculam aliquam temporis occupationibus tuis dempseris et huiusmodi correctioni imposueris prius quam in vulgus ema-narit. In qua re utere libertate studiis tuis debita: ita enim illam tibi placuisse credam, cum partes aliquas displicuisse cognovero. Vale ». II Biffignandi, Mem. stor. di Vig., p. 120, Vigevano, 1810, la dà come esistente nell’Estense di Modena, colla data « xn Kal. martias 1436 »; invece il documento decembriano esistente ivi (Ms. xii, E, 24), e che io pubblicherò altrove, porta la data « xn Kal. martias 1430 ». Debbo la notizia alla cortesia del cav. Carta. (74) Cod. R., 95: « Antonius Panormita sub nomine Ferdinandi, Alfonsi regis filii, ad 111.mum Ducem Mediolani. — Diu veritus sum si puerulus ego verbis tanto Principi scriberem, ne arrogans viderer ; contra, si benefactori non scriberem, ingratus essem. Vicit tamen sententia ut scriberem, habererque potius arrogans quam ingratus, eo maxime quod si GIORNALE LIGUSTICO quid inepte prolocutus fuerim, danda erit aetati venia. Salve, igitur, Dux invictissime. Ego Ferdinandulus, Alfonsi regis filius, nuper ex Hispania me contuli in Italiam; non minus, hercle , vestri visendi gratia, quam patris caritate allectus, quam meritis et virtute vestra plane divina. Dego atque educor autem in presentia sub patre optimo , studeoque eius institutis talis evadere qualis et esse et videri debeat Regis filius. Duo mihi maxime proponuntur: Virtus, et amor vestri. Virtutem Deus ipse tribuitur et patris cura. Ego quidem, ut dixi, ne a maioribus meis degenerem, operam do. Amorem vero vestri usque ad postremos cineres servaturum sum. Colam vos, observabo vos, venerabor vos, meque semper debitorem et beneficiarium inclytae virtutis vestrae profitebor. Signum vero meae huius voluntatis ac propositi memet ipsum vobis do. Exiguum profecto donum , sed, si vos libenter acceperitis, magnum. Soletis enim vos, maximi ac principes viri, quae vilia sunt, cum illa acceptatis, utique statuatis, preciosa et praeclara reddere. Suscipitote igitur munusculum meum libens , vos quaeso atque obsecro, Princeps humanissime, saltem ut ob hoc mihi onus iniunctum videatur ita vivendi, ita adolescendi, ut vobis aliquando dignum donum iudicari queam. Valete ». (75) Ibidem, 96, f. 47: « P. Candidus sub nomine Illust.™1 Ducis Mediolani ad Ferdinandum Alfonsi regis filium. — Magnam indolem probitatis ac virtutis ex litteris tuis agnovimus, Illustri fili noster dilectissime et qui non solum patris emuletur claritatem, sed illius prudentiae, gravitatis, humanitatisque effigiem nobis anteponat. Quis enim, nisi tali Rege genitus regiisque educatus institutis, regium praestabit animum? Aut, puerulus, ut es, ea edisseset, quae vix a maioribus natu solemus expectare? Tuam itaque, Ferdinande dulcissime, erga personam nostram caritatem, propensissimum in nos amorem tuum, multifacimus, admittimus et in melius adaugemus , ac de tuo in Italiam adventu gratulamur, cum tui presentia non minus satisfactum sit amori nostro, quam paternae pietati. Nam quo tibi ac tuis propinquiores sumus, eo laetiores degimus. Sequere igitur bene auspicantis animi tui impetum, ac virtuti , ut coepisti, te totum devove, quae te maioribus parem aut certe non absimilem est redditura. Habes optimum et gloriosissimum genitorem tuum , a quo virtutem ipsam ve-rumque laborem potes discere, fortunam ex aliis. Etenim quo caeteris praestantior et clarior evaseris, eo carius nobis et acceptius futurum est tuum munus, quod profecto laeto animo cordeque complectimur, non gratias solum relaturi tuae humanitati pro tanto et tam singulari dono, sed aliquando in melius reddituri quicquid acceptavimus n. (76) Cod. R, 102. Segue il testo dell’orazione. giornale ligustico 255 (77) Cod. A I 237 inf.; 106: lettera a Giovanni Calcaterra. (78) Cipolla, p. 414. (79) Sepherd, Vie de Poggio Bracciolini, Parigi, 1819. (80) Lettera a Francesco Pizolpasso , Cod. R., 176, f. 95 v. : « Mitto dignitati tuae, reverendissime pater, copiam litterarum, quas nuper Pogio Florentino de laudibus suorum concivium Principis nostri parte conscripsi et quas civibus istic Florentinis notas facere poteris, ut sciant quanta caritate ac benivolentia eos complectatur idem Princeps. Celeritas nuntii discedentis coegit ut originale transmitterem, quod, dato tempora, remittas precor ». E nella risposta del Pizolpasso, ibidem, 177, f. 96 v ; « Pro epistola prospicientissimi atque accuratissimi Principis nostri ad Poggium , quae non modicum prospicit, quam ad nos una cum tua pridie misisti, eamque ad te, ceu postulas, remittemus, gratias agimus ». La data della composizione si deduce da un passo di questa seconda lettera: « Verum spero eum [episcopum Burgensem] hic affuturum mense proximo novem-brio, celebrata congregatione statuta die sancti Galli, mense octubrio, per invictissimum dominun regem Romanorum apud Nurimbergam , pro Ecclesiae pace tractanda ». È dunque certo l’anno 1444. (81) Lettera all’Arcimboldo, in Cod. R, 164, f. 86 v.\ « Cum omnis spes mea in amicorum ope sita sit, tum vel potissimum in te, Nicolae optime et humanissime, cuius benivolentiam et caritatem nunquam in me defuisse cognovi; cum igitur a Principe ad hanc urbem certis ex causis missus fuerim, ac temporis penuria ac rerum necessitate coactus, litteras exigere nequiverim, visum est non diluere multiplicem spem importunitate poscendi.... Ad te igitur et humanitatem tuam confugio, ut me non deseras in re iusta et honesta, ne ipse scilicet domino meo desim et ex tenui (corrupto vocabulo) inobediens dicar veteri instituto. Vale ». Dal posto che occupa questa lettera nel carteggio decembriano, se ne scorge facilmente la data. (82) A Siena gli fu anzi conferita la cittadinanza nel luglio di quell’anno (Lettera di Luigi Petronio al Decembrio, Cod. A, 9, 10), dopo esservi stato pochi di prima (Sabbadini, Cron. Panorvi. e Valla, p. 107). (83) Cod. A, I, 235 inf., f. 16 v. (84Ì Ecco questa lettera tolta dall 'Archivio di Stato di Milano, Carteggio generale: « II!."· Princeps et Domine mi singularissime. Post humiles commendationes etc. A questi dì sotto lettera di Ser. Antonio____scrissi a la V.* Ex.u ; dapoi ho avuta una de la λ''.* Ex.1' de di xij, a la quale [farei] breve risposta, ma per scrivere de halcuna altra cosa occurrente dirò più lungo. 25 6 GIORNALE LIGUSTICO « Io scrissi per 1’ ultima che noi havevamo havuto da quista 111.““ Sig.‘* un bollettino di x mila ducati, e così fo; ma poi la dicta S.‘“ ce ha dicto che vuol far tutte le ragion de la V.a Ex.1” e darve per tutto febraro o , a la più lunga, a mezzo marzo, tutto ciò che resta haver la V.a Ex.’” insieme, e la prestanza anchora, e che hora non vuol dar denaro perchè se ne faccia più utile spesa a quii tempo, e in quisto parlare ce sporgono un mal osso, dicendo che truovano la V.* Ex.* esser stata sicurtà di Giovanni Malavolta, e che non possono più resistere ai creditori del dicto Giovanni, ei quali domandano esser pagati, e secondo el parlar de la dieta Sig.ia hanno intention retenere a la Ex.a V.a el debito del dicto Giovanni, se essa Ex.la non provede. Sichè, accioché la Ex.” V.* possa proveder, ne scrivo avisandola che dicono montar tal debito 60.000 libre di piccioli, che sonno più de 10.500 ducati d’oro. Fo conto, seguendo la cosa così, ve resterà solo la prestanza e el vecchio, che seria piccola cosa al bisogno di la V.a Ex. Non se lasserà perciò che prima ch io parta de qua, non se retocche di voler qualche denaro hora; e potendoli bavere, glie recherò a la V.» Ex. « Del facto del conte Carlo credo non ne sequirà effecto, benché la pratica sia stata stretta , perchè mi par quista Ill.ma Sig.ia non attenda a ciò nè ad altro. Penso le para che per questo anno ei nemici haveranno a far colla Ex.13 V.a, tanto che ad essi non se porà dar impaccio. « De la galea respondono non saperne prender partito, perochè non sanno que se sia de le galee nè que hobligatione cogli Anchonitani le diete galee, siche non se può far conto a quista volta; e parne questa Sig.'a sia sospecta del facto di Anchona, perchè, da poj che lo imbasiador di Anchona partì di qua, dicono non haver havuto mai d’Anchona cosa halcuna, e qui se è dicto che uno vescovo ha fatto levar l’offese ad An chona e che gli imbasciadori d’Anchona sonno andati a Roma. « Questa Ill.ma Sig.ia [la mostrato haver caro che la fusta de la V.a Ex.tKl se sia armata, dicendo che non può far meglio che strengere le terre di marina, e offerendo a la Ex.tia V.a che si ne vuol una a impresto da essa per armarla, che ve la presterà di bona voglia. La dieta fusta è spacciata e ha havuto per suo spaccio Giovan da Gherardo ducati 500 d’oro, e prestissimo partirà di qua senza grano e altre cose. « De le cose che la V.a Ex.tia domanda a quista Ul.ma Sig.ia non scrivo, perchè da Messer Giovanni e da Messer Agno che praticano quella, so so eerto che la Ex.tia V.a serà a pieno avisata, ma non me stancherò mai recordar per satisfaction mia, non che bisogni a la V.a Ex.tia, el ben suo. Io non conosco eh’ el venir de la persona vostra qua potessi producer GIORNALE LIGUSTICO 257 se non bon fructo al bisogno d’ essa altro che in una cosa che, occurrendo sinistro halchun, che Dio non el volglia, sempre quista IIl.ma Sig.ia porria dir: ben gli sta; havendo tanto dissuaso tal venuta; ma non venendo, dubito el bisogno e voler de la Ex.,ia V.a non haverà miglior nè più presto effecto che habbia havuto per lo passato, e in segno de ciò già comenzano a dire eh’ el Signore Messer Sigismondo è a Roma e non fa cosa eh’ el voglia nè di denari né d’ altro, e che pista acqua a morter, che è dir tutto, atto a intepidir e raffreddar la brigata; e apresso a ciò non se sente che attendano a condurre in cavallo el mondo , nè a far altra provisione favorevole a loro e a la Ex.tia V.a; e concludendo in quista parte de Cremona la Ex.tia V.a ha più conselglio che aiutorio da quista lll.ma Sig>, corno per lettera di gli altri sarà avisata. « Qui è messer Orlandino imbasciadore del marchexe de Ferrara , el qoal, per quanto si parla tacitamente, ha exposto a questa lll.ma Sig.ia per parte di qnel marchexe, che vedendo quii Signore el Papa, el Re, el Duca e altri Signori e Comunità d’Italia ben munite di gente d’ arme , vuol per salvezza de lo Stato suo haver a’ suoi comandi mj milia cavalli e ij milia fanti, e che parendoli non esser sufficiente a sostener tanta spesa, ricorre a questa lll.ma Sig.,a eh’ el volglia sovvenir per la mità , e così facendo, essa porrà ai suoi bisogni disporre de le diete gente a suo volere, ma non volendo sovvenirlo ley, prenderà tal sovvention da altri, chè ben truova chi glile vuol dare, intendendo tuttavia d’esser bon figliolo d’essa Sig>, etc. A la qual cosa non so che resposta sia stata fatta, perchè la cosa si praticha con tanta credenza e cautela, che quando si domanda qualchun di questi del Consilglio, tutti dicono non esser vero che per quii marchexe si domandi quisto, ma monstrano ben che grandissimo facto si ragione, e secondo ei gesti loro non troppo piacevole e grato a le loro volontà. Spero sentir el vero, e secondo sentirò, aviserò la Ex.ti* V.a. « Aspectansi hancora d’ora in hora per imbasciadori del Duca Nicolò Guerriere e uno altro; sentendo la cagion ne aviserò la Ex.t>a V.a. « È venuto novamente da Pistoia per parte del Patriarcha a quista lll.ma Sig.ia con parole grate ad Corinthios e fin qui [ha havuto] poca fede; Dio voglia quiste non siano tutte pratiche trovate per far star sospesa la lega di gli amici vostri a le provision che bisognano per fare el facto loro con mancho contrarietà... Venetiis, die xxvj Januarij 1445 ». Ho soppresso 1’ ultimo periodo perchè vi mancano molte parole, onde non se ne capisce il senso. Come sottoscrizione si legge: « 111."“ D."1· V.' famulus et servitor Candidus Μ. ». Questo « Candidus Μ. » in luogo di « P. Candidus » mi dà motivo di qualche dubbio. Giorn. Ligustico. Anno XX. I7 258 GIORNALE LIGUSTICO (85) Sulla disgrazia del Decembrio, oltre le testimonianze filelfiane (Sat., VII, 4; Vili, 3, 5), che gli storici ebbero torto di rigettare in massa, vedi una lettera di Pier Candido al Bechetti, Cod. R, 196, 116 v.: « Nun-cius tuus, optime frater, suspensam magis et dubiam quam laetam annun-ciationem mihi attulit. Ait enim spectatum Joannem Antonium Brixiensem cum Principe colloquium habuisse in re mea et satis bonum responsum retulisse... Libera itaque me ex hac cura obsecro tuis litteris. Cogit enim clementia et pietas nostri principis ut confidam, experientia vero retroacti temporis ut diffidam... Unica tamen mentis meae consolatio est innocentia ». Parimenti egli scriveva a Nicoloso poeta, ibidem, 202, f. 119· « Intelligis quo in statu sim ; nihil in rerum humanarum instabilitate curia ipsa mobilius, nihil fragilius. Si quaeris quod cupiam, hoc unum, ut conditio mea quovis modo , commoditate temporis adhibita , Principi nostro nota sit ; dein voluntas eius exequatur ». Dell’opera malvagia del Filelfo, oltre il carme in De Rosmini, t. Ili, pp. 154-156, fa fede una lettera del Decembrio a Francesco Pizolpasso, Cod. R, 200. (86) Cipolla, p. 427. (87) Butti, pp. 21 e 30. (88) Esporrò altrove di proposito questa polemica: per ora veggasi De Rosmini, Vita di Francesco Filelfo, t. Ili, pp. 29-34, 150-161, Milano, 1808; altri documenti nel mio Nuovo Contr. St. Um. Li%., pp· 177"17^· Qui reco solo, fra parecchi documenti inediti che posseggo in proposito, la seguente lettera del Decembrio ad Inigo Davalos, Cod. A, 118: « Quaeris a me an falso relatum sit, et utrum aemulatione quorumdam, an veritate potius explicatum in conspectu regis, tantum flagitium Philelcum commisisse , ut cum simia coierit. Nam persimile, quoddam paulo ante a Chiriaco Anconitano factum legeramus, ut desperatio quaedam studiorum humanitatis oboriri videretur si in his,... huiusmodi coinquinari monstris necesse. Ego vero quid sentiam et a quibus horum scelerum notitiam , habuerim paucis expediam. Franciscus Barbarus, vir illustris, non sine stupore quodam et admiratione in conspectu plurium epistolam protulit, quam ab Hermolao Donato concive suo e Costantinopoli redditam sibi referebat , in qua, cum plurima, tum imprimis his verbis scriptum erat., verum quod omnem fidem pene exuperat, nisi a praestantibus viris assertum, crederemus, tam insigne et detestandum facinus in hac urbe produsse. Fr. Philelcus, vir graecis et Iatinis litteris apprime eruditur, simiam habuit adeo venustam et ad omne elegantiae gestum peraccomodam , ut ab ea etiam ad concubitum invitaretur, iacuitque cum ea, facetiis illius irretitus, eodem thoro, per annos plures, advertente nemine. Tandem, cum GIORNALE LIGUSTICO 259 praegnantem palain offendisset, infamia territus, ab se quanquam invitus invitam repulit. Haec Hermolai verba sunt, viri non utique mendacis aut contemnendi, ceterum summae virtutis, eximiae prudentiae et sanctissimae imprimis fidei. Quamobrem, si delicta non ferenda sunt, et si nemini peccare liceat, turpissima utriusque libido erit, sed nescio an excusatio Phi-lelci nostri habenda sit, qui cum se belluae immiscere cuperet, eam potissimum ex omnibus elegantem [delegerit], quae non omnino ab humanitatis effigie abhorreret fieretque gigantium prosapiae deorumque finitimus. Vale. Neapoli, x Kal. decembr. 1458 ». (89) A’documenti recentemente publicati dal Pélissier, Parigi, 1892, può esser aggiunto quest’ altro , che Γ amico Angelo Badini Confalonieri trasse dalla biblioteca Des Ambrois-Audiard di Oulx : « Illustris et Ex.e Dne honoran. Perchè me pare cosa utile et necessaria a la Ex.tia V.a havere presso de voi homini prudenti et docti, corno vostro benevolo et servitore ve aviso essere qui lo egregio messer Filelfo da Tholentino, multo apto et honorevole a’ bisogni al continuo occurrenti ad la Ex.tia V.a. Il quale de quanta scientia et eloquentia sia, benché io non abbia buono juditio, pure me referisco ad la fama et reputatione, la quale vedo a luy essere grande et singulare in Italia. Oltra di questo, è pratico di più cose de grande importantia, et appresso già bon tempo l’ò trovato molto affectio-nato et servitore de la Excel. V.a. Per li quali respecti, ve recordo et prego eh’ el vogliate havere ad li servitij de la Ex. V., eh’ el vi sarà fidelissimo, et receveretene honore, utilitate et piacere; et faretene piacere et benefitio non solo a luj, anchora ad mi proprio, il quale per la sua vertù et suavissimi costumi l’ho sempre amato et amo. Date Mediolani, die xxii sept. 1447. Cel.nU V.' Devotus Andreas Biragus. — Illustri et ex.0 domino honoran : domino Francisco Sfortie Vicecomiti, Marchioni et Corniti ac Creinone domino, necnon illustrium condominorum Mediolani generali capitaneo ». Del curioso documento i lettori non devono esser grati a me, ma all’ ottimo Badini, da cui ricevo sempre aiuto di consigli e di notizie. (90) Arch. di St. di Mil., Cari. Gen.: « Illustris et Excelse Princeps et domine honorandissime. Per altre mie novamente ho avisata la Sig.ia V.a, e di novo 1’ aviso, che li piada de provedere prestamente a le chose de Milano, altramente ne seguirà errore e scandalo cossi grande e a quella republica e a la V.» Sig>, che tarde ve ne penterete. Gli ambassatori venetiani hogi sono partiti di qui con excusatione d’ andare a Venesia a concordarse con Milanesi, li quali hano requesto salvoconducto da loro e deno essere andati, li Milanesi, 0 vero vano de presente. Pertanto sapia la Sig.ia V.a e ben consideri che questa è una grandissima fraude a quella 26ο GIORNALE LIGUSTICO comunitate de Milano, perchè fratanto Venetiani prendeno le citade cir-cumstante a Milano, monstrando de non fare guerra a’ Milanesi e levarse dagli offese loro, e finaliter li meterano in servitute. Pertanto piacia a la Sig.ia V.a d’avisare subito Milanesi o non vadano a Venesia per tractato alchuno, o vero, se voleno andare, domandino che Lode, Piasentia e li altri lochi occupati da Venetiani siano restituiti in sua libertate , perchè el Sancto padre vole pace e non guerra. Li Fiorentini oltra de questo, vi darano favore, perchè va per essi, e già hano scripto a’ suoi ambassadori dassendo a loro piena libertate che vadeno a Milano e in ogni parte che li para a provedere a questi inconvenienti, perchè s’ avedeno de 1’ ingano de costoro , che cnn prestetia e celeritate cercano de occupare Italia. Le quale litre io ho lecte e vedute, e lo Reverend."0 Cardinale Morinese, qui legato e de novo refìrmato dal Papa, vi farà piena fede per le sue litre quello che dico esser vero. Pertanto , Illustre Conte, provedite con ogni sollicitudine e diligentia a questi inconvenienti, avisando quelli cita-dini milanesi prestamente inante che siano le chose in pegior grado. Dio vi consiglia bene. Data Ferrarie, xxvnj.a augusti, hora ij noctis. Prego la SigJa V.a mi mandi qualche zifra perchè occorreno chose importantissime de hora in hora. Doni.15 V.' servitor fidelis P. Candidus olim ducalis se-cretarius. — 111."10 et Excelso Principi et D.° honorand.”0 D.° Francisco Sfortia Vicecomiti, comiti etc. [Cremonje Domino ac Mediolanfensium reijpublice capitaneo ge[nerali]. Manca 1’ anno, ma è certo il ΐ447· (91) Simonetta, De relus gestis Fr. Sfortiae, in Muratori, R· I· S., t. XXI, p. 49^· (92) Vita Fr. Sfortiae, ibidem, t. XX, p. 1043. (93) Come Guarnerio Castiglione, Andrea Birago, Teodoro Bosso, i Lampugnani, i Vimercati, etc. (94) Biffignandi, Mem. star, della città e contado di Vigevano, p. 113, Vigevano, 1810. (95) Questo giudizio è originato da una lettera di Francesco Barbaro al Decembrio, in data 20 aprile 1453 (Sabbadini, Centotrenta lettere inedite di Francesco Barbaro precedute dall’ ordinamento critico cronologico dell’ intero suo Epistolario,, p. 60, Salerno, Tip. Nazionale, 1884), nell’ediz. del Quirini, p. 315. Ora la data del documento e la persona dello scrivente, veneziano, e come tale facile a vedere le cose sotto un punto di vista sfavorevole allo Sforza, tolgono ad esso giudizio molta efficacia, tanto più che il Barbaro stesso non dice tutto ciò che dissero poi alcuni moderni. (96) Arch. di St, di Mil., Cart. gen.: Lettera del Simonetta al Decembrio : « Domino Candido de Viglevano. Per più vostre lettere, quale ha- GIORNALE LIGUSTICO 261 vitno recevute, restiamo advisati de molte cose, quale ne ha vite scripte, che ne sono state grate, et havemole inteso volentere, et molto vi ne commendiamo et rengratiamo, parendone che questi avisi che ne dati procedano da singolare amore et perfecta dispositione vostra verso de noi, et circa de ciò non ve dicemo altro, si non che, accadendo sentire alcuna cosa degna de notitia nostra, haviremo caro ne advisati. Et perchè el magnifico Andrea da Birago ne ha dito per vostra parte del vostro volere andare a Napoli 0 altrove, siamo contenti gli andiati liberamente e senza reguardo alcuno, perchè ce rendiamo certi che in qualunca luoco ve retro-varite, sempre ve adoprarite in beneficio nostro et farite corno devono fare li boni cittadini verso el suo Signore. Mediolani, viij Julij 1451. Cichus ». (97) Pastor, Storia dei papi alla fine del medio evo, t. I, trad. it., Trento, Artigianelli, 1890. (98) VoiGT, t. II, pp. 92-93 n. (99) Marini, Degli archiatri pontifici, t. II, p. 147, Roma, 1784. (100) Arch. di St. di Mil., Museo diplomatico, Bolle e brevi papali: «Nicolaus Papa V. — Dilecte fili, salutem et apostolicam benedictionem. Pro nonnullis referendis tibi ex parte nostra mittimus ad tuam Ex.tiam dilectum filium nobilem virum Petrum Candidum mediolanensem, militem nostrum, cuius verbis fidem adhibeas tanquam nostris. Et si qua in rebus suis agenda incumberent, velis nostri contemplatione suscipere ipsum omni favore et benignitate recommissum ; quod erit gratissimum nobis. — Datum Rome apud Sanctum Petrum, sub anulo piscatoris, die xxv mensis octubris MCCCCLI, Pontificatus nostri anno quinto. — Pe. de Noxeto. — Dilecto filio nobili Francisco Sfortie duci Mediolani ». (101) Arch. cit., Cart. gen.: « 111.ma et Ex.ma D.a D.a honor.™3. Lecte le lectte de 1’Ex.tia V.a date apresso la Marcharia a di xvij del mese passato , secondo che la Sig.ia V> ni’ à comandato, diede a frate Bonaventura el scripto in che se contene la summa de le gratie concesse a la prefata Sig> V.a per lo Sancto Patre. E perchè aveva in strecto co-mandamento de la Sanctitate de N. Sig.re predicto che niuno intendesse ciò che in quello scritto se conteniva, holo serrato e sigillato e de dopio filo de seta giala traforato e poi remisso in uno altro papiro similmeute de quello filo obserrato, a ciò non possa essere aperto che 1’ Ex.tia V.a non se n’ aveda. E cossi per altre letre dopo queste avisarò la prefata Ex.tia v.a come ho fatto, a ciò che se alchuno celiasse queste mie letre, per la seguente s’intenda el vero. N. Sig.re ha sotoscripta la letra del vicario de sua mane propria, nè ha voluto che s’expedisse per bolla, o altramente, per più secreto. El confessore deputato a la vostra cura in- 262 GIORNALE LIGUSTICO tenderà ogni chosa e satisfarà molto presto per la gratia obtenuta. Mando in quella scatolina insieme, in la quale sono ligate le diete letre, quatro agnusdei benedicti da la mano de N. Sig.re, e quantunque el presente sia picolo in conspecto de tanta e sì ill.m·1 Madona , pur spero non refuterà la fede et obedientia de mi suo minimo servo , el quale continuamente sono promptissimo a li comandamenti de la S. Sig.ia. Data Rome, die xi] lebruarij 1454. Si spera de la pace, quale Dio conceda per sua misericordia. Eiusdem Dom.“ls Servus et subditus P. Candidus etc. — Ul”e et Ex.ras D.”° honorand."1® D.“' Bianche Marie Vicecomiti etc... [benignissime Mediolani ducisse ». (102) Pastor, t. I, pp. 411 e Segg. (103) Archi di St. di Mil., Cart. Gen.: « Queste cose sono in gran coh-fusione per la venuta de Jacobo Picenino: non mi dubito de la bontade del Papa , ma de quelli li sono intorno. Fra Pucio e Antonio da Pesaro sono andati dal Re per volere conseguire el suo intencto che dicto Jacomo sia al soldo de la Chiesia e questo indure per modo de necessitate. Pertanto facia la Sig.·* V.a tale demonstratione che non para manchare da sè, e la colpa loro non la possiano referire a la Sig.ia V.a, perchè è necessario, o ch’el dicto Jacobo cada, o vero el penserò del Re si discopra se 1 è perseverante a la lega, e non lassa movere el Vescovo de qua finché le cosse non son ben dechiarate. Date a Roma a dì xv de Junio. D. C[andidus] de Viglevano ». (104) Arch. cit., Missive ducali, Reg. XXIX, ff. 208-209: « Potestati Parme. Siamo informati corno ad Castelgelfo è arivato Messer Candido da λ iglevano con la famiglia sua, quale vene da Roma per venire qui ad Milano. A lo quale, quantunche Nuy l’habiamo per nostro caro amico, nondimeno sapendo Roma infecta de peste et ogni di più continuarsi, habiando scripto che per alcuni di habia advertentia de non passare Po, bene siamo contenti eh’ el se posa redure a la possessione de Spect.1' D.° Nicolò Arcimboldo, nostro consigliero, li in Parmesana, 0 vero in qualche loco baderò, et lì demorare fino sia passato lo tempo suspecto. Ma non pocho ne siamo de voy meravegliati che, havendovi nuy cum tanta effi» cacia et tante volte scripto sopra questa materia de la peste et de le terre che volevamo fossero notate, et in spetialita.de de Roma, et voy haven-done risposto havere opportunamente proveduto, mo esso messer Candido con la famiglia sia passato oltra senza saputa, el che ne è summamente despiaciuto. Et perchè comprehendiamo che la se habbia una pochissima cura ad questa cosa, la quale nuy summamente extimamo et havemo al core quanto alcun’ altra che ne possa occorrere , adesso haveremo caro GIORNALE LIGUSTICO 263 de sentire da voy corno sia proceduto questo, et che ordene se serva là intorno ad queste prohibitione. Date Mediolani, iiij Julij mcccclvj. — Johannes Blanchus — Cficnus] ». (10$) Ibidem, Reg. XXV, f. 379v.: « Spectabili viro carissimo nostro Domino Candido de Viglevano Secretario apostolico. — Inteso quanto ne scriveti per vostre littere de xxvmj del passato, di modi servati per voy et li experimenti provati per la suspicione de la epidemia, de che Roma, dove seti stati, è al presente oppressa et afflicta , siamo contenti possiati venire ad Milano con i vostri, et cossi ve mandiamo la licentia, non ve movendo però de lì per venire qua prima a lunedì proximo che venera, ma-poy, ad vostro piacere et voluntà, lune o martedì vernati. Date Mediolani , iiij augusti 145Ó. — S. Fazinus ». Segue il permesso ufficiale in latino. (106) Arch. e 1. cc., Reg. XXIX, ff. 215-216: « Serenissimo Regi Ara-gonum. El è venuto qua el Spectabile cavaliero D. Pedro Candido Decembre da Viglevano, el quale, per essere partito et passato per quelle parte de sotto contagiose et bandite de questo nostro dominio, per Γ ob-servanza de li ordini nostri è bisognato stare remoto, per lo spacio de quaranta dì per purgare quello aiere, perchè desyderavamo di parlare cum luy per intendere meglio del bono et felice essere de la V> M.tà; et così havendo parlato bono pezo cum luy, ne havemo havuto piacere et contentamento assay. Respondendo adunque ad le littere che la prefata Maestà ne scrive, corno quella lo ha acceptato ad li suoy servici], dicemo che nuy ne siamo remasti molto contenti. E F è vero, quando el se partì da qui per andare a Roma, nuy gli dedemo licentia eh’ el se aconzasse ad li servici] de la S.tà de N.° Sig.re passato et deinde de questo presente ; et così volendose partire da Roma per venire ad visitare et fare reverentia ad la Ser.mi Va M.'à, ne fossimo molto contenti ; et tanto più ne troviamo contenti adesso che esso Domino Candido habii presentato ad la M,tà V.a quelli libri, che li siano piaciuti et così che li sia piaciuto la conditione et la facultà sua, che nel vero ne persuademo debia ben piacere , perchè el è persona molto docta et vertuosa et merita de essere amata da la Serenità Vostra, la quale se delecta de li pari soy. Denique esso Misser Candido, dato ordine ad certe sue faciende, de le quale se spazarà fra pochi dì, al se metterà in via per ritornare ad la M.li V.» et stare et perseverare in li servicij de quella con ogni fede et integrità, corno speriamo, et così Γ havemo confortato et persuaso che se sforze de fare et satisfare a le voglie, piaceri et comandamenti vostri ; et quanto più la M.tJ V.™ se ne troverà contenta, ad nuy sera maiore piacere, perciiè 264 GIORNALE LIGUSTICO el è de nostri, et così el recomandiamo strectamente ad la M.(i V.™ con nuy insieme. Mediolani, 18 augusti 1456. — Christoforus ». (107) Ìbidem, Cart. geti.: Lettera del Decembrio al duca: « 111.““ Princeps et Ex.”' Domine. Io ho inteso da persona digna de fede che N.° S.r“ el Papa a le future tempora delibera fare certi cardinali Italici, forse al numero de cinque, fra li quali ne serà uno de la M.li del Re; et questo se pone per firmo ; de che n’ aviso la Sig.ia V.a a ciò s’ arecordi de li suoi servitori. A la quale humelmente mi recomando. Ex Roma, die vij Decembris 1456, raptim. Eiusdem Dom.“*’ Servus et subditus P. C. ». (108) Vedila stampata nel mio Nuovo Contr. St. Um. lig., pp. 29-30 n. (109) Arch. di St. di Mil., Cart. gin. (in cifra): « Ex Domino Candido de \ iglevano. A dì ultimo del mese passato me retrovai a caso con Messer Johanne Olgina, el quale me dixe come haveva per certo eh’ el marchexe de Ferrara era stato da Veneciani, et in presencia loro haveva con le lacrime dimandato perdonancia al S.r Sigismondo e... !i Veneciani havevano dicto del S/ Sigismondo domandava perdonancia, e el S.r Sigismondo niente altro respose se non piangere, et in summa el S.r Sigismondo Veneciani haveriano molto bene inteso et facto provisione in più lochi, et questo era perchè in Fiorenza era stato novo parlamento, nel quale 3’ era retrovato el marchese de Ferrara et lo marchese de Mantoa et altri segnori, cose ingrate et periculose per loro; et questo per opera de la Sig.'a V.a. p0y me dixi come Veneciani erano turbati grandemente con el Papa per certe novitate facte per lo cardinale de San Marco per casone del episcopo de Padova, et havevano comesso tutte le loro facende allo patriarca et che in breve seguirivano de gran facti. Poy uno servitore de V.a Sig.^ me ha avisato da Veneciani essere mandaty mile fanti in Verona, et sopra Veronese tre milia cavalli, et ogni dì farse cernide de gran gente, cioè de balistreri et altre persone. El Re qui haveva deliberato de mandarme per suo ambassatore ad Venecia e per fare dimorarli; la qual cosa me piaceva per respecto che, non essendo sospecto tra li Veneciani et lo Re qua, meglio potesse avisare V.a Sig.ia de tutto ciò se praticaria de 1’ una parte et l'altra. Ma havendo io facte instantie per mezo de Antonio da Trezo, de la mia expedicione, me son aveduto che in questo non se ne fida. Alegando io la mia necessitate de andare a Milano de presente per casone d’una possessione accomprata insieme cum Misser Nicolò Arcimboldo, el quale è morto, et dicendo potere andare ad Venecia e poy ad Milano et poy retornare ad Venecia, più s’è fidato del Conte Brocardo che de my, perchè ad esso ha dicto ogni cosa, et così' m’ha referito; et aspecto essere expedito del dinaro, del quale al GIORNALE LIGUSTICO 265 presente è una grande penuria in queste parte, poy andarò in campo da Sua Ser.'a, la quale ancora non ho veduta da poy che me parti da Milano, perochè continuamente son stato infermo della molestia usata, benché più volte li habia scritto, et essa a me. duelli che ameno V.a Sig.ia molto se meravigliano del mandare de li figlioli de la V.a Sig.ia ad Venecia per ogni respecto. Al presente le facende de qua, cioè del Principe, passano, corno Dio vole, più male ogni di, secondo che intendo dal Conte camerlengo che più intende le facende se vano imbratando. Doti Alons è astrecto ad abandonare la Calabria per guerra trova de li populi. El Principe ha bandita guerra contra el Conte de Tricarico , et Don Antonio contra el Duca de San Marco. La regina impigna tutte le soe gioie per fare xx milia ducati per lo conte Jacomo. Le cose stano in modo che, favoregiando la Sig.la V>, se aiutarano molto bene; mancando quella, sariano impedite assay. Li ambassatori veneciani sono in campo: dubito metano foco dove bisogneria de Γ acqua. Che dice mandano alcuni de li suoy al Re de Franza; altri dice che li tenano li: niente se ha de certo. Bene è a V.a Sig.la satisfare ogni sospecto quanto se pò et guardarse da li periculi quanto è possibile. Neapolis, ij Julij ». (no) Arch. cit., Miss, duce., Reg. XLII, f. 82: « Regi Ferdinando. Re-deunte ad Maiestatem Vestram spectabili milite domino Candido de Viglevano, eiusdem secretario, sibi nonnulla commisimus eidem Maiestati Vestre parte nostri referenda, cui in dicendis Maiestatem vestram rogamus placeat ceu nobis ipsi fidem prebere. Datum Mediolani, ij Septembris 1456 ». (111 ) Cod. R., 182, ff. 102-104: « P. Candidus Federico tertio Imperatori nomine Pii secondi Sumini Pontificis in favorem illustris Francisci Sforciae. — Quam sincerissimo amore precipuaque caritate et fide erga Serenitatem tuam iampridem affecti simus, et quam maxime illa cupiamus quae dignitatem tui Imperii, utilitatem, honoremque concernunt, neutiquam sublime prudentissimumque caput tuum latere credimus. Scimus enim perspectam a principio fuisse tibi diligentiam, sollecitudinem, pietatemque nostram in omnibus quae Serenitati tuae placere putaremus. Nunc vero, cum ad Sedem Petri, nullis meritis nostris, sed sola Dei bonitate et clementia , electi simus, facileque perspiclamus qaae Christi Ecclesiae Sta-tuique nostro utilia sunt haud dubie ex Imperio tuo permaxime pendere, satis prudentiam tuam animadvertere credimus adauctas esse inter nos multipliciterque confirmatas caritatis vices, nec posse quicquid pro alterius commodis in comune consuli quin utriusque utilitati et saluti consulatur. Cum igitur quae ad Italice tranquillitatem et quietem attinent non minus ad Ecclesiae nostrae augumentum, quam ad Imperii tui firmitatem con- 2 66 GIORNALE LIGUSTICO ducere arbitremur, necesse omnino nobis est ut, praetermissis reliquis, huic uni pacandae et sedandae animum adhibeamus, potissimum cum ex huiusmodi principio ad fidem Christi protegendam , Turcique nomen et insultus reprimendos facilior subinde praebeatur occasio. Considerantibus itaque nobis et diligenter consulentibus, hac in re neminem idoniorem iudicare licet, cui et Serenitas tua vices suas in Italia committere, cuique nos vicissim statum nostrum concredere possimus, quam dilectum filium nobilem virum Franciscum Sforciam ducem Mediolani, cuius servicia in Nos et Romanam Ecclesiam collata cum animadvertimus, sicut animadvertimus, non exiguo desiderio tenemur eidem merita condigna referendi et ad omnia , quae dignitatem et honorem suum concernere noscuntur assistendi. Quis enim tam ingratus inter homines reperiri queat, si modo sedem Petri veneretur, si Romanae Ecclesiae commoda et salutem mentiatur, qui non hunc virum inter caeteros colendum honorandumque esse putet, cuius ope et opera, non semel, sed pluries, praedecessorum nostrorum Statum adauctus, Ecclesiae tutela conservata est? Quorum ut noviora Serenitati tuae referamus, cum Calisti praedecessoris nostri temporibus, emulorum quorundam Romanae Ecclesiae suasionibus, Iacobus Piceninus, armorum capitaneus, contra dictum Pontificem et eius Statum arma suscepisset , nec illi in tam subita re facultas esset obsistendi aut hostilem insultum propellendi ab ipsis Ecclesiae foribus, statini dux ipse Francisais, de quo dicimus, intellectis quae ab inimicis parabantur, auxilium suum antemisit, propriis impensis per annum supra dimidium exercitum aluit ac tamdiu, non milites modo, sed affines, cognatos, nepotes suos in arnus tenuit, quoad non solum agrum senensem, quem hostiles copiae primum invaserant, sed Pontificem ipsum ab omni iniuria liberum et tutum esse animadvertit, Patrimoniumque Sancti Petri recuperatum esse cognovit. Sic eius diligentia et virtute effectum est ut non ipse modo Jacobus ab impetu repelleretur, sed et reliqui, si qui simili furore tenebantur, ab iniuria desisterent. Pontificatus etiam nostri principio, cum praefatus Jacobus nonnulla Patrimonii Ecclesiae oppida per vim invasisset, Franciscus dux idem , nuntiis et litteris, ut ab iniuria [se] contineret et Ecclesiae adempta restituere admonuit ; ni fecisset, exercitum ingentibus copiis paratum in auxilium nobis obtulit. Qua liberalitate quae potest esse maior ? His igitur ex causis non mediocriter incendimur, non ad merita solum, sed ad gratias, si fas est, illi referendas, dignitatemque suam, prout meretur, Serenitati tuae commendandam, maxime cum intelligamus praesidia sua tam prompte in omnibus necessitatibus nostris apparata, eiusque opera Italiam omnem in quiete paceque constitutam, cuius utilitatem non minus GIORNALE LIGUSTICO Ecclesiae Romanoque Imperio tuo conducere arbitramur. Nempe ex quo idem Dux Mediolani Urbem propria probitate adeptus est: cum principatum suum in maius adaugere posset, formidantibus hostibus peritiam rei militaris, fortitudinem experentiamque maximam in rebus agendis, tantum a cupiditate dominandi abfuit, ut non modo ad ligam mediante Nicolao V praedecessore nostro cum inimicis suis ultro venerit, sed continenter et quiete sese cum omnibus habuerit, sic ut nihil, nisi pacificum, tranquillum, moderatum, de illo audiverimus. Si quid reliquiarum belli supererat, aut suspicionis, extinxit; clementia populos sibi finitimos conciliavit; affinità* tibus Principes sibi coniunxit; inter quos carissimum in Christo filium nostrum Ferdinandum Siciliae regem, non affinitate modo, sed officiis et benivolentia sibi ascivit, filiorum connubiis invicem contractis. Eodem modo duces Sabaudie et Mutinae pari affinitate copulavit; sibique deiunxit omnes, adeo ut nullus Princeps in Italia sit, qui Ecclesiae et Imperii nomen veneretur, qui non cum illo coniunctissime ej amicissime degat : quod quantum ad Italiae unionem et pacem conferat, omnes plane norunt. Adde quod Urbem Mediolanensium, postquam eam adeptus est, tanta aequanimitate clementiaque continuit et in praesenti continet, ut omnes cives qui pacifice vivere affectant, eum patrem patriae consona voce et appellant et sentiant. Nobis certe et religioni adeo obsequentes reddidit, ut ad sustinenda christianae fidei onera, nulli in tota Italia fuerint obsequen-tiores, et eorum exemplo caeteri Italiae populi santiorem dehinc prestiterunt assensum. Haec igitur quis Pontifex, aut quis Princeps, aut potius privatus civis, non miretur at maxime laudet, et summo preconio non prosequenda esse dicat? Quamobrem nulli mirandum esse debet, si eum tanto studio Serenitati tuae commendamus, cum, [meritis] sic exigentibus suis, tum ne inferiores illi benivolentia et caritate fuisse videamur. Nemo profecto est, si undique conquirimus, qui ad servandam Italiae pacem, tuendaque Imperii iura et Ecclesiae hoc duce aptior sit, aut expertior, cum ob eximiam prudentiam, tum ob moderationem innatamque pacis cupiditatem, quam armis licet circumseptus, sic continue afflagitat, ut in dies ampliorem ubique reddat. Hunc igitur ad dignitatem iampridem meritam et propria virtute partam et adeptam, ut confirmes, constituas et promoveas solemniter, non hortamur modo, sed, si fas est, Serenitatem tuam precamur, non tam sustinendi principatus sui causa, quae minime necessaria illi est, quam Urbis tuae dignitatis tuendae et Imperii tutelae his in partibus et in fideles promptitudinis enitendi subsidia propria, qua cupiditate maxime flagrat, ne caeteris principibus in his quae ad honores et huiusmodi expeditiones pertinent inferior esse videatur, his praesertim temporibus, quibus maxime 268 GIORNALE LIGUSTICO contra Tureum, christiani nominis comunem hostem, optimorum consilio et auxilio opus est. Nihil est quod a tua Serenitate consultius aut utilius possit fieri, cum nemo, pace aliorum dictum sit, his retractis temporibus promptior fuerit aut studiosior ad comparanda ei subsidia, quae populis pro decima a praedecessore nostro Calisto imposita solvuntur, nec qui ex propriis facultatibus, ut praemisimus, liberalius pro Ecclesiae conservatione subsidia impenderit et favores, aut pro eisdem infidelibus penitus exterminandis et debellandis promptius se et liberalius obtulerit. Horum igitur omnium meritorum intuitu sponte promoti, carissime in Christo fili, dilectum filium Baptistam Brevum (sic), iuris utriusque doctorem, oratorem nostrum ad praesentiam tuam cum litteris nostris destinavimus, Serenitatem tuam exhortantes et, ut prius diximus, deprecantes, ut in his quae nostro nomine referet certissimam fidem adhibendo, velut nobis, precipue, que dignitatem et splendorem praefati Francisci Sforciae ducis Mediolani, filii nostri dilecti, continent, favorabiliter assistas, ita ut ipse dux intercessiones nostras et praeces plurimum apud Serenitatem tuam sibi sentiat profuisse: quod gratissimum habituri sumus. Nam, ultra id quod, votis nostris annuendo, Ecclesiae Romanae permaxime favebis, tum etiam dilectissimorum fratrum nostrorum cardinalium desiderio et voluntati satisfacies, qui omnes sub tutela praefati Ducis quiescentes, beneficiorum eius non immemores aut ingratos se haberi cupiunt. Romae, xxii octobris 1458 ». (ti2) Cipolla, pp. 452, 490; Pastor, t. II, pp. 19-22, 51-55· (113) Arch. di St. di Mil., Cart. gen. : Lettera dei Decembrio al duca di Milano: « 111.”' Princeps et Ex."e Domine, post recomendationem. Essendo io demorato a Roma circa uno mese e mezo per non essere ben sano a cavalcare, ho ricepute lettere del Sig.” Re Ferdinando che dovesse Bndare a la presentia sua, chè poi mi faria assignare bono allogiamento nel più opportuno loco apresso a Napoli. Pertanto, non potendo io andare in campo per manchamento de mulo che mi portasse, ho priso el camino verso Napoli, intendendo per letre del conte camerlingo et commune fama quella citate essere sana, e deinde ho scripto a la Maestate sua, avisan-dola de la conditione et infirmitate mia, a ciò che se me vole adoperare, sapia a quello che sono utile, et a quello non, e ciò che m’ è necessario, dovendo venire a Napoli con li mei, lassando la patria. E così expecto responsione da la M." sua: s’el mio scrivere li serà grato et utile, bene quidem; se non, tornerò a casa. Nel camino, ho inteso da persone digne de fede, Venitiani come hano priso sospecto de la coniunctione de V.a Sig.'a con lo Re e curano per indirecto levare Jacomo Piccinino, dubitando che V.a Sig.ia ad un tempo non se faccia forte con lo prefato Re e con quelle GIORNALE LIGUSTICO 269 gente, e poi cerchi con tale favore nprendere el dominio de Genova, et cossi teneno con loro promissione el Principe de Taranto, che non fa più oltra come ad essi piace. M’ è paruto ben facto de avisare la Sig.'1 V.a perchè diceno essere evidente che la tene soi commissasij con lo Re, e luy con la Sig.ia V.‘, et una intelligentia forse utile sereve a l’una e l’altra parte scifare tanta aparentia. Parlo fiducialmente a la V.a Ex.tia, a la quale sempre me recomando. Date in Monasterio Montis Oliveti extra rrienia urbis neapoliiane, die vij decembris, hora ij.* noctis. Eiusdem Dom.nis servus et subditus P. Candidus ». Il corsivo, cifrato; e così nella nota seguente. (114) Arch, e l. cc.\ « 111.“· Princeps et Ex."' Domine Domine singularissime. Per altre mie a camino ho scripto a la Sig.!a V.a quello che haveva inteso da persona de reputatione , e benché ad ogni parola non sia da dare fede , pure ad intendere non può nocere. Veneciani, secondo che intendo , segretamente tentano Jacomo Piccinino, e così ne le chose del Re de Napoli tentano e teneno tractato e pratica con lo Principe de Taranto , e questo per dubitatione de V.ra Sig.ia, che vedeno unita con lo dicto Re, dubitando che V.ra Sig.ia non abia V ochio a Genoa-, voleno intanto essere proveduti, e se la Sig.ia V.a non dà con diligentia ogni favore a questo Re, mi dubito. Sono rimasto qui per licentia de la M.tà del Sig.' Re per potere guarire, e sono tractato da M.“ sua meglio non sapria dire. Qui son de male opinione, e quando la Sig.ia V.a non attenda alla conservatione de quisto regno, ogni cosa anderà in niente; se vero li ha cura, in ogni tempo ne potrà disponere come de chosa propria, che non è da fare pocha stima. Queste cose scrivo fedelmente a la Sig.'1 V.a, recoman-dandome. Ex Neapoli, xij Januarij 1459. EAm Dom.nis servus fidelis et subditus P. Candidus ». (115) Arch. cit., Miss, ducc., fase, stacc. 1464, f. 427 i/. : « Dux Mediolani etc. Tenore presentium Ill.mo* quoscumque dominos patres, fratres, amicos et benivolos nostros rogamus, et officialibus vero, gentibus armigeris ac subditis nostris omnibus mandamus, quatenus spectabilem militem dominum Candidum de Viglevano, Sanct.mi Domini nostri Papae secretarium, nobis carissimum, ad inferiores partes profecturum cum famillia sua ad numerum personarum usque octo equestrium sive pedestrium suisque cum armis, arnesiis, valisis, rebus et bonis omnibus eundo, stando et redeundo per omnes civitates, terras, castra et loca sua et nostra sine solucione alicuius dacij, pedagij, gabelle, fundinaris vel alterius oneris exactione, libere et expedite transire permitant, servatis tamen ordinibus nostris super peste editis, sibique provideant de guidis et salvis conductibus GIORNALE LIGUSTICO oportunis , et eum in cunctis nostro amore bene tractent et gratiose suscipiant commendatum, gratissimum habituri quidquid in eum favoris et benefitij collatum extiterit, valituris presentibus annis duobus proxime futuris. Datum Mediolani sub fide nostri sigilli, die xx Junij mcccclx quarto. — Jo. ». (116) Biblioteca Universitaria di Pavia, Mss. Comi, Quaderno D (dal ms. originale esistente allora nell’Arch. di Gasa Paleari) : « Consilio Secreto. — Per alcune imputatione date contra D. Candido de Vigevano, volemo lo faciate citare ad comparire nanze ad vuy personalmente et ad fare le sue defensione de quanto gli è imputato, statuendoli un termine debito et breve, quo elapso, s’ el serà inobediente, confiscareti tutti li beni eh’ esso ha nel dominio nostro et mandarete la confiscatione a la nostra Camera; insuper farettelo publicare per nostro rebello. Date Papiae, 5 fe-bruarij 1473. [°ux Mediolani] ». (117) Due documenti in Arch. di St. di Mil, Miss, ducc., ff- stacc., 1476-77, ff. 6 e 213. Nel primo si legge: «... Item numererai a D.° Candido da Viglevano ducati 25 a fior. 4 per ducato , quali gli damo per compensatione del ficto de una casa sua in Pavia golduta per certo tempo per alcuni della nostra corte. Mediolani, 7 Januarii 1477· B. C[halcus]. — Bona suscripsit... manu propria ». Il secondo suona : « Referendario Papié. Acciò che possiamo deliberare più maturamente sopra 1 inclusa supplicatione de D.° Candido de Viglevano. volemo che tu elegi duy estimatori confidenti d’ esso D.° Candido et de Guido da Viadana nominato nella supplicatione, dandogli el sacramento de fare il debito suo ad estimare la casa se fa mentione, così 1’ utile, corno lo directo, perchè possa intendere quanto vale Γ uno et Γ altro ; et puoy darane aviso per tue lettere d’esse estimatione. Mediolani, die 16 Julij 1477· B· C[halcus] ». LA PASSIONE ED ALTRE PROSE RELIGIOSE IN DIALETTO GENOVESE DEL SEC. XIV Edite di su il Cod. D.bis 1. 3. 19 della Bibl. Civica Beriana di Genova. Il cod. D.bis i. 3. 19 della Bibl. civica Beriana di Genova è già noto ai lettori del Giornale Ligustico per la minuta e diligente descrizione, che ne ha fatto in queste pagine (an. X, GIORNALE LIGUSTICO 321 sgg.) il prof. Crescini (1), quando, in collaborazione col prof. Belletti, di su quel cod. pubblicava le Laudi genovesi del sec. xiv. Non occorre dunque che io ne torni a dare ragguaglio ; mi basterà solo ricordare come esso, oltre le dette laudi che vanno dalla c. 66r alla 89", contenga una miscellanea di prose religiose, tutte scritte della stessa mano, e nello stesso linguaggio genovese, che non può andare più in là degli ultimi del sec. xiv; ora sono appunto queste scritture, che io mi propongo di pubblicare per intero. Veramente, l’antica letteratura genovese non scarseggia di documenti a stampa: tutto il cod. Molfino fu messo in luce dal Lagomaggiore ntW’Arch. glott. II 161-311 e dal Parodi ibid. X 109-140, un altro cod. di prose genovesi conservato a Parigi, è stato inserito dall’Ive nello stesso Arch. glott. Vili, 1-97, e preziosi Frammenti di laudi sacre (2) furono editi da Paolo Accame negli Atti della Società ligure di storia patria, XIX, 545'572; perciò potrà parere a taluno superflua la pubblicazione dell’ intero ms. della Beriana, tanto più che il dialetto, in cui è scritto, appare non poco italianizzato. Ma io pensava che l’indagine glottologica, per quanto di poca cosa, si avvantaggia sempre di ogni nuovo documento, che si aggiunga al patrimonio che già possiede de’ nostri antichi volgari; e considerava inoltre che alla conoscenza della produzione delle nostre letterature dialettali dei sec. xiv e xv, dovevano tornar proficui questi nuovi testi, specialmente in ordine allo studio delle fonti, d’onde trassero alimento ; (1) La segnatura data dal Crescini è D. 1. 3. 19; ma in un successivo riordinamento della Biblioteca, si modificò il collocamento dei mss., che dalla sala D. passarono a quella D.Ms; tolta questa differenza, la segnatura resta identica. (2) A ragione preziosi, perchè offrono una redazione più antica e più genuinamente dialettale di parecchie delle Laudi edite dal Crescini-Belletti, come già notò l’Accame, op, cit., 554 segg. 2η 2 GIORNALE LIGUSTICO per il che, avendo avuto occasione di studiare il suddetto cod., per alcune esercitazioni della scuola di filologia neo-latina, mi parve buon partito aggradire l’ospitalità, che a siffatti materiali genovesi cortesemente offriva il Giornale Ligustico. Gli opuscoli in prosa che rimangono inediti, tranne pochi frammenti che saranno indicati a suo luogo, sono sei; ma anziché seguire Γ ordine con cui si succedono nel cod., io co-mincierò dalla Passione (cc. I32r-i 64'), a cui terranno dietro gli Esempi dei viçî e delle virtù (cc. ιοιγ-ι30v) e gli Esempi dei SS. Padri (cc. 166r-186v) e infine il frammento della Leggenda di S. Gerolamo (cc. 47r-65r) e le due minori scritture, cioè la Devota orazione (cc. e la Storia del complimento del mondo (cc. 96r-ioor). Mando innanzi la Passione, come il componimento più notevole per contenuto; essa si distacca alquanto da altri testi consimili, ehj sono di solito una semplice riproduzione dei noti Vangeli, e ci offre una nuova versione, che merita d’essere presa in esame. Oltre a ciò di questa Passione si conservano nei codd. genovesi tre redazioni, tutte inedite. Una è questa del cod. D.bis 1. 3. 19 della Beriana, che stiamo pubblicando e diremo B; la seconda è da cc. 40* a 47'' del cod. D.bis i. 2. 7 pure della Bibl. civica Beriana (1), che denomineremo A, ed essendo datato è il più meritevole di (1) È un cod. cartaceo, miscellaneo, che misura 28,2 X 22,2, rilegato modernamente in pergamena, di cc. 62. La numerazione antica in cifre arabiche è stata in gran parte tagliata via nella rilegatura, e dove manca è stata sostituita da una recente in matita. Da c. iA a 39e contiene a doppie colonne la Cronaca di Genova di Iacopo da Varagine, scritta in latino nel 1295 e trascritta nel cod. nel 1353 da Giovanni de Bruno, mentre era nelle carceri dei Veneziani, come appare dalla nota, con cui si chiude la cronaca. Da c. 40* a 47» segue della stessa mano, pure a doppie colonne, la Passione; non ha nessuna intitolazione, tranne un grande P iniziale in minio e lungo fregio rosso e azzurro. Nel verso della c. 47 GIORNALE LIGUSTICO 2?3 considerazione; la terza da cc. LVIIP a LXXXVr del cod. 31. 3. 14 della Bibl. della Missione Urbana di Genova (1), che distingueremo con C. A pubblicare la lezione di A attende ora il nostro Parodi, che la premette, insieme con altri testi, al suo lavoro sul dialetto genovese, ncWArch. glott., atteso con tanto legittimo desiderio dagli studiosi. Ed io così della lezione di A, come di quella di C, mi gioverò nelle note ai passi, dove saranno necessarie delle correzioni al testo di B, e nelle osserva-zioncelle, che farò seguire, le quali verseranno specialmente sulla materia del nostro cod.; perocché, per quanto riguarda e nel recto di un foglio aggiunto, che diremo 48bis, sono disegnate alcune rozze figure rappresentanti Cristo in croce, e santi ed animali allegorici. Di poi, in mezzo ad alcune scritture latine, da c. 56' a 57' è il testo genovese dell 'Epistola del Beato Bernardo, scritta per disteso nel foglio anziché per colonne, già edita dal Crescini in questo Giornale, an. X 350 sgg. (1) È un cod. cartaceo, del sec. xiv, che fa 27,1 x 19, 7 di un bel carattere semigotico, nitido e chiaro, tutto della stessa mano, rilegato modernamente in pergamena, e numerato al· antico in cifre romane da c. I a cc. CCCLXXXXI. Oltre queste carte ne dovevano precedere altre XI, la prima delle quali ora manca; doveva contenere il principio dell’indice, il quale segue da c. IIr a VP; e poi da VIv a XIr è una scrittura sacra, pur in antico dialetto genovese, ma di altra mano e più recente. Non ha intitolazione in princìpio, ma è indicata in fine colle parole : Raxonamento de la glori ossa ver geni maria cun lo so glorioso figlio messer ihu xpe, la gloria de lo qua semper sea cun noi. Amen. E chi lederà per soa caritae prege per lo scriptore. Questo cod. voluminoso è una miscellanea di varie scritture • religiose che sono : a) un Compendio della storia della creazione del inondo a tutta la Passione di Gesù; l·) la Vita e i Miracoli di Maria; c) Lo pianto de la Via vergem madona sancta maria dona nostra; d) molte Vite di Santi; e) la Vita di iuda scharioth·, f) La nasciom e la vita fine a la morte de lo Mao messer sani xpane- hatesto ; g) De la questioim de Boecio, e quest'ultima composizione sarà pubblicata dal Parodi nei testi, che precedono il suo lavoro sopra ricordato. Gior. Ligustico. Anno XX. 18 274 GIORNALE LIGUSTICO al dialetto, esso troverà ben degna illustrazione nell’imminente studio del Parodi, che tutti abbraccierà i documenti antichi genovesi. Solo per agevolare l’intelligenza del testo, io aggiungerò un glossarietto delle voci per qualsiasi ragione notevoli. Non occorre aggiungere che la riproduzione del cod. è qui data con la massima esattezza diplomatica; non faccio altro che sciogliere le legature, che sono molto frequenti, e sciogliere parimenti le abbreviature, che sono invece pochissime, dando però le lettere, che si suppliscono, in carattere corsivo. Non tocco la punteggiatura, l’accentuazione, ne le minuscole; indicherò per altro tra parentesi quadre le lettere o le parole che credo necessario aggiungere, e fra parentesi rotonde quelle da espungere; infine per le maggiori correzioni, dando nel testo la lezione genuina, qual essa sia, addurrò a piè di pagina tutti gli schiarimenti opportuni (i). P. E. Guarnerio. (i) Oltre i tre codd. sopra indicati le Bibl. genovesi conservano altri due codd. in dial. genovese, c sono: i.°) Il cod. D.bis i. 3· 23 della Bibl. civica Beriana, del principio del sec. xv, contenente la Via de lo Paraiso, del quale ha già dato la descrizione il Crescini in questo Giornale an. X 350. — 2.0) Il cod. 31. 3. 7 della Bibl. della Missione Urbana, cartaceo, del sec. xiv, che fa 26, 9 X 19, 5 rilegato modernamente in mezza pei -gamena, e numerato a pagine in inchiostro nero da mano recente. Da pag. i a 115 contiene De lo traino de li VII peccai mortali, come dice l’intitolazione che si legge nel margine sinistro della prima pagina, in caratteri minuti; alla fine poi è scritto in rosso, della stessa mano. Di, lo titulo de lo lihro. Questo libro si a nome flores omnium bonorum e savi Jeronomino fo 1’incomen\aor in lo deserto, ecc. ; e sotto, sempre della stessa mano : Chi fe questo libro. Questo libro si fe uni frae pricaor a la requesta de lo rey de franca e si lo translatae de gramayga in francescho, e poa si e sta translatao in questo uulgare per un atro frae e lo rey chi lo fey tians-latar si aueua nome lo re filipo chi regnaua 1 ano de l incarnaciom de lo nostro segnar yhesu christe M.CC LXX.VIIII. Da pag. 116 a 179 che ^ Γ ultima, segue un altro trattato dal titolo : Chi incomensa lo libro de la misera huma condicione. Il primo di questi trattati è la traduzione della nota Somma di frate Lorenzo, l’altro la traduzione del famoso libro di Innocenzo III, De contemptu mundi, come fra poco avrò occasione di dimostrare. GIORNALE LIGUSTICO 275 I. LA PASSIONE. [CXXXIIr.] Allo nomen de christe amen. Incomenza lo prologo della passion dello segnor ihesu christe. Pensando in mi mestesso che e som ordenao e misso in lo campo de christe, si corno indegno conuemne operar, e lauorar lauor lo quar sia acetao dauanti da dio. Et uegando in questo campo, zoe in questo mise-rabel mondo monte piante chi non fan fruto, per deffecto de humor o de aygua, donde e me son metuo a premder de quella cellestia fontana uiua della scriptura santa, de quella mia possibilitai e menalla per con-duto a quelle piante chi (e)lonzi da questa aigoa son piantai, Azo che quando sera uegnua (1) lo. tempo de lo meixe, [no] me diga (2) lo segnor de questo campo, che lo so fruto sea perio per pigrixia in le mie mavn, E me tera (3) la bayria de questo lauor, e si me butera fora de la soa terra, Et a dexonor e me conuera mendigar lo fruto lo quar requere christe dele soe piante, zoe dalle nostre anime che elio a creai, Et si e a noi (4) caritai a deo, e allo proximo, e questo testimonia lo so sauio Salamon chi parla a noi in persona de christe digando : Fili] da mihi cor tuum. doncha a queste piante, aduga de 1 aigua chi le faze acender in lo amore de dio, e render fruto de caritai, tre cosse me pairen inter le altre chi sean quelle le quai speciarmenti ne conduga in lo amor [CXXXIK] de dio, lo prime (5) si e lo ben che elio n a faito. Lo secondo (6) si e lo ben che elio n a inpromisso. Lo terzo (7) si e lo amor (8), de che elio si n a liberao e scampao dalle main dello unico (9). quawuis de che lo nostro segnor n abia faito monti graindi ben li quai son senza numero, (1) Correggi: uegnuo. (2) Aggiungo no dimenticato nel cod., ma necessario al contesto, come in A. 13) Le^gi me torà mi toglierà; cfr. me ΙοξΙα mi tolga in A, e me leue la bailia in C. (4) Non c’ è senso; correggi si e amor e caritai ecc., come in A, e C. (5) Evidentemente da correggersi: la primera. (6) Id. id. la secunda. (7) ld. id. la ter {a. (8) Non ha senso; correggi lo mal, comc in A, e C. (9) Sta per inigo iniquo, cfr. Arch. glott. Vili, 561. 276 GIORNALE LIGUSTICO Soramenti uno ben n a faito si grande e si excellente, che nissun non lo po extimar, zoe che elio si n a rechatai de lo so sangue precioxo per la soa passion, e de chi auanti diremo per orden della soa santissima passion, e chn'i/e ne dage la soa gratia. Amen. Como lo nostro segnor ihesu christe si ze in la caxa de simon leuroso, e corno la madareina porta cun ella lo unguento per onzer a christe. Segondo che noi lezemo, lo sabbo dela remoriua, lo nostro segnor ih«u chmie si era in mensa a uno disinar, in la caxa de simon leproxo, Et sapiando la madareina queste cosse ella si ze incontenente cun una busura de unguento precioxo [e] si lo spanse e onse souer la testa de chrwie seando chmfe sulla mensa cun tuti li suoi discipoli, inter li quai si era Iuda scariot, lo quar era procurao, e receueiua tuto quello che era daito a chmfe, e alli apostori. Et questo iuda si era layro, che de tute le cosse chi eran daìte allo segnor, elio inuora [CXXXIII1.) ua semper la dexema. Et quando la madareina aue uisto questo (1) e spaito quello unguento, Iuda si aue grandissimo dolor, e cun una grande indignacion, elio incho-menza a criar e disse, questo si e monto grande perdimento, zo che questa femena a faito, non era meyo (che) questo (2) unguento lo quar uareiua trexenti dinai uenderlo, e dar alli poueri, che spermezarlo e spanderlo, e tuto quello dixeiua, non per compassion che elio auesse alli poueri, ma per zo che elio uoreiua inuorar la dexeina (3), cossi corno elio faxeiua delle altre cosse. Et lantora chmfe si gi respoxe humilementi alla soa mormoracion. Et lo bon yh«u si se uoze inuer li soi disipoli li quai consentii: alle parole, e mormoracion de iuda, e tapinamenti si Ili disse, o fraeli per che uoi sei cossi molestiai e turbai a questa femena chi m a .spaito questo unguento adoso, ella zoe la madareina si Ila faito in memoria de la mia sepultura. Et mi si ue digo una cosja, uoi si auerei semper mai li poueri cu» uoi. Ma uoi non auerei semper mai mi. Et lantor lo lazo apostoro odando queste parole, elio si pensa incontenente (1) Veramente avrebbe dovuto dire : Et quando questo aue uisto la madareina ecc, ; infatti in A : Quando questo ui la Magdalena chi spansse quello precioso ecc., e in C : quando questo iuda cun li aotri discipori uira che la madarenna auea spaito lo inguento preciozo ecc, (2) Di troppo il che-, infatti in A : E no era mowto meglo vender questo inguento chi varea ben CCC dynay, e dar alli pouiri cha spanderlo, ecc. E in C ; no era monto meio uenderlo chi ualea trexenti dinai e darli ecc. (3) Correggi : dexema. GIORNALE LIGUSTICO 277 la nequicia de tradirlo, e inmaginaua corno elio poesse auei questi xxx. dinai che [CXXXIII/] elio aueiua perduo per lo prexio dello unguento lo quar uareiua .ccc. dinai. Et lo fazo disiporo elio incomenza a pensar questa nequicia , e aregordandosse (1) che li zue auereiuara rea uoluntai in contra a ihe.su chmie, e corno elli lo cerchauan p«r darge la morte per inuidia. Et pensando queste cosse lo fazo disciporo [,] lo demonio si ge intra in lo corpo, et incontenente elio si se leua dalla torà e ze alli zue, e ssi ge disse, Segnoi e sso tropo ben che uoi si cerchai de prender 10 me maistro christe, e se uoi me uorei ben pagar, e ue lo darò in uostra bairia, imperzo che mi e son so disciporo, e si ue ordenaro lo tempo in che hora uoi lo prenderei impero che e sso le soe mainere. Et 11 zue respoxen che uoi tu che noi te dagemo, e Iuda ge disse, uoi si me darei .xxx. dinai de bon argento, et li zue si gi promissen alla soa uoluntai. Como Iuda se parti da li zue e si retorna a christe, e christe disse alli discipoli che aparegiassen la pascha. Et lantora lo fazo discipolo si se parti da li zue, e retorna a chmfe, Et lantora christe si comanda alli soi discipoli che elli pensassen de ap-paregiar Ia pascha, e li discipoli si fen [CXXXIIIP.] segondo che chmie gi aueiua comandao. La zobia santa chm/e si era cu n tuti li soi discipoli in la caxa de simon leuroxo, e in quela caxa si era la doce uergine maria in compagnia de lo so fìgio, et ella conseruaua tute le parole che chr iste dixeiua. Et essendo christe alla mensa in la ceina, lantora elio si preixe lo pan e si Ilo benexi e Ilo charexo de uin semegeiuementi. Et si ordena in quella ceina quello sacratissimo corpo e sangue so, e si Ilo de a mangiar, e a beiue alli soi disipoli. Et faito questo elio incomenza a parlar cui» grandissima humilitai digando, 0 dolcissimi fraelli e ue digo che uno de uoi si me de trair, e dar in le mayn delli pecchaoi e inperzo aora poei sauer e cognosser che lo figio de 1 omo elio si sera trayo e ssi sera daito in le mayn de li zue, Et inperzo megio sereiua staito che quello homo non fosse nao in lo mondo. Et lantora li discipoli incomenza» tuti a zurar, e a dir maistro, chi e quello chi te de trair, e guardando li discipori 1 uno a 1 altro digando in uerso chmie, maistro e se- (1) Periodo errato; correggi aregordandosse in arcgordase, cfr. A: e aregordase che li zue aueam rea uoluwtae ecc.; e parimenti in C: e aregordasse ecc. 278 GIORNALE LIGUSTICO reiua quello chi te don trair. Et Iuda si se uoze inuer chmfe e si ge disse, maistro e sereiua quelo chi te don trair, e christe si ge respoxe, tu mes [CXXXIIIIT.] mo 1 ai dito. Messer san zoane si sezeiua in la menss a lao de christe, (e) inpero (1) che elio si era fantin e christe si Ilo amaua monto teneramenti che za aueiua ordenao de Issarlo in lo so cambio a soa maire. Et san piero si sezeiua a lao de san zoane et era tuto pin de dolor delle parole che chmfe aueiua dicto alla mensa de lo so tradimento, e inperzo se uoze a san zoane, e si disse, e te priego zoane, che tu demandi allo maistro, chi e quello de noi chi lo de tradir, e quando elio te 1 auera dito, si lo dirai a mi. Et questo dixeiua san piero inperzo che elio uoreiua ocir, quello chi uoreiua tradir christe, lo quar amaua monto, e tropo aueiua grande dogia che eh nife deuesse esser morto. Et lantora san zoane si se uoze inuer chmfe, et si lo demanda, e disse maistro e te priego che tu me digi chi e quello chi te de trair. Et chrwfe gì respoxe planamenti, eli e quello [a] lo qar (2) e darò lo pan bagnao, e lantora chrz'ife si de lo pan bagnao a Iuda. Et quawdo messer san zoane aue zo uisto elio fo monto stremio, e uosse responder a san piero, zo che chrzjfe gi aueiua dito, ma lo segnor non uosse impedii la soa passio» . che se san zoane auesse dito a san piero che [CXXXVr] iuda (3) si e quello chi lo de trair, subito san piero 1 auereiua morto, e christe non uoreiua che san piero lo sauesse, e lantora san zoane si se buta e si se aremba son lo scosso de chmfe e si se adormi monto forte, e no» respoxe niente a san piero. Como Iuda preixe lo pan dalle mayn de christe subito se leua dalla torà e ssi ze alli zue per tradirlo. Quando Iuda aue preixo lo pam dalla ma» de chmfe, incontenente lo demonio si gi intra in lo corpo. Et inperzo piaschu» si de prender asem-pio in queste parole, de non receiuer lo corpo de chr iste cun peccai (4) no» confessu, e impero (5) lo demonio si e aparegiao de uegnir apresso conio (1) Di troppo e ; infatti in A: Messer sam zohanne si era alla menssa de chr/jte inpfrcasaua« la morte. 292 GIORNALE LIGUSTICO auemo menao questo homo mal fator, e peccaor che tu lo debi zuigar, e occif, inperzo [CXXXXVIII.'] che elio si e ben degno. Et lantora pilato si preixe chrwie e si Ilo fe meter inter una camera, e si lo incomenza a xaminar diligente menti, e quando lo aue ben examinao, elio si retorna de fora alli zue, e ssi ge disse, Segnoi uoi si m auei menao questo homo, e si me 1 auei acuxao per mal fator e per homo pessimo, echame che e Ilo monto ben examinao monto diligente menti, e si ue digo che non trouo in elio nissuna caxon per che elio sia degno de morte, per che doncha uorei uoi che spanda lo sangue de questo homo iusto senz.i corpa ni peccao. Et lantora li zue si respoxe» a pilato e si gi dissen, Sapi per certo che se questo homo no» fosse mar fator, noi 110 te 1 auereiuamo menao dauanti. Noi senio gente a chi deo a daita la leze per movses, e per che cossa chi fosse, noi no fareiuamo tanta falla. Ma noi te digamo la (1) ueritai la malicia de questo homo che elio non n a mai cessao de preuaricarne de la nostra leze. Et lantor si demanda pilato a li zue donde chm/e era nao, e quelli gi dissen de gallilea, e lantora gi respoxe pilato, e si gi disse, segnoi se questo homo e de galilea, uoi sauei ben che mi no lo don zuigar che non o zuixio de sangue, saruo [in] quelli (2) de ieruxalem, e lantora disse pillato andai doncha e si Ilo menai a [CXXXXVIIIT.] herodes a chi s aperten de zuigar queli de galilea. Como herodes demanda a christe de mo.ite cosse, alle quai christe non ge respoxe e corno lo trata per mato. e si lo manda a pilato. Sauei deuemo che ludea si era monto grande faito, si che no» g era saruo uno segnor, ma eran doi principai segnoi, zoe herodes chi rezeiua in galilea, et pillato chi rezeiua in ieruxalem, e questi doi no n eran miga zuei, che li zue no» aueiua» rei de lor gente, ma era» tuti sota la segnoria dello imperaor de roma, e pilato si era oidenao segnor in ieruxalem per Io imperaor de roma, e (che) herodes (fosse) segnor (3) in galilea per lo imperaor, e questi doi herodes e pilato si stauan mal insieme, (1) Correggi per ueriiai, come in A, che è poi un po’ diverso anche nel resto del periodo : Ma noy te digamo per ueritae la reeza de questo homo, che elio now a lassao persona de galilea tam firn eoa, che elio non abia priuarichao da la nostra leze. E cosi anche in C. (2) Aggiungo in indispensabile al senso, come è in A. (3) Necessarie le due soppressioni indicate, come si vede in A e in C, che dei resto concordano bene'.: GIORNALE LIGUSTICO 293 e non se parlaua», e tuti doi si era;* in lo tempo de chmie in ieruxalem. Or quawdo pilato aue cognosuo che chròie era de galiIea si corno e 0 dito si lo preixe, e si lo manda a herodes, e quarado lierodes aue uisto chri'jie elio fo monto allegro, inperzo che monto 1 aueiua dexirao de cognosserlo per le grande cosse che elio odiua dir de chr/i/e , et si Io incomenza a demandar herodes de monte cosse, e chr iste no n gi uosse mai responder niente, imperzo che elio non uoreiua impaihiar la soa passion [CXXXXVIIII'.] che se chmie auesse satisfaito a herodes de zo che gi demandaua, herodes 1 auereiua liberao e scampao, e inperzo chr iste taxeiua. Et questo testimonia dauid propheta lo quar disse in persona de chmie, obmutui e silui a bonis, et dolor meus renouatus est. Et lantora uegando herodes che chmie non respondea, si extimaua che elio fosse mato, e si lo fe uestir de biancho e si lo remanda a pilato, e si gi de tuta la segnoria che elio aueiua de zuigarlo, è lantora herodes e pilato fon faiti amixi, li quai auanti eran inimixi. Quando pilato aue chr iste in bairia si lo examina diligentementi, e si uegne dauanti a li zue e si gi disse, segnoi aora poei cognosser, che questo homo non e degno de murte, Veiue disse pilato che herodes si 1 a examinao e ssi no« 1 a uossuo condempnar, e mi si (e) 0 cercao se elio [e] corpeiue, e ssi non ge ne trouo niente (1). Como la uergene maria si se comforta uegando che herodes aueiua mandao christe a pilato. Or Incomenza la dona zue la uergene maria a comfortarsse uegando che pillato parlaua iustamenti. Et inperzo ella incomenza a parlar a pillato, e a dirge, 0 messer tu si ai bem uisto che Io mio figior no« n e corpeiue [CXXXXVIIII/] e non se de render ben per mal, cozosia cossa che elio a faito monti ben, a resuscitao li morti, alli sordi a faito parlar, alli ciegi darge la uista e monti altri ben, de cinque pain e de doi pessi elio a saciano (2) cinque milia persone senza le femene e senza li fantin. Messer disse la uergen maria e son la dolenta maire la quar eli 0 portao (1) Sopprimo e superfluo; anche in A manca: e my si 1 o Inurrogao si elio a corpa, e non gue ne trobuo alchuna. (2) Forma errata, avrebbe dovuto dire taçiao saziato; infatti ecco il periodo che si legge iu A : che elio a inlumenay li cegui, elio gue a fayto odir li sordi elio gue a renduo lo parlar alli muti, elio a ressucitay li lor morti elio saçia de .v. paya e de doy pessi .v. milia parsone senza le ferncne ecc. 294 GIORNALE LIGUSTIGO noue meixi, e aora si m e staito leuao a torto per inuidia, per che e te priego che tu me lo rendi se te piaxe, e si te prometo che cun elio me partirò de iudea si che zamai nisun de questi non sauera donde mi ni elio seamo andaiti. Como li zue uegando che pillato uoreiua scampar christe si incomenzan a criar digando che elli lo acuxareiuan a cesaro imperao de roma. Dubiando li zue che pillato non uoresse scanpar christe, si incomenzan a cridar fortemewti in ata uoxe digando, Sapi per certo pilato che se tu lo lassi scampar tu si no» e amigo de cesaro imperaor, che tu sai ben che quello homo chi se fa re si e degno de morte. Et lantora pilato si aue paura, e ssi uosse satisfar alli zue in alcuna cossa, e si ge disse, e castigero questo homo, si che uoi si serei ben contenti [CLr.] e possa si lo lasserò andar per li faiti sòi, che per certo elio non n e degno de morte. Et lantora pilato fe uestir a chrù/e de una purpura tuta quanta squarza, e si fe far una coruna de spine monto aguze, e si ge la fe meter in testa, e ssi preixe una canna e ssi gi la fe meter in mnn. Et quando elio 1 aue faito si lo fe bater monto amaramenti e faito questo si Ilo aprexentan cossi fragellao e incoronao de spine alli zue et si gi disse ueiue lo segnor uostro, andai e poni ben le mente uostre se elio sea ben castigao. Et ben compisse chi la prophecia de dauid propheta Io quar dixe in persona de chr/i/e cossi Ego fui flagellatus tota nocte, et castigacio mea in matutinis. Anchora li zue si no fon contenti de tute queste cosse chi eran faite a christe, e si ueiuan ben che elio era si faitamemi flagellao, e si faitamenti batuo per la testa e per lo busto, che cibo pioueiua tuto de sangue, e sostegnei elio non se poeiua son le gambe, ma incomenzan tuti a criar in alta uoxe soura a pilato digando crucifige crucifige. Et lantora pilato si respoxe, uorei uoi che debia crucificar lo uostro re, et li zue si respoxen, noi non amo altro re, saruo cesaro. [CL.V] Et pillato uosse anchora trouar modo per scanpar chr>j/e, e si Ilo mena inter la camera e si Ilo demandaua de monte cosse, alle quai chrts/e non ge uosse responder, e pillato lantora gì disse per che non me respondi tu, non sai tu ben che e o bairia de darte la morte, e de scamparte se uogio, e per queste parole pillato si mestesso si se condena in lo conspecto de de, che elio non se po scuxar che elio non morisse ni che elio fosse corpeiue in la morte de christe segondo lo so testemonio mestessp, imperzo quando elio aue cossi parlao, e chrisle si respoxe e ssi gi disse, tu non n aueressi rniga possanza in mi, se ella non te GIORNALE LIGUSTICO fosse daita da lo mio paire, Ma sapi che quelli chi m ;tn daito inter le toe main, si an maior pechao che tu no n ai. Et lantor pilato si uegne alli zue e ssi gi disse, segnoi e ue fazo asauei como s aprosima la uostra pascha, uoi sauei ben che e ue don dar uno prexon e malfator, echame che e η o doi in bairia, e 1 un si a nomen baraban, lo quar uoi sauei ben che eli e omicidiario e lairo, e si sauei che, e o chr iste lo quar si e innocente, e ìusto e senza peccao, quar de questi doi uorei uoi che ue dage. Et li zue respoxen tuti quanti [CLIr.] in alta uoxe, noi si te demandemo barabani. Et lantora pilato disse, che uorei uoi che faza de chmie, e quelli rexposen in alta uoxe, crucifige crucifice eum. Et pillato, si respoxe, segnoi andai uoi chi auei la uostra leze, e si Ilo crucifichai, che no» uogio spander lo sangue iusto e innocente, e li zue si respoxen in alta uoxe, noi non deuemo occir nisun, ma noi te digamo per certo una cossa, che noi si te acuxeremo, e aputeremo a cessaro imperao, che tu si e traitor dello imperio, quando tu si non fai iustixia de questo homo mar-fator chi se fa re de li zue. Et lantora pilato odando queste parole for-tementi se spauenta, e si fe portar de 1 aigoa dauanti a tuto lo pouo e si laua le mayn in prexencia de tuti quanti. Et si disse in alta uoxe, Segnoi e son innocente de questo sangue iusto, lo quar uoi si me fai spander a torto, e senza caxon. Et li zue si respoxen in alta uoxe, O pillato lo so sangue, et lo so peccao si sea souer noi, e soura li figioi nostri. Et lantora pilato si de la sentencia che chmie deuesse morir in la croxe. (Continuo). VARIETA La pretesa testimonianza di Urbano Vili SULLA PATRIA DI COLOMBO. Tra le varie testimonianze che sogliono addurre coloro i quali dichiarano Colombo aver sortito i natali a Savona , vedo riferita, anche in due recenti pubblicazioni (i) , una (i) G. A. R[occa], Cristoforo Colombo e la soa patria, Savona, 1892, p. 40. _ Saonino Sabazio , Intorno alla patria di Cristoforo Colombo, GIORNALE LIGUSTICO epigrafe latina che vuoisi scritta da papa Urbano Vili in elogio del poeta savonese, Gabriele Chiabrera. Codesta iscrizione (i) comincia col lodare il poeta come colui che « primo (traduco letteralmente) adattò i modi Tebani alle toscane cetre e diede un nome eterno al ligustico mare per aver seguito il Cigno Dirceo con audaci ma non decidue penne ». È manifesta nell autore dell’epigrafe Γ intenzione di smentire quanto aveva scritto Orazio a proposito degli imitatori di Pindaro (IV, 2) : Pindarum quisquis studet aemulari Iule , ceratis ope deadalea Nititur pennis, vitreo daturus Nomina ponto, Savona, 1892, p. 79. Vedi anche la polemica tra il Cittadino di Genova e il Cittadino di Savona (Luglio '92). (1) Ecco l’iscriz.one : Siste hospes Gabrielem Chiabreram vides Thebanos modos fidibus Hetruscis adaptare, primus docuit Cycnum Dircaeum Audacibus sed non deciduis pennis sequutus Ligustico mari Nomen aeternum dedit Metas quas vetustas ingeniis circumscripserat Magni concivis aemulus ausus transilire Novos orbes poeticos invenit Principibus charus Paucis gloria quae sera post cineres venit vivens frui potuit. Nihil enim aeque amorem conciliat Quam summae virtuti Iuncta summa modestia. [Urbanus Vili. Pont. Max. inscripsit]. GIORNALE LIGUSTICO ma qui non voglio discutere se l’opera poetica del Chiabrera abbia giustificato la smentita che il suo elogiatore ha tentato infliggere al poeta romano: chè a me, come ad altri (i), non pare. Certo mostrò di crederlo 1’ epigrafista, il quale , appunto per codesta pretesa imitazione, non dubita di proclamare Gabriele Chiabrera, « emulo del suo grande concittadino » (magni concivis aemulus), che è, si capisce, Cristoforo Colombo : come questi aveva osato oltrepassare le colonne d’ Ercole e spingersi attraverso un pelago sconosciuto alla ricerca di un nuovo mondo, il Chiabrera « avendo osato superare i termini che Γ antichità aveva circoscritto agli ingegni, trovò nuovi mondi poetici ». (Metas quas vetustas ingeniis circumscripserat Magni concivis aemulus ausus transilire novos orbes poeticos invenit). Anche ammettendo per un momento che tale affermazione sia proprio uscita dal labbro o dalla penna del dotto Pontefice, non intendo punto fermarmi suiP importanza che nella questione Colombiana potrebbe avere un documento redatto un secolo e mezzo dopo la morte del grande ammiraglio : in polemiche recenti, che ora appena accennano a qualche tregua, in libri ed opuscoli variamente stimabili per sodezza e vivacità di dialettica, la testimonianza di Urbano è stata abbastanza discussa, sotto tale aspetto, sia dai fautori, sia dagli avversari della savonesità di Colombo. Ma in tanto fervor di polemica, in così appassionato accaloramelo d’ animi, in mezzo a così ben nudrito fuoco di argomentazioni, una cosa si è da ambe le parti dimenticato di mettere anzitutto in chiaro. (i) Cfr. Cerrato, L. La tecnica composi{ione delle Odi Pindariche, Genova, 1888, pag. 26; ed il mio scritto Gabriello Chiabrera Ellenista?, Genova, 1891. 298 GIORNALE LIGUSTICO L’epigrafe, domando io, è stata veramente scritta da papa Urbano VIìI, alla cui testimonianza conferirebbe naturalmente grande peso, vuoi la maestà del Pontificato, vuoi P altezza di ingegno, vuoi finalmente la profondità di dottrina di colui che iu detto dai contemporanei Ape Attica? O scrissela invece altra persona a cui fece difetto anche uno solo di co-testi titoli, che pur contribuiscono sempre a generare nell’animo nostro la persuasione? Sarebbero, insomma, i giudici in questa causa vittime di una sostituzione di testimoni ? Vediamolo. Io non so sulla fede di quali documenti il venerando G. A. Rocca (al cui lungo studio e grande amore delle cose patrie piacemi qui render pubblico omaggio), può affermare che P iscrizione attribuita ad Urbano Vili « stava scolpita in marmo nel chiostro di S. Domenico sotto il busto di Gabriele » : desidererei sapere se proprio quella lapide portasse anche le parole della sottoscrizione: Urbanus Vili... inscripsit, che il Rocca però stampa nel riferire l’iscrizione (1). Siccome sventuratamente la lapide non esiste più, potrebbero gli scettici mandarla a fare il paio con quell’ altra contenente il famoso epitafio : Hic iacet Christophorus Columbus Savonensis, che il patrizio Francesco Spinola, di ritorno dal suo viaggio al Nuovo Mondo nel 1618, dicono affermasse con giuramento davanti a notaio di aver veduto nella cattedrale di Siviglia all’ altare del Sacramento : di che. parlando PHarrisse, scriveva che « il est avéré qn’à aucune époque, ni sepulcre ni pierre tombale ni inscription ne lui furent consacrés dans la cathédrale de Séville et que ses cendres n’y reposèrent jamais » (2). Intanto io credo ben degno di nota che le parole della so-scrizione: Urbanus Vili... inscripsit (le quali imprimono, direi (j) Rocca, op. cit., p. 40. (2) Harrisse, Chr. Colomb et Savone, p. 29. GIORNALE LIGUSTICO 299 così, il bollo della paternità all’ epigrafe), benché si leggano già nella edizione dell’ autobiografia del Chiabrera, fatta in Genova per Benedetto Guasco nel 1654, appiè’ de\Y Ame-deida, mancano tuttavia nelle Memorie istoriche di Agostino Monti (1), stampate appena 39 anni dopo la morte del poeta ; e ciò, malgrado che lo storico Savonese dica che ii Chiabrera, « riportò per ultimo segno di sua felicità le lagrime e 1’ elogio dell’ istesso oracolo del Vaticano », e riferisc|i anch’ egli 1’ epigrafe, ma, ripeto, senza la sottoscrizione. Non nego che il trovarsi tale epigrafe, e nelle stampe e nei manoscritti, subito dopo il breve (2) diretto al poeta dallo stesso pontefice in data 29 novembre 1623 e l’aneddoto relativo a quel breve, possa giovare a rinvigorire 1’ opinione che anche dell’ epigrafe sia stato autore lo stesso papa : anzi tale tradi- (1) Monti, Compendio delle memorie historiche di Savona, Roma, 1697, p. 371. (2) Ecco il breve: Urbanus pp. Vili. Dilecte Fili, salutem et Apostclicam benedictionem. Pontificii amoris monumentum it celeberrimae virtutis praemium exstare volumus Apostolicam hanc Epistolam tibi inscriptam ; qnamvis enim eiusmodi honoribus non nisi Principes viros dignari soleat Maiestas Romani Pontificatus, attamen Gabrielem Chiabreram ex aliorum literatorum vulgo secernimus, cuius arma sapientiae paraverunt regnum in tam multis Italiae ingeniis. Arcibus et legionibus potentiam suam muniant dominantes, Tu carminum vi studiosam inventutem sub ingenii lui devotione redicis, dum sibi imitatione tuorum poematum aditum patefieri arbitramur ad immortalitatem nominis consequendam. Interest autem reipublicae quamplurimos reperire imitatores studiorum tuorum; lyrica enim Poesis, quae ante vino lustrisque confecta, in triviis cl tenebris sordido cupidini famulantur, per te nunc Graecis divitiis aucta, deducta est modo in Capitolium ad ornandos virtutum triumphos, modo in Ecclesiam ad Sanctorum laudes concinendas. Nec minus fehciier sibi consulent, qui mores tuos non imitabuntur negligentius quam carmina; prudentiam enim cum sapientia coniungens et severitatem facilitate leniens demeruisti Italicos Principes et docuisti populos posse poetica ingenia, sine dementiae mixtura el Vitiorum faece, fervere. Quare Nos non obliti veleris 300 GIORNALE LIGUSTICO zione ha forse avuto origine dall’ aneddoto stesso. Narrasi dunque nell’ Autobiografia che il Chiabrera andato a Roma per baciare i piedi al pontefice e ringraziarlo dell’ onore conferitogli col breve suddetto, e avendo detto che sì alte lodi erano effetto dell’ amicizia che passava tra monsignor Giovanni Ciampoli, Segretario dei brevi, ed il poeta, risposegli Urbano: « l’abbiamo dettato noi ». Da tutto ciò traspare, è vero , la predilezione grandissima che il Pontefice nutriva apertamente per il poeta Savonese e scema la maraviglia (di cui vedremo più tardi invaso lo Spotorno) che l’altissimo per-sonaggio abbia potuto degnarsi di comporre anche un elogio epigrafico e apporvi il suo nome augusto. Anzi la maggior parte degli editori ed estimatori del Chiabrera si compiacciono riprodurre l’epigrafe come pubblica attestazione del valore del poeta da parte di personaggio tanto eminente. Cosi, per tacer d’altri, il Corniani (i), quasicchè l’aneddoto del breve non contasse per nulla, non dubita di asserire che papa Urbano, « non avendo potuto magnificare il poeta Savonese, come desiderava, vivente, volle onorarne il sepolcro con un epitafìo ripieno di magnifiche lodi », e riferisce perciò distesamente la iscrizione di cui ci occupiamo, e che a lui giustamente parrebbe un « singolarissimo monumento di applausi, con cui 1’ ammirazione di un pontefice si compiacque di decorare la virtù di un poeta ». Senonchè, sette anni dopo di lui, l’abate Spotorno, dopo amicitiae et faventes laudibus nominis tui, singulare hoc libi damus paternae nostrae pignus charitatis, cupientes quam nobis, decedens, fidem sponsione obligasti, eam, adventu tuo quam primum liberari, tibique Aposlolicam benedictionem peramanter impertimus. Datum Romae apud Sanctam Mariam Maiorem sub anulo piscatoris die 29 Nov. 162Pontificatus nostri anno secundo. IoHANNES ClAMPOLUS. (1) Corniani, I secoli della letteratura Italiana, IV, 44,(1819,1. GIORNALE LIGUSTICO 301 aver diffusamente discorso della vita e delle opere del famoso Pindaro Savonese, si duole di non poter ad imitazione del Corniani, riferire l’iscrizione di papa Urbano, giacché « in una copia di vecchio carattere che se ne conservava presso un letterato Savonese, egli aveva potuto leggere il nome dell’autor vero di quell’elogio » (i). Il letterato savonese a cui alludeva lo Spotorno era Giovanni Battista Belloro: quello stesso di cui l’Harrisse, nell’opera già citata, dava questo giudizio (2) : « Belloro ne saurait être qualifié de polemiste prétentieux et frivole. C’était au contraire un écrivain très versé dans l’histoire de son pays et dialecticien d’une rare vigueur, ainsi qu’il le montra plus tard dans sa controverse avec Felice Isnardi. Mulheureusement, ^en 1826, Giambattista Belloro soutenait une thèse inspirée par des motifs qui obscurcissaient son jugement lorsque les prétentions de sa ville natale étaient en jeu, et l’éclairent seulement quand il fallait combattre celles des localités voisines ». Ora, sei anni prima che il Belloro avesse col padre Isnardi la sumentovata controversia, lo Spotorno aveva fatto in Savona, nel 1820, un riscontro della autobiografia del Chiabrera sopra due testi a penna (3), cortesemente prestatigli dal medesimo Belloro, colla scorta dei quali potè offrire in una nuova edizione, l’autobiografia Chiabreresca purgata da molti e gravi errori delle stampe, ed accresciuta d’ un periodo in più, che gli operai tipografi avevano sbadatamente saltato. Di ciò ne avverte lo Spotorno stesso, che, pubblicando nel 1838 in Genova coi tipi del Ponthenier il (1) Spotorno, (G. B.). Storia letteraria della Liguria, IV, 107, (1826). (2) Pag. 38. (3) « Il manoscritto in forma di 40 è indicato così, MS. A.: quelle in-16.0 si accenna coll’ abbreviatura MS. B. La iniziale G. significa la prima edizione della Vita fatta in Genova per Benedetto Guasco, 1654 in 12.0 appiè dell’ Amedeida » [Spotorno]. GIORNALE LIGUSTICO carteggio del Chiabrera col pittore Bernardo Castello, amicissimo del poeta, vi premetteva una ristampa della « Vita » del Pindaro Savonese, riscontrata, come si è detto dianzi, sopra i due manoscritti savonesi e corredata da lui di alcune postille, delle quali giova al caso nostro riprodurre la 51.“': « Siste hospes etc. Nel ms. in 4° mancano a quest’ elogio le parole Urbanus Vili Pont. Max. inscripsit, e di carattere meno antico vi è scritto Francesco Rondinelli. E di vero, convenevol cosa non era che Urbano Vili gittasse sopra un pezzo di carta P elogio del Chiabrera, e vi mettesse inscripsit; come se avesse fatto incidere l’encomio in un monumento. S’egli voleva mostrarsene autore, bastava dire modestamente : scripsit ». Trovando giusto, se non in tutto almeno in parte, il commento dell’ abate Spotorno, ho chiesto a me stesso se qual’autore dell’elogio al Chiabrera, anziché il pontefice Urbano Vili, non abbiasi a riguardare invece Francesco Rondinelli. Visse il Rondinelli appunto nel secolo di Alessandro Adi-mari, di Iacopo Gaddi, di Fulvio Testi, d’Agostino Coltellini, di Carlo Dati, di Gabriele Chiabrera e di altri insigni personaggi che furouo amici ed estimatori di lui. Il Chiabrera gli indirizzò il sermone diciottesimo, e se, come si trova, il poeta savonese sottoponeva spesso al giudizio di lui le proprie composizioni, bisogna ben credere che il Rondinelli godesse presso il poeta un’ altissima reputazione di buon gusto. Nato a Firenze nel 1589 fu educato dapprima dai Gesuiti, e più tardi andò a terminare i suoi studi all’Università di Pisa. Ferdinando II, che molto P amava, lo creò suo bibliotecario dopo che 1’ autore gli ebbe dedicato la Relazione del contagio stato ni Firenze negli anni 1630 e 1636: e, fra i tanti titoli del Rondinelli, merita d’essere ricordato com’egli sia stato guida a Pietro da Cortona nella scelta dei soggetti per le pitture che ornano le splendide sale del palazzo Pitti. In GIORNALE LIGUSTICO 303 --_____-j- quella piccola corte di Toscana, che ambiva di inalzarsi sino alla magnificenza dei primi Medici, il Rondinelli era incaricato non solo di ideare, nelle generalità loro, le feste eh’erano allora la maggior faccenda di corte , ma anche di somministrare per occasioni diverse (ce lo dicono tutti i suoi biografi) epigrafi e motti: in che ebbe fama di valentissimo. Ora se noi consideriamo che il Chiabrera (il quale cessò di vivere nel 1638) premorì al Rondinelli, nulla ci impedisce di pensare che quest’ultimo abbia fatto servire la sua valentia di epigrafista a tessere 1’ elogio del defunto poeta, sia per spontaneo omaggio verso di lui, che amicissimo gli era stato in vita, sia per incarico avutone da qualcuno dei Principi, a cui visse caro il Chiabrera. E nulla vieta che questo principe possa essere Urbano : ci riescirebbe allora facilissima a spiegarsi 1’ attribuzione dell’ elogio Chiabreresco al Mecenate, anziché al vero autore. Il Rondinelli dovette certamente conoscere l’autobiografia del poeta Savonese, ed io reputo appunto questa come la fonte principale su cui 1’ epigrafista ne compilò 1’ elogio. Che la iscrizione, di cui presumo vero autore il Rondinelli, proceda direttamente dalla Vita di Gabriello, lo mostra il fatto che non abbiamo in quella alcun dato nuovo che in questa non sia: il Rondinelli non fa che dare una splendida veste epigrafica alle notizie che il Chiabrera aveva dato di sé in buona prosa modesta. Basta, per convincersene, istituire un confronto ira il testo dell’ iscrizione e alcuni luoghi della autobiografia : Vita. Iscrizione. .... di Pindaro si maravigliò e Thebanos modos fidibus etruscìs prese ardimento di comporre alcuna adaptare primus docuit, cosa a sua somigliatila ... Evidentemente Γ iscrizione non fa che parafrasare 1’ auto-biografia. Procediamo: 304 GIORNALE LIGUSTICO Diceva (il Chiabrera, scherzando sul poetar suo) che egli seguia Cristoforo Colombo suo Cittadino, ch’egli voleva trovar nuovo mondo, od affogare. Metas quas vetustas ingeniis circumscripserat, Magni concivis aemulus ausus transilire novos poeticos orbes invenit. Questa poi non è nemmeno più una parafrasi : è una vera e propria traduzione epigrafica. Acquistassi Γ amicizia di uomini letterati quali ai suoi tempi vivevano ed anco pervenne a notizia di Principi grandi dai quali non fu punto dispreizato. Ptincipibus charus. Non è difficile riconoscere come il breve stico dell’ elogio Principibus charus condensi, come impone la brevità dello stile epigrafico, quanto era stato detto, un po’ troppo verbosamente , nell’ autobiografia sul favore goduto dal Chiabrera presso i grandi suoi contemporanei. L ultima parte dell’ iscrizione non è se non un luogo comune, di carattere gnomico, sulla virtù accoppiata colla modestia , sulla gloria che tardi arriva dopo la morte : Gloria quae sera post cineres venit vivens fruì potuit: nihil enim aeque amorem conciliat quam summae virtuti juncta summa modestia. Se tale é, come a me sembra, la genesi della epigrafe, ci è facile scorgere quanto piccolo peso essa potrebbe avere come testimonianza nella questione colombiana. Certo, negandone la paternità ad Urbano Vili per riferirla a Francesco Rondinelli, 1’ iscrizione non scemerebbe così, mutato nomine, gran che d’importanza : poiché il nome del Rondinelli nel campo letterario del secolo XVII non contava davvero meno di quello del Pontefice allora regnante ; anzi i Savonesi potrebbero rallegrarsi che io abbia scovato un nuovo testimonio alla loro causa, se, a quanto io so, il nome del Rondinelli viene ora per la prima volta evocato nel grande litigio che GIORNALE LIGUSTICO 305 par rinnovellare Γ antica contesa fra le presunte patrie di Omero. Senonchè Γ iscrizione apparendo evidentemente copiata della Vita del Chiabrera, verrebbe, come testimonianza nella questione, a costituire semplicemente un duplicato, anzi un’ inane ripetizione di quanto aveva già prima asserito il vate Savonese. Ho accennato in altro mio scritto, come dalla stessa iscrizione proceda la genesi dell’opinione, (convalidatasi nel corso dei due ultimi secoli trascorsi), che fece del Chiabrera un dottissimo ellenista, mentre, come io ho cercato di mettere in evidenza, resta ancora da provarsi eh’ egli abbia avuto famigliarità col greco idioma, se pure, anche elementarmente, lo conosceva (1). Non credo perciò che i sostenitori della Savonesità di Colombo ci guadagnino in serietà, adducendo a sostegno della loro tesi, testimonianze di un’ autenticità ed autorità cosi discutibili come il preteso elogio di Urbano Vili a Gabriele Chiabrera (2). Dr. Girolamo Bertolotto. (1) Ctr. il citato mio opuscolo su Gabriello Chiabrera Ellenista?, e le recensioni di esso comparse in Revue critique (1892), in Giornale Ligustico (1892), in Giornale storico della letteratura Italiana (1892) ecc. (2) Ho detto a pag. 298 che la lapide non esiste più. Ciò è vero soltanto per quanto riguarda la località indicata dal Rocca , ossia la chiesa di S. Domenico. Quando il foglio era già stampato, il Rocca stesso volle gentilmente informarmi che « Onorato Gentile Ricci, patrizio Savonese fece fare e forse a sue spese il busto del Chiabrera, colla iscrizione, nel Chiostro di S. Domenico, sui primi dello scorso secolo » Il dottissimo amico, comm. Vittorio Poggi, mi mandava poi l’iscrizione, da lui trascritta sul luogo, e che presenta notevoli varianti nella disposizione epigrafica, soggiungendo : « La lapide, sottostante ad un bel busto del Poeta, è oggi murata in una sala, non già del Palazzo degli Anziani, bensì della sede attuale del Municipio. Dicono fosse già nel chiostro dei frati di S. Domenico, e mi ha l’aria di essere anteriore al sec. XVIII. » — Cosicché, se codesta lapide è la stessa che non esiste più in S. Domenico, essa non è, per lo meno, sincrona 'ad Urbano VIII, e non ha quindi grande importanza per la nostra questione. Giorn. Ligustico, Anno XX. 20 30 6 GIORNALE LIGUSTICO Monaco nel 1793. La Convenzione Nazionale il 19 novembre del 179- prendeva la seguente deliberazione: «La C. N. déclare qu’elle accordera secours et fraternité à tous les peuples qui voudront recouvrai· leur liberté , et elle charge le pouvoir executif de donner des ordres aux généraux des armées françaises, pour secourir les citoyens qui aurayent été ou qui seraient vexés pour la cause de la liberté. — La C. N. ordonne aux généraux des armées françaises de faire imprimer et afficher le présent décret dans tous les lieux où ils porteront les armes de la république. — Paris, le 19 novembre 1792 » (1). Otto giorni più tardi (27 novembre) la C. N. decretava P annessione della Savoia alla Francia. Quella di Nizza si decretava dieci giorni dopo che la Francia, ai re che la sfidavano, avea risposto decapitando il suo re (31 gennaio 1793)· In una recente ed importantissima pubblicazione, che fu ordinata dal Ministero della Pubblica Istruzione della Repubblica francese, e che fa parte della Collezione di documenti inediti relativi alla Rivoluzione del 1780, leggesi il rapporto di Carnot Sur la réunion de Monaco et d’autres pays aux territoires de la République (2). Questo rapporto, approvato dal Comitato diplomatico a cui era stato presentato il 13 febbraio 1793» (1) Thiers, Hist. de la Rèv. fr., Bruxelles, Meline, 184$; II, 370. A. Sorel, La Guerre aux rois, pag. 232 e segg.; pag. 309 e seg. (2) Correspondance generale de Carnot publiée avec des notes hist. et hiogr. par Etienne Charavay. Tome prémier, août 1798-mars 179 3· Paris, Imprimerie Nationale, MDCCCXCII. Commissario responsabile di tale pubblicazione è il valente storico Alberto Sorel, dell’ Istituto di Francia. Al primo volume è premesso un pregevole ritratto di Lazzaro Carnot. Cfr. pag. 365 e segg. e le note. GIORNALE LIGUSTICO 307 un vero manifesto in cui la Convenzione espone tutta la sua teoria riguardo alla riunione di territori alla Repubblica Francese. E quasi lo sviluppo delle massime esposte nel decreto del 19 novembre e in quello del 15 dicembre a cui si riferisce. Questo decreto ultimo, che era stato approvato su relazione di Cambon, fu riprodotto in nota dal Charavay, perchè contiene alcuni articoli, l’esame de’quali non è inutile per chi voglia giustamente apprezzare i rapporti tra il governo francese e le provincie conquistate. «La Convention Nationale ... fidèle au principe de la souveraineté des peuples, qui ne lui permet pas de reconnaître aucune institution qui v porte atteinte... décrète: Art. 1. Dans les pays qui sont ou qui seront occupés par les armées de la République française, les généraux proclameront sur le champ, au nom de la nation française , l’abolition des impôts ou contributions existentes, la dime, les droits féodaux, fixes ou casuels, la servitude reelle ou personnelle, les droits de chasse exclusifs, la noblesse, et généralement tous les privilèges. Ils déclareront aux peuplex qu’ils lui apportent paix, secours, fraternité, liberté et égalité. — Art. 2----ils convoqueront de suite le peuple en assemblées primaires ou communales pour creer ou organiser une administration provisoire... — Art. 6. Dès que l’administration provisoire sera organisés, la Convention nationale nommera des commissaires pris dans son sein pour aller fraterniser avec elle. — Art. 9. L’administration provisoire nommée par le peuple et les fonctions des commissaires nationaux cesseront aussitôt que les habitants, après avoir déclaré la souverainete du peuple, la liberté et 1’ indépendance auront organisé une forme de governement libre et populaire ». Era, come argutamente fu detto, « le Contract Sociale en action », e i proclami della Convenzione erano animati da quello spirito stesso che arma i fedeli per una guerra di re- 3oS GIORNALE LIGUSTICO ligione. Il Corano di questa nuova religione era appunto quel piccolo e terribile volume di Gian Giacomo. Conforme a quel decreto, gli abitanti di Monaco, Mentone e Roccabruna erano stati adunati in assemblee primarie il 13 gennaio e aveano domandato d’ essere riuniti alla Francia. Il 19 di quel mese dodici rappresentanti dei tre comuni eransi riuniti a Monaco e costituiti in convenzione nazionale in attesa delle decisioni di Parigi (1). Dopo aver riferito le cose anzidette e ricordato il trattato di Péronne del 1641 che conferiva al re di Francia (2) il diritto di tenere a Monaco sua guarnigione, il Carnot continua cosi: «Les procès-verbaux de ces assemblées constatent que le vœu des citoyens a été unanime et expriment le plus vif désir de voir leur demande se realizer. Le peuple a donc rempli les formalités que vous avez jugées nécessaires pour vous mettre en garde contre les surprises que l’on pourrait faire à votre religion, et vous rendre certains qu’en cas des reunion vous l’aurez adopté, et non pas conquis, que vous aurez satisfait votre empressement et non votre ambition, qu’en un seul mot aucune violence n’aura contribué à lui faire agréer le bienfait de la liberté ». Tanto più, continua la relazione, che sarebbe facile dimostrare, secondo i principi dell’antica diplomazia, che il Principato di Monaco stesso non è che un’usurpazione, un furto; ma non è il caso di entrare in tali discussioni, « nous comptons pour rien les réclamations des princes contre la souveraineté des peuples ». Il punto da vedere è se convenga la riunione alla Francia. Certo la sicurezza della Francia non dipende da cosi picciol paese, ma la Francia deve un appoggio anche ai deboli. Essa non può lasciare che un popolo, il quale le si è offerto, (1) Moniteur, XV, 358. (2) Era re Luigi XIII che avea ridato Monaco al Principe, cacciandone gli Spagnuoli. GIORNALE LIGUSTICO 309 ricada in potere di vecchi 0 di nuovi tiranni. Il voto degli abitanti di Monaco deve dunque accogliersi per non mancare alla dignità nazionale. « Considéré même sous le point de vue de défense générale, ce pays n’est point absolument nul; il recule nos limites jusqu’au pied des montagnes qui les fixent naturellement, il offre à Monaco même un petit port qui a quelques avantages. Cette ville fortifiée et protegée par un château bien situé, ferme aux ennemis l’entrée de la République du côté de l’Italie et rend cette frontière très assurée ». Perciò è proposta 1’ annessione di Monaco alla Francia e propriamente al dipartimento delle Alpi Marittime. Quanto al « ci-devant prince » (1), non s’è mai dichiarato nemico della Francia nel corso della rivoluzione, anzi ne ha sempre richiesta la protezione come di potenza amica e alleata , il Comitato diplomatico proponeva « qu’en anéantissant ses jouissances honorifiques et féodales ainsi que tout ce qui se tient au fisc, elle lui doit protection et sauvegarde pour tout ce qui peut lui appartenir à titre de simple citoyen. La loyauté française, en jetant sur le prestige des grandeurs l’éclair qui les dissipe, n’écrase point celui qui n’était revêtu. On peut encore être homme, quoiqu’on ait été prince ». Il principe Onorato III che si trovava a Parigi, benché avesse chiesto la protezione della Francia fino dal 26 settembre 1792 per timore del re di Sardegna di cui sospettava l’ambizione (2), il 13 gennaio poi mandava al Ministro degli esteri una lettera e una memoria di protesta contro l’invasione del Principato fatta dalle milizie francesi. Questa lettera e questa memoria, che lo Charavay ha riprodotto in (1) Camillo Eleonoro Goyon Grimaldi nato nel 1720: principe nel 1731 sotto il nome d'Onorato III; pari di Francia nel 1751; governatore di Monaco nel 1756; morto a Parigi nel fiorile dell’anno 3.°. (2) Arch. des aff. étrang. Monaco. Suppl. 2 voi. jio GIORNALE LIGUSTICO nota, richiamano la Francia all’osservanza del trattato del I(HI (0 e protestano contro l’invasione straniera, dichiarando che il Principato non può trovarsi fra i due paesi di cui fa menzione il decreto del 15 dicembre, perchè, guernito di milizie francesi, non poteva considerarsi come paese conquistato e tanto meno come nemico. Il lettore sa che la Convenzione diede ascolto a Carnot e non al Principe, e che la Francia restituì ad Onorato V il Principato soltanto nel 1814 (2)· Prof. Guido Bigoni. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Elvidio Salvarezza. Curiosità storiche sulla repubblica di Noli e sulle passate relazioni fra Genova e Marsiglia ; documenti inediti, Genova, tip. Sordo-muti, 1891. « Credevo la Repubblica di S. Marino in Romagna fosse la più scarna e mingherlina di quante se ne registrarono mai ne’ libri di storia e di geografia ; ma quella di Noli vince pur 1’ altra in piccolezza, non aggiungendo nè tampoco al suo settimo, poiché si pretende che S. Marino contenga presso a ottomila viventi ». Così scriveva Giuseppe Baretti, in quell’ arguta lettera eh’ egli finge indirizzata da Gianandrea Chiavarina all’abate Giambattista Della Torre, nella quale (1) Ved. sopra. Cfr. anche Gustave Saige, Docuin. histor. sur la princip. de Monaco. 1 primi tre volumi abbracciano appunto il periodo 1412-1641. (2) Giovati Michele Alessandro Millo nato a Monaco il 18 febbraio 1719, maresciallo di campo e luogotenente del re a Monaco fino dal 1770, fu sospeso dalle sue funzioni collo stesso decreto 14 febbraio 1793 che incorporava il principato alla Francia. Mori anch’ egli, come Onorato III, nell’ anno 3.0 della Repubblica francese. GIORANLE LIGUSTICO 3 ii appunto discorre della repubblica di Noli che ha porto argomento alla pubblicazione del Salvarezza. La repubblichetta (non tanto piccola però, perchè dal Marchesato di Finale estendeva il suo dominio fino alla rada di Vado, e, nell’interno, fino all* apennino sopra Mallare, con una popolazione che eguagliava la metà di quella di Savona) scioltasi dal dominio feudale dei Del Carretto fino dal secolo XII, seppe reggersi indipendente fino al 1797 in mezzo a pericoli e a guerre continue. Genova, che pur lottò sempre per la conquista e per la conservazione della Riviera di ponente , oggetto di tante insidie, ebbe interesse a tenersi Noli come alleata ed avanguardia piuttostochè suddita : di grande importanza come posizione naturale e strategica, ditesa da un castro per quei tempi inespugnabile, agguerrita per le continue lotte sostenute con Savona, Albenga ed i marchesi del Finale, « istrice belligera » , come dice il Salva-rezza, irta di fortilizi, era coinè una sentinella esposta ai primi e più fieri colpi che odiati nemici di cui era seminata la Riviera potessero preparare contro la Superba. Con tale alleanza , Noli potè giungere colle sue istituzioni medioevali fino al 1797, che fu la tomba delle ultime libertà repubblicane allora sopravviventi. Come fossero costituiti il Governo e la Rappresentanza della repubblica di Noli, si ricava da un frammento di lettera privata del 1745 che il Salvarezza pubblica a pag. 18-23 > nella quale mentre si raccontano fatti di interesse pubblico accaduti in quell’ anno, si spiega, incidentalmente, ma in modo chiaro e semplice, la costituzione di Noli. Essa annoverava un consiglio dei capi di casa in numero illimitato, un consiglio dei quaranta, un consiglietio di 24 cittadini, donde sceglievasi due consoli, i due padri del Comune, due Massari, due maestrali, i quali tutti insieme formavano il magistrato degli otto. A partire dal 1171, Genova conchiuse con Noli una serie giornale ligustico di tiattati, di cui specialmente notevole è quello del 1253 circa la gabella sui legni e sul sale in arrivo nel porto di Genova. Per la esecuzione di questi trattati c’erano nelle due citta speciali commissarii, e, in caso di controversia, Noli spediva propri oratori o ambasciatori-, al quale uffizio furono spesso designati membri delle due famiglie Naulensi Bocca-ìandro e Salvare^a, famiglie riunite appunto nel 1891 per le nozze del Signor Cesare Salvarezza, fratello dell’Autore, colla sig. Angela Boccalandro, e fu appunto tale fausta occasione che diede origine all’ importante volumetto, composto in gran parte sopra documenti inediti dell’ archivio privato della famiglia Salvarezza. Tutti i cittadini e distrettuali di Noli dai 17 ai 70 anni dovevano, conformemente ai bandi e alle grida, trovarsi in piazza con le armi : le insegne militari venivano benedette con gran pompa e con pubbliche cerimonie. Nel 1672 alcuni membri del consigìictto tramarono di consegnare la città al Duca di Savoia e proclamarne la signoria ; ma una pronta pena capitale fece espiare il tentativo ai colpevoli, i cui discendenti penarono non poco ad essere perdonati. La scossa data al mondo dalla grande Rivoluzione francese, le invasioni e le conquiste di Bonaparte fecero crollare la vecchia Repubblica di Genova nel 1797 e Noli precipitò con la grande alleata. Si difese fin che potè, scrivendo, implorando: essa, libera da secoli, nulla chiedeva al fortunato « General plenipotenziario francese in Italia », glorioso per aver data la libertà a tanti popoli: aggiungesse alla sua gloria quella di averla conservata a Noli « che non poteva persuadersi d’ esser libera se venisse obbligata dalla violenza ad accettare una costituzione di governo, che riconosceva contraria al suo bene e alla sua civile felicità ». Questa lettera spedita a Milano il 20 giugno 1797, redatta dal console Giuseppe Salvarezza è fiera, eloquente e fa battere il cuore a chi legge. GIORNALE LIGUSTICO Ma, per misura di prudenza, lo stesso governo che reclamava a Bonaparte per Γ indipendenza di Noli, si rivolgeva per mezzo di abili diplomatici, al Governo provvisorio di Genova, congratulandosi dei seguiti mutamenti. Tuttavia la repubblica ligure assoggetta a sè tutta la riviera: Noli protesta e cerca opporsi colla violenza: Genova, per mezzo di appositi delegati, riconosce « essere Noli veramente libera, indipendente e sovrana » e perciò libera o no di accedere alla repubblica ligure: e, scendendo a trattative, offre di costituir Noli capoluogo di giurisdizione, porto franco, sede di tribunale e concede altre guarentigie. Rifiuta il popolo Nolese, ma cede il governo : Noli, al pari di Savona, diventa sede di centralità e presidente ne è eletto quello stesso Salvarezza, che aveva diretto al Bonaparte a favor dell’ indipendenza della repubblichetta vetusta la fiera lettera mentovata. Ma, dopo pochi mesi, anche tali prerogative, Noli, rimasta semplice capohiogo di contrada dovette perdere, malgrado le vive proteste e le varie argomentazioni storiche e giuridiche esposte dall’ oratore Nolese in Genova. L’ ultimo documento , pubblicato nell’ opuscolo del Salva-rezza , è un discorso tenuto nel 1656 dall’ambasciatore di Marsiglia, Antonio di Felice, per iscusare l’insulto recato ad una galea di Genova nel porto di Marsiglia : atto che rivela, dice 1’ egregio Autore, con tanta evidenza la fierezza e 1’ e-nergia con cui ia Repubblica di Genova esigeva rispetto da ogni straniero. Il volumetto del Salvarezza è sfuggito alla maggior parte degli studiosi (giacche pochi ne hanno sin qui parlato), per la ragione semplicissima che, stampato per nozze in limitatissimo numero di esemplari, fu tenuto modestamente nascosto e neppure distribuito, contro la consuetudine, ai pochi intimi amici e famigliari. Il volumetto aggiunge un utile contributo alla storia dei comuni italiani, fra cui non ultimo nè dei 4 GIORNALE LIGUSTICO meno gloriosi è quello della piccola ma fiera repubblica di Noli, che oggi ancora, annidata in un’angusta valle prospiciente il mare, a’ piedi del Capo di Noli, sporge ardita nel Mediterraneo e sembra mirare Genova di fronte e ripensare desiosa le passate vicende. Dr. Girolamo Bertolotto. Sousa Viterbo. Artes e artistas em Portugal, Contribuçôes para a historia das artes e industrias portugue^as, Lisboa, Ferreira, 1892. Opera importante, composta da chi ha competenza della materia, e conosce benissimo P argomento ; quindi preparazione piena, erudizione di buona lega, attinta da buone fonti; giudizi parchi, ma giusti. L’autore ha fatto suo prò non solamente degli scrittori, i quali ebbero opportunità di toccare delle arti e degli artisti, ma altresì delle carte d’ archivio, ritraendo dalle sue ricerche utili notizie. I capitoli più curiosi sono quelli ne’ quali si discorre della tappezzeria, della musica e della danza. Quest’ ultimo ha poi una singolare importanza rispetto alla storia del costume, specie là dove si parla della danza nelle feste religiose e nelle processioni, anche per le sue attinenze con le rappresentazioni teatrali. Ci piace rilevare alcune notizie che riguardano l’Italia. Fra i pittori troviamo un Francesco Corradi nella prima metà del secolo XVII, e Domenico Schioppetta fiorito sui principi del nostro; l’architetto romano Antonio Canevari, che co-strusse la torre di Gamenha 0 dell’orologio; Silvestro Corso, forse savonese, costruttore navale a Cochin, sui primi del cinquecento. A proposito poi delle costruzioni navali è specialmente notevole per noi la seguente lettera di Lopo Car-valho, agente in Italia del re Emanuele I: GIORNALE LIGUSTICO 3X5 S.or Neste navio saratila0 (Santo Hilario?) de vosalteza vàao os carpeni-teyros e comitos e sota comitos pera fazer gualles e pera naveguaçào de ellas, os quaes servirlo vosa alteza de seus oficios era Portugal e na Imdia e omde quer os vosa alteza marndar porque asy s'ao obriguados e comcertamos na maneyra que vosa alteza vera abaixo decrarado. It. Vay mestre vumer (Vimier?) e bum moço seu prim-cipall mestre de fazer gualles que hadaver por elle e pollo moço cada mes oyto ducados do dia que desta villa partirem em diante ate se comcertarem cora quem vosalteza mandar porque doutra maneyra com elle nom podyamos acabar eu estive ao comcerto a alguns delles com amt.° e os outros eram ja tomados quando vym ao quali paguei lloguo coreuta escudos de soli que val. X escudos. It. mais vay mestre pantallim coyroll tambem mestre de gualles que hadaver quatro escudos cada mes e lhe paguei lloguo damte màao este dinheiro se lhe descon- tara de seu solido quatorze escudos...........XIIII escudos. It. mais vay Joham gastaym que hadaver très escudos cada mes ate Ila e lhe paguei oyto escudos......... VIII escudos. It. vay benedite de facio que hadaver cada nies tres escudos e lhe paguei loglio oyto............... Vili escudos. It. vay mais Joham damyello que hadaver très escudos cada mes e lhe paguei oyto................ VIII escudos. It. mais vay Joham marya de fulle que hadaver cada mes tres escudos e lhe paguei oyto.............. Vili escudos. It. vay amtonio sueta que hadaver por cada mes tres escudos e lhe paguei damte màao oyto........... Vili escudos. It. vay mais estevàao busiao que hadaver por cada mes tres escudos e lhe paguei oyto escudos......... VIII escudos. Comytüs. It. vay Jeronymo de llarena que hadaver cymquo escudos cada mes e lhe paguei XV escudos os quaes tambem se lhe descontaram de seu solido............. XV escudos. It. vay mais amtonio de castilhaao que hadaver cinquo escudos e le paguei logo XV escudos de soli...... XV escudos. 5x6 GIORNALE LIGUSTICO It. vay lllaryo de monite alvo que hadaver cymquo escudos e lhe paguei XVI escudos de soli.......... XVI escudos. It. vay desyderio caluaryo que hadaver por cada mes cin- quo escudos e lhe dey lloguo darate maao quymze . . XV escudos. It. vay mais bertollameu Roxo que hadaver cymquo escudos e lhe paguei quimze.................. XV escudos. It. vay mais luis a Reuer de memtaào que hadaver por cada mes cymquo escudos e lhe paguei lloguo quymze XV escudos. Sota COMYTOS. It. vay Jorge greguo que hadaver por cada mes tres escudos e lhe paguei loguo nove os quaes lhe descontaram de seu solido......................... It. vay benedito de facio que hadaver por mes tres escudos e lhe paguei nove................... It. vay mais Joham macuco que hadaver très escudos por mes tambem ate os vosa alteza mamdar com certa (sic) e lhe paguei nove...................... It. vay Joham maria filho de pomço que hadaver por mes tres escudos e lhe paguei damte màao nove....... It. vay amtonio della valle que hadaver por cada mes tres escudos e lhe paguei nove escudos............ It. vay mais agostini framco que hadaver por mes tres escudos e lhe dey lloguo nove.............. Remollares. It. vay framcisquym Roberto hadaver por cada mes tres escudos e lhe paguei doze................. XII escudos. E esta jemte vay pera lhe Ila fazerem avantagem do que llevam por (sic) doutramente non podiamos acabar com elles que todollos dias se are-pemdiam dos partidos que lhes faziamos. Vosa alteza me manda em meu Regimento que lhes podese dar pera lleixarem a sua molheres ate dez ducados e a alguns delles demos mais porque doutra maneyra nom queryam hyr. Sprita em saona a xx dias de fevereiro de 1513. It. vay luqua de beavxa que hadaver très escudos cada mes e lhe paguei IX escudos. Lopo carvalho. IX escudos. IX escudos. IX escudos. IX escudos. IX escudos. IX escudos. GIORNALE LIGUSTICO 317 Infine è a ricordare il musico Luigi da Milano autore di un opera didattica musicale, stampata a Valenza nel 1536. Ma ciò che costituisce per noi la parte più notevole ed importante del libro, è il capitolo dove Γ autore ha raccolto alcuni documenti intorno alle relazioni del Goldoni con la corte di Portogallo. Essi illustrano quel tratto delle Memorie, in cui il comico veneziano tocca appena dei suoi lavori per quel teatro, ordinatigli dall’ ambasciatore portoghese a Parigi. Ed appunto dalla corrispondenza diplomatica di quest’ ultimo rileva il Sousa Viterbo que’ tratti che a si fatto episodio si riferiscono, e produce due brevi lettere del Goldoni. Sarebbe vivamente desiderabile che si riuscisse a trovare alcune altre lettere di lui, che si veggono qui citate, e si completasse la illustrazione con la ricerca delle operette liriche composte dal poeta per la corte Portoghese nel 1764-65. SPIGOLATURE E NOTIZIE Nella adunanza tenuta in Modena il i.° maggio dalla R. Deputazione di storia patria, il cav. Arsenio Crespellani annunzia la scoperta recentemente fatta nelle vicinanze di Massa-Carrara di due antiche tombe liguri; scoperta importante; dacché sieno le prime, per quanto è noto, emerse in quella classica terra, di cui siasi conservata la suppellettile funebre, e che confermino quanto scrisse Polibio: che cioè quel territorio, decaduti di potenza gli Etruschi, tu occupato dai Liguri Apuani fino all’anno 180 a. c., al qual tempo questi ultimi ne furono espulsi da Romani. La fossa di una delle accennate tombe esistente in località detta Totn-bura, forse per antecedenti ritrovamenti di sepolcri latti in quel luogo, era circoscritta da quattro lastroni di macigno e chiusa in alto da un quinto. Conteneva un ossario 0 cinerario di terra cotta giallognola con entro ossa umane calcinate, fra le quali si rinvennero due anelli, il primo ad un sol giro, l’altro a spira e a due giri, e una fibula ad arco piatto, il tutto d’ argento. Presso all’ ossuario vi erano due paterelle a due anse ricoperte di vernice nerastra con sprazzi rossi, e portanti sigle arcaiche 3i8 GIORNALE LIGUSTICO e ornati a graffito: un vasetto d’impasto impuro lavorato a mano senza vernice contenente avanzi di sostanze organiche ed animali decomposte dal tempo: frammenti di un vaso di forma doliare adorno all’esterno presso il labbro di sigle arcaiche e portante le tre zone che pur si osservano nel fittili di Villanova e Golasecca: una spada con fodero di ferro: una cuspide di lancia a foglia d’ olivo con cartoccio per innestarla : frammenti d una catenella da cinturone: un anello di ferro del diametro di 95 millimetri ornato di quattro grossi globetti: frammenti di filetto o morso da cavallo, e di altri oggetti troppo guasti dall’ ossido per essere identificati. L altra tomba scoperta in un campicello chiamato Cinerina, di costruzione consimile alla sopradescritta, racchiudeva pure l’ossario, parecchi oggetti d’ argento e tre vasetti fittili di varia forma. Il cav. Crespellani ha riprodotto in disegno i più importanti degli accennati oggetti, dei quali si propone dare in apposita monografia più completa e dettagliata informazione. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Egidio Bellorini. Note sulle traduzioni italiane dell'« Ars amatoria » e dei « Remedia amoris» d’Ovidio anteriori al rinascimento, Bergamo, Cattaneo, 1892. Sei sono le traduzioni intorno alle quali ragiona l’autore; tre dell’una, e tre dell’ altra operetta ovidiana. È parte di più ampio lavoro sulle traduzioni italiane antiche di tutte le opere d’ Ovidio, che egli si propone mandare in breve alla luce. Tutte queste traduzioni sono in prosa; salvo una dell’^rj amatoria che è in versi e fu pubblicata sul cadere del secolo XV, con posteriori ristampe. Il Zambrini poi nel 1850 dette fuori uno dei volgarizzamenti dei Remedia amoris, giovandosi dei codici Riccardiano e Magliabechiano. In queste note il Bellorini esamina con diligenza il contenuto dei manoscritti sui quali ha condotto le sue indagini ; ne rileva la parentela e le differenze; tocca del testo e delle chiose; ricerca il tempo in cui furono scritti, e si ftrma sopra i volgarizzatori a cui vennero attribuiti. Mancano invero argomenti di fatto per determinare quando siano state eseguite le traduzioni; ma con assai probabilità sono da ascriversi alla GIORNALE LIGUSTICO 319 prima metà del trecento, e alcuna forse agli ultimi del dugento: pare tuttavia accertato che non vengano oltre il secolo XIV. Quanto è degli autori nulla può dirsi con sicurezza, e i nomi messi innanzi da altri non hanno il conforto di prove irrefuttabili, tanto più che si corse un po’ troppo nelle attribuzioni, senza una piena conoscenza dei manoscritti, e senza gli opportuni confronti critici. Riesce altresi difficile determinare se il volgarizzatore e il chiosatore sono sempre una persona sola. Queste le conclusioni dell’A., il quale mostra larga e piena conoscenza della materia., buon metodo, e assai diligenza bibliografica e critica; ragionevole quindi la speranza che l’intero suo lavoro sia ben fatto, e riesca utile agli studiosi. Della tirannia dei Ferrero-Ficschi principi di Masscrano. Notizia storica di Gaudenzio Claretta, Torino, Paravia, 1892 (Estratto). I prigionieri fatti dai francesi alla battaglia di Staffarda morti nel quartiere della cavalleria a Pinerolo 1690-1691 per Gaudenzio Claretta, Roma, Voghera, 1892 (Estratto). Sugli statuii di Bene Vagienna. Nota di Gaudenzio Claretta, Torino, Paravia, 1893 (Estratto). Le brutture e le infamie perpetrate da quella famiglia di tirannelli, che tenne la signoria del feudo ecclesiastico di Masserano, sono narrate con penna rovente dall’A. Il quale, giudicando giustamente l’ufficio della storia, non attenua, nè stende veli pietosi ; ma dice quella dura e severa verità che scaturisce dai documenti. E questi ci porgono le prove manifeste di nequizie inaudite da parte di quei feudatari, specie di Francesco Filiberto, a cui facevano degna corona altri minori signorotti delle vicinanze; nequizie delle quali, doloroso a dirsi, fu macchiata altresì la moglie di lui pur uscita di famiglia marchionale. Episodio curioso ed importante, che illustra per via della storia, l’ambiente descritto così efficacemente dal Manzoni, in mezzo al quale campeggiano personaggi e tipi che resteranno immortali. Ed è notevole il rilevare che stanca la pazienza dei sudditi si sollevarono contro i signori; ma vennero a patti e si sottomisero nel seicento, mentre a mezzo il secolo successivo assaltarono vigorosamente il castello, segnando la fine di quell’iniquo govarno. I tempi evidentemente erano mutati. 1 morti da valorosi meritano sempre giusta ricordanza ; onde ha fatto bene il C. a pubblicare la nota dei prigionieri che lasciarono la vita per ferite nella memorabile giornata di Staffarda. Succosi cenni intorno al-1’ andamento della battaglia, e al punto decisivo che determinò la vittoria 520 GIORNALE LIGUSTICO dei francesi, precedono il documento singolare, tratto dai necrologio della chiesa di S. Donato in Pinerolo. Porge argomento ai terzo opuscolo del Claretta la presentazione da lui fatta all’Accademia delle scienze di Torino degli Statuti di Bene Vagienna, messi in luce a spese di quel Municipio, e per cura di Giuseppe Assandria. Egli dà una distesa notizia del contenuto di questo volume, toccando delle disposizioni principali, più curiose di que’ capitoli, messe in relazione con quelle di altri statuti di comuni piemontesi. Rileva infine la bontà dell’opera illustrativa dovuta all’editore. Francesco Foff ano. Marco Musuro professore di greco a Padova ed a Venezia, Venezia, Visentini, 1892. (Estratto). Un letterato italiano del secolo XVI (Rinaldo Corso), Bologna, Fava e Garagnani, 1892. (Estratto). Di questo dotto umanista cretese parecchi hanno tenuto parola ; nessuno però aveva fino a qui illustrato con chiarezza quel periodo importante della sua vita, in cui fu insegnante a Venezia ed a Padova. L’A. sopperisce a questa mancanza, non solo richiamando l’attenzione degli studiosi sopra documenti mal noti e non esattamente interpretati; ma producendone alcuni inediti assai notevoli. In questa guisa gli riesce agevole ristabilire i dati cronologici dell’ufficio ch’egli tenne, lumeggiare il suo carattere, e dar rilievo alla stima in cui era tenuto. Rinaldo Corso, che dà argomento all’altro scritto del Foffano, è uno di que’ molti scrittori del secolo XVI che fa parte della numerosa schiera de’ mediocri. ÌSiato da un soldato valente e assai noto a’ suoi dì, non si pose sulle orme del padre; studiò giurisprudenza, e per le naturali influenze dell’ambiente in cui trasse la sua giovinezza, si piacque di studi letterari. Le traversie domestiche (fu due volte tradito dalla moglie) gli volsero Γ animo all’ascettismo; onde, divenuto ecclesiastico, morì vescovo. La memoria di questo letterato è opportunamente rinfrescata dall’A., il quale, pur tenendo conto di quel che se ne era detto, non esattamente nè pienamente da altri, ha narrata di nuovo la vita di lui, rilevandone le notizie dalle opere sue edite ed inedite, e da fonti e documenti contemporanei. In fine ha pfodotto come appendice alcune rime ascettiche tolte da un manoscritto della Biblioteca Universitaria di Bologna. Egli promette di pubblicare una lettera del Corso « interessantissima per la storia del costume in Italia», che si conserva in un codice Marciano, la quale dovrebbe essere quella stessa che nell’ elenco degli scritti si vede indicata come diretta a Gio. Andrea D’Oria; forse qui avrebbe trovato più opportuno luogo. Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO 32I UN EPISODIO LETTERARIO" ALLA CORTE DI CARLO EMANUELE I. I POEMI SULLE QUATTRO STAGIONI DELL’ANNO. Parte Prima. A nessuno di quegli studiosi che discorsero della corte letteraria di Carlo Emanuele I, sfuggi il curioso episodio del succedersi in breve giro di tempo di alcuni poemi sulle stagioni dell’anno, la cui serie, inaugurata dal Bolero colla Primavera, proseguita da Lodovico D’Agliè coll’Autunno, e, particolare men noto, continuata dal Corbellini coll’ Estate, ebbe un regale compimento co\\’ Inverno di Carlo Emanuele 1. Ma come il campo che conveniva percorrere era assai vasto, nè essi intendevano soffermarvisi a lungo, così accadde che uno scarno cenno bastò a compendiare quell’episodio che pure era degno di più ampia menzione. Poiché nel mentre esso è sicuro indizio di una rigogliosa fioritura di poesia didascalica alla corte di Carlo Emanuele, nello stesso tempo presenta, per così dire, all’opera alcuni personaggi che di questa corte furono in allora sostegno e decoro e strumento efficace. E invero, a non parlare di Carlo Emanuele 1 che ne fu il mecenate, noi vi troviamo come attori il Botero, il quale in così alta fama crebbe come storico e statista che ne rimase fioca la sua rinomanza di poeta; egli che se ne compiaceva tanto! Vi troviamo Lodovico D’Agliè, rimatore elegante ed aggraziato, favorito di Carlo Emanuele I e suo collaboratore negli svaghi letterari; ed infine Aurelio Corbellini, oratore sacro, facondo ed abbondante versaiuolo, teologo del Duca ed eco presso di lui delle miri Giorn. Ligustico. Anno XX. 21 322 GIORNALE LIGUSTICO aspirazioni delia Chiesa. Per tali riguardi ci parve che l’episodio meritasse che ci rifacessimo da capo a tesserne ia storia con un breve studio, nel quale, dopo di avere detto dei personaggi che vi agirono, ne esaminassimo in seguito più da vicino i poemi. I. La Primavera di Giovanni Botero. A mezzo agosto del 1606 i giovani principi di Savoia ritornavano presso il loro padre Carlo Emanuele dopo un lungo ed amaro esigilo in Ispagna, al quale li avevano costretti le ragioni di Stato. Tornavano tra la gioia del Duca e dei sudditi ed i canti dei poeti massimi e minori, accolti con un tripudio di feste che per più giorni echeggiò fra le balze del Piemonte da Nizza a Torino. Francesco Andreini, che a quel tempo si trovava in Torino per compiere il mesto officio di presentare al Duca le lettere d’isabella, sua consorte, rno-ta poco prima a Lione, per dar segno al potente mecenate della sua servitù, si assunse allora Γ incarico di narrare il lieto avvenimento con un canto in verso sdrucciolo assai prolisso e sbiadito (1). Tornava coi principi un arzillo vecchietto, che (ij Intorno a Francesco Andreini veggasi D’Ancona, Origine del teatro italiano, Torino, 1891, vol. II, p. 482 II capitolo dell’A. si conserva manoscritto nella Biblioteca Nazionale di Torino, cod. N. VI. 31, cd è intitolato : Il felicissimo arrivo del serenissimo D. Vittorio, principe di Savoia, insieme col serenissimo D. Filiberto suo fratello, nella famosa città di Torino, descritto in verso sdrucciolo da Frane. Andreini, comico geloso, detto il Capitano Spavento. Il breve componimento è dedicato al Principe Vittorio. Nella lettera che lo accompagna l'Andreini si scusa di avere adoperato « il verso boscareccio e sdrucciolo ». « Sapeva io benissimo — così egli prosegue — che conforme alla grandezza di giornale LIGUSTICO 323 con giovanile vigore sopportava il peso degli anni, delle brighe quotidiane della sua carica ed ancora della fama diffusa, si può dire, in tutto il mondo civile dalle numerose edizioni e traduzioni della sua Ragione di Stato e delle Relazioni Universali (1). Erano già più anni che Giovanni Botero prestava i suoi servigi alla corte di Torino in qualità di precettore dei principi. Carlo Emanuele Γ aveva chiamato a questo alto ufficio verso il 1600, e quando nel 1603 le sue mire politiche lo consigliarono a mandare i figli in Ispagna, egli volle che ' · A. S. doveva descriverlo in verso heroico ; ma perchè è meglio 1 accennar le cose dei grandi che il non raccontarle come si deve, perciò mi sono rimaso da simil impresa, lasciando a questi nobilissimi ingegni taurini il ridirle con altro stile, essendo eglino nella poesia versatissimi ». Per maggiori notizie sul componimento dell’ A. ved. un articolo del Neri, nella Ganetla Letteraria, XII, 41, e Lanza, Un capitolo ined. di F. A. ecc., Pinerolo, 1889. (0 11 Claretta pubblicò nella Miscellanea di Storia italiana, vol. I , pag. 388, una lettera del Botero al Duca datata da Vagliadolid, il 20 mar^o 1607. Se la data fu riportata esattamente, converrebbe credere che il Botero si separò dai principi alle sue cure affidati e continuò a rimanere in Ispagna dopo la loro partenza; ma poiché dal contesto della lettera stessa risulta che il Botero era tuttora coi principi, di cui egli parla come di persone presenti, cosi noi temiamo fortemente che sia incorso errore nella trascrizione della data, e che si sia scambiato un j per un 7. Veto è che 1 Orsi, Saggio biografico e bibliografico su Giovanni Botero (Mondovì, 1882, P- 37)i tratto in inganno dal Danna, Lettere inedite di G. Botero con una relazione dell’ andata e dimora dei Principi Sabaudi in JSpagna (Torino, 1880), pone l’arrivo dei principi in Italia nell’agosto del 1607: ma qui 1’ errore è manifesto, poiché i cronisti contemporanei accennano chiaramente all’arrivo dei principi in Torino nella metà d’agosto del 1606: cfr. Memorabili di Giulio Cambiano di Ruffia, in Miscellanea di storia italiana, vol. IX, p. 303 ; cfr. anche Ricotti , Storia della Monarchia Piemontese, Firenze 1865, voi. Ili, p. 370. D’altronde a togliere ogni dubbio, basti il ricordare che il Botero dedicò al Duca la sua opera i Capitani (Torino, 1607) con lettera datata «di casa, alli 4 di luglio 1607». GIORNALE LIGUSTICO il Boterò li accompagnasse e li sorreggesse colla sua esperi-mentata prudenza. Cosi anche il Botero dovette assoggettarsi alle angustie ed ai disagi del lungo viaggio, ove la scarsa soddisfazione, che gli provenne dalle testimonianze di stima de’ più alti personaggi spagnuoli, gli fu amareggiata ad usura e pel dolore della morte del principe primogenito, e per la nausea della bassa guerra, che gli movevano gl’ invidiosi cortigiani addetti al seguito dei principi (i). Le calunnie di costoro non valsero però a togliergli il favore del Duca, che lo serbò nella sua carica in Ispagna, e, dopo il ritorno, lo riconfermò come precettore dei principi Maurizio e Tomaso. Il Botero non si ritrasse dalla corte di Torino cosi presto come pare che altri creda, poiché ancora nel 1610, quando già toccava 1 settantanni, egli attendeva ad educare i principi di Savoia (2). Furono questi pel Botero anni di tranquillo ed onorato riposo. Vinta ornai Γ invidia dei cortigiani, egli era tra i più accetti al Duca nella schiera di filosofi e letterati di cui questi amava circondarsi, e per unanime consenso era riconosciuto come uno tra i luminari della corte (3); inoltre, sorte serbata a pochi, checché si dica della munificenza di Carlo Emanuele veiso i letterati, il Botero godeva di un discreto compenso pe’ suoi servigi di precettore, che gli erano retribuiti in ragione di 1200 lire annue. È poi noto che il Duca gli aveva fatto (1) - Sulle angustie d'ogni natura sofferte dal Botero in Ispagna gettano luce le sue lettere edite dal Claretta e dal Danna. (2) Intatti nei Registri dei conti della casa dei principi abbiamo trovato la nota degli stipendi pagati al Botero nella sua qualità di precettore sino al 1610. 11 Registro dei conti per l’anno 1611 non ci è pervenuto; in quello del 1612 il Botero non è più ricordato. (3) Sono noti i versi con cui il Marino nel Panegirico di Carlo Emanuele ci presenta il Duca in atto di apprendere dal Botero la dottrina aristotelica. Altri onorifici accenni al Botero, fatti da scrittori contemporanei, furono raccolti dal Napione, Elogio di G. B., in Piemontesi illustri, GIORNALE LIGUSTICO cedere dal figlio terzogenito, Emanuele Filiberto, Γ abbazia di S. Michele, alla quale più tardi il Botero rinunziò in favore del principe Maurizio. Dopo ciò si comprende come il Botero potesse motteggiare sul misero stato dei poeti, dicendo che per farli cantare conveniva mantenerli magri ; ma se ne arrovellava un affamato rimatore, Francesco Antonio Olivero, che in un Discorso per le sue Rim e giovanili e senili,, indirizzato al Duca, detto del motto del Botero, così proseguiva : « ... Quantunque non sono poeta, ma leggista, non ho mai veduto nè inteso ch’egli (il Botaro) poetasse, avanti che il ser.m0 Carlo Emanuello... a imitatione d’altri gran Principi, Regi e Imperatori virtuosi, ch’aprir le mani a diversi letterati, cono- t. I, Torino, 1781, p. 245, e dall’Orsi, op. cit., p. 28. Ma quanto agli insegnamenti dello Stagirita che il Duca ascoltava dal Botero, non crediamo inutile riferire per esteso un sonetto che serve loro di commento e che taluni indizi potrebbero far ritenere come opera del Duca stesso: J’ay tourné tout le monde et je n’y tréuve rien, Jusques dans ses entrailles je me suis voulû rendre, Voulant de son trésor une poignee prendre, Mais je l’ay trouvé vuide de ce, qu’on croyoit sien. Et alors je m’escrie: O Estagirien, Vous nous voulez icy une doctrine apprendre, Et une fausitè ainsy faire comprendre Qui ne peut subsister, et l’ay connu tresbien. Vous voulez de ce monde rien n’y puisse estre vuide. Et je ne comprend chose dans sa capacité, Ce ne sont que des fables l’histoire de Roy Mide. Il n’y a dans ce creux que toute obscurité, Vous nous voudriez bien estre un’ignorante guide Nous faisant renoncer a cette vérité. 11 sonetto si trova nel cod. 297 della Bibl. Reale di Torino (fase. 53), ed è scritto dalla stessa mano con cui furono copiate altre poesie del Duca contenute nel medesimo cod. 297 (per es. il noto sonetto Vous me donnei le monde et l'on me relient Suse). Oltracciò, e 1* intonazione epigrammatica del sonetto e la sua formi ci sembrano tutte proprie di Carlo Enunuele I. ... ■> 326 GIORNALE LIGUSTICO sciuta la sua virtù, P arricchisse, acciocché dopo il servitio di Dio e dopo molte felicissime fatiche, non havesse a pensar ad altro che a palesar gli occulti talenti, anzi communicar altrui l’indicibili e l’incredibili ricchezze dell’animo, eh’a mezzo verno degli anni suoi, qual aquila ringiovenendo e qual fenice rinovandosi, ha prodotto una bella, fiorita e delitiosa Primavera » (i). Le querele del povero poeta non sortirono (i) Abbiamo riportato il brano del Discorsa dell’ Oliveri si perchè si riferisce al poeta della Primavera, si anche per ricordare uno fra quegli umil. rimatori della Corte di Torino, a cui se furono scarsi i favori del principe, lo furono ancor più quelli delle Muse. Il padre deilOliveri, che era segretario del Duca, aveva voluto fare un legista del nostro poeta. Ma il giovane badava più a far versi che a studiar le pandette, e prima che tosse promosso al dottorato aveva già composto un volume di rime amorose. Nel 1601 diede alle stampe alquanti sonetti, i quali, col seguir degli anni essendo cresciuti a dismisura, formarono due volumi, poi raccolti sotto il titolo pomposo di Ghirlanda di gigli e rose.... conteste nel Giardino de gli honori di due serenissime, an\i potentissime case di Savoia e d’Austria e dedicati a Carlo Emanuele I con una lunga lettera che reca la data del 15 agosto 1609. In fine a questa Ghirlanda leggesi il Discorso per le rime giovenili e senili, dal quale abbiamo tratto il brano riguardante '-1 Botero. L’ opera poetica dell’ Oliveri fu rivolta per la maggior parte ad esaltare la Casa di Savoia. « Dedicai la mano, la penna e l’ingegno alla serenissima Casa di Savoia, giubilai dei primi suoi gloriosi imenei, ammirai le grandezze di due felicissimi sposi, sospirai la morte della serenissima Infanta, piansi quella del serenissimo principe Filippo Emanuel, provocai gli altri serenissimi principi all’ imitatione de’ loro singolarissimi esempi » — così scrive Γ Oliveri ne’ suoi Discorsi morali e politici, composti verso il 1612; discorsi che sono essi stessi una glorificazione di Carlo Emanuele. Così la Ghirlanda come i Discorsi si conservano manoscritti presso la Biblioteca Nazionale di Torino, cod. N. VII. 42 e L. V7. 52. Nel corso di questo studio avremo occasione di ricordare alcuna tra le rime dell’Oliveri; per ora ci limitiamo a segnalare i Trionfi d’amore, castità, morte« fama, tempo, eternità, fatti a somiglianza de’ Trionfi petrarcheschi, e una descrizione in ottava riina della Primavera, dell’Estate, Bell’Autunno e dell’inverno. GIORNALE LIGUSTICO l’effetto desiderato, chè, più tardi, nel 1621, l’Oliveri si rivolse di bel nuovo al Principe, implorando che venisse in soccorso alla sua miseria, la quale doveva essere ben squallida, se, com’ egli scrive, dato fondo ad ogni altro avere, non aveva salvato che la libreria, « come in fiera guerra Epaminonda lo scudo » (1). Ma i’ affermazione dell’ Oliveri che il Botero non avesse mai scritto versi prima che lo riscaldasse il favore di Carlo Emanuele, non era interamente conforme al vero. 11 Botero aveva sempre professato un vivo amore per la poesia e ne aveva dato molteplici prove (2). « Fin dalla sua gioventù noi lo troviamo intento a scrivere un poema latino; mentre era a Milano, scrisse molte poesìe latine, di cui alcune si conservano manoscritte nella Biblioteca Ambrosiana, fondata appunto in quel tempo dal cardinale Federico Borromeo; poesie indirizzò a tutti i suoi amici; e in quasi tutti i suoi libri ne fa entrare più 0 meno felicemente qualcuna » (3). E si può aggiungere che qualche componimento poetico del Botero si legge ancora in alcuni codici delle biblioteche torinesi (4). Ma un vero fervore lo assalse soltanto dopo il suo ritorno dalla Spagna, negli ozii della corte di Torino. Vult hilares animos, tranquillaque pectora carmen, (1) In una lettera al Duca che è unita al cod. L. V. 52. (2) Osserviamo però che anche il Gromis espresse lo stesso concetto nel suo Discorso circa l’tcctlìen\a della Primavera di mons. G. Botero, che precede il poema nella ristampa del 1609. (3) Orsi, op. cit., p. 51. (4) Alcune di queste rime furono segnalate dal Vernazza nelle sue An-notazioni al Sillalnis scriptorum Pedemontii del Rossotti, le quali si conservano manoscritte presso la Biblioteca del Re in Torino. Un sonetto del Botero trovasi nel cod. 298 della stessa Bibl., e tratta della natività del Principe. Com. : Ritorna primavera e ’l verde ammanto Spiega di luce e di vaghezza adorno. 328 GIORNALE LIGUSTICO ricordava Γ Oliveri a Carlo Emanuele. In questi anni a'dunquej dal 1607 al 1609, pur non trascurando altri studi, e il pro^ vano un Saggio dell’ opera dei. principi e capitani illustri (i), le Relazioni di Spagna, dello Stalo della Chiesa, ecc. e i Detti memorabili, usciti in quel tempo, il Botero consacrò il meglio del suo tempo a cantare la Primavera ed a comporre un numero stragrande di Rime spirituali sulla passione di Gesù Cristo. Onde il poeta stesso, stupito della sua fecondità, esclamava: S io m’ havessi creduto che sì pronta ■Dovessi haver a mio piacer la rima, Mi sarei messo di gran tratto prima A far del buon Gesù la croce conta. Ma lasciando in disparte le Rime spirituali, noi dobbiamo ora rivolgere la nostra attenzione alla Primavera, la cui storia e troppo mal nota, se si pensa che chi ne trattò con maggiore ampiezza, la riassunse in queste due righe: « Una parte fu publicata nel 1607; ripublicata poi per intero nel 1609 dal Gromis colle sue Rime spirituali » (2). Assai più cose restano a dirsi su questo argomento, e noi le verremo esponendo bre-vemente, onde, chiarite le sue vicende, si conosca più dappresso quest’ opera che fu accolta a’ suoi tempi con tanto plauso e trovò cosi lungo seguito d’imitatori. (1) Il saggio fu dal Boterc concesso in dono a Gaspare Murtola, ohe io diede alle stampe dedicandolo al principe Vittorio di Savoia. Il Murtola, che già in questa dedica si dichiara riconoscente dei benefici ricevuti nella Corte di Torino, tu poi creato segretario del Duca nell’ottobre del 1607. Ne abbiamo trovato il decreto di nomina nel Controrolo Finanze, (1607-8), f. 141: « Il duca di Savoia al Cons. di nostra Casa salute. Havendo noi ritenuto al servizio nostro primo secretario Gaspare Murtola et accordatoli due libre o siano rationi oltre gli altri trattenimenti stabiliti,.... ordiniamo et mandiamo » ecc. Il decreto reca la data .del 23, ottobri 1607. (2) Orsi, op. cit., p. 52, p. GIORNALE LIGUSTICO 329 Poco più di un anno dopo che il Botero era giunto a Torino, la Primavera usci per le stampe del Tarino nella sua prima e più semplice redazione. Il primo di novembre del 1607 il Barroeri Γ aveva di già corredata di opportune annotazioni, le quali egli presentò ai lettori in un col poemetto colle seguenti parole: « Non tocca a me il dar giudizio circa alla Primavera del signor Giovanni Botero, bastami il dire eh’ ella è opera sua. Non voglio però tacer quella esser piena di tanta varietà di eruditione e di concetti, che, non senza cagione, non si tosto se ne ha avuto sentore, che ognuno l’ha desiderata vedere e legger e gustare; e tra gli altri 10, che allettato dal gusto e dal piacere che ne ho sentito_____ mi .son messo a dichiarare alcuni luoghi, che mi son parsi più bisognevoli di qualche lume, i quali ho preso ardire di dar fuora, con buona gratia dell’autore ». Il Botero che, come già vedemmo, aveva la consuetudine di concedere le sue opere in dono agli amici, aveva regalato la Primavera ad Alessandro Tessauro: scelta molto opportuna, perchè il Tessauro era stato il primo in Piemonte a coltivare il genere didascalico (1), componendo due libri della Screide, che poi rimasero senza seguito. Fu questa l'unica opera di qualche peso data fuori da Alessandro Tessauro; altri suoi più brevi componimenti poetici si leggono nelle raccolte di Rime di quel tempo ed anche in codici delle nostre biblioteche (2). Il Tessauro, che allora era governatore della villa ducale di Mirafiori (3), dé- fi) Gir. Vallauri, Storia della poesin in Piemonte, Torino, 1841, vol. I, p. 202. i2i Tra le raccolte di Rime a stampa citiamo quella dell’ Oliveri del 1601; fra le raccolte manoscritte ricordiamo quella del cod. 298 della Biblioteca del Re in Torino, ove leggonsi due sonetti al Duca Sopra la statua di Pallade ritrovata presso Genova. (3) Ricaviamo tale notizia dal Controrolo Finanze per gli anni 1602 e 1603. Nel Registro dei Conti per la Casa dei principi (anni 1609 in 1610) 330 GIORNALE LIGUSTICO dico il poemetto del Botero al Duca suo signore, di cui egli era in grado di conoscere Γ amore alle lettere (i). « Parmi hora di vedere ΓΑ. V. ser.macosì scrive il Tessauro nella dedicatoria, — riposta la vittoriosa spada,.....gustare i frutti delle amate sue fatiche e spender P hore, che da gravi affari dello Stato le avanzano in leggere et in ordinare una ricchis-sima libreria, cosi di stampe come di manoscritti (2). Da sì honorata impresa invitati i belli ingegni, ianno a gara a dedicarle i loro componimenti : e molti che del proprio non hanno, si studiano di farsi con l’altrui composizioni honore. Io che nel fortunato numero di quelli non sono, procuro d’accostarmi con questi, offrendole la Primavera di monsignor Γ abbate Botero , dalla cui cortesia mi è stata concessa ». La Primavera nel suo primo assetto noverava 206 stanze senza alcuna divisione di parti o di canti. Ma non erano trascorsi otto mesi che il Botero ripresentò al Duca la sua opera più che duplicata. Questa seconda redazione della Primavera ci è conservata nel cod. N. IV7. 33 della Biblioteca Nazionale, alla quale passò, con molti altri codici, dalla Biblioteca del Re (3); vedremo infatti tra breve che il cod. N. trovammo poi segnata a debito del tesoriere una somma ricevuta dal principe « perchè gli pagasse ove sarebbe ordinato dal signor Alessandro Tessauro per la fabbrica di Mirafiori ». (1) Da quei curiosi Memorabili di Giulio Cambiano di Ruffia che già abbiamo ricordato, nel mese di gennaio 1608, si ricava che il Tessauro era incaricato dal Duca di fare incetta di libri per la sua biblioteca. (2) Per questa libreria il Duca raccolse grandi lodi dai letterati di quel tempo. Il Murtola la celebrò con distici latini, il Botero e il Marino la ricordarono con onore, nella Primavera l’uno e l’altro nel Panegirico di Carlo Emanuele; il Coppino la descrisse nelle sue Epistolae, che vedremo tra breve; 1’Oliveri ne fece argomento di un sonetto che leggesi ne’ Discorsi morali. (3) Su questo passaggio di molte opere dalla Biblioteca Reale alla Nazionale di Torino ctr. Napione, Notitie delle antiche biblioteche della Reai GIORNALE LIGUSTICO 35* IV. 33 è precisamente quello offerto dal Botero al Duca. La lettera dedicatoria, premessa al poema, è datata « di casa li 28 giugno 1608 ». « Mando — cosi comincia la lettera — a V. A. ser.ma la Primavera arricchita da me di trecento venticinque stanze, e ridotta a quel segno, nel quale, si ha da dare per quanto spetta a me, in luce». Indi (1) il Botero dichiara gl’ intenti del suo poema, tra cui precipuo quello di certificare al Duca la sua gratitudine per i benefizi ricevuti e per « le cortesissime essibitioni d’amplissime dignità, da me, per desiderio di quiete e di riposo, non accettate ». Infatti nel concetto del Botero, la Primavera, a somiglianza de\VEneide e delle Georgiche in cui Virgilio cantò indirettamente le lodi di Augusto, doveva magnificare, per via di digressioni, i fatti memorabili del Duca. Di qui il Botero prende argomento per discolparsi dell’ accusa di aver fatto soverchio uso degli episodi e delle digressioni, nonché per rispondere ad altri appunti, uno de’ quali gli era stato fatto, come scrive, alla corte di S. A. durante il pranzo. In questo lavoro d’ingrandimento la materia della prima redazione della Piimavera non subì delle trasformazioni sostanziali, chè i soli ritocchi che il Botero vi fece riguardano più che altro la dicitura; ma egli trovò modo ora di uscire in una digressione, ora di incastonare un episodio, ora di ricavare delle considerazioni morali, ora di fare qualche aggiunta, cosicché, se ci limitiamo a considerare il primo canto (poiché già nella seconda edizione il Botero introdusse la divisione in canti), esso colle sue 72 stanze corrisponde alle prime 34 della Primavera del 1607. « Casa di Savoia nelle Memorie della Reale Accademia delle sciente di Ter ino, serie I, t. XXXVI. (I) Nel seguito la lettera corrisponde a quella che il Botero premise alla edizione della Primavera del 1609. GIORNALE LIGUSTICO Così accresciuto il suo poema, il Botero lo presentò al giudizio del Duca. Questi, che soleva leggere attentamente le opere che gli venivano offerte in omaggio, prese in esame la Primavera nella sua nuova redazione e vi fece qua e là delle postille. Nel c. Ili, st. 3, ove si parla dell’uccello del Paradiso .........che senza piedi Trascorre 1’ aria e non si è visto vivo, il piincipe, da buon studioso di ornitologia qual egli era (1), scrisse in margine questo appunto : « S’inganna, che ha piedi et gambe grandi rispetto al corpo»; e dopo la st. 31 del canto I aggiunse del suo una sestina contro l’abuso del vino: Anzi chi troppo di lui si compiace Et fuori di misura ne tracanna, Resta insensato; ecc. Messosi sulla via dell’accrescere, il Botero non si fermò così tosto. Egli era persuaso (2) che « il maggiore ornamento di un’opera si è la digressione e l’episodio: ch’il dir che in questa o in quella opera ve ne siano molte, non è altro che dir che in un fregio vi sian molte 0 anche troppe perle, il che non difetto d'opera ma ricchezza d’ornamenti arguisce ». Pertanto, « non si trovando — come egli scrive — maggiore affare per le mani », assoggettò di bel nuovo la seconda redazione della Primavera a quel lavorio di ampliamento che già la prima aveva subito, finché ebbe accresciuto il poema di quasi trecento nuove stanze. Il processo con cui il poeta condusse la sua opera a tal segno, è quel medesimo che già vedemmo (i) In uno dei molti mazzi delle carte del Duca abbiamo trovato un elenco dello stesso Carlo Emanuele degli Uceli che non sono nel libro del Aldohrando et seria lono farne una giunta. (2.) E con lui molti altri. poeti del suo tempo, come potrebbe informare, p. es., la storia dell’ Adone, dell’ Amedeide, ecc. 333 per la seconda redazione; il Botero cioè non elaborò la materia della prima redazione in modo ch’essa assumesse nuova forma e nuovo assetto con uno svolgimento tutto proprio ed organico; non trasse da lei stessa le forze per ampliarla, nè v’ introdusse tali elementi che avessero virtù di agire su di essa e d’infonderle novella vita; ma lavorò semplicemente d’intarsio, cosicché le parti aggiunte possono considerarsi come indipendenti da quelle che preesistevano. Pertanto non ispen-deremo più parole a notare le differenze che intercedono tra le varie fasi della Primavera (i); ma poiché nel passaggio dalla seconda alla terza forma del poema alcune sue bricciche si perdettero per via, ne raccoglieremo taluna. Tra esse ci sembrano maggiormeute notevoli alcune stanze sulla malvagità delle corti, le quali forse il Botero omise, temendo che non sapessero di (i) Nella redazione manoscritta il canto I, conta 72 stanze; il II, 97; il 111, 124; il IV, 84; il V, 64; il VI, 90; nella edizione.del 1609 il canto I, conta stroie 163; il II, 129; il III, 145; il IV, 159; il V, 106; il VI, 107. Affinchè si abbia un concetto più chiaro dei rapporti che corrono fra la seconda redazione manoscritta e quella a stampa del 1609, le porremo a confronto nel loro primo canto. Tutte le stanze della seconda redazione furono conservate nella terza; ma quivi il Botero aggiunse la st. 7, ove si tocca del golfo di Trinità; inoltre le 17-18 , in cui si parla della origine dello scisma anglicano, la st. 28, che consiglia 1’ ardimento nelle imprese guerresche; le st. 43-58, nelle quali il poeta descrive la pompa di cui sogliono circondarsi i Polacchi nelle loro Diete e la condanna come inutile O spreco di denari; loda Stefano Baltori; le st. 62-64, in cui allude alla nave Vittoria che girò attorno a tutto il mondo; la st. 72 che reca la nota similitudine della rupe immota tra l’imperversare del verno; le st. 74-95 nelle quali il Botero si dilunga a descrivere le foglie degli alberi (notevole la st. 76 in cui si loda il Marino come primo poeta di quel tempo); le st. 97-125, ove il Botero descrive la natura della pianta Pudica e ne trae una lunga moralità che adorna coll’esempio di santa Teoliste; infine le st. 150-163, ove, a proposito dell’unicorno, il poeta esalta i meriti di Gesù Cristo. 354 giornale ligustico troppo forte agrume per qualche personaggio della corte di Torino (i). Credete a chi ne ha fatto esperimento Che questo è il duol che in corte gli altri eccede, Vederti assassinar in un momento, Quando forse speravi ampia mercede. Nè ti giovar virtù, ragion, lamento, Se ’l Signor presta a chi 1’ inganna fede. Della calunnia 1’ inventor si finge Nuovo nel caso e meraviglia infinge. O gabbia oscura, o prigion cieca e nigra; E carcere ove vien per strade aperte, Onde per chiuse a gran fatica huom migra. Ratte scese all’entrare, all’ uscir erte, E dure si che la ragion s’impigra; Nè par che il vero scorga o il dritto accerte Dentro confusion, qual d’ Etna o d’Ischia. Poco si stima, cui piace tal mischia. E più oltre: Quindi ti torna a mente quel che ’n corte Senza profitto alcun soffrir solia. Il far di notte giorno, nè mai sorte Haver d’ altra compagna che di Lia. Le notti travagliose più che morte, I giorni pien di noia assidua e ria. II desinar ad hore oscure e fosche In compagnia delle zanzare e mosche (2). La terza edizione della Primavera fu condotta a termine qualche tempo prima del giugno dei 1609; infatti il primo (1) Già dicemmo che il Botero ebbe a sostenere una fiera guerra coi> tro alcuni invidiosi cortigiani che tentavano di farlo cadere in disgrazia presso il Duca. (2) Queste stanze si leggono nella prima parte del c. VI, ove il poeta parla delle Corti. GIORNALE LIGUSTICO 335 di questo mese il Barroeri, che già aveva commentata la Primavera del 1607, dedicò al Vescovo Argenteri di Mon-dovì le sue Annotazioni alla nuova redazione del poema. Se poi poniamo mente che il Marino, rendendo cortesia per cortesia (1), tenne a battesimo la terza Primavera con un sonetto che comincia: Ben nati fior, che da leggiadro stile Scelti e composti, in queste piagge alpine, Malgrado pur di ghiacci e di pruine, In canuta stagion portate aprile; avremmo qualche argomento per credere che la Primavera fu finita nell’inverno del 1609. Ins'eme col poema il Botero diede alla luce in questo medesimo anno le Rime spirituali: 170 sonetti all’incirca, che due anni dopo uscirono raddoppiati (2). Convien dire che F età senile non aveva essicata la vena del poeta: così non l’avesse neppure intiepidita! II. L’Autunno di Lodovico D’Agliè. Dopo Flora, Pomona: alla Primavera del Botero non cardò a tener dietro l’Autunno di Lodovico San Martino, conte d’Agliè. Aquilino Coppino che in quel periodo di tempo era venuto (1) Nella serie ben nudrita di canzoni sonetti e madrigali con cui i poeiì della Corte di Carlo Emanuele accompagnarono il Panegirico del Marino quando usci alla luce nel 1608, leggonsi anche due distici del Botero. (2) Il cod. N. VII. 36 della Nazionale di Torino, intitolato: Seconda parte della Settimana Santa, al Sereniss."10 Carlo Emanuele, Duca di Savoia, il quale nel catalogo ms. di appendice al Pasini figura come anonimo, non è che la seconda parte del Monte Calvario e k Feste del Botero colle annotazioni del Barroeri (Milano, 1611). Tra il ms. e la stampa intercedono alcune varianti. GIORNAI.H LIGUSTICO da Milano ad ammirare gli splendori della corte torinese e quivi si era stretto in amicizia e col Botero e col D’Agliè, dopo il suo ritorno in patria così scriveva al poeta dell’ Autunno: « Mirimi tam cito in assiduis occupationibus, quibus ,in aula districtus es, a te confici potuisse opus illud, quod duntaxat adumbraras cum istic fui tredecim abhinc menses. Libavi tunc (quae tua fuit humanitas) purissimos fontes » (i)· La lettera è datata da Milano, il 21 gennaio del 1611; cosicché già nel novembre del 1609, pochi mesi dopo che la redazione più ampia della Primavera era uscita per le stampe, il D’Agliè si era accinto a proseguirla col suo poemetto. Nel settembre dell anno successivo 1’ opera era condotta a termine (la dedica porta la data del giorno 11 di questo mese) e dentro lo stesso anno uscì alla luce. Lodovico D’Agliè era nato in Torino verso il 1580 da famiglia nobilissima (2). A credere alle gonfie adulazioni degli (1) Aquilini Coppini, Epistolarum libri sex, Mediolano, 1615, p. 118. (2) Ricaviamo questa data dalle Notizie intorno alla vita ed alle opere di L. D' Agliè che ce ne lasciò il Vernazza ne’ suoi manoscritti. Queste Notizie, che avremo spesso occasione di citare, consistono in appunti tanto compendiosi, quanto preziosi, somministrati al Vernazza dalla sua mirabile erudizione nella storia civile e letteraria del Piemonte. Si conservano nel mazzo 47, fase. 21 delle carte Vernazziane, nella Biblioteca Reale di Torino; una copia fu posta in fronte ad un codice di canzoni e di drammi del D’Agliè, posseduto già dal Vernazza ed ora passato nella Biblioteca Reale (cod. 53); il barone Manno, con squisita cortesia di cui ci è grato dimostrar qui la nostra riconoscenza, ci avverte che nella Biblioteca dell’Accademia delle Scienze di Torino se ne conserva un’aitra copia. Tali Notizie non occupano che due o tre carte, ma sono il più ed il meglio che si possegga intorno al D’Agliè. Di esse si valse giustamente il Vallauri nella sua Storia della poesia in Piemonte, ediz. cit., vol. I, pp. 217-218 e 332. Vuoisi ancora ricordare che in quella parte del Teatro d’huomini letterati del Ghilini che rimase inedita, v’ ha pure 1’ elogio del nostro poeta, elogio che fu trascritto dall’originale per cura del GIORNALE LIGUSTICO 337 scrittori di quel secolo, ei poteva vantarsi disceso nientemeno che da stirpe regia. Il Della Chiesa consacrò speciali ricerche per istabilire Le prove della genealogia o sia discendenza dei Marchesi d’Agliè da Desiderio (i); e nel 1611, quando Y Autunno di Lodovico aveva da poco visto la luce, un noto poeta di quel tempo, il Soranzo, insieme colle lodi per la recente opera del D’Agliè unì il vanto di tali remote e nobili origini. Questi si lascia a tergo altera prole Che dei Re non invidia ai gran natali. Lodovico d’Agliè che più del sole Riluce, è detto, e mette d’auro l’ali. Quei diletti che dar 1’ autunno suole Donando sue ricchezze a noi mortali, Ei canta con sì dolce stile e grande Che ’l rimbombo n’ ha giunto in queste bande (2). Eguale concetto e con enfasi assai maggiore, espresse più tardi il Santi in una magniloquente dedica al D’Agliè di un suo libricciattolo: «Illustrissimo et eccellentissimo Domino benemerito Vernazza e di mano dell’abate G. B. Schioppalalba, insieme con altri di Piemontesi illustri. Anche questo codice, che reca il titolo : Elogi di Piemontesi illustri, si conserva nella Biblioteca Reale; l’elogio del D’Agliè si legge a pp. 183-185. Scrive il Ghilini che «questo per la nascita, per le virtù e per le lettere illustrissimo personaggio nacque in Torino », ed aggiunge che « fu ambasciatore per il Duca di Savoia Carlo Emanuele appresso il sommo pontefice Urbano Vili, nel qual carico da sè con ogni puntualità et onorevolezza sostenuto eccellentemente sodisfece a se stesso ed al suo Principe ». A questi meriti di prudente negoziatore del suo Sovrano il Ghilini aggiunge che non cedettero quelli « delle belle toscane lettere, nelle quali fu tanto copioso e ben ornato che tenne luogo tra i primi e migliori che fioriscano sotto l’italiano cielo in quelle dilettevoli discipline ». E ciò per «l’eleganza delle parole, la dolcezza dello stile, la vaghezza di spiritosi e nuovi concetti, le cose tanto ben spiegate che al vivo sono rappresentate agli occhi ». (1) Cfr. le Noti{ie del Vernazza, testé ricordate. (2) Dal poema L’Armidoro, c. XXV, st. 61. Giorn. Ligustico. Amo XX. 22 33* GIORNALE LIGUSTICO — così scrive il Santi (i) — D. Marchioni Ludovico San Martino de Alladio Magnae Crucis SS. Mauritii et Lazari, magnique Ord. Ann. Equiti, cuius regius sanguis, ut pene cum sole natus titulos splendoris a sole tantum mutuatos, quia minores impertiit,____in cuius ore musarum apes crearunt mellas, quibus urbanas apes recrearet, a cuius musa apes musae decerpant flosculos in Autunno », e così via su questo tono. Ma, a parte simili esagerazioni, non v’ ha dubbio chè la nobiltà della famiglia San Martino era di antica data. Il nostro poeta era nato dal marchese Nicolò e da Antonina Provana, gentildonna di alto lignaggio. Il Marchese Nicolò, che pe suoi meriti verso la casa di Savoia fu più tardi insignito del-1’ ordine dell’Annunziata, frequentava la corte del suo Duca e ne copriva le cariche maggiori. Nel 1582 lo vediamo ricevere in dono da Carlo Emanuele 150 scudi annui pagati dalla comunità di Carignano: dono che, dopo lungo intervallo di tempo, nel 1638 fu confermato a favore del figlio Lodovico per cr- (1 ) Il trionfante ingresso di monsig. Fr. Agost. Della Chiesa in Saluto, 1643. Senza voler entrare in simili discussioni genealogiche, osserviamo che già il CiBRARio, Notizie genealogiche di famiglie nobili degli antichi Stati : della Monarchia di Savoia, Torino, 1866, p. 11, mise in guardia contro le esagerazioni cortigianesche degli scrittori del secolo XVII, che tacevano derivare da Arduino le famiglie del San Martino: esagerazioni accolte anche dall’ Angius, Sulle famiglie nobili della Monarchia di Savoia, vol. I, Torino, 1841, pp. 414-415. Nei Discorsi sopra alcune famiglie nobili del Piemonte del Della Chiesa, che si conservano nella Bibl. Naz. di Γοιϊηο (cod. N. II. 9) non abbiamo trovato che si faccia menzione del nostro poeta ; bensì se ne tocca brevemente nelle Aggiunte ai Discorsi del Della Chiesa, che si leggono nel medesimo codice N. II. 9. Una genealogia della famiglia D’Agliè si legge in un Zibaldone di genealogie della Biblioteca Nazionale di Torino (cod. P. III. 3°)! 'n essa appare> come capostipite della famiglia, Oberto dei conti di S. Martino, figlio di Arduino II, conte del Canavese, il quale si collegò coi Vercellesi nel 1141. GIORNALE LIGUSTICO 339 dine della reggente Cristina (i); nel 1593 fu nominato maggiordomo del Duca e nel 1605 innalzato alla dignità di maggiordomo maggiore (2). Morì nel 1614, lasciando una prole numerosissima di 6 figli maschi e di tre figlie, tutte onorevolmente accasate. Il nostro poeta, che era il secondogenito della famiglia, si mise ben presto a’ servigi del Duca. Dai brevi cenni biografici che ce ne lasciò il Vernazza appare che sulla fine del 1602 Lodovico fu creato cavaliere, e nel 1603 auditore della sacra religione e ordine militare dei santi Maurizio e Lazaro; da altri documenti ci risulterebbe ancora che verso quel tempo egli era luogotenente della compagnia La Manta, e che in tale qualità segui il duca nel suo viaggio in Provenza ed in Savoia (3); ma fu soltanto nel 1606 ch’egli cominciò a considerarsi come servitore della Casa di Savoia. Infatti in una sua lettera del 25 aprile 1626 (4), nella quale si rivolge al Duca per ottenere sussidi, egli scrive: « Sono non solo vassallo, ma creatura sollevata dalla Reai mano di V. A., nè in venti anni ch’io d’ordine suo m’impiego a questa servitù ho goduto altro (1) Registrato nel Conlrorolo Finanze, anno 1638, f. 25. Da questo ordine abbiamo inoltre ricavata la data della morte del cav. Nicolò. (2) Nel Registro dei Conti della casa Ducale del 1605 è notato il pagamento degli stipendi di Nicolò D’Agliè « già nel 1593 maggiordomo ed hora maggiordomo maggiore di S. A. ». Nicolò fu creato cavaliere dell’Annunziata il 19 marzo del 1608, in occasione delle nozze delle Infanti Margherita ed Isabella; ctr. Relatione delle feste, torneo, giostra ecc. fatte nella corte del ser.m° di Savoia nelle Reali none delle ser.me Infanti, Torino, Cavaleris, 1608, pp. 94-95. (3) Nel Registro Conlrorolo Finanie per gli anni 1603-1604 è notato l’ordine di pagamento di scudi 400 a Lodovico D’ Agliè San Martino, luogotenente della compagnia La Manta per spese fatte durante il detto viaggio. L’ordine reca la data del 28 luglio 1604. (4) Dalle Lettere Ministri, Roma (mazzo 36) del R.° Archivio di Torino. 340 GIORNALE LIGUSTICO bene che quello eh’ hebbi da lei nell’occasione de’ Paralleli » (6); e cinque anni prima, il iq febbraio 1621, in altra lettera al Duca (7), il D’Agliè aveva ricordato i suoi lunghi servigi resi per ben quindici anni senza l’interesse d' un soldo. Così siamo ricondotti al 1606. In questo medesimo anno il D’Agliè, che già prima, nel 1603, aveva cantato il Ritratto delia Ser.wa Infante D. Margherita, la figlia .....di quel gran Duce, al cui governo Diè ’l Ciel d’Ausonia il varco, ed in altre occasioni aveva dato minori prove del suo ingegno poetico (8), s’accinse ad impresa di maggior lena, e, seguendo l’ispirazione del suo Duca, stese un dramma pastorale, intitolato 1 ’Alvida. « Ecco quel parto — così scrive il poeta nella dedica al Duca — il quale da V. A. Ser.wa traendo la nobiltà del suo natale fu con troppo gran privilegio alla mia ignobil cura esposto.... Così questa povera Alvida, a pena uscita dalle tenebre dell’imperfetto mio stile, se ne va di primo volo a quel sereno che le diede vita et al cui splendore illustrarsi spera. Intanto supplico V. A. che, raccordevole del mio povero stato, si compiaccia d’impiegar quel poco talento che mi diede il cielo a cosa che a lei più gradisca et a me rechi maggior occasione d’esser da lei conosciuto per di V. A. Ser.ma » ecc. ecc. (9). Secondo l’attestazione del D Agliè, il primo abbozzo del dramma 0 almeno il primo suo germe (6) Vedremo presto quale sia, molto presumibilmente, il servigio reso dal D’ Agliè al Duca ne’ Paralleli. (7) Lettere Ministri, Roma, mazzo 33. (8) Dalle Notizie del Vernazza. Il Ritratto della ser.ma Infante fu poi ristampato tra le Rime varie insieme coll’ Autunno. (9) Questa dedica dell ’Alvida si legge nel Tiraboschi , Storia della letteratura italiana (ed. Classici), vol XIV, p. 30, al quale fu comunicata dal Vernazza. Essa è datata da Torino, 15 luglio, 1606. GIORNALE LIGUSTICO 341 fu adunque gettato dal Principe stesso; e a noi non pare che tale attestazione debba essere circondata da soverchi dubbi, pure considerando che le abitudini cortigianesche di quello come d’ altri secoli possono aver indotto il D’Agliè ad esagerare la parte avuta dal Principe nella composizione del dramma. Non bisogna dimenticare che questo Principe era Carlo Emanuele I, dei poeti mecenate non solo ma amorevole seguace; e conviene ricordare sopra tutto che in quel tempo, sul principio dell’anno 1606, era stato rappresentato nel palazzo del Duca e con grande sfarzo un altro dramma pastorale (1). Non è dunque verosimile che a tale spettacolo la mente così feconda del Principe concepisse Γ idea di un nuovo dramma e che ad altri poeti egli cedesse poi la cura di svolgerla e condurla a compimento, chè forse altre occupazioni di maggior rilievo non ne consentivano allora 1’ agio a lui stesso ? L’Alvida, come la maggior parte delle opere del D’Agliè, rimase inedita. Essa ci giunse nel cod. N. VI. 44 della Nazionale di Torino, codice di mano del secolo XVII, e trascritto sotto la sorveglianza del poeta stesso, che v’ introdusse qua e là alcune correzioni. Il dramma è in cinque atti e si fìnge avvenuto nelle selve del Parco del Duca di Savoia. Imeneo fa il prologo: Queste che d’ostro e d’or penne dipinte Solcan le nubi e la stellata porta Apron del Cielo, ond’io fendo ed indoro (1) Cfr. CiBRARio, Storia di Torino, Torino, 1846, II, 413. Che la Piscatoria sia stata recitata nel gennaio del 1606, ce lo indica chiaramente un ordine di pagamento « per le cose della Piscatoria che si recitò nel « principio di quest’anno nel Castello di questa città». L’ordine reca la data del 3 ottobre 1606 ed é conservato in fronte al Conto di Federico Valle tesoriero delle Fabbriche per gli anni 1596-1606. 342 GIORNALE LIGUSTICO Di Giunone il bel velo; Quest’aurea face che lampeggia intorno Perch’emula del dì splenda la notte, Questi strali, coturni, arco e corona, Non di mentite spoglie habiti infinti. Non di furtivo honor forme bugiarde, Son dell’italo Giove alteri numi? No, no, vulgare Amor, Amor terreno Non son io già. Desso è Imeneo, ristoratore del mondo. Egli vanta a lungo i suoi meriti, indi, rivolgendosi al Duca, prorompe nella seguente apostrofe : E tu, gran Re de ΓAlpi, a le cui imprese È il cielo agone ed è teatro il mondo: Tu che t’avanzi ne’ marziali arringhi, Sprezzator di te stesso: a la cui destra Commise il Ciel l’incarco De l’Italico varco, Tu cui già vider l’infedeli torme Propugnacolo altier di santa fede, Di nobili sudor pinta la fronte, Sparso del sangue loro, Con 1’ elmo ber tra bellicosi ardori, Tu di tua stirpe altera Quasi rai di bel sol, mentre rimiri Novo splendor che ogni altro lume oscura, Godi di tante glorie e attendi nove Grazie dal fabro eterno. Atto I, scena 1. — Enarto, sorto già prima dell’alba per recarsi alla caccia, sua sola e gradita occupazione, s’imbatte in Calisiro che erra pei boschi in cerca della sua amata. Il fiero cacciatore, sprezzante d’ogni cura amorosa, tenta di distrarre il fratello e lo consiglia a fuggire amore. Ma indarno: Calisiro protesta di voler essere fedele e costante servo di Venere, la quale GIORNALE LIGUSTICO 343 Sol imprime ne’ cori D’ amorosa honestate honesti amori. Ella frena gli audaci, ella assicura I più timidi cori. Fa magnanimi i vili, I rozzi esser gentili, I vari fa costanti E continenti i più lascivi amanti. Pertanto lo invita a desistere da simili discorsi, che non potranno mai intiepidire l’ardente affetto ch’egli nutre per Alvida. Scena II. — Calisiro narra all’ amico Armillo le vicende del suo sfortunato amore. Era un giorno d’ estate allorché Alvida, figlia di Filemone, adottata poi da Alcone, se ne stava discinta e col crine disciolto, Mirabil mastro d’amorosi nodi, mollemente adagiata sulla riva di un fonte. Egli Γ ammirò e se ne invaghì; e reso audace dalla passione, già fattasi gigante, le scoperse il suo amore. .....Non consente Amore Ch’ amorosa beltade In se stessa non provi Del suo raro valor l’armi omicide. Così Alvida lo guardò pietosa, e il giovanetto s’avvide ch’ella accoglieva le sue profferte con animo benigno. Per molto tempo essi vissero Amanti taciturni, amanti amati; sino a che, in occasione delle feste di Diana, Alvida stess-i, volutolo compagno nel ballo, lo assicurò del suo amore. Ma un improvviso avvenimento venne a turbare la pace dei due giovani. Giove, sdegnato contro gli abitatori del Parco, mandò una grandine devastatrice. laonde i rettori di quei luoghi, temendo la carestia, stabilirono 344 GIORNALE LIGUSTICO Ch’ ogni straniero habitator da quelle Selve partir dovesse Sotto pena di morte. Reo de l’isiessa pena Conversare o introdur gente bannita. Colpiti da tale editto, Alcone e Alvida dovettero partire; Calisiro, rimasto solo, continuò a serbar fede alla sua amata; ma ornai, incapace di sopportare più a lungo la dolorosa lontananza, egli pure si propone di partire in traccia di Alvida. Armillo però lo invita a recarsi al tempio per averne consiglio ed ispirazione. Scena III. — Alvida, sola, vestita da uomo, è tornata al Pai co per ricongiungersi, dopo sei anni di lontananza, col suo Calisiro. O di quel gran pastore Che d’ Esperia i confin cinti da 1’ alpi con freno e con la fama il mondo, Vaghe delitie e care, Accoglietemi voi, eh’a voi ne vengo Solinga habitatrice. Scena IV. — Coribante e Solindro, vecchi pastori, rimpiangono gli antichi tempi, allorché gli uomini vivevano contenti d una innocente povertà. Ahi eh’ hanno i figli nostri Quinci sbandita ogni virtute antica ! (i) In fine si conchiude tra loro che Erinta, figlia di Coribante, vada sposa a Florido, figlio di Solindro. Scena V. — Satiro, innamorato di Erinta, si propone di (i) Chiara reminiscenza, e non sola in questo dramma, di versi petrarcheschi : La gola e il sonno e 1’ oziose piume Hanno del mondo ogni virtù sbandita. GIORNALE LIGUSTICO 345 godere del suo amore usandole violenza, allorché ella, stanca per la caccia, si ricoveri all’ombra dei faggi (i). Atto II, scena I. — Erinta si cruccia che il padre la voglia maritare. Ella è di Diana e non d’Amore, e sprezza le arti di costui. Inutilmente Elisa la consiglia a non far getto della sua gioventù, Che sol giova beltà colta per tempo, ed invano le dimostra che tutto il creato, anche le piante ed i serpi stessi, cedono alla potenza d’Amore (2). Scene II e III. — Il mago tessalo, interrogato da Calisiro, gli risponde d’inviarsi Dove Alvida soggiorna : osserva e mira Il tuo cammin, gl’ incontri e tu ne spera In toi principi il fin d’ ogni tuo male. Scene IV e V. — Il Satiro, sorpresa Erinta, sta per recarle violenza, allorché l’improvviso sopraggiungere di Enarto lo costringe a fuggire. Allora Erinta scongiura il pastore di (1) 11 motivo è tra quelli che ricorrono con maggior frequenza nei drammi pastorali : cfr. 1 'Aminta, II, 2. E citiamo a preferenza il dramma del Tasso, poiché ci sembra che altre scene del Y Alvida vi possano essere ricondotte con frutto. Cosi la scena I, 2, in cui Calisiro narra ad Armillo come gli si svegliò nelPanimo 1’ amore per Alvida e gli chiede conforto alle sue sventure, ricorda la se. 1, 2 de\Y Ambita·, cosi la scena II, 1 MY Alvida si può avvicinare alla 1.* dell’atto 1 del dramma del Tasso. Ma dove più ci sembra che il D’Agliè abbia seguito il Tasso si è nell’atto IV, se. 4, quando Enarto, spinto dal suo disperato amore per Erinta, si getta a precipizio dall'alto d’un muro nel Parco sottostante; ma la fortuna benigna gli fa trovare nella sua caduta un mucchio di fieno, che gli para il colpo; cosi il pastore sopravvive e riesce ad intenerire la ninfa. In egual modo Aminta tenta por fine ai suoi giorni, ed un caso consimile lo salva e lo conserva all’amore di Silvia. (2) È il medesimo concetto che Dafne svolge con tanta ampiezza, ma con poca efficacia, alla ritrosa Silvia (Aminta, I, 1). 34 — Doi vecchi cantando (2). (Postilla: Vara e il francese vestiti conforme agli altri ma di color più scuro). ^c· 2-° Bellonda alla fonte recitando. ^c· 3·’ — Il pastore trasformato risponde cantando. Atto 3, se. i. — Dorillo fa un soliloquio con Echo. Se. 2.a —.............. Queste indicazioni, per quanto scarne, sono più che baste-"voli per farci conoscere che Γ incarico di rappresentare il dramma fu affidato ai comici Accesi. Il Fritellino è nome ben noto agli studiosi del nostro antico teatro; così si chiamava Pier Maria Cecchini, capo, a quel tempo, della compagnia degli Accesi; Flaminia, come si esprime brevemente la postilla, era il soprannome della Cecchini, moglie di Pier Maria e prima donna degli Accesi (3); Cintio ne fu, come vedremo, uno dei comici più noti. Un documento pubblicato dal Bar- (1) E le istruzioni e le postille sono di mano del D’Agliè. (2) L’atto secondo, così come il primo, si inizia con una canzonetta (0 colli aprici, — Selvaggi boschi). (3) Intorno a Pier Maria ed a Flaminia (od Orsola) Cecchini fornisce notizie ed indicazioni il D’Ancona, Origine del teatro italiano, vol. II, Torino, 1891, p. 532, ed altrove. Cfr. pure Paglicci Brozzi , Il teatro a Milano nel sec. XVII, Milano, 1891, pp. 24 sgg. GIORNALE LIGUSTICO 367 toli (1) non ci lascia poi alcun dubbio che la compagnia degli Accesi non si trovasse a Torino nell’agosto del 1609. Infatti il 4 agosto di questo anno Virginia Andreini, detta Fiorinda, così scriveva da Torino al cardinale Gonzaga: «.....Saprà poi V. S. 111.™" come io ho gettato in terra ogni trofeo eretto dalla sig.ra Flaminia, e tanto se 1’ è slungato il naso, quanto lo haveva superbo alzato. Ella è odiata da tutto Torino per la sua alterigia et frenesia nell’ amor di Cintio, invero con grandissimo suo obbrobrio.....Tutti i compagni sciamano della temerità sua e di Frittellino, et già Γ harieno impiantata s’io non giungeva a Torino » ecc. Già nel 1605 i Cecchini erano venuti a Torino, chiamativi dal Duca di Savoia. In un raro opuscolo dal titolo: Prologhi di Flaminia Cecchini, comica accesa, recitati al sereniss. signor Duca di Savoia (Torino, Pizzamiglio, 1605) (2)> ne^ prologo II, così canta la Flaminia: Felice a chi ubbidir a’ vostri cenni È dato in sorte, 0 da vicina parte O da lontana. Alto Signor, siam noi Ch’ a vostra servitù gli spirti accesi Habbiam di Mantoa bella ; accesi servi (1) Scenari inediti della commedia dell’arte, Firenze, 1880, Introduzione, p. 138 11. (2) Ne abbiamo trovato l’indicazione in Manno-Promis, Bibliografia storica degli Stati della R. Monarchia di Savoia, Torino, vol. I, 1884, p. 55. Un esemplare dell’ opuscolo è posseduto dalla Biblioteca delFAccademia delle scienze di Torino. Come altri poeti, suoi compagni in arte, la Flaminia petrarcheggia a tutto spiano. Il prologo I, in cui la Cecchini si rivolge al Duca di Savoia « in habito di pace », comincia cosi : Chi mi turba il riposo? E chi, nemico Del bene altrui, del mio tranquillo stato, A suon di tromba minacciosa sfida Questo popol di novo al fero Marte? Che fan qui tante peregrine spade? 368 GIORNALE LIGUSTICO A le cui orecchie a pena il suon pervenne Della vostra domanda, ove in diporto A l’alma reggia insubre i giorni e l’hore Trahevam de Γ estivo e caldo Cielo, Ch’ai viaggio di noi ognun s’accinse (i). Se dai comici passiamo ai musici ricordati nelle postille, ci troviamo ancora fra gente conosciuta. E cominciando dal Varrà che doveva cantare « col francese » la canzonetta dei due vecchi, ce ne somministra sicure notizie il seguente Decreto di Carlo Emanuele I del 12 giugno 1609: « Havendo noi ritenuto Pietro Antonio Varra del luogo di San Germano ... per musico nostro di camera ordinario et accordatogli per suo trattenimento tanto per detto grado che in consideratione di soa servitù fattaci da alcuni mesi in qua ducatoni otto da bianchi vinti o sia livre quatro ogni mese,... ordiniamo et mandiamo che » ecc. (2); e nel Registro dei Conti per gli anni 1619-21, sotto l’anno 1620 (n. 85) troviamo ancora segnato un sussidio elargito al Varra per le spese incontrate nel suo ritorno dalla Savoia. Quanto agli altri musici, Antonio, Ottavio e Filippo, ricordati nelle postille, non sapremmo identificarli con piena sicurezza; diremo soltanto che i Registri dei Conti fanno cenno, sotto l’anno 1606, di un Antonio Tesauro; nell’anno 1609, di un Antonio Bernardo, e nell’anno 1610 di un Filippo Re-cenini, tutt’ e tre musici di camera (3). (Contìnua). Giuseppe Rua. (1) A questo proposito vuoisi ricordare che Fed. Zuccaro nel suo Passaggio per Italia... all'anno 1605 (cfr. D’Ancona, op. cit., p, 534 n-)> scrive di alcuni comici, fra cui il Frittellino e la Flaminia, mandati alla Corte di Savoia dai principi di Mantova. (2) Controrolo Finanze (1608-1610), a c. 268. (3) La monografia dei signori Dufour-Rabut, Les musiciens, la musique et les instruments de musique en Savoye du XIII au XIX siècle, Cham-bery, 1878, non contiene alcuna indicazione intorno a questi musici. GIORNALE LIGUSTICO 369 LA PASSIONE ED ALTRE PROSE RELIGIOSE IN DIALETTO GENOVESE DEL SEC. XIV Edite di su il Cod. D.bis 1. 3. 19 della Bibl. Civica Beriana di Genova. (Continuazione vedi pag. 368) Como Iuda inteixe che christe fo condanao a morte elio si reixe li xxx dinai, e non possando auei christe si se apicha per la gora. [ C L1v·] Quando Iuda scarioth uide che chmie so maistro era condenao a la morte, elio si se penti lo dolento fortement! de lo tradimento che elio a faito, e si preixe quelli xxx dinai chi era lo prexio dello traimento e si se ne anda alli zue, et si ge disse, segnoi e o fortementi pechao che e 0 trayo lo sangue iusto, e si ue priego che uoi me rendai lo me maistro, e prendi li uostri xxx dinai. Et lantora li zue si se ne fen beffe digando za tosto tu nederai corno noi te lo renderemo, e[zo] che noi no faremo (i). E lantor uegando Iuda che li zue non lo uoreiuan render, anti lo beffezauaw, lantora se desparti lo mixero da la misericordia de de, e ssi buta uia la monea dello prexio dauanti alli zue, e si preixe una corda e si se ne fe un lazo e si se misse lo cauestro alla golla e si se apicha elio mesmo, e desperasse dalla mixericordia de de, perche elio si e danao alli tormenti, e allo fogo de lo inferno, che za senza comperacion fo magior peccao amazarse si mesmo, cha tradir chm/e, e se lo mixero fosse pernio corno san piero, e non se fosse apichao, ancora dee 1 auereiua perdonao. Quando li zue auen uisto che Iuda aueiua butao in terra la monea allo tempio, elli si preixen [CLIIr ] quelli dinai, e si ne acatan uno campo, e si lo ordenan a sepelir li pellegrin, segondo che uno propheta aueiua anunciao. Como la vergen maria odi che lo so figio era condenao a morte, ella se ze infra le gente e cun grandissimi lamenti ihamaua allo so figio. Quando fo daita la sentencia de chm/e, li caualieri si fon aparegiai, e li seruenti de pilato (2), e si preixen chmie, cossi incoronao de spine, e ssi (1) Correggi ne faremo, come in A. (2) Invertito l’ordine delle parole; corr., come in A: quando fo dayta la sentencia de chrwte si fom appareglay li caualrr e li sfruewti de pillato, e si prexem ecc. Giorn. Ligustico, Auuo XX, 24 370 GIORNALE LIGUSTICO y auen aparegiao una croxe monto grossa, e si la missen son la spalla de chmfe, (: si lo menan allo monte clauario, zoe in lo logo donde se fa-xeiua la iusticia delli layroiw. Et quando la madareina aue uisto e cognossuo che !i zue si menauan christe alla morte, ella si cria forte alla uergen maria digando, or tosto prestamenti dixe la madareina, Veiue madona che lo to figior lo meinan alla morte, et se tu lo uo zamai ueder, si te sforza aora de uegnir presto. Quando la uergen maria odi queste nouelle pensai o uoi done chi auei figioi, se ella aue angossa, e Ho dolor che ella aue, e se sforzaua de parlar tanto era lo amarituden, e la dona incomenza a criar, e [CLIIV·] in ata uoxe alli zue digando, O crudelissima gente, e senza mixericordia, zomai abiai pietai de lo mio figior, e prendi in so cambio la dolenta maire, e se uoi no uorei allo figior perdonar, dai la morte alla soa maire cum lo figior insieme. La maire goardaua allo figio e ui che elio non poeiua rezer la croxe. Et lantora la dona si se misse inter la spressia per poei prender la croxe da le spale de so figio, ma quella maruaxe gente si Ila rebutauan de fora, e in compagnia della uergene maria si eran monte done de ieruxalem qui seguiuam eh viste, e uegando lo pianto amarissimo che la dolenta maire faxeiua (2). Et quando ih«u chmfe uide la soa maire pianzer, e quelle done, elio si se uoze inuer quelle done, e si ge disse O figiore de ieruxalem no» pianzi souer mi, ma pianzi per uoi, e per li uostri figioi, che e ue digo in ueritai che uera ancora tempo, che se dira beae quelle femene sterille chi non an portao figioi, e le mamelle le quai non aueran laitao. Et queste cosse fon compie quando ieruxalem fo preixa da vespexian imperao per forza che fon morti delli zuedei de ferro & si perin de fame più de mille miria zue che [CLIIIr·] uareiua una testa de uno animale più de ccc dinai, e otrazo ne fon uendui noranta sete miria a raxon de xxx per uno dinar, che cossi corno eh mie fo uenduo per xxx dinai, cossi ne fon uendui elli xxx per uno dinar, e questo gi auegne per lo peccao che elli fen contra a ihesu chr iste. Como christe andaua cun la croxe in spalla per crucificarlo e non possandola rezer si la den a simon abarimatia. Quando chmfe se menaua allo luogo della iustixia, segondo che e o cointao, elio si portaua la croxe son le soe spalle la quar pexaua monto, (2) Manca qni la proposizione: si piawzeam forte elle, come in A. GIORNALE LIGUSTICO 371 e chr iste si era monto seiue, e laso per li tormenti che elio aueiua sostegnuo la note, che quaxi elio non se poeiua mouer. Et vegando li zue che elio tardaua monto, lantora si preixen uno uilan qui aueiua noraen simon qui uegniua de una uilla, e si ge inpromissen de pagarlo ben, e ssi preixen la croxe de su le spalle de chmie, e ssi la den a quello simon, e lantor chriiie si incomenza de andar più presto, menando e strasinando chr iste apresso de elli. Quando elli fon uegnui a [CLIIIv·] caluario elli si aparegian la croxe de chr iste, et primeramenti si missen in terra uno grande cepo cauao chi era de uno sugo (i1) chi a nomen cedron, e inter quello legno si ne missen un altro monto grande quasi corno uno trauo 10 quar si era de cipresso, e questo si staxeiua drito inuer lo cel, e apresso si ne missen uno altro picenin per trauerso in la cima de questo, e quello staxeiua in croxe, et era de palma, e quando questa croxe fo ben aparegia, e ordena conio e o dito, elli si Ila pertuxan, e ssi fen li ihoi per meter li agui e de le mayn e delli pei, et quando elli auen faito queste cosse, si preixen chmie, e si Ilo despogian e ssi partin le soe uestimente inter lor, auegtia che elio si aueiua una gonella chi non aueiua nissuna costura che la uergen maria aueiua faito delle soe mayn. Quando 11 caualier et li seruenti auen uista questa uestimenta, si ηοκ la uossen partir, ni tagiar, per zo che ella non se guastasse, ma butan le sorte inter lor, e si fen de chi deueiua esser. Et questo si a ben dito dauid profeta, diuiseruHt sibi uestimenta mea, et super uestem meam miserunt sortem. [CLIIII·-·] Como christe fo crucificao cun doi lairoin, I un dalia parte drita, e I altro dalla parte senestra. Quando elli auen partio le uestimente de chmie, segondo che e o dito, si preixen chmie, e si Ilo desteixen son la croxe, e primeramenti si preixen uno aguo monto grande, chi era monto aguzo in la pointa, e ssi ihauan 1 una man, apresso si ne preixe uno altro aguo semegeiue de 1 altro per ihauarlo a 1 altra man, ma lo pertuxo della croxe era pertuxao si lonzi 1 uno da 1 altro che le brace de lo segnor si no eran cossi longe che le main de chr iste non poeiuan azonzer. Et uegando zo li ministri de pillato si preixen una corda, e si ligan la man de chrùie, e tiran tanto, che elli gi desteixe» si le soe brace, che 1 altra man uegne tanto auanti conio era lo luogo donde si deueiua ihiauar l’altro aguo. Quando ( :) Correggi ligno, come in A t C. 372 GIORNALE LIGUSTICO elio aue tute doe le main ihiauai son la croxe, li soi pei si no atanzeiuan cossi in zu corno elli uoreiua» e lantora si preixen 1 altra corda e si la ligan e si tiran tanto a basso corno elli uossen, e poa si auen uno aguo sollo, e si gi ihiauan tuti doi [CLIIIIV·] li pei, si che lo corpo de lo segnor si era in la croxe più tirao, che non e cossi tirao lo drapo allo tirao, et elio era aconzo in tal mainera, che le soe santissime coste se poeiuan tute nomerà, et le soe main eran si stirai, e strazai che elle pa-reiuan tute le nerue, e tute queste cosse aue ben dito dauid propheta in persona de chrisie, zoe elli m an ihaiuao le main e li pei, e nomerao tute le mie osse. Quando elli auen cossi aconzo chmfe corno e o dito, elli si preixen doi lairoin chi deueiuan morir per omicidio, e si li ligan su la croxe, e ssi missen 1 un layron da una banda, e 1 altro da 1 altra banda, è chmre si staua in mezo de doi layroin a zo che fosse compia la propnecia che dixe Et cum iniquis deputatus sum. Et stagawdo lo segnor a questa peina cossi grande, e uegando lo grande oprobrio che elio so-stegneiua e Ila grande crudelitai che elli faxeiuan, Lantora chr iste si leua li ogij inuer lo cel, et cu» grande humilitae si parla, e disse allo so paire, O paire celestial, perdona a quelli che elli no san zo che elli fan. Et questa si fo la primera parola che lo nostro segnor disse sun la croxe, inpero che elio uoreiua com [CLVr·] pir lo testamento che elio aueiua in-comenzao [.] aueiua za lassao alli apostoli la paxe e la caritae, alli zue lo so corpo, e aora a questa parola primera che elio disse son la croxe elio si priega per li pecchaoi. O peccaoi (i) non te lassar leuar la toa hereditai che lo to paire t a lassao, e sapiai per certo, che de questa hereditae più ne uo dar a questi chi son più peccaoi, che elio non uo dar alli picenin. fazamosse doncha noi peccaoi de bona uoruntae, che se noi fossemo mille tanta più peccaoi che noi no senio, eli e più la soa mixericordia che no» n e la nostra iniquitae. Quando Ariste aue dicto la primera parolla son la croxe cossi pietoxa corno e o dito de soura, quelli maruaxi zuei si Ilo biastemauan e si ge dixeiuan, o Rei e segnor de israel, et de li zue, ben possi tu star, corno stai tu, aora e tu ben pagao. Non dixeiui tu eri figior de dee. Or descendi zuxa della croxe, e noi tuti si oreremo in ti. Quando uno delli layroin qui era son la croxe da 1 una banda odi le parole chi eran dite a chr iste si ge disen (2) ancora (1) Va corretto col plur, come richiedono le proposizioni successive; onde: 0 peccaoi non ue lassar leuar la uostra hereditai che lo uostro paire u a lassao, ecc. (2) Corr. dise, del resto, come il solito, non ben chiara la narrazione. Meglio in C: E v,m deli lairoim chi era sum vnna croxe da lo lao sinestro, soe gestas, si lo biastemaua e uergo- GIORNALE LIGUSTICO 373 per derixion, Se tu e chr iste figior de de uiuo, perche non salui tu ti mesmo e noi. Ma e creo ben disse uno de quelli layri a christe che tu si e [CLVv·] peccaor, e uno barate conio noi, e lantora chmie non gi respoxe niente. Quando lo altro layro aue inteixo lo so compagno bia-stemar chmie [,] elio aue grande dolor della inzuria che aueiua dicto a chrwie, e si gi respoxe monto torte digando, o mixero, non ai tu cognos-simento, de zo che tu di a questo iusto homo, lo quar mor senza corpa, ni cnxon, e sai ben che mi, e ti senio degni de questa morte, ma questo zaniai si non fe peccao. Et quando elio aue diete queste parole si se uoze inuer lo segno, e ssi gi disse cu» humilitae, Segnor aregordate de mi, quando tu serai a lo to regno, e lo segnor si gi respoxe incontenewte, e ssi lo scripse in lo so testamento, digando anchoi tu serai comeigo in paraixo. 0 peccaor timido (i), che ai penser de andar a chmie non te spauenta, ma confortate, e abi speranza, e pensa infra ti mesmo se christe non uo la morte delli peccaoi, non uei tu como 1 altro layron si lo bia-stemaua, e chrùie si non ge respoxe niente, aspeitando che elio se pentisse, perche non disse cossi allo primer lairon chi lo biastemaua tu si serai anchoi in lo inferno corno elio disse [CLVIr·] allo segondo layron tu serai anchoi in paraixo, certo non lo fe per altro noma che elio se penta demente che elio e uiuo. Como la uergene maria uegando christe so figio son la croxe, ella si fe grandissimi lamenti fc christe si Ila arecomanda a san zoane. Quando lo segnor aue inpromisso lo paraixo allo bon layron, la uergene maria si fe grandissimi pianti stagando a pe de la croxe, e za lo figio no» aueiua peina alcuna che la maire non auesse a 1 anima soa. quando ella aue za odio per doa fia la uoxe de lo so figio, si corno elio si las-saua alli peccaoi misericordia, e allo layro uita eterna, e za quasi tuto lo sangue era spainto, lantora la uergem maria incomenza a parlar allo so figior, segondo che ella poeiua digando o doce figior ai tu cossi aban-donao !a toa dolenta maire, tu ai quaxi compio tuto lo to testamento, e la toa maire si non gi uo parlar, o figior perche me sei cossi indurao, za perche non me respondi. Et lantora lo segnor cun lagreme si respoxe gnandolo dixea se tu e christe fijor de dee fa saluo ti mesmo e noi, a so che noi no sta-gemo in queste mortay penne, e laotro lairon chi era da lo lao drito, soe dissinas , comeusa a reprende I aotro layron monto grcueracnti, ecc. (l) In A tremido. 374 GIORNALE LIGUSTICO alla soa maire digando, 0 docissima maire non far cotar pianto, inperzo che tu me dai [CLVIv·] maor peina per lo to pianzer che non fa la mea passion, o maire no» uoi tu che (che) faza zo che lo mio paire uol> no» sai tu ben che e don resuscitar, echa chi lo to parente zoane, e questo sea lo to figior. apreso a queste parole lo segnor si ihiama a san zoane, e ssi gi disse figior zoane, questa sia la toa maire, e si te la recomando, o reina de lo ciel, e della terra[,] maire de tuti li angeli (i) che cambio fo questo, che tu feisti, che per lo maistro de la piencia (2), si t e romaxo lo figior de zebedei, o uergene precioxa, ogni homo fo contento de lo testamento de lo to fijor (3) et continuame«ti (4) alli apostori si dona la paxe, alli zue lo so corpo, allo layro uita eterna, e la dolenta maire, corno fosti contenta de cambiar ti per prender uno homo morto (<;). Como christe si disse la quarta parola son la croxe e corno elio demanda da beiue. Quando lo segnor aue dito quelle parolle e daito [a] la maire soa (a) san zoane per so figior in cambio, za elio aueiua perduo lo sangue, e ssi era tuto sechao, inperzo elio si [CLVIIr·] disse la quarta parola zoe Sicio, e odia, et inteixa la uoxe de christe che elio disse, la uerge» maria si lo inteixe, e ui che la parolla gi manchaua, e la bocha cu» la lengoa sechaua, e la uergen si se guarda intorno, se ella uedesse pozo, 0 fontana per poei dar da beiue allo so figior, ma ella no» ge ne ui nissunwa. Et lantora la uergen maria si incomenza li graindi sospiri digando, 0 do- ([) In A: maire de lo Re de li angeli che camgio ecc., e in C: maire de lo rey de li angeri che cambio ecc. (2) Corr. sapìencia, come in A: per lo maystro della sapiencia, si te remaxe lo discipulo, per 10 figior de dee si te remaxe lo ligio de zebedey. E così pure in C. (3) Qui manca: no ma ti, come in A, o no ma tie, come in C. (4) Questo continuamenti parrebbe uno svarione del copista, perchè non si trova negli altri codd., alquanto diversi e più diffusi. Così in A si legge : Contenti fom li apoi/oli a chi elio »wpromisse vita eterna, e ti preciosa mayre corno fosti contenta, a chi lo to figior lassa glayo cu» vm coutello acutissimo in 1 anima toa. certo Madonna non e da dir ni da pensar che tu no» (non) fossi martora soura le martore, ni no» creo che se trouasse generaciom de martirio che no» sea afayga in la mente toa. E in C : Contenti fom li apostori, a chi elio dona la paxe, contenti fom 11 zue, a chi elio dona lo so corpo, contento fo lo layrom , a chi elio promisse vita eterna, e ti doze maire corno foisti contenta a chi lo to fijor lassa vm Ihoo vm cotello agucissimo a la toa anima tam firn alla toa morte, ecc. (5) Anche quest’ulcima proposizione è spropositata; correggi: e ti dolenta maire, corno fosti contenta de cambiar lo figio per prender uno homo morto. GIORNALE LIGUSTICO 375 cissimo figior me, non e tu quello che tu pasesti a questi zue in lo dexerto. XXXX. agni de manwa celestial, e ssi gi deisti aigoa uiua la quar tu treisti da una prea secca, e si li gouernasti per tal mainera che le soe uestimente (,) non se frustan, ni li soi cazai non se frustan (i), e questi crudelissimi te abian crucificao in mezo de doi layri cossi despugiao, e ssi te lassan morir de see. E: apresso a queste parole la dona se uozeiua digando o gente senza misericordia prendaue pietae de questo meo figior, oime dolenta onde don trouar de 1 aigua[.] in tar guixa pianzeiua e si se lamentaua la uergene maria, e goardaua se intorno ella uise che (2) auesse pietae dello mio (3) figior, chi gi deise da beiue uni pocho de aigua. [CLVIIv.] Como gi fo daito a beiue felle amarissimo mesihiao cun mirra, cun axeo, e cun fel, & como I anima santisima se parti dallo corpo. Et cossi stagando, echame uegnir un chi aduxeiua in man uno uassello, lo quar si era pin de mirra pesta monto ama(ra)rissima chi era de ysopo mesihiao cure axeo e cu« fel, e lantora si preixen una cana, e ssi bagnali la sponza inter lo uasiello, e poa si Ilo missen alla bocha de chru/e, e quando elio 1’ aue gustao, si lo lasa star per grande amaritude» che aueiua. Et lantora si guarda inuer lo ciel e si disse, O paire me celestial per che m ai tu cossi abandonao, e no» me resta più peina chi non sea uegnua in mi, zomai e [o] consumao ogni cossa per la qual tu me mandasti. In le toe mayn paire e u arecomando lo spirito me. quando lo nostro segnor aue compie queste parole, incontenente 1 anima se parti da lo corpo, e si se ne ze allo limbo onde eran li santi pairi, e lo so be-neito corpo si romaxe su la croce cossi flagellao e tormentao cossi conio elio era, e de prexente lo sol se ascuri, e la terra si trema fortementi & una grande tenda chi era in lo tempio si se [CLVIII'·] rompi per mezo, e Ili morimenti si se aurin, et monti corpi santi chi eran morti si resu-scitan e uegnen in ieruxalem e ssi aparsen a monte gente, & li si era uno homo qui se ihamaua Centurion qui era segnor delli caualier lo quar (1) Meglio in A : che le soe uestimente non fom truste, ni li suey cazai non foni frusti. E anche dopo segue : O figior como po esser ehe elli t au metuo su la croxe ecc. ; la qual frase corno po esser che bisogna aggiungere al nostro testo innanzi a questi crudelissimi. (2) Corr. chi. (5) Corr. io; cfr. A: e guardaua se dentorno, si ella uisse chi auesse pietae de lo so figior e hi gue porzesse de beyue. E cosi in C : e goardauasse dintorno se ella uissem ecc. 376 GIORNALE LIGUSTICO aueiua menao chrwie sun la croxe, e quando questo Centurion uide questi segnai chi eran aparsui in lo cel, e in la terra si se spauenta monto, et disse, ueramenti questo homo chi era (i) aora morto si era figior de deo uiuo. Como ioseph Amarimathia secreto discipolo de christe si demanda a pilato lo corpo de christe per sepelirlo & corno longin lo feri cun la lanza e insi sangue & aigoa. Quando la dona aue uisto che lo nostro segnor inchina zuxa la testa ella cognosse che elio era morto, e lantora ella incomenza a parlar alli chaualier digando, segnoi pregoue che zomai uoi me rendai lo mio figio. Voi uei ben che elio e quaxi morto, che ne uorei uoi zomai far [,] ren-dimelio se ue piaxe [.] era uno homo in ieruxalem chi aueiua nomen iosep abarimathia, e questo si era delli nober homi della terra, per zo che elio aueiua più de diexe figioi masihi, e questo homo [CLV1IIV·] si era delli discipoli de christs ascoxamenti, et quando elio odi(r) di che eh mie era morto elio si manda a pilato, e si gi prega monto che elio gi deisse licencia de seppelir lo corpo de lo nostro segnor ih«u dirute, e pillato si se meraueya monto che chr iste fosse za morto e si preixe uno so caualier chi aueiua nomen longin lo quar aueiua monto catiua uista (2), e si ilo manda per sauer, se christe era za morto, e se elio fosse morto, che elio lo deise a questo ioseph, e lantora si ze longin alla croxe, e ssi uosse sauei se chr iste era morto, e lantora si preixe una lanza, e si !o feri da lo lao drito monto forte, e ssi gi auerse tuto Io lao drito, et incontenente ne insi fora sangue, ε aigua, e lantora longin si se tocha li ogij de quello sangue e de quella aygua, e si fo incontenente sanao e aue bona uista & poa elio si crete in eli nife. Como iosep si anda cun nichodemus cun monti precioxi unguenti per onzer lo corpo de christe, e poa lo depoxe della croxe. Quando fo cognossuo che christe (che christe) era morto, si lo den a ioseph, e lantora io [CLVllIIr·] sep si manda a un so compagnon, chi aueiua nomen nichodemus, e si preixe monti odoriferi unguenti e si de- (1) Corr. e, come in A. (2) Curiose le aggiunte in C: chi era za uegio e auea perdua la vista per grande marotia che elio auea auua, ecc. GIORNALE LIGUSTICO 377 poxe lo corpo de chr iste zu della croxe, e cossi flagellao, e sanguinento corno elio era si fo daito in le brace de la soa maire. Et lantora ella si incomenza li pianti amarissimi e Ili sospiri, e guardaua la testa, e si li aueiua tuta pinna de spine, e poa miraua la soa faza, e si 1 aueiua tuta pallida e cambia, e cun grandissimi lamenti si dixeiua, o doce figior me, perche ai tu uosuo lassar la toa maire in tanta peina, perche non ai tu uosuo che ella fosse morta conteigo. E poa la dona si prendea. le brace chi pendeiuan zuxa, e si ueiua le mayn tute squarzai e si dixeiua cun grandissimi sospiri, odi cel zo che e parlo, odi terra le parole de la mea bocha, ueiue le mayn chi u an formao, ueiue le mayn chi u an creai, e noi ben 1 auei cognossuo che per la soa morte mostrasti spauento e dolor, goardaua la dona li pei de lo so figior e ueiuali tuti squarzai chauai, e cum amari pianti si dixeiua, o doce figior questi son li peyr chi andauan souer lo mar, e poa dixeiua la dona, o madareina , ueiue li peyr che tu la [CL\7IIII''.J uasti cun le toe lagreme, e si Ili sugasti cu» li toi cauelli, or agoarda corno elli son flagelai. Oyme dolenta dixe la uergen maria[,] lo cel, & la terra, e tute le aigue cun tute le creature si an cogno-suo lo mio figior, e si g an portao reuerencia, saruo lo so pouo (i) sun staiti soi inimixi e molte altre cosse dixeiua la dona lamentandosse. Et apresso a questo pianto ioseph abarimathia si preixe lo corpo, e si Ilo (2) fassa(n) inter uno sudario monto neto, e si Ilo misse(n) inter uno mori-mento nouo lo quar era cauao de una prea, e questo mori mento si era inter uno orto. Como li zue auen uisto che christe era morto si Ilo dissen a pillato che lo deuessen ben goardar e pillato si Ili disse andai e goardairo uoi stessi. Quando li zue si auen sapuo che chmie era morto, e che lo so corpo si era sepellio elli incontenente si zen a pillato, e si ge dissen (0 Qui va un punto, e la proposizione che segue non ha senso, per una grave lacuna. Cfr. in A : Lo cel e la terra, e 1 aygua e tute le creature inconsibel am cognossuo lo me figio e si gue am fayto reuerencia, no ma lo so mestesso pouol. si inimicus meus male dixisset miclii sustinuissem utigue. si lì suey inimixi 1 auessem malexio e morto, più serea da sostègnir. Ma quelli che lo me figior amaistraua, che elio mu«daua, passeyua, e sanaua, si me 1 am morto. (2) In A contiqua il verbo al singolare : lo fassa in vn sudario e si lo mise ecc. Invece in C è al plur., perchè i soggetti sono due : Apresso questo lamento Iosep abarimatia e nicodemo preizem lo corpo de lo nostro segnor e Imbassemanlo, e fassanlo in vm drapo de lim mondo e neto e vmscnllo de quelli ingoenti. 37 § GIORNALE LIGUSTICO Segnor sapi che noi semo inganni che questo marfator che tu ai faito morir si de auei dito che elio resuscifereiua lo terzo di, e imperzo noi si ue (i) pregemo che tu fazi monto ben goardar lo so morimento cujì gran [CLXr·] diligencia, che tropo ben poreiuan uegnir li soi discipoli de noite, e portarlo uia, et asconderlo, et dir possa, a la gente che elio si e resuscitao, e questo herror sereiua tropo maor cha lo primer. Et lantora pillato si gi respoxe, andai uoi mestesi, e si Ilo goardai monto ben, e ordenai in tal mainera e goardai (2) lo morimento che nissun now lo possa inuorar lo so corpo. Et lantora uegnen li zue e si preixen monti caualier, e seruenti armai e si uegnen allo morimento de chn'jie, e si preixen uno siello (3), e si sellan lo morimento de chrà/e in monte parte, e comendar (4) alli seruenti et alli caualier che elli lo goardassem ben, cosi de noite corno de giorno, a zo che nissuna persona non se apros-simasse allo morimento e che in quello luogo fosse bona goardia fin allo terzo giorno, conzo sia cossa che elli si seran monto ben pagai. Como ii zue si deschazan la uergen maria da lo morimento, et ella lantora si se lamentaua de L angello Gabrielo. Quando li zue fon uegnui allo morimento de diviste cun la famigia de pilato segondo che e 0 cointao, lantora elli si descazan la do [CLXV·] na da lo morimento cu» la compagnia della madareina cu» le altre done chi uegniua» pianzando apresso a ella, e questo per la grande compassion che elle n aueiuan. Or quanto era lo dolor, e la angustia che aueiua la dona, e spessa fia ella si cazeiua inter le brace alle altre done, e si andaua digando corno ella poeiua, 0 uoi li quai passai, atendi um pocho e uey se e 0 lo meo dolor si grande corno e. 0 angelo gabriel, corno e torna (5) la tua salutacion in grande amarituden, tu si me dixesti gracia piena, e aora e sum pinna de angustie, e de doroy, tu me dixesti. domi'nws tecum, echame che questo me figior si me stao leuao e morto, tu me (1) Corr. te, come in A. (2) Svarione del copista questo e goardallo, da correggersi in le goardie allo ecc. Intatti in A : Allaor pilato si gue respoxe, e si gue disse, Anday voy mestessi, e si gne ordenay monto ben le guardie e si fay guardar per tal modo lo sepolcro, che nissun non possa involar lo corpo. E eosì in C. (3) Ctr. A : vm saello e si saellam lo monimento. E C : vm selo e si selam lo morimento. (4) Corr. comandai/, come in A e C. (5) Corr. e torna in retorna come in A, o me torna come in C. v GIORANLE LIGUSTICO 379 diesti benedicta tu in mulierib/is, echame che e som la più dolenta mayre che fosse zamai in questo mondo, tu me diesti benedictus fructus uentris tui, echame, che elio e staito morto e biastemao da lo so mesmo pouo. O morte conio tu e stremia (i) e crudera, perche me fosti tu si contraria quando tu me lasasti da poi de Io meo figior cu» tanto dolor, e cun tanto amarituden incontra (2) alla maire dolenta allo monte caluario donde lo me figior era staito morto , e uegne in ieruxalem e si stete [CLXIr·] in una caxa ihaua e li stete cu» grandissimi pianti & so-spiri (3). Sauei deuemo che quando 1 anima de chr/iie fo partia dallo corpo incontenente si deseixe allo limbo, e lantora si cria una uoxe monto forte e ssi disse, O principi (le uostre porte) de lo inferno leuai uia le porte eternai, et si intrera lo rey de la gloria. Et a questa uoxe tuto quanto lo inferno si trema tuto, et li demonij fon tuti quanti spauentai , e si se congregali tuti insieme, e si incomenzan a spiar, e a demandar inter lor, chi era questo ree de gloria e tar segnor chi era uegnuo alle porte de lo inferno. Et lo principo de li demonij si respoxe e si disse alli altri demonij, questo si e uno homo monto iusto patriarcha e monto santo, e mi dubitaua che no» fosse figior de de, disse lo demonio per zo che elio si ueiua (4) monti miracoli, e monti graindi segni, ma e o sapuo per lo certo che elio si e homo, imperzo che e o tanto faito cun uno so disciporo che elio si 1 a trayo & inganao, e uenduo per xxx dinai alli farexei, e quelli si 1 an crucificao per inuidia e si 1 an faito morir cun grande tormento [e] inperzo pensai de prender 1 anima soa chi descenda zuxa a star cun le altre anime in la nostra bayria. [CLXIv.] Como le anime chi eran allo limbo disputauan cum li demonij, e corno li santi padri si se allegran della uegnua de christe. Quando lo demonio si aue cossi parlao si respoxe un altro de quelli, e ssi disse questo si e quello chi resuscita 1 altro giorno a lazaro, e quelli altri si respoxen de si che de zo si e ueritai. quando lo demonio aue de (1) strernia deve essere uno svarione del copista che non capiva il testo. Cfr. in A : O morte corno tu e stayta crudel ecc., e in C : O morte corno tu me e staita crudera, ecc. (2) Tutto il periodo spropositato. Deve dire invece: Retornaua la mayre da monte caluario vnde lo figior era stayto morto ecc., come in A. Oppure : E in tanta omaritudew torna la dona de monte clauario vnde lo so fijor ecc., come in C. (3) Cfr. A : in una casxa sarra e ihossa in grayndi sospiri tam firn alla surrexiom. E in C : in vnna caxa serra e Jossa in grandi pianti e sospiri tamfim a la resuressiu». (4) In A : per zo che elio faxea si grayndi segnay ecc., c così va corretto. 380 GIORNALE LIGUSTICO zo inteixo elio si incomenza de criar cum grande furor, e si disse allo principo dello inferno, 0 mixero e dolento corno tu e ben staito inganao, che ueraxementi questo si e figior de de, per lo quar conuen che lo to regno sea desfaito, e guasto. 0 doloroxo, zo non ueiui tu atramenti (1), che questo no» a zamai peccao, non ueiui tu ben che elio si moriua per soa uoluntai, za sai tu ben che elio poeiua scuxar la morte, e si non uosse mai e si se misse liberamenti in le mayn de li zue . or a questa dispu-tacion [che] faxeiua» li demonij inter lor, Li santi pairi chi eran dentro allo limbo si incomenzan tuti quanti a confortarse, e inter li altri si parla san zoane batesto e si disse segnoi daiue tuti bon conforto che echame quello che e o batezao in [CLXIIr·] (in) lo mondo, elio si e morto per noi, e si a spaito lo so sangue, per pagar li nostri debiti, e per trarne de queste peine donde noi senio . or quando meser san zoane aue compio queste parole, lo nostro segnor ih«u chmfe si cria la segonda uoxe, cossi corno aueiua dito la primera, e disse 0 principi de queste tenebre leuai uia le porte dello inferno, e li demonij si respoxen anchora chi e questo ree de gloria, e li angeri chi eran cu» chrüfe respoxe». Como ihesu christe si rompi le porte, e Ile chaîne & si intra dentro cun grandissima luxe, & si libera tuti li santi pairi e li profieti. Questo si e lo segnor possente, e forte chi a receuuo (2) le forte ba-tagie, e lantora lo demonio si ihaua e stattga tute le porte per modo che lo segnor non poesse(n) intrar. Et lantor lo nostro segnor iheiu chrwfe(,) si rompi tute le porte dello inferno e si zita per terra ogni cossa, e de-seixe zuxa in lo ferno cu» una grandissima luxe, et si preixe lo principo de jo inferno cu» tuti li soi seguaci, e ssi li liga cu» grosse cayne [CLIIV·] de ferro e ssi desfe, e dissipa tuto lo inferno, et la soa possanza, che elio non poeiua più noxe nisun. Quando elli fon cossi dissipai zoe questi maledicti demonij, lantora si uegne a lo luogo [donde era] Adam (3) e si lo salua, e si ge disse pax tibi adam cui» omnibus filiis tuis electis meis. O adam disse christe paxe sea zomai a ti, et a tuti li toi figioi ellecti mei, e digando christe queste parcle tuto qnanto lo limbo era pin de luxe. Et lantora tuti li santi pairi chi eran in la prexon schura si (1) Corr. atramenti svarione per aper lamenti, che c in A. (2) Corr. ven^ttOf come in A. (3) Necessario supplire donde era, come in A. GIORNALE LIGUSTICO 381 adorari allo segnor monto honoreiuementi laudandoro, e regraciandolo de la soa grande misericordia. Et tuti quelli chi eran allo limbo quando uegne christe si cantauan digando , benedictus dominus de us israel, quia uisitauit et fecit redempcionew plebis sue israel. Et lantora lo segnor si preixe adam cun 1 unna man, et a Eua cun 1 altra man, e ssi (i) disse alli altri santi pairi uegnine tuti quanti fuora, e si se misse auanti a tuta questa compagnia, e si li mena allo paraixo terrestro, donde elli steten, tam fin alla sension de christe , cossi corno uoi auei inteixo, onde lo nostro segnor si dissipa e guasta tuto lo interno, e si libera a tuti quelli santi pairi chi eran inchainai allo interno. [CLXIII'-] Como io angero desceixe de cel, e si aperi lo morimento, e christe glorioxo resuscita. Quando 1 anima de chmie mena li santi padri allo paraixo terrestro, incontenente 1 anima de christe si retorna allo corpo, chi era inter lo morimento tuto pin de gloria, seando tuta fia lo morimento serrao e bollao, e questo si fo la domenega, zoe lo di de la pasqua auanti giorno, e Ile goardie chi eran dintorno allo morimento elli non sentin de queste cosse niente . ma quando elio to resuscitao lantora si deseixe uno angero de cel cun uno grandissimo furor che li pareiuan che tuti quanti fossen li troni de lo mondo, e questo angero si buta zuxa la pria de lo morimento, e lantora li caualier si fon fortementi spauentai, che elli si se missen tuti in grande fuga che 1 un non aspeitaua 1 altro, e de presente si zen tuti alli farisei, e ssi ge dissem tuto per ordem'de zo che elli aueiua» uisto, e lantora li farixei si auen grande paura che lo pouo non li aruinasse, e per questa caxon si den molti dinai alle guardie, e si Ili pregan che elli deuessen taxei queste cosse, e che no parlasen cun alcuna persona. Or staxeiua la uergem maria in ieruxalem in caxa aspei [CLXIII'·] tando la consolacion de lo so figior, e quando si fo aprosima 1 aurora de la resuresion, eia dixeiua cun grande humilitai a deo paire celestial, tu segnor fosti quello che tu me mandasti questo to figior, non per la mea bomai, ma per la toa humilitai, piaxate segnor che cossi corno e 11 o uisto morir son la croxe piaxate segnor che lo ueiga resuscitar, e in apresso si dixeiua allo spirito santo e consolacion (2) consorai la più dolenta e aflita maire chi fosse mai allo mondo. Cossi corno per ti santissimo spi- (1) Segue un ge cancellato con due fregili dello stesso inchiostro. (2) In A : spirito santo parachlito consoUtiuo, ecc. 382 GIORNALE LIGUSTICO rito, e per la toa santissima operacion questo figior deseixe in mi, Cossi te piaxa de menarlo, a zo che lo tormento chi romaxe in mi, per la soa morte se parta da mi per la soa resuresion. In apresso la uergen maria ihamaua lo so figior digando, O docissimo figior me, meti zomai termen a la passion alla toa maire, sauna la anima chi e feria de uno coltello, zo (1) e sso ben figio che tu odi le mie parole, e piaxate per lo to amor comfortame. Or digando la uergene glorioxa queste parole , echame la camera tuta si fo impia de luxe, echame apresso le compagnie de li an-geri, delli chérubin, de li serafin, e de tuta la corte celestial, li quai uegniuan cantando si docementi che bene [CLXIIIIr·] pareiuaw glorioxi canti, e ssi dixeiuaw alla uergen maria cum grandissima reuerencia. Regina celli letare alleluya, quia quem meruisti portare alleluya, Resurrexi sicut disi alleluya. Quando questo precioxo canto fo compio ecame lo nostro segnor pin de gloria, e cossi pin de belleza spiritual, e si ze inuer la maire digando, O felix mater mea, 0 regina de lo cel & de li angeli, echame chi lo figio de lo to uentre lo qual tu ai daito alla humana ge-neracion e inperzo maire mia, e t arecomando li peccaoi e si te lasso klor auocata, e tuta la mea grada e ue (2) dago in bailia che tu ne sei despen-sarixe . Or quanta era la consolacion spiritual della uergen maria, quante lagreme de pietae ella spanse lie .or quando lo figio aue compie le soe parole, lantora la uergem maria si respoxe digando, Ecce ancilla domini fiat michi secunduwz uerbum tuuwz. La uergen romaxe monto consolla, per la uixion de lo so figio, e subito ella (3) se ne ze, alla madareina, chi pian· zeiua allo morimento, e poa si aparse alli apostoli, e stete quaranta giorni in lo mondo mangiando, e(,) beuando amaistrando, e comfortando li soi discipoli fin allo giorno della ascension, et lantora si monta in cel, legando tuti [CLXI1II'’·] li apostoli aurisse le porte de uita eterna, e menar conseigo tute le anime che elio aue traite da lo limbo, e si ro-maxen auerte tute le porte de lo paraixo, a zo che, chi uoi andar si faze le opere, e li comandamenti de chr/sie. In apresso elio si manda lo spirito sancto lo quar ne meine per la uia drita, tan fin a quella beatituden, e gloria, ad quam illud nos perducat cu m patre spiritu santo, qui uiuit & regnat in secula seculorww Amen. yhwus O uoi lectori chi lezei la passion dello nostro segnor yhe.su chnsre, la primera parte della opera uostra sea misericordia, e inperzo e priego a (1) Coir. ζΛ. (2) Corr. te. (3) Corr. elio, come in A. GIORNALE LIGUSTICO 383 piascuna persona,[che] contemplando, e lezando(,) la passion de yh«u chmie, e della soa glorioxa maire (soa), ne priege, che noi abiamo alcum profietu, e che questa misericordioxa maire si ne faza participi delle soe lagreme, azoclie sentiando la soa passion elio ne faze consorti della soa gloria , qui est benedictus in secula seculora;» Amen. Explicit passio domini nostri ih«u chris/i. Referamus gracia chm/o. (Continua). VARIETÀ Lettere inedite di Gherardo de Rossi. Queste lettere di Gherardo De Rossi, tratte dagli autografi che si conservono nella Biblioteca Universitaria di Genova, sono indirizzate ad Angelo Maria Ricci, il quale (n. 1777, m. 1850) fu amico affezionato del primo, quantunque più scovane d’oltre venti anni. lSgli volle di tanto affetto lasciare Ο Π una testimonianza imperitura nell’elogio di lui, che prepose alla raccolta di poesie d’Arcadi stampate nel 1828, dopo la sua morte, per rendergli giusto tributo d’onore. Poiché quando mori in età di 73 anni, il De Rossi aveva ufficio di censore dell’Arcadia; ma i suoi meriti non si riducono a questo solo, dovendoglisi il vanto d’ingegno versatile e non comune. Economista, archeologo, poeta; raccoglitore intelligente e fortunato d’antichità e di quadri, ebbe dote singolare di finissimo gusto artistico, siccome manifestò non tanto nella scelta delle tele, quanto nei consigli agli artisti e nelle illustrazioni della vita e delle opere del Canova, del Camuccini, del Landi, della Kauffmann, del Pickler. Scrisse moltissimo, d’argomenti vari, e disparati; il più giace nei giornali romani del lungo lasso che corre dal 1775 *827, e negli opuscoli molteplici 384 GIORNALE LIGUSTICO da lui pubblicati sparsamente. Soltanto le commedie e le poesie vennero raccolte in volumi ed ebbero ripetute edizioni. L’ultimo a rilevarne il merito come poeta fu il Carducci, che inserì una copiosa scelta delle sue rime fra quelle dei Poeti erotici del secolo XVIII. Anche il Ricci si piacque, come l’amico, della erudizione e della poesia, ma gli rimase assai da lungi. Gusto ebbe egli pure, ed ottenne lode da un critico difficile, il Tommaseo. Scrisse moltissimo, specialmente in verso, poemi, elegie, capitoli, ed altre poesie di vario genere; alcune prose d’argomento artistico, critico, didattico, e biografico. Fu notato di vanità; ma era un uomo eccellente. È curioso ciò che scrive al Muzzarelli, il quale, come si sa, raccoglieva notizie dei letterati viventi: «In quanto alla mia morale, dite pure che non feci male ad alcuno giammai, eh’ ebbi gran pretensione di non seccare il prossimo, ed anche ciò facendo, timido e ritenuto non mi spinsi mai avanti per me. Ebbi in corte i calci anche da muli ferrati in oro, e mi vendicai con riverenze, e con ricambiarli in buone parole; senza viltà e senza timori ». Di recente il De Nino, nelle sue Briciole letterarie, volle ricordare questo scrittore con brevi tocchi aneddotici assai singolari e fino a qui ignorati. A. N. A. C. Frascati, 2 Novembre 1821. Non mi obbligherò mai più a fare estratti. La fatica immensa che mi ha portato quello del Cadmo mi fa fare questo voto. L’ho quasi finito in abbozzo, almeno spero oggi di finirlo. Nel rileggerlo l’ho trovato migliore di quello mi parea, ma non ostante ci trovai ripetizioni, episodii monotoni, e qualche volta languore di stile. Poi certe apparizioni di Dei non mi finiscono; e quel barbuto Anfione non GIORNALE LIGUSTICO 385 si capisce se dopo presa Tebe dormiva in pace, e solo la sua cetra va in cielo dopo aver sonato abbastanza in terra. Che fatica ingrata è stata questa, e poi non vale un fischio (1). Parliamo di S. Benedetto. Voi non avete bene interpretata I economia di tempo. Non ho voluto dire che distribuzione. Figuratevi; io vorrei, che i due Patrizii Romani avessero dal bel principio della fama di S. Benedetto dato a lui le terre di Subiaco, e che dopo venissero a condurvi Marco e Placido. Quella loro venuta e quella donazione fatta prima di smontare da cavallo non mi finisce. S. Benedetto ha già fabbricato a Subiaco in casa di uno di loro. Trovo necessità di arricchire d episodii i diversi accidenti, e sopratutto schivare molti dettagli che si somigliano nel tagliar quel bosco. Va bene che come nel Giardino d’Armida le piante sieno abitazioni di spiriti, ma non tanti. Fiere che si oppongano al passaggio, fuoco che si accenda improvviso e cose simili possono variare un poco 1’ assunto. Bisogna badare molto di mantenere i caratteri della gente che \iene, e dar loro quella rozzezza e quella patina d’irreligione, che avevano acquistate. Absit di ridurre il poema a venti canti, sarebbe una cosa troppo lunga e troppo stirata. II mantenere S. Benedetto Protagonista vi forza a non essere tanto lungo, perchè dilungando il poema colla storia del tempo vi è necessario introdurvi personaggi (e non so quali), ed abbandonare di vista talvolta il Santo e ciò per non essere monotono. L’ assunto è diffìcile molto. Riflettete a queste idee (1) L’estratto del Cadmo, poema non felice ed oggi interamente dimenticato di Pietro Bagnoli (stampato in Pisa nel 1821), si può vedere nel T. XII del Giornale Arcadico, pp. 97 e 230. Del Bagnoli ha rinfrescato la memoria Augusto Conti, curando la ristampa delle sue poesie (Firenze, Le Monnier, 1857) alle quali ha premesso un discorso sulla vita e sulle opere dell’autore. Giorn. Ligustico. Anno XX. 2$ 386 GIORNALE LIGUSTICO che sono velili egri somnia, e che battono la campagna senza ridursi ad una giusta meta (i). Due volte ho riletto il manoscritto, e cominciai la terza, ma chi sa se potrò finirlo prima di partire di qui, che sarà Giovedì prossimo, se a Dio piace. Lascio con qualche pena questa solitudine che il Cadmo però mi ha reso assai meno piacevole. Avevo da scrivere altre cose e non ho potuto; parlo come di villeggiatura finita, non restandovi che sei giorni, ne’ quali chi sa se potrò ripulire nemmeno questo sciagurato estratto. Di salute sto bene, e la mia famiglia ancora. Mia moglie vive come in Roma, e mio figlio è sempre o a caccia o a dormire per la stanchezza. Ho conosciuto anche in questo un tratto della divina bontà. Con questa vita è stato lontano dalle compagnie scapate, che pur troppo in campagna s’incontrano e che sono tanto pericolose, benché abbia dei principii, spero, assai stabili. Gargallo colla sua tragedia dubito che cavi buon partito, e poi temo che l’abbia fatta troppo presto. A dirvela non desidero di vederla, perchè se mi dimanda il mio parere, ed io non ne fossi totalmente contento, è un incontro; dico totalmente, perchè temo che anche piccole critiche non le gradirebbe. Riverite la vostra Signora, e i Fratelli e dite loro che mi comandino. Resto Vostro sincero amico Gherardo de Rossi. (i) Questo poema vide poi la luce in Pisa nel 1824. Ebbe un certo grido a quei di, ma poi cadde pur esso nell’oblio. Non mancarono le critiche acerbe, e il Giornale Arcadico con poche parole dichiarò pessimo il poema, e 1’ autore incapace di far versi mediocri. A Firenze in un cartello di libraio dov’era l’annunzio: S. Benedetto, si trovò scritto: «Non 1’ osi giudicar chi non 1’ ha letto ». GIORNALE LIGUSTICO 387 A. C. Roma, li 29 Ottobre 1822. Sono a mio dispetto in Roma. Una questione nata fra il presente ambasciatore di Francia, e TAgente del partito Duca di Blacas fece che giovedì mi spedissero a Frascati per venire a Roma e vedere di accomodare la cosa. Il nome di Blacas (1) per me è troppo sagro, e jeri venni, benché con sommo dolore, avendo così interrotta e turbata la mia tranquillità. Tutto spero di avere accomodato jeri sera in un congresso, e fra ore, se a Dio piace, torno a Frascati. Venendo per affare altrui non ho che leggermente guardato i miei, lasciando firmare il mio complimentario. Gargallo ha scritto due ditirambi, me ne dà parte, e sua moglie dice che me li spedirà: La toelette, e il poeta. Gli argomenti non sono strettamente ditirambici, ma ce li avrà ridotti stirandoli. Mi dice che stamperà qualche anacreontica a Pisa. Il Poeta più oscuro che abbia mai esistito (scusate la freddura), Mezzanotte, mi mandò dei versi sulle pitture di Pietro Perugino, e mi prega dirne qualche cosa nelle Effemeridi. Lo farò perchè so che vi è amico. L’argomento è sterile per poesia, ma lo ha trattato bene. Se mi verrà la novella dei Frati Camaldolesi (2), che me ne hanno spedite alcune, ve la manderò, ma non vorrei per cosa inutile farvi sprecare la posta. Ne avrei scritta un’altra in questi giorni; non vado avanti (0 Casimiro duca di Blacas d’Aulps, seguì nell’esilio Luigi XVIII, e venne poi eletto da lui nel 1814 segretario di Stato, e ministro della sua casa; quindi ambasciatore a Napoli e a Roma. Studioso delle antichità ne fece una ricca collezione, e procurò la pubblicazione di grandi opere archeologiche. (2) Pubblicata a Venezia, tip. Alvisopoli, per cura del Gamba. 388 GIORNALE LIGUSTICO perchè temo che nella narrazione, dovendo narrare la violazione di una fanciulla, la sola idea della cosa, benché si tratti di violenza e sia espressa con gran modestia, possa darle faccia di oscenità, ed io non voglio scrupoli. Però mi rimetto al lavoro della mia dissertazione sugli ornati antistorici; ma la materia è troppo ristretta per un discorso, giacché il sistema mio è spiegato subito, e chi lo adotta, in un momento ne vede le conseguenze. Basta, lo tirerò via. Ho scritto (non so se ve Γ ho detto) dieci spiegazioni antiquarie, e queste pure però ne chiaman delle altre, che farò a Frascati, e mi duole di non portarle con me oggi, ma non ho i disegni. Veniva anzi con un Gesuita a Frascati, che mi serviva per esaminare l’epigrafe di un vaso; il demonio ha condotto a Roma il Principe di Svezia, ed egli è dovuto tornare ad assisterlo nelle corse antiquarie. Quante belle cose mi farebbe dire il Re di Svezia, ma di cose politiche non parlo. Si aspetta il Re di Napoli. Il congresso torna a rivivere. Ricordatevi di me, riverite la casa vostra e gli amici e sono sempre D. R. sincero amico. A. C. Roma, 28 Febraio 1824. Eccomi a scrivervi ricevuta appena la vostra dei 24, e 1’ altra che mi scriveste prima mi diede un momento di distrazione dal mio malanno sempre lo stesso, e che per molto tempo mi tribolerà sempre minacciando peggioramento. Sia fatta la volontà di Dio. Parlerò con vostro tìglio del disegno, e vedrò le sue cose private, giacché i disegni di gala qualche volta non sono sincerissimi. Avrei desiderato d’averlo con me un giorno di GIORNALE LIGUSTICO 389 carnevale, ma la mia casa, colla malattia della Regina, è quella della tristezza. Il figlio è (adesso che il male dà tregua) sempre là, ed appena viene la sera a tre ore; mia moglie è sensibilissima a questa disgrazia, ed anch’io non avrei bisogno di aggiungere tristezza a tristezza. Pazienza. Se il dramma non vi frutta non lo fate, non lo fate. Parliamoci chiaro, voi siete un galantuomo, e i galantuomini una volta alquanto decaduti nella opinione di corte non risalgono più mai. I baron c....., i ladri, gli scellerati risalgon tutti. Vedrò il quadro con piacere, e se saravvi luogo scriverò la lettera, ma però più volentieri lo farò sul S. Benedetto Cassinese, quando abbia la copia degli argomenti, che desidero. Ho piacere che Anguillesi sia promosso. In verità le sue poesie non mi fanno molta impressione, ma so che ha merito. Il nostro Gargallo è troppo vulcanico ed il suo fuoco coll’età non si smorza. Negli idillii trovo del merito, sulla novella sono col giudizio pisano; e a dirla poi, stampare quella novella con la cornice d’una cosa antica, coll’ umile intenzione di sostituirla ad una del Boccaccio, e poi due giorni dopo ne parla ai Sovrani come di sua invenzione!........ Io sarei mortificato se dopo aver ardito di proporre una sostituzione a cosa del Boccaccio, confessassi poi che la sostituzione è un mio lavoro (1). A proposito di novelle, delle mie non so più altro, e quasi dubito che il vostro S. Benedetto arriverà prima di loro. Sono cosi pentito d’averle stampate che nulla più, e potessi sopprimerle sarei lietissimo (2). Voi mi dire che la Marchesa è in movimento, e che voi (1) Accenna qui oltre ai Versi ristampati in Siena nel 182j, alla novella 11 Palatino d'Ungheria, edita in Firenze nell’anno stesso, intorno alla quale è da vedere il Passano, Novell, in prosa, Torino 1878, 11,289. (2) Uscirono poi in quest’ anno stesso per cura del Gamba dalla tip. Alvisopoli, in Venezia. 390 GIORNALE LIGUSTICO siete di servigio la sera; ma dunque la sera avete conversazione, ed ergo vi divertite. Le mie ambasciate alla Marchesa giungono sempre in tempo. Riverite anche da parte di mia moglie e figlio la Signora vostra e credetemi Vostro sincero amico D. R. La Locandiera. Noterellf. Goldoniane. Che i tre curiosi innamorati di Mirandolina sieno un conte,, un marchese, un cavaliere, non è senza ragione. Qui la satira della nobiltà doveva esser proprio intenzionale, chè altrimenti il poeta avrebbe ben potuto ricorrere, come in altri innumerevoli casi, a un Ottavio, a un Lelio e a un Fiorindoy appellativi generici. Ma il Goldoni che già una volta avea posto in bocca all’onesto Pantalone memorabili parole contro un marchese furfante che tentava sedurre Bettina, una putta ono rata (i), dovea provare senza dubbio una compiacenza grande a metter in caricatura quei nobilotti ridicoli de’ quali Venezia, nonche il resto d’Italia, allora pullulavano; e nella Locandiera ci mostra .con irresistibile senso comico i due nobili Albafiorita e Forlinpopoli (la canzonatura è già nei nomi) che si rinfacciano l’un l’altro un marchesato venduto e una contea comprata! Del modo mite bonario, ma pure efficace, che il Goldoni adopera nel parodiare le classi privilegiate Vernon Lee gli da gran lode, e Ugo Müller, un buon tedesco, in una certa sua chiacchierata di pochissima entità, ma fatta colle più oneste intenzioni del mondo, dell’ influenza che gli avvenimenti politici esercitarono sulla nostra letteratura (2),. (1) Atto II, se., v. (2) tìber den Einfiuss der Ztitgeschichte nuf die dramalische Literatur dir Italiener, Berlin, 1871. GIORNALE LIGUSTICO 391 vede nel Goldoni addirittura un precursore della grande rivoluzione, ripetendo inconsciamente la famosa accusa di Carlo Gozzi, ma in buona fede ben inteso. Precursore sì, ma senza saperlo, poiché dimorando trent’ anni proprio nel gran centro dove gli straordinari avvenimenti si preparavano, e palesemente, egli non parve addarsene mai. In quanto il conte, il marchese e il cavaliere sien chiamati dal poeta a metter in burla la gente del loro stato, e di che portata la satira sia, questo, meglio che al pubblico, importa al critico che voglia seguire le linee generali della grande opera goldoniana. Per gli spettatori i tre spasimanti della locandiera son tre stelle che si riscaldano alla luce d’ un gran sole; e l’accorta Mirandolina, dopo averli menati per il naso allegramente, finisce con lo sposare uno del suo rango e ride loro sul muso. Il soggetto della Locandiera, come si vede, si riduce a poca cosa. « Il successo — ci sa dire il Goldoni — fu tanto brillante da esser messo a confronto e quasi al disopra di tutto quello che il suo autore avea fatto in questo genere, dove il poeta coll’artifizio suppliva alla mancanza d'un vero interesse ». (i) È del resto, se bene abbiamo inteso, il genere di quasi tutti i suoi capolavori, che son sempre quadri della vita domestica o popolare d’inimitabile verità, mentre l’argomento è detto in poche parole. « Le commedie più belle sono le più semplici » nota anche una volta il Martini, (2) puntellando di validi argomenti il debole teatro di suo padre. Ma per la semplicità della favola la Locandiera va distinta fra tutte. L’attenzione si concentra quasi esclusivamente alle arti lusinghiere colle quali il cavaliere di Ripafratta, dapprima (1) Memorie, II, c : Alma che ’n gran tempesta. » III, » 1« — Smeraldo, Adamante, Opala, Onico. » : Misera et infelice. » », » 2. — Clori. » », » 3. — Primo messo. » », » 4. — Secondo messo. Tale era P Ordine del dramma prestabilito ; ma già sul bel principio si comin;iò a trasgredirlo. La scena di Aspero solo (£ possibile, Amore) fu messa a capo dell’atto I; la se. V di Pane (Fra queste del mio regno alte foreste) fu trasportata nell’ atto II e sostituita colla prima di questo atto (Onico, come viver poss’ io). Le altre scene furono conservate, secondo 1’ ordine prefìsso, sino alla se. V dell’ atto III. Questa scena doveva anzitutto introdurre Aspero a lagnarsi della sua sorte ; a’ suoi reiterati appelli il Mago sarebbe in seguito sopraggiunto in suo soccorso. Pertanto era miglior consiglio scindere la scena in due con Aspero solo dapprima, indi con Aspero ed il Mago. E così fu fatto : la scena V dell’ atto II rimase formata dal monologo di Aspero (Alma eh’in gran tempesta), e la scena fra Aspero ed il mago fu trasportata nel-l’atto III. Ma questo distacco fra due scene che dovevano susseguirsi immediatamente parve al Duca troppo lungo: ne venne che ambedue le scene furono portate nell’ atto III e rimasero sostituite dalla scena di Smeralda, Adamante, Opala ed Onico (Misera et infelice) che, secondo il primo abbozzo, doveva iniziare l’atto III. Questi scambi di scene portarono, come naturale conseguenza , un turbamento nell’ordine del-1’ atto III. A dir vero, I’ abbozzo di questo atto non era stato stabilito che a mezzo nell’ ordine generale del dramma che abbiamo riportato; ma in seguito era stato definito con maggior cura, pur conservandogli 1’ ordito primitivo : Se. 2. — Clori sola. Com.: Non tanti lumi » 3. — Coro di Ninfe, Adamante, Messo, Opala. · : Sacra, possente Diva. » 4. — Messo, coro di Ninfe e di Pastori » : Col cor pien di pietade GIORNALE LIGUSTICO 409 Finalmente, dopo gli scambi di scene che vedemmo, l’atto III fu così modificato: Sc* 1 · Aspero solo si risolve di raccorrere dai Mago per soccorso de’ suoi amori. » 2. Aspere e Mago come sta già composta. “3· Aspero et Onico; l’uno si lamenterà di Opala e l’altro di Smeralda et ambi si risolveranno di lasciarle. » 4. — Cho. Ad. Messo col fine che farà il Sig. Conte (1). » 5. — S. Alt. la darà fuori domani. Curioso ed eloquente documento queste poche righe del modo con cui si stendevano i drammi alla corte di Carlo Emanuele I ! Ma, ci si chiederà, qual’ è Γ argomento che permette di credere alla collaborazione del Duca e del D’Agliè nella composizione del dramma? L’argomento o, meglio, gli argomenti, chè ve n’ha più di uno, si possono trovare, oltreché nel-1’ Ordine dell’ atto III che abbiamo riportato per ultimo, nella favola stessa del dramma, che in più d’ un punto (2) ricorda le Trasformazioni del Duca e Y Alvida del D’Agliè, e quel eh’è più, in qualche brano autografo dei due poeti. Infatti la scena di Smeralda, Adamante, Opala ed Onico, che in ori- (1) Non ci par dubbio che si alluda al conte D’Agliè. A proposito della fine di questo atto, di cui vedemmo affidata la stesura al nostro poeta, osserviamo che in un foglio del codice, che contiene appunto la scena IV dell’atto 111, dopo la parlata del messo che annuncia la trasformazione di Smeralda, si legge la seguente postilla: « Adamante dolendosi della trasmutazione di Smeralda, cangia l’amore che portava ad Opala verso di lei et prega il messo di condurlo al loco dove la possa riveder così mutata , ed Opala, inteso il fine di Smeralda, vista la risoluzione di Adamante di non amar più lei, si risolve di amar Adamante pentita di non aver corrisposto all’amor suo, et di voler etiandio con sua morte dar segno del suo amore che non sia inferiore a quello di Smeralda ». (2) Basta a provarlo il confronto tra le scene I e II dell’ atto III di questo dramma, e le scene II e III dell’atto II dell 'Alvida. Dove l’argomento il permise, furono persino conservati alcuni versi dell 'Alvida. 410 GIORNALE L1GUSTIGO gine doveva essere lai dell’atto III ed in seguito ία trasportata alla fine dell’atto II, è tutta vergata di pugno del Duca (i); così pure sono di carattere del D’Agliè le scene di Aspero e del Mago ed alcuni frammenti di altre scene. Oltre a ciò il codice reca sovente postille e correzioni del Duca e del nostro poeta; talvolta ne è a dirittura tempestato. Così, per recare un esempio, nella se. IV dell’ atto III Adamante, dopo di avere rimpianto la morte di Smeralda, si rivolge ad Opala: A sì candida fede, Opala, i’ devo E me stesso e la vita; hor va, tu cerca Novi amor, novi amanti; io a la durezza Di Smeralda terrò Γ anima avvezza. Parvero al D’Agliè troppo fiacchi i rimbrotti rivolti ad Opala da Adamante, ed aggiunse di sua mano: Novi amor, novi amanti. Tu che sprezzasti un tempo, Orgogliosa nemica, alma infedele, Su Γ aitar del mio petto La vittima del cor, vanne crudele, A cercar chi t’ adori, Là negli antri più cupi, Pastor eh’ abbia compagni I serpi o i lupi. E il Duca, a sua volta, e non a torto, così corresse il concetto del D’Agliè: Tu che sprezzasti un tempo I miei preghi e lamenti, Or di me non ti caglia ; Vanne pure, crudele, (i) Abbiamo già ricordato che anche le scene degli atti li e III che si conservano nel codice dell'Archivio sono di mano del Duca. GIORNALE LIGUSTICO 4II A cercar chi t’adori Con mille novi amori, Ch’io per me stracco Del tuo novo volere, Smeralda trasformata vo a vedere. Finalmente il D Agliè, togliendo le solite asprezze ai versi del Duca : Tu che sprezzasti un tempo I miei preghi e lamenti Vanne, vanne, crudele, A cercar chi 1’ adori Con variati amori. Io per me stracco del tuo van desire, Vo’ Smeralda seguire. Le altri parti del dramma-, e sono di gran lunga le più numerose, sono tutte di una stessa mano; non sapremmo dir quale. Così non sapremmo, neppure a un dipresso, assegnare una data alla composizione del dramma, il quale non contiene nessun accenno che ci possa istradare verso qualche concettili a. Se pensiamo che le scene d’Aspero e del Mago sono un rimaneggiamento di altre consimili de\YAlvida, siamo indotti a credere il dramma posteriore al 1606, anno in cui fu composta 1 Alvida (d’ altronde dalla dedicatoria di quest’ ultimo dramma si può inferire che mai prima d’allora il D’Agliè aveva resi servigi di simil genere al Duca); se inoltre osserviamo che a rappresentare i personaggi di Clori e di Onico sono indicati Filippo e il λ arra (1), che trovammo pure pre- (1) Vuoisi infatti notare che anche in questo dramma alcune scene recano, accanto al nome del personaggio della tavola, quello del comico 0 del musico che lo doveva rappresentare. Pel personaggio di Adamante è indicato un De Prosperi; Luisino e Filippo per quelli di Smeralda e di Clori, il Varra per Onico, e pel personaggio di Aspero furono proposti 1 nomi di Giacomino del Domo overo il dottor d’Asti, che poi furono cancellati. 412 GIORNALE LIGUSTICO scelti per la rappresentazione delle Trasformazioni, saremmo tentati di soffermarci intorno al 1609; ma l’argomento, almeno quanto al Varra, non ha molto valore, perchè già vedemmo che ancora molti anni dopo il Varra frequentava la corte di Savoia. Subito dopo il voluminoso quaderno che contiene i materiali del dramma ora esaminato, il cod. 298 reca un frammento di un altro dramma vergato nel carattere nitido ed elegante del D’Agliè. E un monologo della ninfa Zalizura con la risposta di Eco: Perchè de’ tuoi begli occhi, Cari nidi d'amor, occhi beati, Poiché del guardo tuo che ’l cor m’incende Lo splendor mi si toglie, Quello splendor che in me si prova e sente Quanto lucido men, tanto più ardente, A voi mi volgerò, piante selvagge, Antri cheti, erme piaggie, perchè accolgano Del mio mortai dolor 1’ ultime note. Ella invidia Endimione, felice amante della Luna: Io, di Febo crudel Ninfa seguace, Non ho de’ vivi rai Ch’ in me possa temprar le fiamme e i lai. Ma Eco la conforta a sperare: Godrò d’amor ne’ campi il frutto 0 il fiore? Eco. fiore. Sarò dunque dolente e giorno e notte? Eco: notte Come? avrò di vital, notte letale? Eco: tale. Così finisce la scena. Essa porta la segnatura: atto III, se. 1; ma a qual dramma appartenga non siamo in grado di indicare. GIORNALE LIGUSTICO 413 Più altri documenti si potrebbero raccogliere, se questi non bastassero, per comprovare quanto diligenti e faticosi furono i servigi che il D’ Agliè rese al Duca in tali suoi svaghi letterari. Se dai drammi passiamo alle liriche, rinveniamo nuove tracce di siffatta collaborazione. La nota canzone del Duca in lode della Santa Sindone, la quale comincia: Panno funesto insieme e glorioso Che aterrisci et consoli in un momento Chi ti mira con doglia 0 con amore Per segno acetti di mio sentimento Queste parole di affetto doglioso, Ma nate ambe di gioia et di timore, leggesi nel cod. 287 della Biblioteca del Re corretta dal D’Agliè e vergata tutta di sua mano. Ma l’opera del Duca che dovette costare al D’Agliè maggior fatica fu quella dei Paralleli degli uomini illustri antichi e moderni, cristiani et gentili 0 pagani. In ciascuno di questi Paralleli sono considerati tre personaggi che per lo più, appartengono, il primo, alla storia ebraica, ed il secondo alla storia greca o romana, mentre col terzo si scende a tempi più moderni. Così, per citarne alcuni, troviamo raggruppati insieme Mosè, Romolo, Costantino; Giosuè, Alessandro Magno, Carlo Magno; Giuda, Vespasiano, Gotifredo Buglione; Otto-niello, Furio Camillo, Emanuel Filiberto; Ester, Veturia, Margherita Valesia, duchessa di Savoia; Sansone, Ercole, Orlando: David, Tito Manlio Torquato, Goffredo Grisago-nella; Iudith, Tomiri, Giovanna D’Arch, pulzella d’Orleans; Ioab, Pompeo Magno, Francesco Pizarro; Ioas, Lucullo, E-doardo terzo, principe di Galles; Giuda Macabeo, Appio Claudio, Amedeo VI di Savoia. Ogni Parallelo comincia con un cenno generale intorno alla vita ed al carattere dei tre personaggi che sono posti a confronto; indi prosegue mettendo in rilievo quei tratti particolari delle loro vicende che 414 GIORNALE LtCUSTIGO presentano maggiore affinità. L’opera è di gran mole e di lunga lena; e le citazioni delle fonti, che corredano taluni paralleli, dimostrano che il lavoro di preparazione e di compilazione non fu nè facile nè breve (i). Egli è chiaro che a siffatta fatica non poteva sobbarcarsi interamente il Duca, chè ben più gravi negozi pesavano sulle sue spalle; da lui mosse assai probabilmente l’ispirazione, e si può anche credere ch egli traccio le linee principali dell’ opera, ed indicò le fonti a cui attingere (2) ; ma l’incresciosa briga di raccogliere i materiali e di ordinarli, il Duca la lasciò, almeno in parte, ad altri. Ed anche in questa occasione chi gli venne in soccorso fu Lodovico D’Agliè (3). Il codice dell’archivio di Stato di Torino che contiene 1 Paralleli è tutto scritto di mano del nostro poeta; il Duca però segui il lavoro con assiduo interesse e quasi ad ogni parallelo 0 aggiustò obbiezioni o propose correzioni 0 consigliò aggiunte. Cosi nel parallelo di Ioas, Lucullo ed Edoardo III, avendo il D’Agliè ricordato il numero dei soldati che componevano l’esercito di Lucullo, (1) Pel Parallelo di Giuda, Vespasiano, Gotil'redo Buglione sono citati i seguenti autori: Tacito, Paolo Emilio Veron, De rebus gest. Frane.; Guglielmo, vescovo di Tiro, De bello sacro; Nicolò Gilles, Annali di Francia; Gioseffo, Oe bello lud.\ Botero, De’ principi cristiani; Gioseffo, De antiq. ; Pietro Messia, Vita di l^espas.; Genebrardo, Cronache; Ege-sippo, Sabellico, Conivi, della vita di lito sopra Svctonio ; Capaccio, Libro delle imprese. (2) Infatti in un mazzo dei manoscritti de! Duca conservati nell’ Archivio di Stato di Torino si leggono alcune parti dei Paralleli stese di pugno di Carlo Emanuele; di più, v’ha 1’elenco dei personaggi da considerarsi, già disposti nel loro ordine di ebrei, gentili e cristiani. (3) E questa volta il Duca riconobbe le fatiche del suo segretario e lo compensò in modo adeguato: già vedemmo che in una lettera al Duca del D’ Agliè, questi dichiara d’aver ricevuto da lui un donativo pei Paralleli. GIORNALI· LIGUSTICO 415 il Duca scrisse di suo pugno la seguente postilla : « Questo numero de la gente di Lucullo bisogna rivederlo bene, perchè mi pare che haveva più infanteria ». Il parallelo fra Ioab, Pompeo Magno, Francesco Pizarro reca in fine questa aggiunta del Duca: « Se si potesse agiustar un parallelo che di tutti tre si deplorassero le morti del inimico ucciso come fece Cesare vedendo la testa di Pompeo (che pianse per gli ochi fuor si come et scritto) ». E pel parallelo di Sansone, Ercole, Orlando: « Morseno tutti tre infelicemente et a tradimento »; e, ricordata la morte di Sansone e ai Ercole, così soggiunge il Duca: « Orlando poi tradito da Gano con la sua gente in Roncesvalle et circondato dai saracini, havendone uciso una gran quantità ». Di tal natura erano i servigi che il D’Agliè recava al suo Sovrano; servigi invero faticosi, se si pensa alla irrequietezza del Principe che lo traeva a mutare e rimutare senza posa, ed incresciosi per un animo colto e gentile, per quanto devoto, come era quello del nostro poeta. Ma è ornai tempo che, cessando di considerarlo come umile collaboratore del Duca, noi presentiamo ai lettori il D’ Agliè sotto 1’ aspetto più dignitoso di poeta originale. Nel ίδιο il D’Agliè diede alle stampe, insieme co\V Autunno, una raccolta di Rime varie, nella quale egli comprese anche quel Ritratto della serenissima infante Margherita di Savoia, che già avea vista la luce, come anonimo, nel 1605. Le Rime varie occupano assai più della metà del volume (da p. 99 si estendono sino al fine, cioè alla p. 220); ma non contengono tutta la produzione lirica del D’Agliè. Infatti, anche non tenendo conto di alcune sue poesie che furono qua e là stampate in varie occasioni, più altre se ne leggono in codici di quel tempo, che esamineremo qui brevemente. A. — Codice 53 della Biblioteca Reale di Torino. Contiene 48 canzoni del D’Agliè e due suoi drammi: la Bellonda e la GIORNALE LIGUSTICO Caccia. Il codice fu copiato dopo la morte del poeta, come si desume dai due distici seguenti che gli furono posti in fronte : San Martinorum Regali stirpe creatus Haec si quis videat, perlegat inde ferat. En Ludovicus morti succumbit acerba Vita sed aeterna , hinc iam sua virtus erit. (c. 3'). La trascrizione non dovette però essere posteriore di molto alla morte del poeta, perchè ci sembra di mano del secolo XVII. Sulla fine del secolo scorso il codice era posseduto dal Vernazza, che ce ne diede la descrizione in quelle Notizie intorno a Lodovico D’Agliè che abbiamo già ricordate; da lui fu donato « alla Regia publica libreria » (1). Ecco in breve 1’elenco delle canzoni contenute nel codice: I. (c. 4r) In lode del bealo Luigi Gonzaga — Canzone di il strofe. Il poeta si rivolge alla musa e 1’ invita, lasciati men degni soggetti, a cantare le lodi del Gonzaga: Tu che d’amor talhora Alla cetra sposasti De’ molli vezzi in sen carmi impudichi, Deh! l’alma or m’ innamora Di pensier puri e casti, ecc. (str. 2, v. 1-5), II. (c. 7r) In lode dell’ huomo. Canzone di 10 strofe. Dopo avere cantato i pregi dell’uomo, il poeta si rivolge a Carlo Emanuele I: Ma pur dillo tu, Carlo. Honor de’ semidei, Fenice de gli heroi, fior de’ guerrieri, Se quei ch’or scrivo e parlo (1) Così si legge nelle Notiae stesse del Vernazza. Non ci pare poi dubbio che il codice vernazziano non sia da identificarsi col cod. 53 della Reale, tanto fedelmente questo risponde alla descrizione lasciatacene dal Vernazza. GIORNALE LIGUSTICO 417 (1) Tra questa canzone e la seguente il codice contiene 10 poesie del D’ Agliè, gii a stampa tra le Rime varie. Gior. Ligustico. Anno XX. 37 Esser dell’ huom trofei, Di te sol nato a governare imperi, Non son pregi più veri ? Tu sol figlio di Marte, Carlo, prode di man, di volto augusto, Di tue grandezze e de’ tuoi pregi onusto, Le lingue, i cor, le carte Colmi di meraviglia, Sì che cosa mortai non ti somiglia (str. 9). III. (c. 91) Al sonno. Canzone di 12 strofe. Innamorato perdutamente di Lilla, il poeta invoca il sonno a suo conforto : Te solo chieggio e bramo, Re dei sogni amorosi, oblio dei danni. Tu puoi col letheo ramo Sopir le cure e ristorar gli affanni. Eccomi d’ atre cure Da speranze ingombrato e da paure (str. 5). Tu lusinghier pietoso, Che il tempo al tempo dolcemente furi, E con grato riposo Dai travagli del dì 1’ alma assicuri, O del mondo ristoro, Guidami hor qui colei eh’ amo et adoro (str. 6). IV. (c. 12). Ritorno. Canzone di 9 strofe (1). Il poeta canta le gioie del ritorno presso la sua dama. Com. : Mentre da’ tuoi bei lumi, Vive faci d' amore, ecc. XV. (c. 77). Ai sospiri. Canzone di 12 strofe. Com.: Care lingue d’amore, Dolcissimi sospiri, ecc. 4x8 GIORNALE LIGUSTICO XVI. (c. 80). Bella donna veste color di mare. Canzone di 9 strofe, Com. : Ite neglette e vili Quante i Tiri e i Fenici Traggon vaghe e gentili Pompe da le murici. XVII. (c. 83). La gelosia. Canzone di 10 strofe. Com. : Cura gelata e ria D’ un petto innamorato , Perfida gelosia, ecc. XVIII. (c. 87). Al dolore. Canzone di str. 11. Com.: 0 dolore, 0 dolore, Indiviso compagno Degli amanti e d’ amore. XIX. (c. 97). Aììe lagrime. Canzone di 15 strofe. Com. : Vive pioggie cadenti, Figlie non già del duol, figlie d’amore. XX. (c. 93). Al capriccio. Canzone di str. 10. Com.: Su per 1’ aer leggiere. XXI. (c. 97). Al pensiero. Strofe 5. Lontano dalla sua donna, il poeta invoca in suo soccorso il pensiero. Invisibil corriero Cui non prescrive alcun termine e loco, Generoso Pensiero, Lungi da chi brani’io, te solo invoco: Te che là dove siedi, O non sei, 0 se sei, hor parti hor riedi (str. 2). XXII. (c. 99). Nell’ arrivo delle serenissime Infami alla Vigna del serenissimo principe Cardinale. Strofe 8. Invita la natura verdeggiante, che circonda la villa del principe , a rispondere al suo canto : Ecco il Sol, ecco i Numi De l’alpine pendici; Ecco i raggi, ecco i lumi GIORNALE LIGUSTICO 419 Di questi colli aprici; Ecco nelle foreste, ecco ne’ campi D’ alte bellezze i lampi (str. 5). XXIII. (c. 100). Nel medesimo soggetto (1). Strofe 5. Com.: O de Γ alme imperatrici. XXIV. (c. 102). Ambra in forma di testa di Re Moro. Str. 7. Com. : Da gli ultimi confini. XXV. (c. 104). Infermo chiede di essere visitato dalla sua D. Strofe 5. Finisce: Deh, bella Lilla, vieni, A far 1’ alma tranquilla Co’ tuoi lumi sereni; Vientene, o bella Lilla; Potrà un tuo sguardo, un riso Volger stanza d’ infermo in Paradiso. XXVI. (c. 105). Vita rustica lodata. Strofe 4. Com. : Oh voi lieti e fortunati. XXVII. (c. 107). All’aura. Strofe 11. Com.: O de la bella Flora. XXVIII. (c. 109). La bellezza, alle serenissime Infanti. Str. 7. Com. : Io de’ sensi e de’ cori. XXIX. Dialogo: Tirsi ed Armillo. Ritenendo essere impresa impossibile tessere le lodi di tutti i principi sabaudi, i due pastori si restringono a cantare le bellezze e le virtù delle principesse Margherita, Maria e Caterina. Com. : Fra questi tetti aurati Dove spiranti in poca tela miri De la stirpe reai i grandi heroi. (1) Questa canzone fa parte di un altro componimento poetico del D’ Agliè, che citeremo fra breve. 420 GIORNALE LIGUSTICO XXX. (c. 115) A gli occhi. Strofe 5. Com.: Vive stelle lampeggianti. XXXI. (c. 117). Allorida, Ahnirinda. Strofe 9. In lode della principessa Margherita. Com. : Oh come bella in oriente ascesa. XXXII. (c. 122). Alla speranza. Strofe 8. Com. : Ahi speranza menzognera. XXXIII. (c. 124). Nell’istesso soggetto. Strofe 4. Com.: Ahi speranza micidiale. XXXIV. (c. 126). Americo conducendo i suoi cavaglieri in campo. Strofe 5. Da Γ inhospito e strano Clima, eh’ ha terra e mar eh’ ha il Cielo ignoto, cosi comincia il suo dire il nuovo continente, Alla bella Allidora Reina d’ honestate e di bellezza, Questi ad offrir intenti Vengo con forte mani e aperti cori Da 1’ Americo sen le gemme e li ori (str. 2). XXXV. (c. 128). Asia conducendo le ama^oni in campo. Strofe 5. Le mie donne guerriere Del Re dei fiumi in su le sponde altere, Dove il campo alla pugna hor si disserra, Braman soggetto far d’ armi e di carte, (str. }). XXXVI. (c. 119). Dialogo: Po, Dora, Stura. È un canto epitalamico per le nozze del principe Vittorio Amedeo con Cristiana di Francia. Invitate dai tre fiumi, le Sirene escono a cantare le lodi della sposa: Ecco in grembo a vostre sponde Da la Senna a trar dimora GIORNALE LIGUSTICO 42I Nuova dea delle sais’ onde Hor ne vien, Po, Stura e Dora; Tanto il ciel vi favori. E più oltre: Qui già par che Γ onda avampi Nel mirar bellezze tante: Forse là negli alti campi De’ suoi raggi il sole amante, O Cristiana, ti vesti. XXXVII. (c. 134). La gelosia cagione che si scoprì amore in bilia donna. Strofe 7. Coni.: Non sia più chi ti chiami. XXXVIII. (c. 135). Solitario. Strofe 13. Com.: Muse amiche dell’ ombre e degli horrori. XXXIX. (c. 139). Sdegno cagione di pianto in Bellamira. Strofe 9. Coni. : Udite , udite, amanti. XL. (c. 142). Color aelino lodato. Strofe 8. Com. : Dai pavimenti herbosi. XLI. (c. 144). I11 assenna. Strofe 4. Il poeta si trasporta col desiderio sulle rive della Dora, presso la vita gentile del suo pensiero. Com. : Chi di voi 1' ali al mio ritorno appresta. XL1I. (c. 145). Perseveranza d'amore. Strofe 5. Com.: Vanne, implacabil mostro. XLIII. (c. 148). Ferito in un piede, manda la sua D. a visitarlo. Strofe 7. Com. : Non perchè, bella Filli. XLIV. (c. 150). Amicitia vera. Strofe 6. Com.: Parta 0 resti a sua voglia. 422 GIORNALE LIGUSTICO XLV. (c. 151). Memoria. Strofe 9. Il poeta, lontano dalla sua donna, ripensa con tristezza alle gioie serene del suo amore e impreca alla memoria, «di tormenti dispensiera». Hor però che dalle rive Mi sto lungi della Dora, Il tuo raggio avvien che avvive Quel pensier che m’ addolora , Fatti all’ alma i tuoi splendori Foschi horrori (str. 5). XLVI. (c. 154). Partenza. Strofe 9. Finisce: Deh, bella Filli, intanto Ascolta i miei sospir, mira il mio pianto: Ecco partir convenmi, Ecco ch’ a te mi toglie il destin rio, O bella Filli, a Dio! XLV1I. (c. 154). Doppio amore. Strofe 8. Il poeta confessa di essere preso da amore egualmente vivo per due donne: O Clori, o Fìlli, 0 care anime belle, Egualmente v’ adoro. Queste bellezze e quelle Rai congiungendo a rai fan eh’ io mi moro. XL Vili. (c. 159). Improvviso rossor di bella donna. Strofe 9. Com. : Chi le tue nevi infiamma, Bellissima Fillena, ecc. B. — Codice N. IV. 51 della Nazionale di Torino; del secolo XVII, tutto di una sola mano, che non è quella del D’ Agliè. Contiene poesie del Marino, dei Guarini padre e figlio, di Annibaie Pocaterra, di Ercole Castelli, di G. B. Leoni, di Francesco Tigrini, di Antonio Fortini ed altre d’ incerto autore (1). Le poesie del D’Agliè sono 9, di cui sette a (1) Crediamo utile segnalare almeno le poesie del Marino e dei Guarini. Ecco quelle del Marino: GIORNALE LIGUSTICO 423 stampa tra le Rime varie. Tra la stampa e il manoscritto intercedono però molte varianti. Il sonetto Alla serenissima Altera di Savoia che nella raccolta a stampa (p. 97) comincia : Musa guerriera, tu che l’alta mente Nodrita infra i sudor d’ opre honorate, ecc. e finisce : Ond’ ei dispieghi de la Croce i segni Oltre i confin de 1’ orgoglioso Egitto, nel codice comincia : Musa guerriera tu che 1’ alta mente Quai penne di colomba inargentate, e finisce : Acciò fien di sua man trionfi degni La Siria vinta e il soggiogato Egitto. Così il madrigale: Il Po, che nella raccolta a stampa è indirizzato al duca Carlo Emanuele, nel codice lo è al duca di I. P«r una Schiava mora. — Sonetto (f. 2'). Com. Negra sì, ma se’ bella, o di natura Fra le belle d’amor leggiadro mostro. II. Per la signora Anna N. — Sonetto (f. y). Com. Anna, ben tu da l’anno il nome prendi, E ben da Γ anno ogni costume hai tolto. III. Per la signora Laura. — Sonetto (f. 3'). Com. Questo è il lauro celeste, il lauro dove Verdeggia il mio sperar nel centro interno. IV. Hinno alle stelle. — Canzone (f. 4' - 6'). Com. Hor Γ ingegno e le rime A voi rivolgo, 0 stelle, ecc. I tre sonetti si leggono a stampa nella Lira del Marino, con lievi varianti. D’ Alessandro Guarino : I. Amante vivente in dolore nella lontananza dell'amata. — Madrigale (t. 11*). Com. Se lontana voi sete, ecc. 424 GIORNALE LIGUSTICO Neraors. Di inedito il codice contiene un sonetto Nella andata dei serenissimi principi di Savoia in Spagna (f. i6r) e un altro sonetto sulla Beitela sença honesta fugace (f. I7r)· C. — Codice 287 della Biblioteca Reale. È una raccolta di poesie autografe di molti autori indirizzate al Duca. Sono quasi tutte anonime; alcune però ci sembrano indubbiamente di mano del Marino, del Chiabrera, del Murtola e del D’Agliè (1). Appartengono al D’Agliè le seguenti : I. (fase. 23). Sonetto sen^a titolo. Com.: Scorre lucido in Ciel di stelle un fiume Di sole in terra nel cristallo ondoso. II. Amante costante assomiglia la sua donna al sole e sé stesso alla terra. — Madrigale (f. 12') Com. Cangiate pur pensiero. III. Ad un Cignale domestico che gira per la città.— Madrigale (f. 12'). Com. Cerchi ne la città, novello Adone. IV. Le fanciulle s’ innamorano per gioco et ardono poi da dovero. — Ma- drigale (f. 13') Com. La bella pargoletta. V. Ad un papagallo che parlava. — Sonetto (f. 13'). Com. Vago augellin che colle verdi piume. Del cav. Guarino: I. Ingiustizia di donna amata. — Terzine (f. 24') Com. Pur noto è il mio dolore. II. Donna che ’l disperato amante conforta. — Terzine (f. 24'). Com. Poiché de la tua dolce amata vista. III. Sospensione infelice. — Madrigale (f. 25') Com. Anima irresoluta. IV. Dialogo di Mirtillo e Amarilli — Madrigale (f. 25'). Com. Bella donna sdegnosa. Nell’edizione di Venezia delle Rime del Guarino, 1598, la sola che ci fu dato confrontare, non abbiamo trovato nessuna di queste quattro poesie. (1) Del Marino vi si legge il sonetto : Segue il vento leggier, fabrica t fonda, (fase. 41), che si trova nella Lira, parte III, ediz. cit., p. 19. Del Murtola v’ hanno tre poesie : I (fase. 66), un sonetto Per il Bucintoro della GIORNALE LIGUSTICO 425 II. (fase. 47). La Dora. Sonetto. Com.: Già del trinacrio mar 1’ ultime mete Per lungo corso di sentiero ondoso, Tutto fiamma, cercando, un Nume acquoso, Arse fra 1’ onde d’ amorosa sete. III. (fase. 72). La bella serva. Canzone. È quella che leg-gesi a stampa, p. 138. IV. (fase. 78). Nettuno introducendo i fiumi. Com. : Voi che 1’ onde inargentate Al mio regno in dono offrite, Alme eccelse e fortunate; Ecco i Numi d’ Anfitrite Farvi don tra canti e balli D’ aure conche e di coralli. V. (fase. 80). Il fascicolo consta di tre fogli. Precedono sei quartine, in cui è introdotto a parlare il Po : Da le gelide mie fonti native Superbo figlio di nevoso monte, Chinar qui venni la taurina fronte Al cospetto di voi, inclite dive. Quel io eh’ imperioso il corso stendo Ne’ gran campi d’Italia e’I mar guerreggio, Catterina reai, qui pargoleggio E ’l tuo natale a riverir discendo. Nei due fogli seguenti si legge un dialogo fra Taurindo e Dorilla (pastore e ninfa trasformati in piante), i quali si serenissima principessa di Mantova, com.: All’apparir del purpureo legno; II (fase. 77), una canzone sulla Spina (a stampa nel Cannoniere, p. 369); III (fase. 108), un sonetto che comincia: Di nere bende i suoi begli occhi chiude. Ci paiono di mino del Chiabrera due canzoni: I (fase. 19), Per Carlo Emanuele duca di Savoia, quando egli lasciò Geneva assediata et andò a soccorso della Provenga, com.: Se vibrare asta e dare aspra battaglia·, II (fase. 113), una canzone di 9 strofe, ciascuna di undici versi, rivolta alla Fama, coni.: Fama che d'auree piume. Ma sopra i mss. chiabrereschi esistenti nelle biblioteche torinesi c' intratterremo altrove più a lungo. 426 GIORNALE LIGUSTICO lagnano della vita cittadina, ed esaltano quella della campagna. A goderne or vengono anche le regine infanti: Parti illustri de la fama, Hor che brama Di foreste il cor v’ accendi:, Questo colle al bel sembiante Regie Infante, D’ ostro e d’ or tutto risplende. E si prosegue colle lodi delle principesse (i). VI. (fase. 91). Al Piemonte. Sonetto. A che, ripieno il cor d’ alto spavento, Di non più vista in ciel stella focosa, Messaggera di duol prodigiosa, Osservi il sito, il moto, il nascimento? Non il Piemonte ne deve temere sibbene gli eretici. Nata a gli animi unir, nuntia di pace Al Rodano, a la Sona, a le due Dore, Del celeste himeneo questa è la face (2). VII. (fase. 112). Il Pò, la Dora, la Stura. Dialogo tra i fiumi, che si rivolgono al Duca, ai principi ed alle princi- (1) Il Dialogo finisce con una canzone che già abbiamo menzionato esaminando il cod. 53 della Biblioteca Reale, canz. XVIII. (2) La cometa a cui accenna il poeta in questo sonetto apparve nel 1605. Infatti nella Lira del Marino (P. III, Venezia, 1646, p. 135) leggesi un sonetto Per la stella apparsa nella morte di Clemente Vili (f 1605), ove sono ricordati gli stessi timori del volgo, che nella poesia del D’Agliè: Nè fu, com’altri disse e come forse Stima ancor la vulgar credula gente, Messaggera di mal cometa ardente, Che di foco e di sangue il crin s’attorse. GIORNALE LIGUSTICO 427 pesse di Savoia e ne tessono le lodi. Una chiara allusione al ritorno dei principi dalla Spagna : O del famoso Alcide Serenissima prole: o tu c’hor hora Dall’Ibero confin ritorni in seno Del tuo natio terreno, ecc. (1). Due brani del Dialogo si leggono anche a stampa (pp. 160 e 193). Vili. (fase. 118). Per un folgore caduto sulla cupola del santissimo Sudario. In raccolta a stampa, p. 198. D. — Cod. 298 della Bibliot. Reale. Nel fase. 39 vi si legge un sonetto in cui il poeta ci dipinge il Duca tranquillo spettatore dell’ incendio della sua reggia. Com. : Mentre dell’ Alpi al gran guerrier sopia Notturna requie i sensi e non le cure, ecc. Allorquando Lodovico D’Agliè pose in fronte alla sua raccolta di Rime varie il sonetto alla Sereniss. Altezza di Savoia, in cui eccita la musa a cantare questo nuovo eroe, invitto difensore d’Italia, emulo di Annibaie e di Alessandro nel va lore guerresco e di Goffredo nella pietà, egli caratterizzò il suo Canzoniere. Poiché se cerchiamo quale sia il motivo fondamentale che in esso ricorre con maggior frequenza, vediamo subito che la poesia del D’Agliè è essenzialmente cortigiana e che mira anzitutto ad esaltare i principi di quella Casa a’ cui servigi egli si era consacrato. Non vi fu avvenimento di qualche importanza alla corte di Torino senza che il D’Agliè lo celebrasse co’ suoi versi. I giovani tigli di Carlo Emanuele partono per la Spagna (1603), ed il nostro cavaliere intesse due sonetti sopra auguri di buona ventura nel loro viaggio; nel 1606 essi ritornano in patria, e il D'Agliè ne canta Par- (1) Un sonetto del D’ Agliè Per lo ritorno dei serenissimi principi di Savoia leggesi pure nella raccolta a stampa (p. 191). 428 GIORNALE LIGUSTICO rivo. Nel frattempo essendo morto in Ispagna il principe Filippo, il poeta piange con una canzone il triste avvenimento. Quando nel 1608 la corte e la città di Torino sono in festa per le nozze delle principesse, il D’Agliè si unisce al coro ben nudrito di altri poeti per celebrare la fausta unione della casa di Savoia con 1’ Estense e la Gonzagesca. Narra infatti il Brambilla (1) che in breve volgere di tempo avendo Carlo Emanuele I innalzato degli archi e delle colonne trionfali per accogliere i principi di Mantova e di Modena, due poeti ne trassero argomento per comporre, l’uno, il Murtola, due epigrammi, e l’altro, un cavaliero, un sonetto. I due epigrammi cominciano: I. Quam varia aggrederis, Princeps, quam perficis illa Haec moles animo sit satis una tuo. II. Formoso ut nubat Paridi formosa Lacena haec In media fiunt vasta theatra hieme (2). E il sonetto del cavaliero che il Brambilla non nomina, ma che è del nostro D’Agliè, perchè si legge tra le sue Rime varie (p. 179), è il seguente: Erger con fronti minacciose al cic-lo Archi, moli, e theatri, ecc. (3). (1) Relatione delle feste, torneo, giostra ecc. fatte nella Corte del serenissimo di Savoia nelle reali none delle serenissime Infanti donna Margherita e Isabella sue figliuole, Torino, Cavaleris, 1608. (2) Il Brambilla ricorda altresì che il Murtola compose un sonetto sopra le ore raffigurate in certi arazzi che adornavano gli appartamenti del Duca; sonetto che leggesi a p. 353 delle Canzonette del Murtola (Padova, 1608). A proposito di epigrammi latini del Murtola, ricordiamo che il cod. 289 della Biblioteca del Re ne conserva tre, tutti di mano dello stesso poeta; di cui uno De aquila capta a Victorio (fase. 21), ed un altro In Bibliotecam ser. D, Sabaudiae, È noto che del Murtola sono a stampa alcuni Epigrammata ad Carol. Eman. Sabaudiae ducem, Torino, 1608. •.3) Un altro sonetto, adespoto, Sopra le fabbriche del serenissimo signor Duca di Savoia leggesi nel cod. 287 della Biblioteca Reale, (fase. 123). GIORNALE LIGUSTICO 429 In questa medesima occasione delle nozze delle infanti di Savoia, il D’Agliè compose due altri sonetti, pure riportati dal Brambilla nella sua Relazione, in cui il poeta canta, nell’ uno, i « cavalli forniti alla Gianetta presentati da S. M. Cattolica a i Sereniss. Prencipi di Savoia » (come suona il titolo del primo sonetto), e che servirono ai principi nella giostra da loro sostenuta contro gli avventurieri (2), e nell’altro descrive l’entrata nel torneo del giovinetto principe Tomaso. Chi si accingerà a soddisfare quel desiderio che, da lungo tempo manifestato, pare che ora più che mai punga l’animo degli studiosi della nostra letteratura, ed illustrerà quel periodo di rigogliosa vita letteraria che si svolse nella Corte di Cario Emanuele I, dopo avere largamente mietuto nella numerosa serie di opere edite e inedite che giacciono quasi intatte nelle nostre biblioteche, non potrà trascurare di raccogliere qualche briccica nelle relazioni delle feste che in varie occasioni si celebrarono in questa Corte. Come in allora i nobili cavalieri scendevano in campo a misurare il loro valore ed a farsi belli di magnifici acconciamenti agli occhi delle dame, e la Corte e gli altri principi gareggiavano in splendore di pubblici e privati spettacoli, così i poeti concorrevano coll’opera loro a rendere più solenni le teste allestite dai loro mecenati, stendendo cartelli di sfide 0 componendo sonetti, madrigali e canzoni pei cavalieri e per le dame o per le Deità e gli altri simbolici personaggi che facevano parte degli apparati delle giostre, dei tornei e dei balletti: componimenti che i diligenti cronisti della festa si affrettavano a raccogliere. Così nella prefazione al Battesimo del serenissimo principe di Piemonte Carlo Emanuele.....seguito nella città di Torino li mar70 ij67, (2) Ed a proposito di questa giostra cfr. le stanze del Murtola sopra Gli aventurieri overo Giostra per li sereniss. Prencipi di Savoia·, tra le Canzonette cit. p. 23. 450 GIORNALE LIGUSTICO lo stampatore avverte il cortese lettore che, trovandosi egli assente durante le feste celebrate per tale battesimo, ed avendone udito la magnificenza, desiderò vederne per iscritto la descrizione. « Per il che sendomi detto che ’l signor Agostino Bucci lettor di filosofia nello studio di S. A. (i) ne haveva ritenuto qualche memoria, non solamente del successo, ma anco di certi componimenti latini et italiani scritti da diversi nel medesimo soggetto », lo stampatore pregò il Bucci di parteciparglieli, ed avendoli ottenuti ne arricchì ed adornò la sua relazione (2). I componimenti italiani sono un sonetto caudato di G. B. Giraldi Cinzio, un sonetto di Agostino Bucci, un altro di Filippo Bucci; Filiberto Pingone ed il Giraldi composero inoltre delle lodi latine. Delle feste che, quasi venti anni dopo, si celebrarono in Torino per accogliere D. Caterina d’Austria che Carlo Emanuele I conduceva seco in Piemonte, più fresco è il ricordo; poiché riconnettendosi ad essa l’importante questione della ìappresentazione del Pastor fido del Guarini, più volte si offerse 1 occasione di farne menzione. Ed anche allora fu assai copioso il contributo dei poeti di Corte. Narra 1’ anonimo (1) Agostino Bucci fu uno dei più noti letterati della corte di Torino, e fiorì sulla fine del sec. XVI. Egli compose un numero stragrande di opere su svariati argomenti, tra le quali un poema, 1’ Amedeide, che canta la impresa di Rodi. Di lui e del suo poema diamo più ampie notizie in uno studio sull’ Amedeide del Chiabrera, già in corso di stampa, che sarà inserito nel Giornale storico della letteratura italiana. (2) Le relazioni di questa e d’ altre feste, che vedremo in seguito, tro-vansi raccolte nel cod. Ο. I. 8 della Biblioteca Nazionale. La maggior parte di esse uscirono per le stampe, donde il raccoglitore ebbe cura di ricopiarle. Ciò nonostante il codice serba ancora molta della sua importanza per la difficoltà di rintracciare quelle vecchie stampe volanti. Quanto alle feste celebratesi pel battesimo di Carlo Emanuele, una descrizione più ampia fu data dal Gabotto , La giovinezza di C. E. I, in questo Giornale, 1889, p. 14 sgg. GIORNALE LIGUSTICO 4SI cronista (1) che allorquando gli sposi, giunti a Moncalieri, per rompere la monotonia del viaggio, lasciarono la via di terra per imbarcarsi sul Po, si presentò loro questo fiume e recitò due ottave in forma di saluto, e a lui fecero coro gli altri sei fiumi del Piemonte che gli stavano intorno. Durante il breve tragitto da Moncalieri a Torino attendeva la sposa una strana sorpresa; sopra un enorme barcone era stata disposta un’ isola con arte cosi mirabile che pareva fosse naturale. Qui fu fatta discendere la Duchessa e mentre l’isola scendeva lentamente il corso del fiume, vi si rappresentò una breve favola di Alfeo ed Aretusa. Da una grotta scavata nella montagna dell’ isola si vide uscire, con una rottura di sasso, il fiume Alfeo, il quale, narrando in versi il suo infelice amore per Aretusa, disse di essere venuto ad onorare Caterina. A questi accenti, Aretusa uscì da un’altra grotta, e come, a sua detta, la vista della sposa gentile aveva debellato il suo fato e resole la Elvella, cantò a sua volta le proprie trasformazioni. Alfeo allora rivolse ad Aretusa nuove parole d’amore tentando di piegarne l’animo; ma inutilmente, cosicché al fine quella tornò nel fonte e questi nel sasso. Terminata questa rappresentazione (2), si recitò un curioso dialogo tra Venere, in (1) Relatione degli apparati e feste che furono fatte nell’arrivo dell'altera ser. di Carlo Emannele I, Duca di Savoia, con la ser. Infanta sua consorte, donna Catterina d'Austria da Nina a Torino. (2) Nella ristampa della Relatione fatta da L. Tettoni e M. Marocco nel libro: Le illustri alleante della Reai casa di Savoia, colle descrizioni delle feste nuziali celebrate in Torino, Torino, 1868, pp. 146 sgg., fu omessa la descrizione di questa breve rappresentazione di Alfeo e di Aretusa, la quale a noi parve meritevole di cenno, ricordando che anche il Guarini nel prologo del Pastor Fido fece dire le lodi degli sposi al fiume Alfeo. Per la questione non ancora pienamente chiarita della rappresentazione del Pastor fido in Torino, cfr. Rossi, Battista Guarini ed il Pastor fido, Torino, 1886, pp. 184-5. 432 GIORNALE LIGUSTICO cerca d'Amore, ed Eco, composto in modo che Eco rispondeva in lingua spagnuola alle domande che Venere le rivolgeva in italiano. Ninia gentil che già gran tempo invano Seguisti Amore e ’n queste alpestri grotte Restasti ignuda voce per Narciso, Hor dimmi chi nave Amor da me diviso? — hijo, ecc. Ma scendendo a tempi più vicini a quelli in cui fiori il nostro poeta, noi dobbiamo ora soffermarci ad esaminare una Relatione della festa fatta da S. A. di Savoia la sera di Carnevale nel gran salone del castello di Torino (i). Narra l’anonimo suo autore che in detta sera il Duca invitò nel castello una schiera numerosa di dame della città. Dopo un lauto banchetto, s’intrecciarono le danze; indi si rappresentò una favola pescatoria. « Nella scena — soggiunge l’anonimo cronista dopo averne descritto 1’ apparato — così naturalmente rappresentante un luogo marittimo, al cadere della cortina apparve Venere, in habito di cacciatrice vestita di ricchissimi vestimenti, la quale fece il prologo, il qual finito si die’ principio alla favola pescatoria che oltre Γ esser per sè stessa bellissima d’ inventioni e di moltissimi concetti spiegati con elegantissimi versi, parve nondimeno tanto più bella quanto fu rappresentata da giovani così esperti nell’ arte del dire e così riccamente vestiti che se bene durò per lo spatio di tre hore, parve nondimeno che il principio et il fine fossero un’ istessa cosa e sarebbe senza alcun dubbio stata più bella e più dilettevole, se il tempo avesse permesso che si fossero fatti gl’ intermedii apparenti che pure erano preparati per doversi fare, ma dubitandosi che si tardasse troppo si lasciarono ». Alla rappresentazione della favola pescatoria tenne dietro un (i) Codice 298 della Biblioteca Reale, fase. 7. GIORNALE LIGUSTICO 433 balletto. « L’ inventione fu questa, — prosegue la Relatione —, finsero le quattro principali età deU’huomo, cioè adolescentia, gioventù, virilità e vecchiezza, dimostrate per le quattro stagioni dell’anno, cioè primavera, estate, autunno et inverno, a cui proporzionatamente rispondevano quattro elementi, cioè aria, fuoco, terra et acqua, accompagnate dalla Speranza e tre numi divini, cioè Amore, Morte e Saturno» (i). Ognuna delle quattro età umane recitò una canzone, riportata per intiero dal diligente cronista. H l’adolescenza cominciò a cantare: Invece degli augelli Ch’ a salutar del dì la primier hora ecc. ; la gioventù : Se disio v’ accende il petto, Giovinette, Vezzozette, Di goder gioia e diletto, Deh! seguite questa schiera ecc.; (i) La rappresentazione dei quattro elementi fu tra le più gradite alia corte di Torino. Nel cod. N. V. 41 della Nazionale di Torino leggesi una descrizione dell’ Ordine della, mascarata delli quattro elementi fatta probabilmente in occasione del battesimo di Carlo Emanuele. Intatti una poesia latina, riportata subito dopo nel codice e intitolata lanus ad ser. Carolum Emanuelem, comincia: Salve magne puer, plaudentibus edite viris. Il codice, che è di scrittura nitida e corretta, contiene altresì quattro sonetti del Tasso (I, T)el puro lume onde i celesti giri; II, Negli anni acerbi tuoi.... III, Cercato ho i fondi e le più interne vene; IV, Nel tuo petto reai...) ed una canzone dello stesso (Tre son le gratie ancelle); sonetti e canzoni di Paolo Crasso, di Mario Currado, di Federico Della Valle, un sonetto del Tansillo (Su collige sarcinulas, Paceco)\ più alcune rime dell’Ottonaio e di Paolo Toso. Precede un manipolo di rime di Maffeo Veniero, tra le quali sono notevoli due canzoni in dialetto veneziano. Le stesse rime del Veniero si leggono nel cod. N. VI. 48 della Nazionale, di scrittura assai meno accurata ed elegante, con correzioni di mano diversa. Gior. Ligustico. Anno XX. :^ 434 GIORNALE LIGUSTICO 1' autunno : Queste some odorate, Cari parti d’amor, pompe famose Nel vago seno ascose De la stagion, che ne le piazze ornate, Quasi mar di rubini, Fa di terreni fior frutti divini ecc.; e finalmente la vecchiezza: Dal passo vacillante E da l’altrui agiuto, Da la mano tremante E dal pelo canuto Conoscermi dovete. L/ anonimo cronista, seguendo un’ abitudine quasi costante in siffatte Relationi, come trascurò di tramandarci il titolo della pescatoria e il nome del suo autore, così non si curò di ricordare i poeti che composero le quattro canzoni sulle età umane; ma per uno di essi siamo in grado di riparare a tale omissione, imperocché la canzone dell’ età virile è precisamente quella che leggesi tra le Rime varie del D’Agliè col titolo: L’ età virile figurata per ΓAutunno in occasione d’un balletto (p. 147)· Non sapremmo però fissare con eguale certezza 1 anno in cui fu data tale festa. La Relazione è muta anche per questo riguardo, nè contiene altri dati che ci possano essere di guida sicura. Tuttavia pensiamo che 1’ avvenimento debba essere collocato innanzi al 1603, cioè al viaggio dei principi in Ispagna, poiché il cronista parlando del serenissimo principe (1), del principe Vittorio Amedeo e del prin- (1) Se con questo titolo si potesse intendere designato non già il Duca, ma, com è probabile, il principe maggiore Filippo, sarebbe tolto ogni dubbio che il componimento non sia da ritenersi anteriore al viaggio di Spagna, poiché è noto che il principe Filippo morì durante questo viaggio. GIORNALE LIGUSTICO 435 cipe Filiberto, che presero parte al balletto, li dice tuttora in tenera età, cosicché gli spettatori si stupivano nel vederli danzare con tanta compitezza ed eccellenza : stupore che sarebbe stato fuor di luogo dopo il ritorno dei principi, quando questi erano già intorno ai vent’ anni. A questi umili uffici di versificatori trassero le esigenze della Corte poeti di maggior nerbo e di ben più alto grido del D’Agliè. Nel 1602, in occasione delle nozze di Beatrice d’Este con Ferrante Bentivogli, si allestì nel Parco un magnifico spettacolo che Pompeo Brambilla, « araldo della disfida dei cavalieri Mantenitori », ci descrisse nel suo Combattimento delli cavalieri di Diana e di Venere all’ isola Polidora nel parco del Ser. Duca di Savoia.....fatto nelle no^je dell’ III. Sig. D. Beatrice d’Este, maritala all’ IH. Sig. Ferrante Bentivogli, li 16 giugno dell’ anno 1602, Torino, 1602. Anche in tal festa, per dirla con una frase del tempo, le Muse servirono di ancelle a Marte e ai suoni dell’ armi si avvicendarono le recite di stanze, canzoni e madrigali. Tommaso Stigliani, che altri rapporti ebbe colla corte di Torino (1), compose allora un madrigale in onore della principessa Margherita : Qual di beltà spogliossi il Paradiso, Per onorarne il tuo viso, ecc., il quale, alla presenza dei principi e dei numerosi invitati, fu cantato nell’ isola Polidora con una dolcissima armonia d’i-strumenti e di voci. Passiamo sotto silenzio le feste celebrate pel ritorno dei principi dalla Spagna che pur potremmo descrivere dietro la scorta della relazione che ne stese il noto comico Andreini (2), (1) Abbiamo già ricordato una lettera del Coppino allo Stigliani, dalla quale risulta che questi aspirò a coprire una carica nella Corte di Carlo Emanuele. (2) Di essi abbiamo già dato notizia sul principio di questo studio. 436 GIORNALE LIGUSTICO e torniamo su quelle sontuosissime che allietarono le nozze delle Infanti di Savoia ne. 1608. Già vedemmo che da vari loro episodi e il Murtola e il D’Agliè trassero argomento per comporre sonetti ed epigrammi ; ma dobbiamo aggiungere eh’ essi vi presero una parte più diretta. Narra il Brambilla che i serenissimi principi, i quali erano mantenitori della giostra, comparvero nella lizza sovra un carro splendidamente adornato. Nel più alto grado di questo carro stava assiso Γ Onore, giovane bellissimo, riccamente vestito all’antica, il quale, giunto alla metà del campo ed alla presenza delle Infanti, cantò il madrigale: Io che su l’ali de la Fama errante L’ humane menti ho d’innalzar possanza ; Questi hor sul carro mio qui guido in campo: Et è ben dritto in vero, Che sia scorta Γ Honore A chi è Vittoria il fin, duce il valore. Il madrigale è del D Agliè e leggesi fra le Rime varie (p. 202) col titolo. L Honor conducendo 1. serenissimi prencipi Vittorio e Filiberto in campo. La Vittoria poi, alla quale, come suona il madrigale, 1 Onore conduceva 1 principi, stava pur essa sopra un cairo, in un altra parte del campo, e incoronava i vincitori: il che ci fa risovvenire che intorno ad un simile soggetto si aggira la canzonetta del Murtola: La Vittoria, canzone per un torneo del Ser. S. Duca di Savoia (1). Il Brambilla, dopo aveici fatto assistere al torneo, ci conduce, nella sera del medesimo giorno, entro il castello reale, nella sala maggiore di esso, dove le feste continuarono con un nuovo spettacolo offerto dal Duca alle dame della città. Si rappre- (1) Ved. le Canzonette del Murtola, p. 214. GIORNALE LIGUSTICO 437 sentò un gran balletto fatto dai paggi del Duca e dei principi vestiti in diverse fogge: quelli del Duca si erano acconciati a guisa di donne savoiarde e traevano con loro una cantatrice francese, Maturina (i), leggiadramente vestita di tocche d’oro, la quale cantò i seguenti versi: Nous sortons de ces monts, d’ou s’esclot la tempeste; Ces monts de la Lisere et du Rosne abrevés, ecc. ; quelli del principe maggiore erano vestiti alla contadinesca a foggia di Piemonte, e tre figliuolini eh’erano ·:οη loro cantarono : Noi che siam de’ pie’ de' monti Contadine Peregrine, ecc.; infine, i paggi del principe Filiberto s’erano travestiti da donne pescatrici. Finito il loro ballo, « venne uno dei musici dei principi vestito alla spagnuola » (2), che al suono d’ una chitarra cantò: Que bien pareçen Damas, los bailes ecc. Nè meno numerose e splendide furono le feste di cui risonò il carnevale dell’anno seguente, 1609. Già abbiamo toccato di una di queste a proposito di un dramma pastorale che vi fu rappresentato; ma a volerle menzionar tutte, quali sono descritte ne\V Abregé del Bertelot, troppo lunga via dovremmo (1) Nel Registro dei conti della casa ducale per l’anno 1608 al n. 16 abbiamo trovato nota di spese fatte « per mascarade e per una vesta per Maturina buffona del re di Francia ». (2) Probabilmente fu uno dei musici portoghesi Bartolomeo Guericio e Pietro e Francesco de Silva, condotti a Torino dai principi reduci dalla Spagna, dei quali occorre sovente il nome nei Registri dei conti dei principi di Savoia degli anni 1608-1610. 43 8 GIORNALE LIGUSTICO percorrere, poiché i principi e i gentiluomini s’ erano accordati, seguendo un uso tradizionale, che colui al quale fosse toccato un mazzo di fiori dovesse allestire la festa; e il mazzo era continuamente in volta or presso l’uno or presso l’altro di quei munifici signori. Cosi il Duca di Nemours dapprima, indi il marchese di Lanzo, quel di Caraglio, e i principi di Savoia diedero, ciascuno a sua volta, superbi conviti, cercando di soverchiarsi in magnificenza. Fu appunto in una di tali feste che il Marino dettò la risposta del Cavaliere della Rosa al principe Altimauro, campione della Incostanza, in persona del Duca di Savoia : Ch’ io con la schiera mia famosa e degna D ' Peregrinando di lontana parte, Cinto di rose a guerreggiar ne vegna, Cavalier di Favonio e non di Marte, Strano parrà; ecc. (i). Sorvoliamo, per brevità, sulle feste celebrate negli anni posteriori e trascorriamo più giù sino a quelle del 1618. L’eco ce ne fu conservata in una Relatione delle feste rappresentate da S. A. Sereniss. e dal Sereniss. prencipe questo carnevale (Torino, 1618). L ultima domenica di carnevale, il Duca, com’era suo costume, aperse la reggia ad un convito delle dame più riguardevoli della città. Dopo la cena, di cui l’anonimo relatore ci ha tramandato la solleticante descrizione, il principe di Piemonte volle rendere più lieta la festa con un balletto. « Pensò con questo il Seren. Principe di accennare il Capriccio, col quale altri talhora suole tutto se stesso ed ogni sua operatione ad una particolar cosa determinare. Fu però primo a comparire il (1) Il componimento del Marino si legge nell’ Abregé, come già fece noto il Vallauri, 11 cav. Marino in Piemonte, Torino, 1847, P· 101 e p. 209, ed altresì nella Lira. GIORNALE LIGUSTICO 439 Capriccio.....; giunto in mezzo della stanza, accordando la voce ad una chitarra che teneva in mano, cosi prese nora cantando ed hora recitando a dire : Su per Γ aure leggere Hor mi portate a volo Capricciosi pensier. Da l’alte sfere Al più profondo suolo Alternando viaggi, Hor sarò tutto ecclissi, hor tutto raggi. La canzone prosegue con sette altre strofe. Finito il canto, « vennero come gridando e gesticolando insieme in habito di Gratiano, d’Ariechino, di Claudione, d’Innamorato e di Capitano Mattamoros cinque giovani cavalieri, i quali sogliono talhora per diporto loro sì fatti personaggi rappresentare ». I cinque cavalieri introdussero al ballo cinque diversi capricci, quali della poesia ed altri, e l’oggetto delle loro questioni consisteva in ciò, che ciascuno di essi pretendeva che più lodevole fosse il capriccio da lui introdotto. La disputa si protrasse in lungo con discorsi non men faceti che sensati, movendo alle risa gli spettatori, i quali stimavano « che fosse i! ballo in si gratiosa commedia cangiato». Ci siamo dilungati nel riferire questo brano della descrizione, perchè non ci pare privo di ogni importanza per la storia del teatro alla Corte di Torino; ma quello che ora più ci preme di notare si è che Γ autore della canzone del Capriccio, al solito non nominato dalla, Relatione, fu il nostro poeta. Infatti la canzone si legge tra quelle del D’Agliè conservateci nel codice Vernazziano. E di tal passo potremmo continuare ancora a lungo le descrizioni di tali feste, se quel poco che ne abbiamo detto non bastasse da sè a rappresentarci uno degli aspetti della vita di quella Corte, ove il D’Agliè prestava la sua modesta 440 GIORNALE LIGUSTICO opera di poeta (i). E potrebbesi ricordare, fra le altre poesie del D’Agliè composte in occasione di feste, il canto epitalamico per le nozze del principe Vittorio Amedeo con Cristina di Francia (2), nel quale il poeta, valendosi di un artificio già altre volte usato (3), introduce il Po, la Dora e la Stura colle loro ninfe a tessere le lodi della sposa; ed ancora le due canzoni, America conducendo i suoi cavalieri in campo e Asia conducendo le A magoni in campo, le quale ci sembrano composte in occasione di qualche balletto (4). (Continua) Giuseppe Rua. (1) Alcune di queste teste furono già segnalate dal Cibrario, Delle giosire alla Corte di Torino, Torino, 1841; ma egli ne considerò soltanto il lato cavalleresco e marziale. Vogliono ancora essere ricordati gli appunti bibliografici raccolti dal Manno, Il tesoretto di un bibliofilo piemontese, pubblicati a più riprese nelle Curiosità e ricerche di storia subalpina, voli. II e III. (2) Anche delle feste celebratesi in Torino e altrove per tali nozze usci per le stampe la solita Relatione nel 1619; ma non vi trovammo fatto alcun cenno della cantica del D’ Agliè. La Biblioteca Nazionale di Torino possiede un’altra descrizione manoscritta di queste feste, intitolata Diario delle feste per le nox^e del duca Vittorio Amedeo I con Cristina di Francia (cod. O. III. 44), pubblicata recentemente per nozze dall’ Ottino (Torino, Paravia, 1892). (3) Cfr. la descrizione delle feste fattesi per le nozze di Carlo Emanuele I con Catterina d’Austria. (4) Prima di chiudere questo breve discorso intorno alle feste celebratesi alla Corte di Torino, vogliamo ancora ricordarne una del carnevale del 1623, alla quale si riferisce il seguente brano di una lettera indirizzata dal principe Emanuele Filiberto di Savoia al nostro poeta: « Se siamo rallegrati assai delle belle feste tanto a piedi come a cavallo che il carnevale prossimo passato si sono fatte costi et che tra le altre sia riuscita ammirabile la Comedia recitata in musica con gli intermedii apparenti et machine. Et perchè ’l Scotti sin’ adesso non ci n’ ha inviato relatione (come ci avisate che lo voleva fare) ne sarà'-'aro che con la prima occasione ci la mandiate». La lettera è datata da Palermo, 1 maggio 1623. GIORNALE LIGUSTICO 441 I CONTI DI VENTLMIGLIA NEI SECOLI XI, XII E XIII § i. Giacobina di Feritimi glia. Tra i varii episodi cavallereschi che il trovatore Ram-baìdo di Vaqueiras celebrò nella vita del suo amico e protettore il marchese Bonifacio di Monferrato, uno ve ne ha relativo ad una donzella, appartenente alla famiglia dei Conti di Ventimiglia, detta Giacobina. Narra il Trovatore, che uno zio di Giacobina la voleva spogliare del contado di Ventimiglia , che a lei spettava per la morte di suo fratello. Perciò aveva disegnato di sposarla ad un signore di Sardegna e s’ era messo d’ accordo coi Pisani, i quali dovevano colà trasportare la giovane Giacobina. Costei grandemente ripugnava da quel matrimonio, ben conoscendo come esso fosse voluto dallo zio, per poterla posòia spogliare dei suoi domini e già prima s’ era raccomandata al marchese Bonifacio, che ne volesse prendere le difese. Lo zio nondimeno stava per eseguire quanto aveva disegnato e già in un porto della riviera ligure si trovavano i Pisani colle loro navi e la misera Giacobina era quivi stata condotta per prendere imbarco e partire. Essa ebbe però il tempo di mandar notizia di sè a Bonifacio, per mezzo del giullare Aimonetto. Il Marchese, senza por tempo in mezzo, da Montalto, dove dimorava, partì la sera stessa dopo cena con quattro suoi amici, Guietto, Ugo d’Aliar, Bertaldo, il trovatore Ram-baldo e cinque scudieri, cavalcando verso il luogo dove Giacobina era. Quivi Rambaldo, come egli se ne dà vanto, rapì Giacobina, mentre già stava in procinto di salire sulla nave. I Pisani, e tutti coloro che accompagnar dovevano la fanciulla, tosto corsero dietro ai rapitori, inseguendoli con grida 442 GIORNALE LIGUSTICO e con armi, per terra e per mare, in numero assai maggiore di quello che essi erano, cosicché per salvarsi essi dovettero nascondersi in un luogo appartato tra Albenga e Finale, e colà stettero per ben due giorni. Il terzo giorno, ripostisi in viaggio, incontrarono un nuovo ostacolo in una schiera di dodici ladroni, che presso il passo di Belstar loro abbarravano il cammino. Nella zuffa sostenuta contro costoro, Rambaldo ricevette al collo una ferita di lancia, ma egli pure ne ferì tre o quattro e coll’aiuto dei compagni li mise in fuga. La sera di quel medesimo terzo giorno la comitiva giunse alla dimora di un gran signore, che con somma gentilezza li accolse. Quivi Bonifacio operò che Anselmetto, il figlio dell’ospite, sposasse Giacobina, e Guietto uno dei suoi amici sposasse Aquiletta figlia del medesimo ospite. Di poi Bonifacio fece ancora che Giacobina ricuperasse il contado di Ventimiglia, o per meglio dire, quella porzione del contado che a lei spettava. Una contesa per ragione di dominio tra due individui della famiglia comitale di Ventimiglia, della quale non v’ era ni una menzione negli storici della medesima, ossia tra Giacobina e suo zio, terminata per opera di Bonifacio col trionfo di Giacobina, era un fatto abbastanza importante da attirare Γ attenzione di tutti quelli che in quest’ ultimi tempi si occuparono o della storia dei Conti di Ventimiglia, o di quella dei Marchesi di Monferrato o del trovatore Rambaldo. Ma il silenzio del Trovatore sul tempo dell’episodio e l’oscurità dei nomi sì delle persone che dei luoghi, oscurità proveniente parte da difettosa trascrizione dei versi, parte da indicazioni troppo generiche del racconto, misero alla tortura più d’ un erudito e resero quasi inutile per la storia il racconto di Rambaldo. Testé il eh. conte Cais di Pierlas, che con intelligenza ed amore ha posto 1’ animo già da alcuni anni ad illustrare GIORNALE LIGUSTICO 443 le antiche memorie del Ventimigliese e del Nizzardo, è riuscito a rischiarare non poco Γ oscurissimo episodio di Giacobina (i). Un punto, e forse il più importante per la storia dei Conti di Ventimiglia, egli potè assodare se non con assoluta certezza, almeno con somma probabilità, cioè il posto che a Giacobina si deve assegnare nell’ albero genealogico dei Conti di Ventimiglia e quindi il tempo approssimativo in cui essa fu in procinto di essere spogliata del suo dominio; chi fosse il fratello cui essa succedeva e lo zio che la voleva spogliare. Un albero genealogico dei Conti di Ventimiglia nei secoli XII e XIII, composto sul principio del secolo XIV da Jacopo Doria, uno dei continuatori del Caffaro, che il Cais, per communicazione avutane dal venerando Desimoni, il Nestore degli studi monferratesi, pubblicò per la prima volta nel suo lavoro, assegna a Guido Guerra due figli, Corrado ed Oberto Gualdo, il primo con certezza, il secondo con dubbio, manifestato da un punto d’interrogazione vicino al nome. Di Corrado v’ è inoltre memoria in uno dei due documenti inediti, che il Cais pubblica ivi, traendoli dall archivio di Stato in Torino. Nel primo il conte Ottone si lamenta degli atti di ostilità che i Ventimigliesi avevano esercitato contro di lui e contro suo figlio Enrico , ricordando come in una precedente pace i Ventimigliesi gli avessero promesso di non dare aiuto a Corrado, con cui egli era in guerra. Corrado è evidentemente il figlio di Guido Guerra, di cui Ottone era fratello, nè vi può esser dubbio che egli fosse pure il fratello di Giacobina, di cui parla Rambaldo nella sua canzone. Ottone, che già era stato in guerra contro il (i) Giacobina di Ventimiglia t le sue attinente famigliar!, Bologna, Fava e Garagnani, [892, op. in-8, di pag. 56, estratto dal Propugnatore, Nuova Serie, vol. V. parte li, taso. 28-29. 444 giornale ligustico nipote Corrado, fu quello zio che, morto costui, voleva spogliare de’ suoi domini la nipote Giacobina. È sventura che il suddetto documento sia senza data. Nondimeno il Cais, assai giustamente, lo crede anteriore al secondo documento che ivi pubblica, in data 8 settembre 1185, contenente le condizioni di pace promesse dai Ventimigliesi. Questo secondo documento ne completa un altro dello stesso giorno, già pubblicato nel Liber iuriutn reipublicae Genuensis, che contiene le promesse del conte Ottone ai Ventimigliesi. Una delle promesse è che il Conte manterrà ai Ventimigliesi quanto il fu Guido Guerra suo fratello aveva loro dato e conceduto in presenza dell’ imperatore Federico (Barbarossa) e che egli non impedirà agli abitanti delle terre del fu suo fratello di condurre a Ventimiglia sale ed altre merci. Di qui conchiude il Cais che nel 1185 f°sse già morto Corrado, il che a noi pure sembra certo, e che forse per assicurarsi il possesso della sua eredità contro Giacobina, il conte Ottone si rappacificasse allora coi Ventimigliesi (pag. 13). Laonde egli inclina a porre l’episodio, di cui parliamo, nel 1186 (pag. 42) 0 almeno nel periodo 1184-1188; le quali date sono per lo meno assai probabili. Questo tempo è confermato da parecchie altre circostanze, tra cui la più probabile ci sembra quella dell’ età di Giacobina, la quale doveva essere assai giovane, allorché avvenne Γ episodio della sua liberazione e del suo matrimonio. Sotto questo riguardo noi incliniamo ad anticipare il più che sia possibile la data di queir avventura, preferendo piuttosto il 1184 che il 1188, il 1185 che il 1187, se pure pel 1187 non si dovesse tener conto della circostanza che dal principio di quell’anno Bonifacio, per Γ andata di suo fratello primogenito Corrado a Costantinopoli e poi in Palestina (1), fi) Ilgen Markgraf Conrad von Montferrat, Marburg, 1880, pag. 70. GIORNALE LIGUSTICO 445 trovavasi solo possessore del marchesato di Monferrato (i), e per conseguenza egli solo è nominato come Marchese di Monferrato uelle canzoni di Rambaldo. Quasi tutti gli altri punti oscuri della canzone di Rambaldo cercò pure di chiarire il ch. Cais, e noi dobbiamo dire che tutte le ipotesi che egli fa sono assai ingegnose ed hanno assai argomenti di verisimiglianza e di probabilità. Il Mon-talto dove risiedeva Bonifacio, quando il giullare Aimonetto venne a portargli novelle di Giacobina sarebbe o Montaido Scarampi che tu alternativamente degli Incisa e dei Monferrato, o meglio un castello Montaido presso a 2 km. da Spigno nella valle della Bormida, di cui si vedono ancora le rovine del castello (pag. 40). Non nasconde però il Cais le sue simpatie per un Montalto Ligure nel circondario di S. Remo, più vicino al mare d’ ogni altro Montalto, che sia in Liguria od in Piemonte. Nel verso assai contrastato e ritenuto per indicifrabile El ser venguem alt Neyssi al Pueg dar il Cais ritiene che Pueg dar si debba tradurre per Montechiaro, che egli riscontra in Montechiaro di Spigno, teudo del marchese Delfino del Bosco, stretto parente non meno di Bonifacio di Monferrato che di Giacobina. Costei pertanto avrebbe sposato Anselmetto del Bosco figlio di Delfino, la cui figlia Aquiletta sarebbe andata sposa di Guietto di Monthelimar. Con questa spiegazione concorda il nome provenzale di Pueg chr equivalente all’italiano poggio o monte, perciò Montechiaro. Concorda anche il fatto che iMontechiaro era teudo dei marchesi del Bosco. Ma se ugualmente concordi colle indica- ti) Non ne dispiaccia al ch. Cais, ma noi manteniamo tuttora 1’ opinione nostra sulla morte del march. Guglielmo il Vecchio nel 1183 credendola sostenuta da buone prove, non ancora atterrate da chi la pensa altrimenti. GIORNALI· LIGUSTICO zioni che il Trovatore ci dà sull’itinerario seguito da Bonifacio e dalla sua comitiva ne lasciamo giudice il eh. scrittore. Dai versi di Rambaldo consta che Giacobina fu rapita in un porto del mare ligure; indi i suoi rapitori, inseguiti dai Pisani, si appiattarono in un nascondiglio tra Albenga e il Finale e colà stettero due giorni. Supponendo che qui il Poeta abbia seguito 1’ ordine tenuto nel viaggio, e non abbia posticipato il Finale, el Fìnar, per necessità della rima, i viaggiatori venivano lungo la riviera nella direzione da ponente a levante, per esempio da Porto Maurizio verso Albenga e poi verso il Finale. Il terzo giorno, dal loro nascondiglio si mettono di nuovo in viaggio ed alla sera giungono al misterioso Pueg clar. Ma potevano essi in un giorno da un punto qualunque della riviera tra Albenga e Finale giungere la sera a Montechiaro presso Spigno? Se si tien conto che essi dovevano traversare gli Apennini e che le strade di quei giorni dovevano essere assai più disastrose ehe oggi non siano, a noi sembra molto difficile, non parendoci che gli undici viaggiatori avessero ciascuno più di un cavallo con sè e quindi la necessità in cui erano di non costringerlo a camminare di seguito tutto il giorno. Noi esponiamo questi dubbi nell’ intento che il eh. Cais, rifacendosi sulla presente questione, vegga se alle volte non si potrebbe identificare il Pueg clar con qualche punto più vicino alla riviera. Chi sa che egli non trovi che avevano ragione lo Hopf ed il Desimoni, quando supposero che il castellano di Pueg clar fosse un marchese di Ceva. Certo è che i domini dei marchesi di Ceva, che si estendevano nella valle del Tanaro, sarebbero stati assai più vicini al tratto di riviera che giace tra Albenga e Finale, nè sarebbe impossibile che i viaggiatori, partendo da un punto qualsiasi tra i due sopradetti luoghi, giungessero nella giornata stessa fino ai domini dei Signori di Ceva. Per esempio, supponendo che i viaggiatori partissero da Loano, che è quasi a mezza via GIORNALE LIGUSTICO 447 tra Albenga e Finale, potevano senza difficoltà la sera giungere nelle vicinanze del borgo di Garessio, il quale non è distante da Loano che un dodici miglia piemontesi. Quanto al nome di Pueg dar abbiamo già ammesso che esso si può tradurre esattamente per Montechiaro, ma è vero altresì che potrebbe corrispondere al nome italiano di Poggio, il qual nome si riscontra in moltissimi luoghi e frazioni di villaggi sì della Riviera che del Piemonte. Per esempio lo stesso borgo di Loano dicevasi anticamente Lodanum super Podium (i); nel territorio di Loano vi è il Poggio del Ratto (2). Seguendo la via da Loano a Garessio sonvi nel villaggio di Balestrino due frazioni dette una Poggio soprano, l’altra Poggio sottano (3). Vi è Poggio, frazione di Erli (4). A Garessio vi è tuttora la frazione di Posolo , contrazione di Peggio (5). Oltre la possibilità dell’ esistenza d’ un luogo detto Poggio-chiaro, si può fare ancora l’ipotesi che il Trovatore adoperasse qui Pueg clar non come nome proprio di luogo, ma come nome comune, quasi dicesse noi arrivammo la sera al bel poggio, alla bella montagna, al bel monte, al chiaro monte e simili. Tutte queste incertezze ci impediscono di accettare intieramente la spiegazione del Cais, sebbene la ci sembri molto ingegnosa. o o Ingegnosa del pari, ma molto meno accettabile ci sembra l’interpretazione, data dal Cays all’altro nome proprio che si trova nel verso, di cui discorriamo. Riguardo a questo egli segue un’altra lezione, dove in luogo di Neyssi leggesi Veyssi, che traduce : « La sera (passando) per Vezzi o partendo (1) Casalis, Dizionario geografico storico, IX, 499. (2) Ib., 493. (3) Ibid., Appendice, tomo XXVII, pag. 431. (4) Ib., VI, 381. (5) Ib., VII, 220. 448 GIORNALE LIGUSTICO da Vezzi giungemmo a Montechiaro ». Vezzi è un piccolo borgo non lungi da Finale, che apparteneva ancor esso come il Finale a’ Marchesi del Carretto. Nulla noi diremo di questa nuova lezione, non vedendo nello scritto del Cavs le ragioni critico-paleografiche che debbono farcela preferire alla prima lezione, ma quanto al tradurre le parole ab Veyssi nell’ italiano da Veigi ossia traverso a \ ezzi (i), non crediamo di poter seguire l’ingegnoso scrittore. Primieramente perchè trovasi rarissimamente che ab in provenzale abbia valore di da, ma si sempre o quasi sempre quello di con. In secondo luogo perchè non ci pare che Γ itinerario seguito dai fuggenti, cioè da Albenga a Finale e poi (come il Cays vuole) a Montechiaro di Spigno, esigesse che essi andassero a passare a Vezzi, che sarebbe stato interamente fuor della via più breve , che essi dovettero seguire per poter giungere alla sera a Montechiaro, dopo traversati gli Apennini non molto lungi dal colle di Settepani. A questo proposito diremo che essendoci anche noi occupati fin da alcuni anni fa dei passi oscuri di Rambaldo nel-1’episodio di Giacobina, ci rivolgemmo per schiarimenti al eh. sig. Camillo Chabanneau di Montpellier, il quale quanto al verso suddetto tu di avviso che si dovesse tradurre : « La sera noi venimmo con Neissi al Poggio-Chiaro»; protestando che, salvo difetti di trascrizione nei codici, esso grammaticalmente non si può tradurre diversamente. Secondo lui pertanto Neyssi sarebbe nome di persona e probabilmente il nome del’ospite. Tale sostanzialmente fu pure il parere del (i) « I nostri cavalieri passando da Vezzi giunsero la sera a Montechiaro », pag. 7. GIORNALE LIGUSTICO 449 sig. Fauriel (i). L’ipotesi del Cays sarebbe adunque contraria all’ ipotesi di questi due eruditi, i quali hanno per la loro traduzione l’appoggio non solo della grammatica, ma anche del senso. Imperocché il verso seguente Que u fes tal gaug e tout vos vole onrar « Che vi fe’ tal gioiosa accoglienza e tanto vi volle onorare » si riferisce evidentemente ad uno dei due nomi propri contenuti nel verso antecedente, cioè o a Neissi o a Pueg dar. Interpretando quest’ultimo per nome di luogo, Poggio chiaro o Montechiaro, come ha fatto il Chabanneau , il Fauriel ed il Cays, e, sembra, secondo tutte le. migliori probabilità, resta che il nome dell’ospite sia contenuto in quell’oscuro Neyssi. Nella speranza di ritrovare il personaggio così oscuramente indicato, io mi posi a ricercare nelle memorie della famiglia di Monthelimar se per caso ne trovassi menzione colà, per occasione di Aquiletta, la quale, come ci dice il Trovatore, sposò un cavaliere di quella famiglia. Ma in essa nulla ritrovai nè di Aquiletta, nè del padre suo, anzi neppure un argomento per precisare chi fosse lo sposo di Aquiletta. Il verso di Rambaldo dove costui è nominato, stando al codice 856 della biblioteca nazionale di Parigi, di cui ebbi copia dalla cortesia del sig. Mario Sepet, uno dei conserva-tori di essa, suona così: E den\ 1' agut del Montelh Animar Secondo il codice 22,545 della medesima biblioteca, riferito dal Cays, esso è il seguente: Aigletta des Gui delh Montelh amar. (1) Histoire de la poésie provençale, I, 490. Egli traduce: « Mais le soir nous arrivâmes chez le seigneur de Puyclar ». Gior. Ligustico. Anno XX. 2 9 450 GIORNALE LIGUSTICO Il sig. Chabanneau, interpretando il verso secondo la prima lezione, giudicava doversi correggere del^, deste, in luogo di dentζ o deu^. Quanto a Gut egli si mostrava più inclinato a vedervi un’abbreviazione di Guirault (Geraldus), anziché di Giti o Guido. Aggiungeva esistere bensì verso la fine del secolo un Guirault di Monthelimar, ma per quanto egli ne sapesse, non esistere notizia di un Guido. Propose pure dubitativamente la lezione: E det%_ la n Uc, ossia, la deste ad Ugo, essendovi memoria di un Ugo di Monthelimar vivente nel 1200. La prima interpretazione del sig. Chabanneau ci pare confermata da altro verso anteriore di Rambaldo, dove uno dei quattro compagni di Bonifacio è detto Guiet, in cui noi crediamo si debba identificare lo sposo di Aquiletta. Imperocché sembraci naturalissimo il pensare che Bonifacio non altrove trovasse uno sposo per la figlia del suo ospite, che fra uno dei quattro cavalieri che l’avevano accompagnato. Ora dovendo identificare il Gut del verso posteriore con alcuno dei quattro compagni nominati nei versi antecedenti, cioè Guiet, Ugonet d’Alfar, Berlaydo e Rambaldo, evidente ci sembra dover scegliere il primo. Guiet poi ci sembra la contrazione più usitata di Giraldetto e Gut un’ abbreviazione straordinaria, ed il vezzeggiativo del medesimo nome. Ora, alla fine del secolo XII due personaggi di questo nome, ed entrambi, come pare, in giovane età, figurano nelPalbero genealogico dei conti Adhemar di Monthélimar. Nè v’è punto a meravigliare che un cavaliere di questa famiglia si trovasse alla corte di Bonifacio in compagnia di Rambaldo. Rambaldo, nato a Vaqueiras nel piccolo principato di Orange e stato lungamente alla corte di Guglielmo VI di Orange, doveva essere in stretta relazione coi signori di Monthélimar, i quali avevano i loro domini e la loro dimora vicini ad Orange, e sì coi Principi di Orange che con quelli dei Poitiers, conti di Valenza e di Die, erano GIORNALE LIGUSTICO in istrette relazioni di amicizia e di parentela, come si vede dalla nostra tavola genealogica. Questa noi Γ abbiamo ricavata tutta da autentici documenti, e sebbene non sia completa, speriamo che potrà giovare, se non altro, a rettificare i numerosi errori che commisero gli scrittori, che fin qui diedero la genealogia di quella famiglia, come il Pithon-Curt (i) ed il Courcelles, per tacer d’ altri. Se, come noi supponiamo nel nostro albero, Giraldetto barone di Nyons era figlio di Ugo de la Garde, egli per ragione di sua avola Ί iburgia sarebbe stato assai stretto parente dei Principi d’Orange, poiché costei era figlia di Tiburgia di Montpellier-Omelas. che fu ultima di sua famiglia che avesse il Principato d’Orange, il quale essa portò come dote a suo marito Bertrando del Balzo. Da questo matrimonio nacque Guglielmo IV d’ Orange, che governò dal 1182, e al cui servizio stette il trovatore Rambaldo. Nulla di più verosimile che col Trovatore in uno suo viaggio in Italia alla corte del marchese Bonifacio s’ accompagnasse Giraldetto di Monthélimar, il quale verso il 1186 doveva essere giovanissimo, e che in quel suo viaggio Bonifacio gli trovasse una sposa. Fedele Savio. (1) Histoire de la noblesse du Comté Venaissin et de la Principauté d 0-range, 1743-1790, nel vol. IV. Per citare solo un esempio, nella tavola genealogica del Pithon-Curt, Giraudo Ademaro V e Lamberto sarebbero consanguinei in 3.0 e 4.0 grado canonico, mentre dal documento del 1198 che citiamo, infra, nella nota (6), essi si dicono patrueles, ossia consanguinei in 2° grado, come figli di fratelli. 452 GIORNALE LIGUSTICO Giraudo d’ Adhémar di Monteil sp. Anna delfina d’ Albon morti prima del 1095 marzo 21 (1) Lamberto visconte di Marsiglia *J* improle prima del 21 settembre 1099 (1) (2) Giraudo 1095 1099 (0 Guglielmo Ugo i 16i (3) Ademaro U77, 1178 (s) 1161(5) Lamberto 1198 (s) (6) sp. TlBURGIA DEL BALZO I Ugo barone de la Garde 1198, 1201 (6) Giraudetto 1095 1099 sposa Alisia di Polignac 0) I Giraudonetto barone di Roquemaure 1095 •j* improle prima del 21 settembre 1099 (1) Giraudo Ademaro (IV) né· (3) 1164 (4) 1184: *J* prima del 1198 Giraudo Ademaro (V) 1198, 1228 (6) sp. Mabilia vissuta fino al 1249 (7) Veronica sp. Ademaro di Poitiers *}· prima del 22 febbraio 1161 (3) Guglielmo conte di Valenza e di Die sposa dopo 1142 Beatrice f. di Guigo IV delfino di Vienna Ademaro li di Poitiers Eustachio di Poitiers preposito di Valenza I Giraudono Ademaro di Grignan di Montal-bano, 1201. (6) Giraudeto Ademaro di Grignan barone di Nyons. 1201 (6) Giraudeto barone di Roquemaure 1201 (6) Raimondo nato nel 1215 (8) Eudiarda Girauda fidanzata a Beltrando del Balzo 14 ottobre I2I3 (9) Maria religiosa i S. Ponzio di Gemenos (1) Documento del 21 marzo 1095: Lamberto, Giraudo, Giraudetto e Giraudonetto si dicono fratelli, figli ed eredi di Giraudo d’Adhémaro di Montilio e di Anna delfina d’Albone. Chevalier, Cartulaire di Monthé-limar, 1871, pag. 12. (2) Addì 21 settembre 1099, Giraudo e Giraudetto si dicono eredi dì Lamberto e di Giraudonetto defunti. Ivi Lamberto è detto visconte di Marsiglia e Giraudonetto barone delle baronie di Roquemaure, ecc. (pag. 14). (3) Addì 22 febbraio 1161, Guglielmo, Ugo Ademaro e Giraudo Ademaro si dicono fratelli e figli di Giraudetto e di Alisia di Polignac. Al-l’atto si sottoscrivono Guglielmo di Poitiers conte di Valenza e di Die, ed Eustachio di Poitiers preposito di Valenza, figli dei defunti Ademaro di Poitiers e di Veronica di Ademaro, zia dei tre fratelli suddetti (pag. 17). (4) Federico I da Pavia ai 12 aprile 1164 concede un privilegio a Gerardo d’Adhémar (pag. 19) che credo il presente. Ad un diploma di Federico I da Lione addì 20 agosto 1178 trovasi sottoscritto G ir ardus Adimari de Montilio (Huillard-Bréholles, vol. V, pag. 191). (5) Lamberto si rivoltò contro suo padre, il quale con atto del 19 marzo II77> approvato dall’imperator Federico Barbarossa il 20 agosto 1178, lasciò erede suo fratello Giraudo. Lamberto ricorse alla violenza, di guisa cbe suo zio e suo cugino furono obbligati a far pace con lui addì 8 maggio 1190. Egli e suo cugino Gerardo Adhemaro giurò obbedienza al le- GIORNALE LIGUSTICO 453 gato Milone, dandogli nelle mani Montiglio, che Milone consegnò al vescovo di Viviers il 12 luglio del 1209; vedasi per questo fatto Baluzio, Epistolae Innocenti 1JI, tomo II, pag. 360. I medesimi furono scomunicati da papa Innocenzo III con bolla 15 aprile 1211 rivolta al vescovo di Uzès e all’ abate di Citeaux ; v. Potthast, n. 4229. Lamberto si trova alleato del contedi Tolosa Raimondo VII nel 1216. Sposò Tiburgia del Balzo, figlia di Bertrando del Balzo, e di Tiburgia di Montpellier-Omelas principessa di Orange. Cosi il Pithon-Curt. (6) In un privilegio conceduto a quei di Montiglio ai 22 aprile del 1198, Giraudo e Lamberto si chiamano cugini « patrueles » figli di fratelli. Ivi sodo nominati i loro figli primogeniti, cioè Giraudetto di Roque-maure, figlio di Giraudo, e Ugo barone della Garde figlio di Lamberto. Questi due ultimi ai 2 gennaio 1201 confermano il predetto atto e alla conferma sottoscrivono Giraudono Adhemaro di Grignan e Montauban, e Giraudeto di Grignan barone di Nyons. Questi non so di chi fossero figli. Cartulaire di Montel. pag. 22 e 23. Nel Cartulaire sonvi atti del giugno 1222 e del 20 dicembre 1228 dati da Giraudo padre e Giraudetto visconte di Marsiglia, figlio, signori di Montiglio. - Nel Cartulaire de S. Chaffre, edito dal Chevalier, 1888, p. 163, trovasi un atto di concordia tra l’abbate di S. Teo-fredo e Geraldo Ademaro in data 31 marzo 1184. Approvano la concordia Geraldo et filius eius Ge. Ademari. Il Chevalier, editore del Cartulaire, volendo compiere qui il nome del figlio di Geraldo, supplisce tra parentesi in modo da formare Geraldetus. Ma contro l’ipotesi del Chevalier, che qui si tratti di Geraldo Ademaro (V) e di Giraldetto suo figlio, esiste una gravissima difficoltà. Geraldo Ademaro (V), padre di Giraldetto, nel 1215 ebbe un figlio per nome Raimondo. Supponendo che Geraldetto suo primogenito già fosse in età di assistere ad un atto pubblico nel 1184 bisogna crederlo nato nel 1174 almeno. Ora sembra alquanto straordinario cbe Geraldo avesse dei figli alla distanza di 41 anno dal primo all’ultimo (se pure Raimondo fu l'ultimo), tanto più che dai documenti citati Geraldo sarebbe ancora stato vivo nel 1228. Parmi più natutale e conforme alla ragion dei tempi il supporre che il contraente coll’abate di S. Teofredo nel 1184 fosse Geraldo IV e suo figlio fosse Geraldo Ademaro V. Nulla poi vieta di attribuire a Geraldo Ademaro V un altro atto, con cui un G. Ademaro nel 1210 cede ad Ademaro di Poitiers i diritti che ha sulla villa Clivo (ib. pag. 184); e di ammettere cbe ivi col G. iniziale si sottoscriva Geraldetto: omnia quae supradicia sunt G. Adem, filius G. Adetn, et nepos dom. Ademari Pictaviensis laudavit ». (7J Barthélémy, Inventaire chronologique et analytique des Chartes de la Maison de Baux, Marseille, Barlatier, 1882. Ivi a pag. 98 vi è il testamento di Mabilia, dove sono nominate le sue figlie. (8) Nei 1215 ai 22 aprile « Geraldus Ademarii dominus Montila, Vice-comes Massìl. et Mabilia eius uxor domina Montila et Vicecomitissa Massi!, approbamus et confirmamus Vobis Petro Massiliensi Episcopo et Ugoni Mas-stl. Praeposito compositionem iamdudum factam inter Petrum Massil. Ecclesiae Episcopum ex una parte et Vicecomit. Massil. scilicet V. Gaufridi dictae dominae Mabiliae avum et Bertrandum fratrem eiusdem Ugonis, Ugonem Gaufridi Sardum nepotem eorum filium Gaufridi de Massilia ex altera: in manu Raimundi Arelatensis Archiepiscopi, Raimundi Carpent. Episcopi .... Actum apud Montilium, in camera in qua iacebat domina Mabilia in partu de Raimundo filio suo». Gallia Christiana, 1656, t. IV, nei Vescovi di Marsiglia. (9) Barthélémy, op. cit., pag. 43. 454 GIORNALE LIGUSTICO § 2. L’ albero genealogico dei Conti di Ventimiglia. La genealogia dei Conti di Ventimiglia non ebbe punto miglior fortuna presso gli scrittori che ne trattarono, di quella che ebbero tante altre famiglie principesche, ed anche qui bisognava procedere fin’ ora in mezzo a lacune, confusioni ed incertezze, che assai difficile rendevano il conoscere con esattezza e precisione la storia di quell’ illustre casato. La pubblicazione che il Cais ha fatto delT albero genealogico dei Conti di Ventimiglia, composto dal cronista Jacopo Doria, è stato un vero benefizio che egli ha reso agli studiosi. Imperocché avendo noi riscontrato il medesimo albero coi documenti pubblicati nel Liber iurium Reipublicae genuensis, con quelli editi dal Cavs sì nell’ ultimo lavoro, che in uno precedente (i), e con altri possiamo affermare che esso è esatto in ogni sua parte. Noi lo diamo qui insieme colla citazione dei documenti che lo confermano, e vi aggiungiamo i Conti di Ventimiglia del secolo XI ed alcune altre notizie. Tutto ciò che si trova nell’ albero di Jacopo Doria è stampato in carattere corsivo: (i) 1 Conti di Ventimiglia, il Priorato di S. Michele ed il Principato di Seborga, memoria documentata, Torino, Paravia, 1884, estratta dal tomo XXIII della Miscellanea di Storia Italiana. GIORNALE LIGUSTICO 455 CORRADO I già t 1038, genn. 30 (1) CORRADO II (1) viv. 1038 : già f 1041 ; sposa Adelaide Ottone I *J* 1078?; atti 1041, 1063, 1064: nel 1077 apparisce marito di Donella f. del march. Adalberto 0) (3) Corrado III atti 1041, 1062, 1064, 1077: nel 1082 apparisce marito di Odila figlia di Laugerio 0) (3) Armilina ω Conte Alfonso ino- 1125 (4) I Marsibilia moglie di Giovanni Barca Conte Olerto I di Ventimiglia viveva nel Ufi atti ino : 1146 : 1151. già f nel 1156 (4) Conte Ottone II celibe nel 1146: vìv. 1193 ^ Conte Guido Guerra : figlia, nubile nel 1146 anche costui giurò fedeltà al Comune di Genova e diedi tutti i suoi beni al Comune di Genova nel 11 /5. Celibe nel 1146: nel 11 $7 e 1164 marito di Ferraria f. di Guelfo di Albisola: vivo 1177 : j verso 1180 (5) (6) (7). Conte Guglielmo 1 1192: 1200: già f 1234 Conte Enrico (A) I Corrado già f 1185 Oberto Gualdo? Giacobina Oberto signore di Badalucco 1250: già 7 1258 (9) Guglielmo II detto Guglielmino 1220: 1234: 1256 già +1258 (9) Manuele ucciso nel 1256 (12) 1 1 1. ! Bonifacio Veran a Bonifacio Giorgio (14) sp. Pagano march, di Ceva viv. 1258 : già -J* 1262 1258 (15) (■4) 1 (13) Manuele di Verdura 1 Pietro Balbo sp. Sibilla di Seyne (13) templaro 1 1 1 . .1 pìetro Oberto Guglielmo III Ottone Guglielmo Peire Raimondo (10) Sevento? 7 tra 1271 e 12S3 di Rostagno Balbo templaro (”) p. Eudossia Lascaris I Os) 1286 05) 0Θ .1. olone Guglielmo IV Raimondo Sibilla Berengaru D. Gitvanni D. Giacomo 3 figlie chierico (16) (16) di Restagno (16) 0^) ΟΘ 456 GIORNALE LIGUSTICO (4) ENRICO I 12r7 compra la valle del Maro: già γ 1233, settembre 16 (17) i Ottone già f 1233 1 Rai mon do I (■«) Ottone Oberto Manfredo Enrico II Filippo Oberto Guglielmo Giacomo questi vendettero la loro parte (19) conte d’Iichia (20) al conte Enrichetto II d’Ischia (15) (16) (19) e dimorano in Genova (19) (20) Filippo Guido Oberto sp. Audice f. di Trincherò di Carrù: questi due furono uccisi nel 1250 vende Carru ai Mondoviti dai Brunenghi in Albenga (.8) (1) Corrado II fa una convenzione col Vescovo omonimo di Genova: « Conradus comes filius quondam bone memarie Conradi itemquè comes qui profeso sum ex nacione mea ìege vivere romana ». Lib. iur. I, 9. (2) Nel 1041 Ottone e Corrado colla madre Adelaide e colla contessa Armilina (probabilmente loro sorella) fanno una donazione al monastero di S. Michele di Ventimiglia: « Nos germani fratres et comites Vintimiglien-ses, videlicet Otto et Conradus una eneti matre nostra Adalais et comitissa Armilina ». V. la donazione presso Cais, 7 C.ontt di Ventimiglia, p. 104, che la trasse dal Cartulaire de Lerins, ediz. Flamare. Luigi Passerini nella Genealogia dei Conti Guidi di Romagna in Famiglie celebri del Litta crede che un Ermellina figlia di un Guido Guerra di Romagna, morto nel 1124 fosse moglie di un Guido Guerra di Ventimiglia. Badisi però a non confondere quest’Ermellina coll’Armilina che sta nel nostro Albero genealogico come vivente nel 1041. Al medesimo monastero fecero altre donazioni i due fratelli Ottone e Corrado nel 1063, 1064 e 1077; Cais, ib. pag. 104, 105, 108. In quella del 1077 interviene auche Donella moglie di Ottone; « Otto et Conradus iermani comites filii quondam item Conradi comitis et Donella tugalis infrascripti Ottoni comitia et filia Alberti marchionis, nos omnes ex nacione nostra lege viventes romana. » Secondo il Gioffredo, Storia delle Alpi marittime in Μ. H. P. Script. II, pag. 680, Ottone sarebbe morto nel 1178. (3) In una donazione fatta da Corrado nel 1082 al monastero di Le-ìino si legge: « Nos Conradus comes filius quondam Conradi comitis et Odila jugalis filia Laugerii ». Cartulaire de Vabbaye de Lerins par MM. GIORNALE LIGUSTICO 457 Henri Moris et Edmond Blanc, Paris, Champion, 1883, pag. 161, doc. CLXV. - Noi aderiamo interamente all’opinione del Carutti , Il conte Umberto Biancomano, Torino, 1884, pag. 364 cbe i due conti Ottone e Corrado i quali confermano una carta d’immunità conceduta nel 1002 da un marchese Ardoino agli abitanti di Tenda, Saorgio e Briga (v. Cais, pag. in) siano i nostri due figli di Corrado II, e che, per conseguenza, la carta uon fosse fatta quand’essi vivevano, ma assai prima. (4) Non sappiamo con certezza se Oberto fosse figlio di Ottone I o di Corrado III. È indizio che fosse figlio del primo 1’ aver dato il nome di Ottone al suo primogenito. Oberto I è ricordato come arbitro in una lite nel luglio del ino e nel luglio del ii24 (Lib. iur. 19 e 26); nel giugno del 1140 si parla di lui nel patto di alleanza che coi Genovesi fecero i marchesi Manfredo, Ugo, Anseimo, Enrico e Ottone del Vasto (ib. pag. 70); nell’agosto del 1146 giura fedeltà al comune di Genova (pag. 116, ib.) In una convenzione tra l’arcivescovo di Genova e gli abitanti di Ceriana , addì 25 ottobre del 1255, è ricordata una carta di Oberto I di Ventimiglia del 1151, « instrumentum cuiusdam manumissionis facte per dominum Obertum comitem vintimilii in praedecessores ipsorum .... facto sub MCL1 ». Lib. iur., I, 1227. In una carta citata del Papon, Histoire de Provence, III, 568, come esistente nell’ archivio del principe di Condé, Ottone del fu Oberto diede nel 1156 alcune franchiglie agli abitanti di Tenda. — Nel Cartulaire de Lerins annoté par M. de Flamare, Nice, Cauvin, 1862, pag. 102, Pietro abate di Lerino (0 Pietro I ab. ilio 1115 , 0 Pietro II 1120-1125) concede una investitura « in presentia duorum Comitum Ventimilii ». Erano probabilmente Alfonso ed Oberto I. (5) Guido Guerra ai 30 luglio del 1157 s' rese vassallo dei Genovesi e cedette loro varie terre, riservando , in caso di morte , 1 usufrutto di Penna a sua moglie Ferraria « Ego Guido Guerra comes vintimiliensis dono comuni ianue rocambrunam golbi poipin. pennam, casteglonem. brochu. cespeel. lameor. lapennetam. saurcium. labrigam et lendam . . . hoc tamen salvo quod post meum decessum ferraria habeat in usufructu penne donationem quam ei feci ». Lib. tur., I, 197. (6) Di Ferraria abbiamo memoria nell’atto con cui, correndo il 1136, Tederada sua madre, figlia del fu signor Costa, e Ferraria che si dice figlia del marchese Guelfo , promettono e danno ai Savonesi il castello di Albissola; di più, Ferraria promette di non prendere marito se non col consenso dei consoli Savonesi: Cais, pag. 44. Nel 1136 pei tanto Fer- 458 GIORNALE LIGUSTICO raria era ancor nubile, e tale era ancora nell’agosto 1146, quando Oberto padre di Guido Guerra promise ai Genovesi che i suoi figli prenderebbero moglie in Genova <1 Filii eius debent in Janua uxores accipere et filia eius virum » (Lib. iur.,1, 116). Di qui si vede che Oberto aveva solo una figlia. Nello stesso tempo Ottone promette di custodire pei Genovesi il castello di Poipino (ib., pag. 112) ed è ivi da notarsi l’espressione: « Si vero pater meus vel frater non observaverint conventum ». Aveva dunque solo un fratello, E pur nominata Ferraria nella cessione che Guido Guerra fece nel 1164 al Vescovo di Nizza di un diritto che aveva sul castello di Drappo: Cais, 45. (7) Nel 1167 è l’ultima memoria certa di Guido Guerra in un atto, nel quale egli interviene come testimonio, presso Gioffredo, Storia delle Alpi Marittime, 441. Non manca di probabilità che egli fosse ancor vivo nel 1177. (8) Nel 1177, 5 settembre, Ottone II, dichiarandosi vassallo dei Genovesi, cedeva loro i castelli di Roccabruna, Gorbio , Poipino e Penna, « Ego Otto vinlimiliensis comes do comuni ianue .... castrum rochebrune castrum gorbi, castrum poipini et castrum penne cum curiis ipsorum castro-rum et pertinentiis suis omnibus et bu^anam et dul^anam cum omni districtu ipsorum castrorum et locorum » Lib. tur. I, 304· Nelle convenzioni che Ottone ed i suoi figli Guglielmo ed Enrico fecero coi Genovesi nel 1192 e nel 1195> (Lib. iur. I, 402 e 407) i Conti consentono che: « fodrum vin-timilii et districtus eius pennete videlicet, chori, melonii, castelhoni et podii ìainaldi per medium partiri debet et dividi. » Nella convenzione che soli Guglielmo ed Enrico fanno addi 25 febbraio del 1200 (Lib. iur., I, 454) cedono : medietatem civitatis ventimilie cum districtu suo . . . similiter et medietatem pennete, goguli, castegioni, meloni et podii rainaldi . , . castrum golbi, xerbodi, bucane, ducane, rochebrune et poipini ». Ivi non parlasi di Sospello, Saorgio, Breglio, Briga e Tenda, mentre sì questi che quelli sono nominati da Guido Guerra nella donazione del 1157 (V. sopra nota 5). Pei conti 0 Ottone II cedeva Buzana e Dulzana, non nominate da Guido nel 1157. Quindi noi abbiamo fondamento a credere che i due fratelli avessero delle terre che tenevano in comune e delle altre che formavano il dominio particolare di ciascuno. Le terre suddette di Sospello, Saorgio, Breglio, Briga, Tenda poste nella parte nord-ovest del contado ventimi-gliese, devesi credere formassero il patrimonio particolare di Guido Guerra, mentre il dominio particolare di Ottone si estendeva più ad occidente fino a Bussana e Dulzana. Di un territorio formante il dominio separato di suo fratello Guido GIORNALE LIGUSTICO 459 Guerra parla Ottone II nel documento del di 8 settembre 1185» contenente condizioni di pace tra lui ed i Ventimigliesi : « Quidquid quondam frater meus Guido Guerra dedit yel concessit in praesentia domini imperatoris Fri-derici . . . similiter promitto . . . quod non impediam aliquando nec impediri faciam alicui de terra quondam fratris mei qui cum roso vel scodano aut sale iverint, pocius eos salvos et securos habebo per vie et homines meos nisi pro dricto meo auferendo vel minuendo hoc faceret, pacem vero in personis et rebus per me et filios meos vintimiliensibus reddo » (Lib. iur., I, 326). Questo particolare possesso di Guido e dei suoi figli è forse quello che il trovatore Rambaldo appella col nome di contado di Ventimiglia, nella canzone di che abbiamo discorso sopra: « E fetz li tot lo comtat recobrar De Ventamilha ». (9) Ai 4 ottobre del 1234 in un atto è nominato « Obertus comes Vin-timilii et dominus Baaluchi filius quondam Guilielmi comitis » (Lib. iur., I, 943). Nello stesso atto si sottoscrive: « Guillielmus comes de Ventimilio filius quondam domini Gulielmi comitis de Ventimilio ». Così pure nell atto seguente, pag. 947. Un « Comes Obertus de Baalucho » giura fedeltà a Genova per Bussana fin dal 24 giugno del 1232, lb-, 909. Ai 7 agosto del 1260 gli uomini di Alma si danno a Genova. Nel-Γ atto di dedizione è inserita una carta di franchigie che ai medesimi diede il 1 gennaio 1250 « Dominus Obertus comes Vintimilii sive dominus Baaluchi » Lib. iur., 1, 1322. Il Podestà di Genova Martino di Sommariva notifica nel 1256 che essendo stato Guglielmo ed i suoi figli infedeli alla convenzione fatta quattro anni innanzi (1252), questa è cassata : Gioffredo, 587. (10) Nel 1258, 23 gennaio (come ricava dalla carta esistente in Marsiglia il sig. Richard Sternfeijd, Karl von Anjou, Berlin, Heyfelder, 1808 pag. 144)· Guglielmo cede a Carlo d’Angiò i suoi diritti e quelli dei suoi fratelli sulla contea di Ventimiglia. Ai 7 maggio 1259 Guglielmo conte di V. in Grasse fa testamento in cui lascia eredi le figlie Sibilla e Berengaria, e solo nella legittima i figli Guglielmo (IV), Raimondo Rostagno, ed Ottone : Gioffredo, 585. Nel 1274 i Genovesi mandarono un esercito a conquistare i castelli del conte Guglielmo di Ventimilia posseduti dal re Carlo : « tenebatur enim pro Rege Karolo, qui ipsam (terram) a dicti comitis consoribus titulo emptionis habuerat, et pro ipso tenebantur mnnita. Quibus recuperatis et habitis extiternnt dicto comiti et fratribus restitute » Ann. Gen. presso Gioffredo, 628. 460 GIORNALE LIGUSTICO (11) Ai 16 dicembre 1220 « Dominus Obertus comes Vintimilii, Otto Seventus fihus donimi Guillielmi comitis Vintimilii » intervengono ad una sentenza di bando contro i Ventimigliesi, pronunziata da Enrico del Carretto legato imperiale. Lib. iur., I, 658. (12) Il podestà di Genova Rambertiuo nel 1220 « Nobilem virum Ma-nuelem strenuum Comitem Vintimiliensem, fratre suo Guilielmo absente, ante suam praesentiam convocavit » Ann. Gen. lib. V, ad ann. 1220. — Nel 1229 die. 11 interviene come testimonio ad un atto di Simone Vento. Miscellanea St. ltal., pag. 440 del vol. XXIX. (13) Nel 1258, marzo 28 (giovedì dopo Pasqua) Bonifacio fa un trattato di cessione de suoi diritti a Carlo d’Angiò, ratificato da Giorgio nel lunedì dopo Pentecoste (13 maggio) Sternfeld, pag. 144. - Papon, Histoire de Provence, III, 56. Bonifacio, figlio di Manuele (ucciso verso 1256), pattuì in Camporosso nella chiesa di S. Andrea con Desiderato Visconte genovese la vendita della metà del luogo di Dolceacqua per 700 lire: Gioffredo, 587. 1262, luglio 21. Convenzione tra Carlo I d’Angiò e Genova riguardo al castello di Dolceaqua « hoc acto inter partes quod Guilielmo et Geòrgie et heredibus Bonifacii de Vintimilio remaneat ius petendi dictum castrum cum pertinentiis suis siquod habebant antequam vendidissent terram suam nobis dominis Comiti et Comitisse vel nostro Senescallo » Lib. iur., 1, 1411. « Ego Gulielmus de Signa major filius quondam Guilielmi de Signa dono etc.....Tibi Manueli filio quondam nobilis viri Bonifacii comitis quondam Vintimilii occasione et ex causa matrimonii quod speratur contrahi inter te ex una parte et Sibilam filiam meam ex altera .... » Dom Robert, Histoire généalogique de la maison de Ventimille, Villefranche, 1664, in-4. (14) « Bonifacius Baaluci comes Oberti quondam Vintimilii comitis filius fanello Advocato eius leviro Trioriae et Dei castra medietatemque castrorum Alme et Busanae vendit » Addi 21 febbraio 1260. Lib. iur., II, 36. 1261, 4 marzo. Bonifacio del fu Oberto, cede a Genova il luogo di Triora e la metà delle ville di Dho, Alma e Buzana. Lib. iur, I, 1325. 1259, nov. 24. Pagano marchese di Ceva insieme con sua moglie Vei-rona figlia del fu Oberto conte di Ventimiglia e con Michele m. di Ceva suo fratello vendono ai Genovesi i loro diritti su Badalucco, Alma, Ba-ìardo, Bussana; cedono ogni loro azione contro « Boni]aduni filium dicti Comitis Oberti quondam, et specialiter occasione compromissi celebrati et sen-tentie late inter eos MCCLVIII die ultima decembris » Lib. iur., 1,1278. In fine della carta vi è 1’ atto con cui Veirana costituì Pagano suo Procuratore generale. GIORNALE ligustico (15) 1264, gennaio 29. - Nicola visconte castellano di Roccabruna a nome di Geuova dichiara nullo il giuramento di fedeltà prestato dai Roc-cabrunesi a Genova e fa loro prestare altro giuramento a Genova. È ivi inserta la lettera scritta a Nicola del Podestà di Genova « Cum litere quas ex parte nostra vice altera recepistis continentes ut comiti Guilielmo Peire Vintimilii prò se et fratribus suis faceretis homines Rochabrune de iurisdic-tione Rochabrune segnoria fidelitatibus et redditibus respondere quemadmodum in vita comitis Guilielmi respondebant ipsi corniti et de his omnibus quo dicto quondam Çomiti Guilliehno facere seu reddere tenebantur ex nostra certa scientia non processerint ». Lib. iur., I. 1413. 1279, 3° settembre. Pace di Guglielmo Pietro e Pietro Balbo con quei di Briga. Gioffredo, 636. 1283, 11 nov. - Enrico di Ventimiglia, col consenso di Pietro Balbo conte di Ventimiglia, vende quanto possedeva nei luoghi di Cosio e di Pornasio avanti alla vendita fatta al fu Guglielmo Pietro e allo stesso Pietro Balbo, vendita che egli dice nulla, Gioffredo, 641. (16) Addì 18 dicembre 1285. Trattato inter dominum Philippum de Laveria militem dominum Senescallie Provincie et Forcalquerii, nomine heredum quondam domini Karoli Regis etc. ex una parte et dominum Petrum Balbum comitem Vintimilii nomine suo et nomine domini Guilielmi nepotis sui, Don Johannis et Don facque et Ottonis nepotum ipsius et Belengariae sororis ipsius domini Guilielmi et si qui sunt alii ex altera ». Nel corso del trattato si obbligano pure alla cessione Berengaria ed un fratello di lei canonico in Embrun, che è forse il medesimo Ottone. - Si accorda remissione delle ostilità commesse contro il partito regio dai Conti Enrico, Giovanni ed Oberto di Ventimiglia. - Gioffredo, 647. Ai 21 gennaio 1286 1’ abate di S. Vittore pronunzia sentenza per finire la guerra stata « inter dominum Karolum .... ex una parte et egregios viros dominos quondam GÇidlliehnum) P(etrum) et eius filios scilicet fohan-nem et Jacobum, Petrum Balbum et Gulielmum eius fratres, et filios quondam domini G(ulielmi) fratris dictorum domini Guilielmi Petri et domini Petri Balbi ex altera » Gioffredo , 649. (17) Ai 25 gennaio 1217 in S. Remo, Enrico cede metà di Pigna e tutto il castello di Roccabruna a Raimonda moglie di Raimondo di Roccabruna e ne riceve in cambio tutti i possessi di costei nella valle del Maro e in quella di Oneglia, da Monte Arosio all’ acqua Tabia, nella villa di Pieve ed Aurigo : Gioffredo, 503. (18) « Raimundus comes de Macro pro vie et pro Philippo comite de Macro » giurano fedeltà a Genova, addì 16 settembre 1233. Lib. iur., 1, 4 6ι GIORNALE LIGUSTICO 935· V. Anche 949 e 959. — Lettera di Menabò di Torresella nel 1251 agli uomini di Castellarci, Cunio, Origo ecc. che obbediscano al conte Filippo ed a Raimondo suo nipote. Gioffredo, 583. (19) Ai 24 gennaio 1259 *1 conte Enrico in Tolentino fa acquisto da Oddone, Oberto, Manfredo fratelli conti di Ventimiglia del castello del Maro in marchia Albengcina. Onde in agosto del 1263 si confessò debitore. Gioffredo, 598, e 608 (Dall’ arch. di Stato di Torino). 1260, giugno 12. Decreto di Enrico di Ventimiglia conte d’Ischia e regio vicario in favore degli abitanti di Mateiica. Ficker , Reicbs und Rechtsgeschichtes Forschungen, vol. IV. In un obbligo del 21 novembre 1261, Filippo confessa aver ricevuto da Enrico conte d’Ischia suo figlio lire 300 genovesi e gli dà in ipoteca il luogo di Cunio. Gioffredo, 598. (20) Essendo Enrico in Cosio con Oberto si fece imprestare certa somma di denaro da suo fratello Filippino signore per metà di Prelà. Gioffredo, 640. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Andrea Moschetti. — Il Gobbo di Rialto e le sue relazioni con Pasquino; Venezia, Visentini, 1893. (Estratto). Nella piazzetta di S. Giacomo, presso il ponte di Rialto, sotto il portico di fronte alla chiesa, è un antico tronco di colonna, dalla quale la repubblica veneta faceva bandire le leggi; e a sostegno dei gradini, pe’ quali si ascende alla colonna, è una statua, che pel suo atteggiamento incurvato a mo di cariatide, ebbe ben presto dal popolo veneziano il soprannome di Gobbo, e coll indicazione del luogo ove sorge, il titolo di Gobbo di Rialto. Parecchi hanno avuto occasione in questi ultimi anni di parlare del Gobbo, quali Vittorio Rossi, Alessandro Menghini e il nostro Belgrano. Ma ad illustrare più largamente il Gobbo attese ora il prof. Moschetti colla memoria, che abbiamo qui sopra indicata, mirando soprattutto a dimostrare che è GIORNALE LIGUSTICO 463 erronea Γ opinione più volte ripetuta, che la figura del Gobbo di Rialto sia un riflesso di Pasquino Come si rileva dai Diari del Sànudo , F uso di affiggere in luoghi pubblici satire o ùasquinate, cominciò in Venezia fin dal novembre del 1532, prima adunque della collocazione della statua, che doveva prendere il nome di Gobbo; poiché essa fu collocata nove anni dopo, nel 1541. Ed anche dopo quando ebbe, per così dire, vita il Gobbo, se è possibile che come ad altre colonne, così anche a lui si attaccassero delle satire, non si può desumerlo in modo positivo dai documenti che ci restano. Il Moschetti ha esaminato alcuni pacchi di satire, che furono affisse in diversi tempi per le vie e perfin cacciate nei bossoli delle votazioni del Maggior Consiglio, ed ora conservate nell’Archivio di Stato di Venezia; ma il nome del Gobbo non appare nè nel testo delle satire, nè nel-l’intitolazione di esse, e nemmeno nelle indicazioni apposte a tergo intorno al luogo ove furono raccolte. Che se più tardi fu ritrovata talora attaccata al Gobbo qualche satira, o fu anche divulgata sotto il suo nóme, esse non sono testimonianze sufficienti, che autorizzino a vedere nel Gobbo un vero Pasquino veneziano. Il Gobbo fu invece più che altro un novellista, che prestò il suo nome a ricoprire del segreto molte di quelle composizioni letterarie, e più spesso storico-politiche, che venivano pubblicate in Venezia colla stampa, o anche diffuse solo colla scrittura. Inoltre il carattere che dimostra fin dal suo comparire, è 1’ antagonismo con Pasquino: sempre in lotta con lui, come Pasquino rappresenta la romanità, così esso rappresenta la vene^ianita. Stabilito così il valore del Gobbo, il Moschetti ne indaga le origini. La prima volta che il suo nome occorre è in due traduzioni dell’ Orlando Furioso in dialetto bergamasco, di cui una ha la data del 1550. Prima però di questa, si ha un’ altra traduzione in bergamasco dell’ Orlando, che il Mo- 464 GIORNALE LIGUSTICO schetti giustamente assegna al 1548, e sospetta che molto probabilmente sia in relazione colle due precedenti, che non gli venne fatto di ritrovare. È intitolata : Rolant furius ili mesir Lodivic di Arost stra-mudat in lengua Bergamasca per ol zambo de vai Brambana indri^at al tagnor Bartolame Minchie da Bergem so patr'o. Il Moschetti si domanda chi possa essere ol ζambo de vai Brambana; rifiata a ragione la supposizione dello Zerbini che lo Zambo fosse il nome di un autore, e parimente l’altra suggeritagli che si tratti di un Giovanni 0 Zane, e crede « piuttosto ad una forma dialettale alquanto scorretta per lo Zanni di Val Brambana ». Questa sua opinione mi pare erronea non meno delle altre ; 10 penserei che Zambo sia un’ antica voce bergamasca per gobbo, e potrebbe risalire al latino gibbu, come il tose, occid. %embo e il genov. ^enbu, ma con immistione di strambu, se pure non è estratto da una forma quale * gambuto, cfr. tose. £embuto. Preziosa allora questa traduzione dell’Orlando, la quale non solo sarebbe in relazione colle altre due, ma sarebbe molto probabilmente la stessa in una precedente edizione, e ci indicherebbe il nome del Gobbo nella forma bergamasca, specificandoci meglio l’origine del Gobbo, che è di vai Brembana e fa il servitore, come più tardi gli rinfaccerà Pasquino, colle parole « facchino del bando di Rialto », rilevate anche dal prof. Moschetti. Inutile dire come servitori e facchini bergamaschi fossero assai comuni a Venezia nel sec. xvi, onde si presenta come molto probabile che alla cariatide, che reggeva sulle sue spalle la colonna dei bandi, si applicasse ben presto dal popolo il soprannome di Gobbo, quasi a dire facchino, traducendo ^ambo, che gli doveva esser reso famigliare dalla consuetitudine appunto dei facchini bergamaschi. Questa l’origine del Gobbo, dopo della quale esso, come GIORNALE LIGUSTICO 465 nota il Moschetti, passò dalla tradizione popolare alla letteratura, e cosi deve aver prestato scherzosamente il suo nome, come pseudonimo, all’autore della burlesca traduzione dell'Orlando. Fino alla fine del 500 è spiccata la sua tendenza a fare il novellista e mantiene sempre il carattere letterario; e se in seguito raccoglierà anche le novelle politiche, che gli verranno da levante e da ponente, sarà per narrarle in forma di chimere, ricercate e lette avidamente dal popolo. Esamina di poi il Moschetti i componimenti successivi, nei quali il Gobbo apparisce o come autore o come interlocutore, p. es. la nota frottola sulle Malizie delle donne, il Testamento del Carnevale e via dicendo. In questi, da poeta popolare burlesco, che parodiava laidamente le ottave dell’Ariosto, diventa poeta satirico; ma una volta sola, per quel che sappiamo, scende alla bassa vendetta personale, e avviene nell Ombra di Aristofane ateniese, discorso di frale Mancino e del Gobbo di Rialto. È questo uno scritto violento ed ingiurioso del bolognese Luigi Manzini filosofo e teologo, che fu a \'eneziasul principio del 600, diretto contro un tal Contino Rngio Anabattista e Larco suo fratello, sotto i quali anagrammi, come acutamente vide il Moschetti, stanno Giovanni Battista Contarmi lettore di filosofia in Venezia e suo fratello Carlo. Il Gobbo appare anche in una commedia del 1724: Bacco usurpatore di Parnaso insieme con Arlecchino, Pasquino e Martorio, e mostra come un vincolo di parentela con quello Zanni, che ebbe a prendere più tardi il nome d’Arlecchino. E questa comparsa in una commedia parmi meritevole di attenta considerazione, più forse che il Moschetti non ebbe agio di consacrargli, perchè mi viene il dubbio che possa avere un addentellato colla sua prima origine, di facchino bergamasco. Nel suo progressivo svolgimento arriva infine all’ aspetto di scrittore politico, ed ha invero una bella parte nella lotta, Giorn. Ligustico. Anno XX. 3° 4 66 GIORNALE LIGUSTICO che Venezia ebbe a sostenere con Paolo V per l’interdetto, fra le opere che a questo fatto si riferiscono notevole è il Dialogo tra il Gobbo e Pasquino, certo il più bello nella svariata letteratura del Gobbo; e il Moschetti mette innanzi il dubbio che sia di Fra Paolo Sarpi, ma non mi sembrano sufficienti gli argomenti che adduce a sostegno dell’ ipotesi, che appare per ora più come istintiva che ragionata. S incontra spesso il Gobbo negli opuscoli politici di quello strano scrittore del sec. xvii, che fu Gregorio Leti, e il Moschetti ferma specialmente F attenzione sulle Visioni politiche, che sono le ultime riviste politiche, nelle quali compaia il (jobbo. A proposito di queste Visioni il Moschetti tocca anche del libro: Le politiche malattie delia Repubblica di Genova e loro medicine, riferendo ciò che ebbe già occasione di dirne con la sua nota diligenza il Belgrano, a cui difatti rimanda. Se non che nella nota è avvenuta una svista, che mi pare utile rettificare ; poiché egli rimanda all* op. cit. precedentemente, che sarebbe quella di pag. 56: Contribuzioni alla storia di Genova ecc., mentre invece era, da citarsi: Belgrano, Vita privata dei Genovesi, Genova, 1875, pag. 462. Nel sec. xviii, anche quando Benedetto XIV minacciò di nuovo interdetto la repubblica, tace affatto il Gobbo, o almeno il Moschetti non ne trova traccia. E così dura il silenzio anche n e ^ 11 anni seguenti; solo quando fu strappata l’aquila austriaca nel 1849, fece di nuovo sentire la sua voce il vecchio Gobbo, in un giornale politico umoristico, che ebbe brevissima vita. Tale la vita del Gobbo di Rialto, quale si rileva dalla monografia del prof. Moschetti, e dalla esposizione che ne abbiamo fatta, risulta già abbastanza la diligenza con che egli attese alle indagini, perchè abbia ad aggiunger qui parole, che valgano a incoraggiarlo a continuare pel cammino così felicemente iniziato. p. E. Guarnerio. GIORNALE LIGUSTICO 467 VARIETÀ UNA FOLA IN DIALETTO SASSARESE. La presente fola è una delle più complete varianti del comunissimo tema delle Tre melarancie e più propriamente della Beila e della Brutta. I riscontri sarebbero numerosissimi, ma io mi contenterò solo d’accennare una variante meno completa, nello stesso dialetto sassarese, pubolicata dal Guar-nerio nel vol. II dàY Archivio per le tradizioni popolari (pagina 204-205), col titolo: Bianca-ghe-latti e ruia-ghe-sangu. Per la trascrizione poi del dialetto ho seguito il metodo stesso del Guarnerio, tentando sempre, per quanto mi fu possibile, di ritrarre con la massima precisione la fonetica popolare. Avrei voluto anche, per spingere la precisione sino allo scrupolo, segnare in corsivo quelle lettere che soffrono una alterazione per così dire, insensibile, ma ho creduto meglio di tralasciare per ora, riservandomi in una prossima raccolta di novelline sarde di proporre ed usare quegli espedienti grafici, che potrebbero rendere ancora più precisa la trascrizione dei dialetti sardi. Per evitare poi una lunga serie di note, che tante volte riescono incomode e fastidiose ai lettori, alla fola ho aggiunto addirittura la traduzione in italiano, traduzione che segue per quanto è possibile il testo dialettale. Pietro Nurra. 468 GIORNALE LIGUSTICO Li tre meri di l’oru. Chilthu dizi chi era un re e abìa tre fìgliori. Lu re era vecciu assai e sigumenti di ghilthi fìgliori no vinn’ era nisciuna cuiubada, una di si r’ha ciamadi ellissi tre fìgliori, e l’ha dittu: Figliori mei, eiu sogu mannu e no aggiu a nisciunu pai pudè lassa ra curona. Eddi però 1 hani riipolthu chi no ru vuriani abbandunà. Cosa ha fattu tandu lu re? Chilthu re abìa tre meri d’oru e-ll’.ha dittu a tutti e tre ri fìgliori: Tezi ellissi meri d’oru e dumani a manzanu, appena vi ni pisedi, gittediri una a daboi di l’althra da ru baxoni. A ca dedi chissu, sarà volthru maridu; pa-ràura di re. Eddi par’ubbidienza ru manzanu da ghi si ni so pisadi, prima ra manna r’ ha gittada ra mera di l’oru e ha dadu a un prinzipi ch’era passendi andendi a cazza, la sigunda ha dadu a un duca, la più minori ha dadu a un laccaiu eh’ era vinendi da fa r’ iipesa. Accollu chi lu re ru manzanu da ghi sinn’è pisadu l’ha ciamadi ri figliori tutti e tre e l’ha duman-dati: Ebbè, Γ na dittu, e a ca abedi dadu? Intrada è ra manna e ha dittu: Eiu aggiu dadu a un prinzipi. La sigunda: Eiu a un duca. La tezza, ch’era Maria, no cum-parìa, abìa vaxogna. Lu babbu l’ha dittu: E veni, entra, sia gassisia debi assè to maridu. Tandu è intrada, s’ha fattu curaggiu e ha dittu: Babbu meiu, eiu aggiu dadu a lu laccaiu. E ru babbu l’ha dittu: È una cosa intesa, tu debi assè ra muglieri soia. Ciamadu ani lu laccaiu. Eddu no sabia cosa ru vuriani, ru povarettu! Da ghi s’è prisintadu, lu re l’ha dittu: Mi’, tu debi assè maridu di me’ figliora, paxì cussi è ra me’ vu-runtai. Chiddu pobareddu no cridìa si lussi viridai, s’era finza ingiu- Le tre mele d’ oro. Questo dicono che fosse un re e aveva tre figlie. Il re era vecchio assai e siccome di queste (sue) figlie non ve n’ era neppur una maritata, un giorno se le chiamò (a sè) e disse loro: Figlie mie, io sono vecchio e non ho a chi poter lasciare la corona. Quelle però risposero' che non lo volevano abbandonare. Cosa fece allora il re? Questo re aveva tre mele d’oro e disse a tutte e tre le figlie: Prendete queste mele d’oro e domani mattina, appena vi levate, gettatele una dopo P altra dalla finestra. Colui al quale darete questa cosa (la mela) sarà vostro marito ; parola di re. Quelle per ubbidienza la mattina, dopo che si levarono, prima la maggiore gettò la mela d’ oro e colpì un principe che passava andando a caccia, la seconda colpì un duca, la più piccola colpì un servo che ritornava da far la spesa. Ecco che il re la mattina, dopo che si levò, chiamò le figlie tutt’e tre e le interrogò: Ebbene, disse, e chi avete colpito ? Entrò la maggiore e disse: Io ho colpito un principe. La seconda: Io un duca. La terza, ch’era Maria, non compariva, aveva vergogna. Il padre le disse: E vieni, entra, sia chiunque, dev’ essere tuo marito. Allora entrò, si fece coraggio e disse: Babbo mio, io ho colpito il servo. E il padre le disse: È una cosa intesa, tu devi essere la moglie sua. Chiamarono il servo. Questi non sapeva cosa volessero da lui, il poveretto ! Dopo che si presentò il re gli disse: Guarda, tu devi essere marito di mia figlia, perchè così é la mia volontà. Quel poveretto non credeva se fosse verità (o menzogna), s’ era perfino inginocchiato, dice (dicendo): Burlandosi di me, è. No, è proprio GIORNALE LIGUSLICO 469 nicciadu, dizi: Buffunendisi di me è. — No, è propriu veru, anzi, 1’ ha dittu, dumani pal-dhuinani dubidi palthì. Eiu vi rigaru una campagna. A inoghi no zi dibidi turrà più e sigundu ra solthi abedi a ilthà. Ed eddi s’ani fatta un imborigu par otnu, ri pobaretti, e si zi so andadi. Eddu, Antoni, paxì si dizia Antoni lu laccaiu, andaba a zappi) ed edda ad accugli ariba. Poi d’un annu hani audu una figliora e sigumenti edda, ra prinzipessa, candu andaba a traba-glià no abìa a ca lassalla, ra punìa i ru jògguru fora di ra janna a occi a sori. Dunca una bedda dì passani tre fadi e vcdini chilthu jògguru cun chiltha criadura ch’era bedda assai. « Ai, chi bedda criadura ! hani dittu, a ra fademu». — Si, fadèmura — La prima: Eiu ti fadu chi sii ra più bedda di ru mondu. L’althra. Eiu ti ladu chi candu piegni t’èsciani lagrimi d’oru. La tezza: Eiu ti fadu chi candu ridi da ra to’ bocca t’èsciani rosi. E sinn’ erani andendi. Candu eddi hani fattu un pezzu di caminu hani dittu: Troppu fadi boni l’abemu dadu, a ni ridemu unu maru? So turradi indaredu e tutti e tre tandu l’hani dittu: Noi ti fademu chi si ilthai un’ora senza magna, mori. E si ni so andadi. Chidda piccinnedda s’è iscidada e ixumenza a pignì chi vurìa ra tita. Edda pignendi, e Γ orufarendi, edda pignendi e l’oru farendi. Accollu chi r’ intendi ra mamma ch’era vizina i’ ra campagna; accoliti chi veni e vidi tuttu ru jògguru pienu d’ oru. Poi immaginà chi assulthu chi ha audu da ghi r’ha viltha tutta tappada d’oru. Tantu ha ciamadu ru maridu e l’ha dittu: Noi semu ricchi, no suffrimmu più, 110 andemu più a trabaglià. E tandu s’ hani frabbi-gadu un beddissimu parazzu in chidda campagna matessì ed edda ra prinzipessa è turrada comenti e primma e ha dadu una bona educazioni a ra figliora e cussi è vero, anzi, gli disse (il re) domani stesso dovete partire. Io vi regalo una campagna. Qui non ci dovete ritornare più e secondo la fortuna (vi conduce) starete. Ed essi si fecero un involto per ciascuno, i poveretti, e se ne andarono. Lui, Antonio, perchè si chiamava Antonio il servo , andava a zappare, e lei a raccogliere olive. Dopo un anno ebbero una figlia e siccome essa, la principessa, quando andava a lavorare non aveva a chi lasciarla, la metteva nella culla fuori della porta al sole. Dunque un bel giorno passano tre fate e vedono questa culla con questa bambina eh’ era bella assai. Ah ! che bella bambina, dissero, la (vogliamo fatare) fatiamo. Sì, fatiamola. La prima: Io ti incanto (in modo) che tu sii la più bella del mondo. L’altra: Io ti incanto (in modo) che quando piangi t’ escano lagrime d’ oro. La terza: Io t’incanto (in modo) che quando ridi dalla tua bocca escano rose. E se ne stavano andando. Quando esse hanno fatto un tratto di cammino hanno detto : Ί roppi incantamenti buoni le abbiamo dato, gliene diamo uno cattivo? Son ritornate addietro e tutt’ e tre le han detto: Noi ti incantiamo (in modo) che se stai un’ ora senza mangiare, muori. E se ne sono andate. Quella bambina s’ è svegliata e comincia a piangere, chè voleva la poppa. Essa piangendo, e l’oro scendendo, essa piangendo e l’oro scendendo. Ecco che la sente la madre ch’era vicina nella campagna; ecco che viene e vede tutta la culla piena d’oro. Puoi immaginare la sorpresa che provò, dopo che la vide tutta coperta di oro. Allora ha chiamato il marito e gli ha detto: Noi siamo ricchi, non soffriamo più, non sudiamo più a lavorare. E allora s’hanno fabbricato un bellissimo palazzo in quella campagna medesima ed essa, la principessa, è ritornata come prima e ha dato una buona educazionealla figlia ecosìèdiven- 470 GIORNALE LIGUSTICO giunta manna eh’ era jà vagiana. E una dì gh’ era pusada i ru cur-ridori riccamendi, passa chilthu beddu prinzipi eh’ era andendi a cazza e ra vedi e dizi a ru so siividori : Ai, chi bedda pizzinna ; di ga sarà figliora? ha fattu. A v’ azzemu cun caxi ixusa? Si, pi-gliemu ra ixusa di cuzizd un piz-zoni. E cussi hani fattu. So azzadi e cun bona manera hani duman-dadu si ri faziani ru piazeri, ch’e-rani in caminu tant’ ora ed erani famidi, si ri rassàvani cuzì chissu pizzoni e magnà caxi cosa. Lu fattu ikhazi chi ru pizzoni s’è bru-xiadu, paxì era incantadu abbai-dendisi a chissà pizzinna. La mamma però s’ è abbizzada ed eddu s’ ha fattu curaggiu e l’ha dittu: Eiu no sogu juntu a cuzì ru pizzoni, ma paxì aggiu vilthu chiltha pizzinna a ru baxoni e mi ni sogu innammuradu e ra du-mandu pai muglieri, si voi ni sedi cuntenti. Pudemu immaginazzi 1’ alligria di r:i mamma; edda r’ha dittu: Pai me no vi saria nisciuna difficulthai, però bisogna iipittà a ru mancu un ottu dì, paxì eiu priparia li robi a ra me figliora. — Bè, l’ha dittu ru prinzipi, già aipettu, aggiu a turrà a 1’ottu di e aggiu a arrigà tutti ri carrozzi pai piglialla. S’hani dadu ra pa-ràura di matrimoniu e so ilthadi siguri. La mamma r’ ha priparadu tutti ri robi e appuntu a 1’ ottu dì è giuntu ru prinzipi pa iipusà. Chidda pizzinna prirnma di palthì ha dittu ara mamma: Già ru sa ru difettu chi aggiu eiu, chi no possu ilthà un’ora senza magnà, dunca lassami andà cun mamma tita meia in una carrozza, paxì abà n’aggiu ra vaxogna si andu cun eddu e diviru tu. — Emmu, figliora meia, r’ha dittu ra mamma e cussi hani fattu. La mamma tita abìa una figliora che abia un occi, in tubezu puru ed era fea conienti un dimoniu e pultbada si r’ha cun edda. Candu abìani fattu un beddu pezzu di caminu, ta iiposa chi abìa tata grande eh’ era già giovinetta. E un giorno eh’ era seduta nel terrazzino, ricamando, passa questo bel principe che andava a caccia e la vede e dice al suo servo: Ah! che bella ragazza; di chi sarà figlia? soggiunse. Vogliamo salirci Γ* DO O (in casa) con qualche scusa? — Sì, adottiamo la scusa di cuocerci un uccello. E così hanno fatto. Son saliti e con buona maniera hanno domandato se facevano loro il piacere, perchè erano per strada da tanto tempo ed erano affamati, se lasciavan loro cuocere questo uccello e mangiar qualche cosa. Il fatto sta che Γ uccello si abbruciò, perchè (il principe) era incantato guardandosi quella ragazza. La madre però si accorse e lui si fece coraggio e disse: Io non son venuto a cuocere l’uccello. ma perchè ho veduto questa ragazza alla finestra e me ne sono innamorato e la chiedo per moglie, se voi ne siete contenti. Possiamo immaginarci l’allegria della madre, essa gli rispose: Per me non vi sarebbe alcuna difficoltà, però bisogna aspettare almeno otto giorni, perchè io prepari il corredo alla mia figlia. Bè, disse il principe, già aspetto, ritornerò agli otto giorni e condurrò tutte le carrozze per prenderla. Si diedero la parola di matrimonio e stettero sicuri. La madre le preparò tutto il corredo e agli otto giorni precisi venne il principe per sposare. Quella ragazza prima di partire disse alla madre: Già lo sai il difetto che ho che non posso stare un’ora senza mangiare, dunque lasciami andare in una carrozza colla balia, perchè ora ne ho vergogna, se vado con lui e diglielo tu. — Sì, figlia mia, le disse la madre e così fecero. La balia aveva una figlia che aveva un occhio, pure nell’occipite, ed era brutta come un demonio e la condusse con se. Quando avevano fatto un bel tratto di cammino, la sposa che aveva il difetto che non po- GIORNALE LIGUSTICO ru difettu chi no pudìa ilthà un’ora senza magnà dizi a ra mamma tita: Dammi un pezzu di pani — Bà, no ixuminzà, no — Dammiru, già ru sai chi si no mi morii. E cussi z’è passada tant’ora e ra iiposa era pa diimajassi. Finaimenti ni ri dazi un pezzareddu. Passada l’althr’ora torra: Mamma tita, dammi un pezzu di pani chi,no posso più agguantà — Ba, intindi ra boi, l’ha dittu ra mammatita, si voi ru pani lassadinni biifà un occi. — Ih! bedda saraggiu da ghi mi vedi ru prinzipi a un occi. Ma ra fami l’appritaba e tandu si ni r’ha lassadu bugà. Poi d’un’al-thr’ ora, torra ra matessi dumanda : Mammatita, dammi un pezzu di pani. — Ebbè, già ti ru dogu , lassadinni bugà un althru occi. E cussi ha fattu. Piglia r’occi, li poni drentu un’impullitta; a edda r’iipo-gliani, la fazini nuda e zi ra pollini in mezzu a r’ ilthradoni. Tandu a ra figliora soia ha velthi d’iiposa e arrìbini a ra zidai. Tutta ra jenti chi aipittabani ra iiposa chi cri-diani tantu bedda, da ghi hani vilthu chilthu dimoniu, chiltha faccia d’inimigu, si ni so tutti buffonadi. Dizi: Chiltha era ra gran biddezia!; chi paria una sa-saia imburigada a pabiru. Lu prinzi pi daghi r’ha viltha: Chiltha no è Maria, ha dittu. La mamma e ru babbu d’eddu hani dittu: Sia o no sia Maria, abà no bisogna fa ixandari, bisogna chi r’ affidi. Cu-menti fa, è ilthadu culthrintu a affida. — Abà noi lassemu a eddi e pigliemu a chidda pobaretta in mezzu a r’ ilthradoni, pignendi chi s’iifinìa e cussi n'è giuntu quasi notti. Edda pignendi, pignendi e l’oru farendi chi-nn’era tuttu pienu. Candu intendi da luntanu un zoccu di zappitta e ixumenza a zichinrià: O chiddu ziu, o chiddu ziu ! Un omu vecciu, ch’era eddu chilthu chi zappaba, intendi chissà bozi e diz-i : E ca sarà? anima bona o anima mara ì E s'è avvizinadu. Ed eddu: Vènghia,fòzziami chissà teva stare un’ ora senza mangiare, dice alla balia : Dammi un pezzo di pane — Ba, non cominciare, no — Dammelo, già lo sai che se no muoio. E così è passato tanto tempo e la sposa era per isvenire. Finalmente gliene dà un pezzetto. Passata l’altra ora, replica: Balia, dammi un pezzo di pane chè non posso più resistere. _ Ba, intendere la vuoi, le ha detto la balia, se vuoi il pane lasciatene cavare un occhio. — 111! bella sarò, dopo che mi vede il principe, con un occhio. Ma la fame la stimolava e allora se 10 ha lasciato cavare. Dopo di un’altra ora, rinnova la medesima domanda: Balia, dammi un pezzo di pane. — Ebbene, già te lo dò, lasciatene cavare un altr’ occhio. E così fece. Prende gli occhi li mette dentro un’ ampollina; essa (Maria) la spogliano, la fanno nuda e la mettono in mezzo alla via. Allora (la balia) veste la figlia sua da sposa e arrivano alla città. Tutta la gente che aspettavano la sposa che credevano tanto bella, quando hanno veduto questo demonio, questa faccia d’inimico, se ne sono tutti burlati. Dice (dicevano): Questa era la gran bellezza! chè sembrava uno scarafaggio involto nella carta. 11 principe quando l’ha veduta: Questa non è Maria, ha detto. La madre ed il padre di lui hanno detto: Sia o non sia Maria, adesso non bisogna fare scandali, bisogna che la sposi. Come fare, è stato costretto a sposare. — Ora noi lasciamo stare loro e prendiamo (ritorniamo a) quella poveretta in mezzo alla via, piangendo che si struggeva, e così ne venne quasi notte. Essa piangendo, piangendo e 1’ oro scendendo che ne era tutta piena (la via). Quando (ecco che) sente da lontano un rumore di zappa e comincia a gridare: O quel zio, o quel zio! Un uomo vecchio, eh’ era esso questo che zappava, seme questa voce e dice: E chi 472 GIORNALE LIGUSTICO caridai chi sogu crilt'niana. Tandu è giuntu : vedi tuttu chilth’ oru ed edda ri dizi : Pigliasiru chissu eh’ aggiu innantu e piglia a me e polthiamizi a casa soia, già-11’ aggiu a cuntà tuttu. Pobaretta, l’ha dittu ru vecciu, comenti sei andadu, po-bara pizzinna. La piglia comenti ha pududu, l’ha tappada e zi ra poltha. Da ghi so arribidi a casa, subidu ramuglieri di chilthu vecciu l’ha ixaldhudu ru rettu e zi r’ha cuxada. E ilthada v’ è tantu tempu cun chilthi vecci, ma sempri pi-gnendi. Eddi erani unti ricchi eru vecciu no anaaba più a trabaglià. Eddi ra dazìani attinzioni comenti una figliora. Una dì 1’hani dittu: Pussibiri chi no t’hai a alligni mai. E cosa hani fattu ? Hani zi-sadu i raziddai un buffoni e chilthu ha fattu tantu e tantu finza chi 1’ ha fatta ridi. I ru ridi (edda abìa ru fadu) li so cadudi dui rosi da bocca. Tandu ha dittu edda a ru vecciu: Volthè mi debi fa un piazeri, piglia chilthi dui rosi e .india a ra ziddai undi b’è lu re, e pàssia sottu a ru parazzu riari e dòghia ra bozi : Eh ! ca vò rosi contra tempu. Si ru ciamani, dighia chi no ri bendi in contu a dinà, rea in contu a occi. — Emmu, figliora meia, 1’ ha ripolthu ru vecciu, e cussi ha fattu. Subidu s’è polthu in caininu, arriba e ixumenza a dà ra bozi. Eh ! ca vò rosi contra tempu ! Accolta chi s’acciara chidda mani-matita cu ra figliora e dizi: Ahi! a ri pigliemu e dimmu a prinzipi chi 1’ hai fatti tu? Da candu abìani iipusadu erani sempri siparadi chi ru prinzipi no ra pudìa vidè. Edda drummia in un appusentu e ru prinzipi a l’althra palthi di ru pa-razzu. E ciamam ru vecciu dunca, e ri dizini: A cantu ri dai chilthi rosi? — Ah! no so in contu a dinà, no — 111! e dunca? — So sarà? anima buona od anima cattiva? E s’è avvicinato. Ed essa: Venga, mi faccia questa carità, chè sono cristiana. Allora è venuto : vede tutto quest’oro ed essa gli dice: Se lo pigli questo che ho addosso e pigli me e mi porti a casa sua, già gli racconterò tutto. — Poveretta, le ha detto il vecchio , come sei andata, povera ragazza. La piglia come ha potuto, l’ha coperta e se la porta. Quando sono arrivati a casa, subito la moglie di questo vecchio, le ha riscaldato il letto e l’ha coricata. E restata vi é tanto tempo con questi vecchi ma sempre piangendo. Essi erano diventati ricchi ed il vecchio non andava più a lavorare. Essi le usavano attenzioni come ad una figlia. Una volta le han detto : Possibile che non avrai mai a rallegrarti. E cosa hanno fatto? Hanno cercato nella città un buffone e questo ha fatto tanto e tanto sin che 1’ ha fatta ridere. Nel ridere (essa aveva l’incantagione) le caddero due rose da bocca. Allora ha detto essa al vecchio: Lei mi deve fare un piacere, prenda queste due rose e vada in città dove vi è il re, e passi sotto (davanti) al palazzo reale e gridi : Eh ! chi vuole rose fuori stagione. Se lo chiamano, dica che non le vende per denari, ma per occhi. — Sì, figlia mia, le rispose il vecchio, e cosi ha fatto. Subito si è messo in cammino, arriva e comincia a dar la voce: Eh! chi vuole rose fuori stagione! Ecco che s’affaccia quella balia con la figlia e dice: Ahi! le compriamo, e diciamo al principe che le hai fatte tu? Da quando avevano sposato erano sempre separati, chè il principe non la poteva vedere. Essa dormiva in una camera e il principe nell’altra parte del palazzo. E chiamano il vecchio dunque, e gli dicono: Per quanto le dai queste rose? — Ah ! non sono per denari, no. — Ih! e dunque? GIORNALE LIGUSTICO 473 in contu a occi — Ih! dizi, ab-baìda chi mi ni bogu un occi pa ri rosi — Mah, si ri bo è cussi, si no ri lassia. E tandu ra figliora dizi : Ubai! mamma , no s’ ani-menta di chidd’ occi di gbidda. — E veru è; vai e arrégari. — E vi ri dàzini ed eddu ri dazi ri rosi. E torra da Maria e ri dizi: Te, accollu chi t’ aggiu fattu ra cummissioni. Edda allegra s’ha polthu r’occi e l’ha dittu: Ba, inoghi no v’aggiu più chi fa. — Cumenti! Γ hani dittu ghiddi, e adunca ti-nn’andi? — Si, paxi debu vindicammi; si, abà già v’aggiu fattu ricchi, abà debu cum-prìla me’ vindetta. Eddi diipiazudi, no ra vuriani lassa andà : E paxi ti-nn’andi chi ti tiniami cara conienti e l’occi nolthri? Tandu edda è palthuda: s’è fatta a pizzoni ed è alidada a ru jaldhinu di ru re. In chilthu jaldhinu v’erani tre aiburi d’aranzu chi guai a chi ri tuccaba chi v’ era pena di ra vida. Maria s’è poltha sobra un aiburu e ha ixuminzadu: Mammatita crudèle, chi. m’has traidu, e prò pura veridade s’àivure chi giutto salta si nde polla’ siccare. E l’aiburu s’è siccadu. Lu jaldhineri da ghi ha vilthu l'aiburu siccadu, s’è as-sulthadu e z’èazzadu da ru re e l’ha dittu: Mestà, mi capiteggia una dixrazia. Chiddi aiburi chi volthè vuria tini tantu contu, un pizzoni ha dittu tanti paràuri e si-nn’è siccadu unu. Eddu ha dittu, lu re: Beddu era chilthu pizzoni? — Ahi! beddu, abia canti beddi piumi, tanti beddi curori. E ru re tra eddu ha dittu : Chissu debi assè Maria meia; — e tantu dizi: Bè, eiu ti paldhonu ra vida cun chilthu però chi tu dumani fozzi tutti ri mezzi pussibiri pa acciap-pallu. Lu jaldhineri no l’è parudu veru e da ra punta di ru manzanu è ilthadu i’ ru jaldhinu fintantu chi è'giuntu ru matessi pizzoni a ra niàtess’ ora. Si poni sobra ru sigundu aiburu e dizi : Mamma-tila crudele, chi m'has traidu, e — Sono in iscambio d’ occhi. — Ih! dice, guarda che mi cavo (caverò) un occhio per le rose. — Mah! se le vuole è così, se no le lasci. E allora la figlia dice: Tò, ni a inni a, non si ricorda di quegli occhi di quella. — E vero è; va e portali.— E glieli danno e lui dà loro le rose. E ritorna da Maria e le dice: Tieni, ecco che ti ho fatto (eseguito) la commissione. Essa allegra si ha messo gli occhi e gli ha detto: Ba, qui, non ho più che fare. — Come! le han detto quelli, e dunque te ne vai? — Sì, perchè devo vendicarmi; sì, ora già vi ho fatto ricchi, adesso devo compiere la mia vendetta. Essi dispiacenti, non la volevano lasciare andare: E perchè te ne vai, che ti avevamo cara come gli occhi nostri? Allora essa è partita: si è cambiata in uccello ed è andata al giardino del re. In questo giardino vi erano tre alberi d’ arancio, che guai a chi li toccava, che v’era pena della vita. Maria si è messa sopra l’albero ed ha cominciato: Balia crudele, che mi hai tradito, e per (dimostrare) la verità (di ciò che dico) Γ albero che ho sotto si possa seccare. E 1’ albero si è seccato. Il giardiniere dopo che ha veduto 1’ albero secco, si è spaventato ed è andato dal re e gli ha detto : Maestà, mi capita una disgrazia. Quegli alberi che lei voleva tenere tanto in cura, un uccello ha detto tante parole e se ne è seccato uno. Lui ha detto, il re: Era bello quest’uccello? — Ah! bello, aveva tante belle piume, tanti bei colori. E il re fra se ha detto: Questo (uccello) dev’ essere Maria mia —; e allora dice: Bene, io ti faccio grazia della vita con questo (patto) però, che tu domani faccia tutti i mezzi possibili per acchiapparlo. Il giardiniere non gli parve vero e dal principio del mattino è rimasto nel giardino fintanto che è venuto lo stesso uccello alla stess’ ora. Si mette sopra il 474 GIORNALE LIGUSTICO pro pura veridade, s’aivure chigiutto slitta si nde polta' siccare. E ru sigundu aiburu s’è siccadu di pianta. Lu jaldhineri vedi chiltha iscena e più assulthadu di ra prim· ma dì, anda da ru re e ri dizi : Ahi ! Mesta, ammàzziami puru chi ru pizzoni no Γ aggiu pududu nè piglia, nè ammazza. Lu re tandu r’ha dittu: Mi, si tu dumani no fai tuttu ru pussibiri par’arri -gammi ru pizzoni, o molthu, o vi vu, pa-lthe è finida; paràura di re. Lu jaldhineri trilthu si-nn’ è andadu. — Comenti iozzu ! dizia. Dunca ra di tre di lu jaldhineri abìa polthu ri rezi e cu ru fusivi càrrigu s’era polthu sottu a l’aiburu. A candu a ra matess’ ora veni ru pizzoni e torra a dì ri ma-tessi paràuri. Lu jaldhineri era par’ acciappallu e eddu si ri cara sobra a l’òmaru. Lu piglia e zi ru polla a sobra undi è lu re chi appena r’ ha vilthu ha dittu : Ahi ! chilthu è Maria meia e ha polthu ru pizzoni sobra ru cantarani i ra gaboia e dugna dì iithazìa abbai-dendisiru. Dunca ra muglieri, chidda mara eh’ abìa Γ occi i ru tubezzu ha sabudu chi lu re abìa chilthu pizzoni e dugna dì iithazìa dizendiri a ra mamma: Eiu ru voglia , eiu ru vogliu. Edda, ra mamma, r’ha mandatu r'imba-sciada chi vurìa ru pizzoni. Lu re ha dittu: No rii dogu a nisciunu, megliu r’ ammazzu. Dunca edda però: No, vi vu ru vogliu, e vi ru manda torra a dì pa tanti volthi, lu vurìa, ru vurìa. Fini da ghi s’è infadadu lu re, ha ciamadu torra ru jaldhineri e l’ha dittu: Tè, piglia, ammazzarti e daviru. E chissu paxì edda era grabida e ra mamma di ru re l’abìa dittu a eddu chi no andaba be a negà una cosa a una grabida. E cussi ha fattu ru jaldhineri. Faradu è a ru jal-dninu, ha ixannadu ru pizzoni e so cadudi dui gutteggi di sangu e da ghilthi dui gutteggi di sangu n’ è nada una maccia di jaiminu. E ru jaldhineri ha dittu: Chiltha secondo albero e dice: Balia crudele, che mi hai tradito e per (dimostrare) la verità (di ciò che dico), 1’ albero che ho sotto si possa seccare. Ed il secondo albero si seccò dalle radici. Il giardiniere vede questa scena e più spaventato del primo giorno va dal re e gli dice: Ahi! Maestà, mi uccida pure che 1’ uccello non 1’ ho potuto nè prendere, nè ammazzare. Il re allora gli ha detto : Guarda, se tu domani non fai tutto, il possibile per portarmi l’uccello, o morto, o vivo, per te è finita; parola di re. Il giardiniere triste se ne è andato. — Come faccio! — diceva. Dunque al terzo giorno il giardiniere aveva messo le reti e col fucile carico s’era collocato sotto l’albero. Ecco alla medesima ora viene 1’ uccello e dice di nuovo le stesse parole: 11 giardiniere era per acchiapparlo ed esso (P uccello) se gli cala sul-1' omero. Lo piglia e lo porta sopra dove è il re che appena l’ha veduto ha detto: Ahi! questo (uccello) è Maria mia, — e ha messo 1’ uccello sopra il cassettone nella gabbia ed ogni giorno stava contemplandoselo. Dunque la moglie, quella cattiva che aveva 1’ occhio nell’occipite, ha saputo che il re aveva quest’ uccello e ogni giorno stava dicendo alla madre: Io lo voglio, io lo voglio. Essa la madre gli ha mandato (al re) Γ imbasciata, che (la figlia) voleva l’uccello. Il re ha detto: Non lo do a nessuno, piuttosto 1’ ammazzo. Dunque essa però (diceva): No: vivo lo voglio, e glielo manda di nuovo a dire per tante volte, lo voleva, lo voleva. Finisce (che) quando si è infastidito il re, ha chiamato di nuovo il giardiniere e gli ha detto: Tieni, prendi, ammazzalo e daglielo E questo (fece il re) perchè essa era gravida e la madre del re gli aveva detto a lui che non stava bene negare una cosa ad una gravida. E così ha fatto il giardiniere. Sceso GIORNALE LIGUSTICO 475 mi ra tengu eiu. E in tirannira n’è iscida una mera d’oru. Ha dittu: Chiltra eiu no vi ra dogu, la maccia di ru jaiminu sì e si r’ha poltha in busciaccara. Accollu chi s’azza a sobra e dizi: Miria chi aggiu molthu ru pizzoni e ni so faradi dui gutteggi di sangu e n’è nadu chissà pianta di jaiminu. Ed eddu subidu r’ ha poltha in una tazza d’ eba e ra tinia sobra a ru cantaranu e sempri si r’ ab-baidaba, sempri cun chidda idea chi fùssia Maria. Lu jaldhineri appena è turradu a casa ha arri-badu ra mera di Γ oru drentu a a una cascia. L’indunmni è iscidu a ru sòritu a zappà ru jaldhinu e da ghi è turradu ha audu r’appu-sentu soia luttu puridu, ra pa-dedda fatta, senza chi vi fussia nisciunu, paxi era soru. A eddu r’è siividu di marabiglia e ra dì infittii tandu s’è polthu e abbaidà da ru frisciu di ra janna e vedi chi s’abri ra cascia e nn’ esci chissà bedda giobana. Si poni a iibarrazzà r’appusentu , monda, fazi ru fogu, e poi da ghi ha iibarrazzadu tuttu si poni a ricamà a ru tiraggiu i ru baxoni. Tandu ha abelthu impruvisu ra janna e l’ha dittu: Ilthatti conienti sei, no t’iltha più a mera d’oru. Ed edda: Ahi! no m’ixubbià. — No, no t’ixubbieggiu, però ilthatti conienti una figliora meia ed eiu no l’aggiu a dì a nisciunu. E cussi hani fattu fìntantu chi s’è illiarada chidda eh’abìa l’occi in tubezu, ra figliora di ra raammatita, ra muglieri di ru re. Tandu ra mamma di ru re ha dittu: Abà bisogna fi un cumbidu, paxi no cun venia fa vidè nudda (paxi erani annuzzu). Lu re no ni vuria sabè, dizia: No ra vogliu mancu vidè a chiltha ilthrea. Ma a tanta prigadurìa di ra mamma s’ è dizisu a fa un gran cumbidu. Tutta ra jenti azza'ba e faraba e intindìani chiltha bedda bozi cantendi. Eia chidda pizzinna dii abìa ru jaldliineri chi cantaba. Un uffiziari s’ è (iimadu e ha è nel giardino, ha scannato }’uccello e sono cadute due goccie di sangue e da queste due goccie di sangue ne è nata una pianta di gelsomino. Ed il giardiniere ha detto: Questa me la tengo io. Nello strapparla (per trapiantarla) ne è uscito una mela d’ oro. Ha detto: Questa io non gliela dò (al re), la pianta del gelsomino si e se 1’ ha messa in tasca. Ecco che sale sopra e dice: Guardi che ho ucciso l’uccello e ne son cadute due goccie di sangue e ne è nato questa pianta di gelsomino. Ed esso subito Γ ha messo in un bicchier d’ acqua e lo teneva sopra il cassettone e sempre se lo guardava, sempre con l’idea che fosse Maria. Il giardiniere appena è ritornato a casa ha conservato la mela d’ oro dentro una cassa. Il domani è andato al solito a zappare il giardino e dopo che è ritornato, ha trovato la stanza sua tutta linda, la pentola (il mangiare) fatta, senza che vi fosse nessuno perchè era solo. A lui fece meraviglia e il giorno dopo si è messo ad osservare dalla serratura della porta e ve^e che s’ apre la cassa e ne esce fuori questa (una) bella giovine. Si mette a rassettare la stanza, scopa, fa il fuoco e poi dopo che ha rassettato tutto, si inette a ricamare al telaio (vicino) alla finestra. Allora (il giardiniere) ha aperto improvvisamente l’uscio e le ha detto: Sta come sei, non stare più a mela d oro. Ed essa . Ahi! non tradirmi (prop. svelarmi) _Ho, non ti tradisco, però statti come una figlia mia ed io non io dirò ad alcuno. E così hanno fatto fintanto che partorì quella che aveva l’occhio nell’ occipite, la figlia della balia, la moglie del re. Allora la madre del re ha detto: Adesso bisogna fare (dare) un convito, perchè non conviene far vedere niente (perchè erano in discordia). il re non ne voleva sapere, diceva: Non la voglio nemmeno vedere questa strega. Ma dopo 47 6 GIORNALE LIGUSTICO abbaidadu da ra tuppa di ra janna e vedi chiltha bedda giobana. No ho fattu althru che azza e dì a ru re chi v’ era chissà bedda pizi-.inna. Tandu ru re cosa ha dittu? chi ru cumbidu fùssia polthutti finza a ru jaldhineri. Lu jaldhineri tandu ha dittu a chidda pizzinna chi lu re abìa cumandadu chi andessini tutti e chi dubia andà edda puru, paxì si lu re Γ ixubbiaba ri fazìa caxi dannu mannu. È giunta ra di di ru cumbidu e tutti ganti di ru parazzu so intradi a taura i r’appusentu matessi undi era ra pal-thoggia chi paria una ’lthrea. Lu jaldhineri primma è azzadu soru, ma lu re l’ha dittu, dizi: Tu no sei soru ma hai una giobana e ra debi pulthà. Taudu eddu è fa-radu e ha dittu: Mi’, Maria, bisogna a azzà. Edda è giunta. Appena r’ha viltha, in cori soiu ha dittu: Chiltha è Maria meia; e r’ ha latta pusà a culthaggiu soiu. Da ghi hani magnadu lu re ha dittu : Dugnunu dìghia ra so vida. Tandu edda r’ ha dittu tuttu (paxì lu re abìa dittu a prinzipià a Maria) cantu n’ abìa passadu, comenti ni r’ abìani bugadu r’ occi, tuttu, tuttu. Chidda da ru rettu, ra palthoggia, r’abìa cunniscida e sempri sipunia : Oi, ru cabu meiul oi ru cabu meiu ! Tutta chissà jenti mi fazi mari, ahi, ahi, andedtainni. Ed eddu Iure dizìa: Creba e isciatta, lassara dì. Finza chi ha dittu tuttu ru ghi l’era passadu. Tandu ru re s’ è vulthadu a ra mamma e a ru babbu, dizi: Bè, bè, chissà è Maria meia, e cosa v’abìa dittu eiu? No era chissà faccia di di-moniu, chissà è Maria meia. Tandu ru babbu e ra mamma bani dittu chi ra palthoggia e ra mamma fùssiani liadi a ra coda di un ca-baddu rude e chi r’abùssiani il-thrascinadi pa tutta ra ziddai finza a muri. Lu piccinneddu r’hani tentu paxì no-nn’ubìa cuipa. Lu re ha iipusadu a Maria. tanto pregare da parte della madre, si è determinato di fare un grande convito. Tutta la gente saliva e scendeva e sentivano questa (una) bella voce cantando. Era quella ragazza che aveva il giardiniere che cantava. Un ufficiale s’ è fermato ed ha guardato dalla toppa dell’ uscio e vede questa (una) bella giovane. Non fece altro che salire e dire al re che v’ era questa bella ragazza. Allora il re cosa ha detto? che il convito fosse per tutti persino il giardiniere. Il giardiniere ha detto a quella ragazza che il re aveva ordinato che andassero tutti e che doveva andare essa pure perchè, se il re lo scopriva gli faceva qualche danno grande. E venuto il giorno del convito e tutti quanti del palazzo sono andati a pranzo nella camera medesima della puerpera che sembrava una strega. Il giardiniere prima è salito solo, ma il re gli ha detto (dice): Tu non sei solo, ma hai una giovane e la devi condurre. Allora esso è disceso e ha detto: Guarda, Maria, bisogna salire. Essa è venuta. Appena l’ha veduta (il re) in cuor suo ha detto Questa è Maria mia — e Γ ha fatta sedere al suo fianco. Dopo che hanno mangiato il re ha detto: Ciascuna racconti la sua vita. Allora essa gli ha detto tutto (perchè il re aveva detto che cominciasse Maria), quanto aveva sofferto, come gliene avevano cavato gli occhi, tutto, tutto. Quella del letto, la puerpera, l’aveva conosciuta e sempre si lamentava : Oi, la testa mia! oi la testa mia! Tutta questa gente mi fa male, ahi, ahi, andatevene. E lui il re diceva: Crepa e schiatta, lasciala dire. Fintanto che ha detto tutto quello che le era capitato. Allora il re si è rivolto alla madre ed al padre, dice: Bene, bene, questa è Maria mia, e cosa v’avevo detto io? Non era questa faccia di demonio, questa è Maria mia. Allora il padre e la madre hanno GIORNALE LIGUSTICO 477 Fattu m’aggiu un paggiu d’ixappi di pabiru, a candu a casa no-nn’abia firu (i). detto che la puerpera e la (sua) madre fossero legate alla coda di un cavallo indomito e che le avessero trascinate per tutta la città sino a morire. Il bambino l’hanno tenuto perchè non ne aveva colpa. Il re ha sposato Maria. Fatto mi ho un paio di scarpe di carta, prima d’ arrivare a casa non ne conservavo neppure un briciolo (Ietterai, filo). BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Pietro Dotti. Niccolò Barabino. Reggio Emilia, tig. Artigianelli , 1892. In questa lettera assai ampia, che l’autore ha indirizzata all’amico suo Giovanni Battista Villa, scultore di bella fama, si discorre dell’insigne pittore rispetto all’arte. Sono esposti con mano sicura, e buon senno i criteri direttivi onde appariscono informati tutti i suoi lavori, e si rileva in quale guisa e con quali studi abbia egli raggiunto l’eccellenza. Di qui il Dotti prende argomento ad acute osservazioni sullo svolgersi delle arti figurative, fermandosi di preferenza a’ tempi presenti. La figura del Barabino artista viene lumeggiata efficacemente in queste pagine, dettate con affetto vivo, grande competenza, e molta equanimità. Nieri (Alfonso). La Cirenaica nel secolo V. giusta le lettere di Sinesio. Torino. Loescher, 1892 (Estratto dalla « Rivista di Fil. ed Istr. Classica » XXI). Il Nieri studiando le lettere di Sinesio come fonte storica , tratteggia col sussidio di esse lo Stato della Cirenaica rilevandone le relazioni con Costantinopoli ed Alessandria, 1’ assetto civile e militare, le sventure dopo le invasioni barbariche del sec. V. Per quanto riguarda la strategia di Giovanni (posta in dubbio dal Nieri, contro 1’ opinione dei più) merita di essere letto quanto scrisse recentemente N. Festa a p. 127-128 del i.° volume degli Studi Italiani di filologia classica editi a Firenze da un gruppo di valorosi filologi, sotto la direzione del prof. Girolamo Vitelli. G. B. Cipollini (Antonio). Saffo, Milano, Aliprandi, 1893. Collo stesso titolo, il C., pubblicò già nel 1890 un grosso volume, di cui la parte prima contiene uno studio critico-bibliografico infarcito di non pochi spropositi : e la parte seconda « le glorie di Saffo » con 47 illustrazioni e . . . il ritratto dell’Autore. Ma non è di codesto volume che ci occupiamo. L’opuscoletto del 1893 è invece una conferenza tenuta al Circolo Filologico di Milano il 19 gennaio 1890. Il C. mira a rappresentaici la figura della immortale poetessa Lesbica « divinamente bella, dice lui, nel campo sereno dell’ arte >1 ; e come conferenza, può passare, benché nulla di nuovo vi trovi chi conosca almeno gli studi del Comparetti su Saffo e Faone. Buona ci è parsa la versione metrica di alcuni frammenti saffici che il C. inserisce qua e là nel suo discorso. G. B. (1) Chiusa comunissima alle novelline sarde. 478 GIORNALE LIGUSTICO Francesco Movati. Le Vivre de raisons de B. Boysset d’après le ms. des Trinitaires d’Arie actuellement conserve a Gênes (nella Romania, XXI, 258 e segg.)· Le memorie del Boysset (sec. XIV-XV), secondo una copia eseguita dall’ab. Bonemant nella seconda metà del secolo scorso, vennero poste in luce nel 1876 dal Fassin nel Musée, periodico d’Arles da lui diretto. Da un manoscritto originale, che già nel cadere del seicento si trovava nella Biblioteca Reale di Parigi (e si conserva tuttora nella Biblioteca Nazionale), il Baluzio aveva tratto alcune notizie per le sue vite dei papi avignonesi. Ma il Bonemant dopo aver condotta la copia sopra un manoscritto originale ne rinvenne un secondo col quale arricchì di notizie la sua trascrizione; ora il primo è andato perduto, e il secondo è quello che si conserva appunto nella Biblioteca Universitaria di Genova. Il N. P ha potuto identificare facilmente in grazia dei dati intrinseci, e di alcune note che si trovano nel codice. La descrizione e la tavola che egli ne dà, possono ben dirsi un modello di accuratezza e diligenza; nessun particolare esterno ed interno viene trascurato, nulla è omesso di quanto si palesa necessario alla piena conoscenza del manoscritto. Il riscontro continuo con la stampa del Fassin, e col codice di Parigi, mostra la stretta parentela di queste tre redazioni di un libro di memorie uscito dalla medesima penna; onde riescono chiare e plausibilissime le conclusioni alle quali giunse; e cioè che il codice genovese sia il primo dei tre scritti del Boysset, quello di Pari°-i il secondo. e finalmente tenga il terzo luogo quello posseduto e copiato dal-Γ ab. Bonemant. Boghen Conigliani {Emma) — Rose di macchia, Modena, Namias e C. 1893. « Nascono spontanee sulle siepi spinose del bosco, al vento ed al sole; aprono le semplici corolle dai petali sottili, che non hanno pregio di vivi colori, nè di profumo, ed avvizziscono contente, se hanno rallegrato per poche ore la verzura folta della macchia. Così nacquero questi pensieri cui la vita d’un giorno, la vita del fiore, basterà, se otterranno il gradimento di chi non isdegna le piccole ed umili cose ». Con queste parole 1’ autrice presenta al pubblico le sue Rose di macchia, graziosa raccolta di pensieri che rivelano un acuto spirito di osservazione e un’attitudine singolare a dar forma e colorito simpatico ad un gnomologìo che, sotto mani meno abili, sarebbe inesorabilmente caduto nel commune vitium di tutte le sillogi gnomiche : il noioso. I pensieri espressi in questo volumetto non sono certamente tutti nè nuovi nè originali, e, per esempio, quello sull’ amor proprio che si trova a pag. 47 ricorda subito l’oraziano caecus amor sui del carme I, 18; ma la signora Conigliani, di ciò ben conscia, ha opportunamente premesso alle sue Rose di macchia il motto di La Bruyère: « Horace ou Despréaux l’a dit avant vous. le le crois sur votre parole, mais je l’ai dit comme mien, ne puis-je pas penser après eux une chose vraie et que d’autres encore penseront après moi? ». H se è giusto il detto di Goethe che « la sola cosa nuova che possa fare un filosofo o un artista consiste nel ripensare le idee eterne dell’umanità », leggendo il volumetto della. Conigliani, bisogna concedere che ella in più luoghi ce le fa ripensare e (non è poco) senza'alcun sentimento di tedio o di stanchezza in chi legge. Il volumetto si’ chiude con tre Fantasie (Edelweiss — Senz’amore) scritte anch’ esso con brio e vivacità. Dalla Nuova Rassegna. G. Bertolotto. INDICE DEL VOLUME MEMORIE ORIGINALI. Sui più recenti documenti scoperti intorno alla famiglia di Cristoforo Colombo (.M. Stagliino) ..... Gaspare Gozzi poeta drammatico (F. Foffano) . Feste sarde sacre e profane, usi e costumi (G. Ferrare) . Un umanista vigevanasco del sec. xiv (M■ Borsa): . . Pag. Canti popolari Ghilarzesi (G. Ferraro') ..... Mugahid e le sue imprese contro la Sardegna e Luni (G. Sforma) L’attività politica di Pier Candido Decembrio (F. Gabotlo) . Pag. La passione ed altre prose religiose in dialetto genovese del sec. xiv (P. E. Guarnerio).....» Un episodio letterario alla corte di Carlo Emanuele I (G. Rua)........ I conti di Ventimiglia nei secoli xi, xn e xm (F. Savio). Pag. VARIETÀ. Rondinella pellegrina, che ritorni.... (G. Ferraro) La pretesa testimonianza di Urbano VIII sulla patria lombo (G. Bertolotto)...... Monaco nel 1793 (G. Bigoni)..... Lettere inedite di Gherardo de Rossi (A. N.) . Noterelle Goldoniane. La Locandiera (E. Maddalena) Una fola in dialetto sassarese (P. Nurra). di Co 81, Pag. » 161, 3 10 39 199 I I I 134 241 270, 369 321, 401 Pag. 441 Pag. 216 » 295 » 306 » 383 » 390 » 467 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA. Ch. Dejob. L’instruction publique en- France et en Italie au dix-neuvième siècle (N.)....... P&g· 227 La Locandiera di Carlo Goldoni annotata da F. Martini (C. Braggio)..........» 231 L. G. Pelissier. La politique du marquis de Mantoue pandant la lutte de Louis XII et de Ludovic Sforza 1498-1500 (N.). » 234 E. Salvarezza. Curiosità storiche sulla repubblica di Noli (G. Bertolotto).........» 310 Sousa Viterbo. Artes et Artistas en Portugal. . . » 314 A. Moschetti. Il gobbo di Rialto e le sue relazioni con Pasquino (P. E. Guarnerio).......» 462 480 GIORNALE LIGUSTICO SPIGOLATURE E NOTIZIE. Pag. 74, 156, 236, 317, 400. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Inventaire sommaire de lxii manuscrits ecc. par L. G. Pelissier, pag. ^ 78. — Una lettera di Ludovico Antonio Muratori per cura di U. Nomi Cenerosi, 79. — L’anthologie d’un humaniste italien au xv.° siècle par F. Novati et G. Lafaye, ivi. — Una commedia dimenticata di E Maddalena. 80. — Della vita e delle opere di Cennino Cennini da Colle per U. Nomi Venerosi, 157. — Undici lettere di G. Rossini per A. Allmayer, 158. — De la condition des juifs de Mantoue par Ch. Dejob, ivi. — Statuto del Comune di Bagnone del 1572 per I. Bicchierai, ivi. — L’Archivio di Stato di Modena per I. Malaguzzi, 159. — Due lettere inedite dì Ambrogio Landucci per U. Nomi Venerosi, ivi. — Una tradizione su Cristoforo Colombo per A. Allmayer e G. Cioni, 160. — Nouvellistes italiens a Paris en 1498 par L. G. Pelissier, ivi. — Cinque lettere inedite di C. I. Frugoni, 237. — Del convento di S. Domenico in Sarzana e di una terracotta dei della Robbia per C. Cottafavi, 239. — Les sources milanaises de l’histoire de Louis XII aux archives de Milan par L. G. Pelissier, 240. — Note sulle traduzioni italiane dell’ « Ars Amatoria » e del « Remedia Amoris » d’ Ovidio per E. Bel-lorini, 318 — Della tirannia dei Ferrero-Fieschi principi di Masserano di G. Cl retta, 319. — I prigionieri fatti dai Francesi alla battaglia di Staffarda di G. Claretta, ivi. — Sugli studi di Bene Vagienna di G. Claretta. ivi. — Marco Musuro professore di greco a Padova ed a Venezia di F. Foffano, 320. — Un letterato italiano del sec. xvi di F. Foffano. ivi. — Di Giovanni Aurispa e della cronologia di alcune sue lettere di G. Salvo-Cozzo, 400. — Canzonieretto di Niccolò da Correggio illustrato da R. Renier, ivi. — Nicolò Barabino di Pietro Dotti, 477. — La Cirenaica nel sec. V di Alfonso Nieri, ivi. — Saffo di A. Cipollini. ivi. — Le livre des raisons ecc. di F. Novati, 478. — Rose di Macchia di Boghen Conigliani, ivi. Con il presente fascicolo il nostro periodico compie il suo anno ventesimo, e noi prendiamo congedo dai nostri lettori e dagli amici che ci hanno aiutati, ringraziando gli uni e gli altri della loro costante benevolenza. Da questo punto dichiariamo quindi finito il nostro compito, e cessata la pubblicazione del giornale. Genova, 31 dicembre 1893. L. T. Belgrano. A. Neri. Pasquale Fazio, Responsabile.