è8L( IORNALE STORICO E LET TERARIO DELLA LIGURIA & PVBBLICATO SOTTO GLI AUSPICI DELLA SOCIETÀ D’ INCORAGGIAMENTO DELLA SPEZIA. :: :: NUOVA SERIE DIRETTA DA F. L. MANNUCCI e U. FORMENTINI VOL. I FASC. I GENOVA 1925 EDITO DALLO STABILIMENTO TIPOGRAFICO Ditta Cesare Cavanna __PONTREMOLl SOMMARIO Prefazione............pag. 3 F. L. MANNUCCI : Achille Neri .... » 5 UBALDO FORMENTONI : nuove ricerche intorno ALLA MARCA DELLA LIGURIAORIENTALE » 12 ANNA DAL P1N : damaso pareto .... » 24 VARIETÀ : GIORDANO BRUNO A GENOVA E IN LIGURIA (SANTINO CARAMELLA) 48 UN LUNIGIANESE PREFETTO APOSTOLICO IN ETIOPIA E MARTIRE DELLA FEDE......» 51 NOTE D’ARCHEOLOGIA EDI PREISTORIA: LA DIFFUSIONE DI LIGURI ANTICHI SECONDO RICERCHE TOPONOMASTICHE E ANTROPOLOGICHE (U. FORMENTINl).......» 55 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA.....» 62 SPIGOLATURE E NOTIZIE......» 67 GIORNALE STORICO :: E LETTERARIO :: :: DELLA LIGURIA :: NUOVA SERIE DIRETTA DA F. L. MANNUCCI e U. FORMENTINI VOL. I. 1925 PONTREMOLl 1925 EDITO DALLO STAB. TIP. EDITORIALE DITTA « CESARE CAVANNA , PREFAZIONE Quella di un periodico che contribuisse a tener desto nella regione ligure-lunigianese V amore delle patrie memorie, fu una tradizione perpetuatasi un cinquantennio (pur tralasciando il più antico Giornale ligustico uscito in due serie, fra il 1827 e il 1838) per cura, d'insigni studiosi e favorevoli auspici di benemeriti istituti. Ognuno ricorda che tra il 1874 e il ’98 uscirono successivamente due Giornali ligustici, uno di archeologia, storia e belle arti, Valtro di archeologia, storia e letteratura; e che poco appresso, nel 1900, seguì il Giornale storico e letterario della Liguria, che s'aperse a più vasta visuale e, cessato nel 1909, ebbe fino al ’23 una vera e propria appendice nel Giornale storico della Lunigiana. Oggi, purtroppo, gli egregi condottieri di tanta impresa sono quasi tutti scomparsi; scomparso Luigi Tommaso Bei-grano, Gerolamo Berto lotto, Luigi Augusto Ce rv etto, Giovanni Sforza, Ubaldo Mazzini; unico e benamato superstite Achille Neri. Ma di tutti resta Γopera ardente e tenace; e resta, implicita, V esortazione a continuarla con uguale fervore. Il giornale, di cui presentiamo il primo fascicolo, non è e non vuol essere che una nuova serie dei periodici or menzionati. Da qualche tempo vagheggiavamo d'intraprenderne la pubblicazione; ma ci si opponevano difficoltà d'ordine finanziario e ci lasciava perplessi il timore d'apparir troppo presentitosi delle nostre forze. Sopraggiuntoci poi V invito di un solerte editore, risolvemmo d'accettarlo, pensando che un carico di tal genere fosse ben doveroso per noi che negli ultimi decenni avevamo uji po' vissuto e molto amato quel giornalismo letterario. o Dopo di ciò, riteniamo superflua V esposizione di un programma particolareggiato. Come i nostri antecessori e maestri, porremo mente a tutte le manifestazioni d'attività intellettuale comprese nell’ ambito del titolo, cioè storiche, letterarie, archeologiche, artistiche e, per certi riguardi, scientifiche. Obiettivamente il limite regionale non è inteso in senso amministrativo, ma in ragione della materia e dei tempi, cioè secondo il dinamismo del nomen ligure dalla Preistoria a noi; il che implica termini così vasti da soddisfare anche ambizioni di studi generali. Nè occorre soggiungere che la tradizione del Giornale, raccomandando l'indagine erudita, non respinge, anzi accoglie liberalmente e consiglia ogni nuovo indirizzo storiografico, sia giuridico - economico che filosofico. Gennaio 1925. F. L. Mannucci U. Formentini ACHILLE NERI Nel guardare alla copiosa Bibliografia di Achille Neri, diligentemente compilata dal Dott. Monti, converrebbe notare, anzitutto, quanta dignità di vita, quanta assiduità di nobili cure essa testimonj con quei quattrocentosessanta scritti di varia storia e varia letteratura; chè nulla può riuscire più edificante ed utile, tra « la gente nova e i sùbiti guadagni» oggi in auge, dell’esempio di chi consacra tutto se stesso al culto ideale dei buoni studi. Ma, ove insistessimo su cotesto punto, non faremmo che rilevare un significato morale già ovvio a chiunque. E in ogni modo, non dell’uomo, che tutti venerano per le doti dell’animo, vogliamo qui particolarmente dire, ma dello scrittore, del letterato, la cui opera ci si affaccia ora in complesso e pregevolissima per suoi propri caratteri. Il Neri cominciò la sua carriera letteraria nel 1867, dando fuori alcuni antichi testi ascetici, un’illustrazione del poemetto su La guerra di Serrezzana e un ragionamento critico-polemico intorno al luogo di nascita di Aulo Persio Fiacco; primi tentativi nell’arringo prescelto, ma veramente annunziatori. Fondatosi, nel 1870, il Filomate a Spezia, vi pubblicò, fra l’altro, quei documenti del Monastero di N.S. delle Grazie, che per la loro importanza vennero poco appresso riprodotti da Giovanni Sforza nel Saggio di una bibliografia storica della Lunigiana. Nei tre anni seguenti collaborò con altri articoli di storia e filologia al Propugnatore, il dotto periodico bolognese, ove la generazione della nuova Italia lavorava a conquistarsi un posto segnalato nei cimenti critici ed eruditi. Fu questo, come a' dire, il suo tirocinio. Sennonché, assunta con il Belgrano, nel 1874, la condirezione del Giornale ligustico, organo ufficiale della Società Ligure di Storia Patria, vi pose subito in luce una ’ serie di monografie sui maggiori storici della Liguria e della Lunigiana (Pier Giovanni Capriata, Luca Assarino, 6 F. L. MANUCCI Agostino Oldoino, Oberto Foglietta, Pietro Bizarro, Filippo Casoni), già lette con plauso nelle tornate di quel benemerito sodalizio. D’allora la sua vasta produzione d’interesse regionale uscì a getto continuo nel periodico parzialmente affidato alle sue cure, e poi nei due ch’egli fondò e diresse con il compianto Ubaldo Mazzini : il Giornale storico e letterario della Liguria e il Giornale storico della Luni-giana. Ma non fu la sola cui attendesse. Innumerevoli suoi scritti comparvero pure, fra il 1876 e il 1923, in atti d accademie, e più spesso in alcuni periodici letterari, che oggi, purtroppo, non son più che un nostalgico ricordo. Carriera letteraria, dicevamo, cotesta ; ma potremmo chiamarla più esattamente giornalistica, attribuendo, s intende, alla parola il senso nobile e scientifico, che le compete nel caso presente. 11 metodo, ch’egli seguì, fu nè poteva non essere quello storico. Quando questo studioso moveva i primi passi, erano i tempi in cui s’imponeva la conoscenza delle circostanze esteriori di un fatto o di un opera d arte. Pontificavano, nella ricerca del vero documentato, maestri insigni; più notevole e più profondo, se non più geniale, Alessandro D’Ancona, « dei cognati e dei dispersi miti per la selva d’Europa indagatore». Il prodotto più organico appariva allora la monografia; ma in servizio di questa, che a sua volta avrebbe dovuto servire alla costruzione di ampie storie letterarie o alla rappresentazione di intere epoche, occorreva intanto l’esumazione paziente di lettere, documenti, notizie particolari. Oggi che altri metodi vengono in voga, si guarda un po’ dall’alto a tutto quel movimento che animò per tanti decenni la nostra repubblica letteraria. Ma, per noi, a torto. 1 metodi a lungo suffragati dalla maggior parte dei dotti, i metodi così detti dominanti, non sono in sè nè falsi nè veri; sono una necessità per l’evoluzione della vita intellettuale, che suole manifestarsi appunto con le loro conquiste. Falsa è, se mai, l’applicazione che ne fanno, di volta in volta, i miopi e gl’ idolatri. Chi ad esempio, esauriva la propria attività nella descrizione minuziosa di un 7 codice dugentesco o trepidava di gioia sopra una qualunque lettera di grand’uomo o un accostamento o una fonte, si sperdeva nel vuoto o nell’ insignificante ; ma chi, seguendo con buon fiuto e ben preparato una certa pista, scopriva qualche documento utile e sapeva usarne, portava alla scienza dei fatti concreti un conributo che resta tut-t’oggi, e delle cui risultanze si deve pur tener conto nelle odierne disamine d’indole filosofica, quando non si voglia fondarle, per effetto di nuova miopia e idolatria, sulle più soggettive e malsicure impressioni. In ossequio a cotesto metodo, che suggeriva anzitutto di limitare le indagini agli archivi e alle biblioteche locali, e anche, e forse più, per amore alla terra natale - un amore costituito di muta tenerezza e di attuosa sollecitudine -, il nostro Neri si occupò specialmente di quanto riguardasse la regione ligure-lunigianese. Nell’archivio di stato genovese egli trascorse quasi tutte le ore libere dall’ ufficio di Bibliotecario dell’Universitaria e d’insegnante nelle Scuole Normali, preparando un ordinatissimo schedario di estratti e notizie, che prima o poi avrebbero dovuto trovare, come in gran parte trovarono, il loro posto in articoli e memorie di disparato argomento. Ma il suo regionalismo letterario fu dei meno gretti e partigiani ; fu soltanto un appoggio e, per così dire, una specula, dalla quale lo sguardo spaziasse per tutta l’Italia. In realtà, egli accompagnava anche fuori del pomerio cittadino o dei.termini della provincia, e talvolta dei confini italiani, i personaggi liguri che gli si rizzavan vivi dinnanzi; e per contro, tra le vicende della sua Liguria e della sua Lunigiana, badava a rintracciare famosi letterati e artisti e uomini d’arme e scienziati d’altri luoghi. Onde spesso gli accadeva di doversi allontanare dal centro abituale dei suoi studi per integrare in archivi e biblioteche lontane le ricerche iniziate, o, quanto meno, di allacciare relazioni epistolari con altri studiosi, che venivano poi ripagati da lui, in caso di bisogno, al cento per uno. Nei suoi Alfieri, nei suoi Baretti, nei suoi Qoldoni a Genova, v’ è tale un legame con gli Alfieri, i F. L. MANUCCI Baretti, i Goldoni d’altrove che, per cotesto rispetto, la sua reoione è regione non a sé ma d’Italia, e i suoi studi, più che d’interesse regionale, posson dirsi d’importanza nazionale. Se si notasse che la sua produzione e tutta frammentaria, non s’andrebbe lungi dal vero. Di articoli già comparsi in riviste e giornali, son formati, per lo più, anche i volumi che a intervalli uscirono col suo nome; i Passatempi letterari, gli Aneddoti goldoniani, le Varieta, il De minimis, gli Studi bibliografici; e quello, forse più vivo di tutti, su Costumanze e sollazzi. Il giornalismo, sia pur regolato a trimestri e quadrimestri, non lascia tempo per le Targhe meditazioni del libro ; nè, certamente, vi predispone. Ma' quegli scritti son sempre punti di partenza o punti fermi per vaste ricerche altrui ; tanto risultan densi di notizie e ricchi di osservazioni. Nessuno, in verità, potrebbe trattare delle più remote gazzette italiane senza aver sotto occhio il saggio su Michele Castelli e i primi novellari genovesi; o tracciare la storia del teatro senza valersi di tanti articoli intorno agli intermezzi, alle commedie a soggetto, alle compagnie drammatiche del cinque, sei e settecento ; o descrivere gli antichi nostri costumi, senza riferirsi almeno agli aneddoti romani nel pontificato di Alessandro vii e alle indagini, frequentemente citate e lodate, sui cicisbei di Genova. Talvolta la pubblicazione di una semplice poesia storica è per il Neri motivo di ampio e fondamentale discorso rispetto ai casi che l’originarono ; e basti qui ricordare la sua mirabile illustrazione della Canzonetta alla Curda composta l'anno 1747 del asidio di Genova, che investe in pieno la questione di Balilla, sfatando la leggenda che il giovane eroe - uno dei molti che lanciarono sassi contro gli austriaci - avesse effettivamente quel nome. Persino le sue recensioni per il Ballettino bibliografico, sono spesso trattazioni ex novo del soggetto, con corredo di documenti che modificano, in omaggio al nume supremo della verità storica, alcune conclusioni dell’autore. Nè, poi che l’argomento ce ne porge il destro, 9 sappiamo tacere del suo continuo spicilegio di notizie da mille periodici; lavoro paziente, metodico, coordinato e talvolta anonimo, ond’erano agli altri risparmiati interminabili spogli e tediose letture. Ma singolarmente notevole è la sua abilità nel rendere interessante la pubblicazione storico-erudita. Lasceremo da parte un’innocente burletta ch’egli fece nel 1872 al direttore e ai lettori dell’austero Propugnatore, inviando il sonetto: «Donna m’incende e stringe Io desire», da lui attribuito, a « quel Paganino da Sarzana di cui abbiamo una canzone nel volume secondo, p. 209, dei Poeti del Primo Secolo della lingua ecc. », ma composto da lui medesimo, con un sapore dugentesco da innamorare, e che perciò trasse tutti in inganno. Rileveremo piuttosto che talvolta i suoi scritti a illustrazione di documenti, lettere, codici, incunaboli, medaglie, sono atteggiati aneddoticamente, anche quando, per essere destinati al Giornale ligustico o a qualche altro dotto periodico, non assumono, come quelli da pubblicarsi nel Fanfulla della Domenica e nella Gazzetta letteraria, il tono arguto del trafiletto settimanale. V’era chi leggeva quegli scritti, così, perchè piacevano, perchè si facevano leggere ; chi, persino, li leggeva senz’ aver consuetudine o specializzazione di studi. Ma, in generale, l’interesse non è nella abituale chiarezza dell’esposizione, e tanto meno nel colorito della materia - pregevolissimo sempre, quantunque lontano da ogni liricità esteriore -, bensì nella materia stessa, scovata o scelta con sagacissimo intuito fra la polvere di scaffali indisturbati da secoli, e il giallore poco fragrante di carte antiche. Difficilmente si dimenticherebbero, anche dopo una fuggevole scorsa, le curiosissime e gustosissime notizie ch’egli diè, per citare alla rinfusa, sulla cucina del Vescovo di Luni, sulla Simonetta del Poliziano, sul Goldoni, sul Foscolo, sul Fantoni, su Giambattista Niccolini, su antichi almanacchi, sulle poesie popolari del 1746, sulla soppressione àt\Y Indicatore genovese, su Nino Bixio, Goffredo Mameli, Garibaldi e tanti altri personaggi del nostro Risorgimento. 10 F. L. MANUCC1 L’arte del Neri è principalmente qui, nella ricerca di questa sostanziale attrattiva; l’arte sua e, vorremmo dire, la sua poesia. Tutte le facoltà delPanima paiono infatti eser-citarvisi, e specialmente la fantasia, che vede a priori e ricostruisce sul documento un corteo d’ombre liete o malinconiche, spensierate o cupe, buone o malvage, magnanime o pusille; e le insegue e, cogliendole di scorcio o di prospetto, sa intuirne i sentimenti, gli atti, le voci. E riuscire a tanto, risuscitare quasi la figura dei nostri progenitori sopra un accenno d’archivio e la data di un libro, dovè essere per lui, per l’infaticabile evocatore, una gioia continua dei suoi cinquantanni di lavoro. Alcuni non ignorano con quale soddisfazione egli, dopo aver frugato per più triorni invano e con evidente corruccio molte filze di notai e atti di governo, afferrò un foglio ed esclamò: * Lo dicevo io! Ma se me lo vedevo proprio qui ! > Si trattava della scoperta di un documento comprovante la dimora di Onorato di Balzac a Genova; una notizia da nulla per se stessa, ma che. ricollegata ad altre d’ambiente, raggiava una luce vivissima. In quel momento, il Neri aveva negli occhi una serie di personaggi che s’ eran trovati accanto al aran romanziere francese nella Villetta di Negro; tutto un "piccolo mondo ch’egli poi colorì con mano sicura in un suggestivo articolo per la Rivista ligure. Molte sue ricerche, alle quali la Bibliografia non poteva menomamente accennare, furono e son tuttora devolute a vantaggio altrui. Numerosissimi libri recano ringraziamenti alla cortese liberalità con cui egli, interpellato da lungi e spesso da ignoti su qualche argomento, s’è affrettato^ a fornir senz altro ciò che in proposito aveva già raccolto. E ancor oggi, nella saletta del Museo del Risorgimento genovese, ove trascorre i suoi giorni fra carte e volumi. egli dispensa a chi n’ha bisogno tesori di notizie e consigli: li dispensa con una signorile bonarietà che t'avvince, con una calma semplicità che ti meraviglia. Il tale?... L’anno tale?... E il suo volto s’illumina e la sua parola richiama una pagina di storia con mille nomi e mille date... ACHILLE NERI II Poiché Achille Neri è, a dir poco, l’incarnazione vivente della storia italiana. Sorretto da una memoria prodigiosa e da un’esperienza longeva, egli può giudicare, senza cadere in fallo, di uomini, cose, momenti del nostro passato; può, anche all’improvviso, trarre risultanze nuove e inopinate, additare lacune, avviare, suggerire, guidare. Sicché, augurando a questo venerando vegliardo di godere ancora lunghi anni di vita, si formula un augurio, oltreché per lui, per gli studj e per gli studiosi. Francesco Luigi Mannucci Mentre attendiamo all’ultima revisione di queste stampe ci colpisce improvvisa la notizia che Achille Neri s’è spento serenamente a Genova il 13 del corrente mese, di poco varcato Γottantatreesimo anno d’età. Queste pagine di filiale reverenza e d’augurio che gli erano dedicate in vita e con le quali volevamo propiziare l’impresa nostra non assolvono che in parte il destino della generazione a cui apparteniamo veiso la Sua memoria. Tutto un periodo della cultura ligure, fra i più laboriosi e fecondi, s’è riflesso e versato nell’opera Sua ed or si concliiude nel termine della sua terrena esistenza. Ultimo d’una schiera di prodigiosi lavoratori, di spiriti rari ed eletti, pareagli commesso di recare ai nuovi venuti, nel Suo durevole soggiorno mortale, il proprio e F altrui retaggio di pensiero e di studi, il frutto maturo d’una lunga, molteplice, gloriosa fatica. Veramente compiuta l’ascesa e consumato il destino, Egli prende da noi commiato. Il fascino di questa privilegiata perfezione di vita vince nell*animo nostro la tristezza dell’eterno abbandono. NUOVE RICERCHE INTORNO ALLA MARCA DELLA LIGURIA ORIENTALE. I. I marchesi liguri e la conquista della Corsica. È nota sovratutto dal Muratori l’epigrafe inscritta nel sepolcro del marchese Adalberto nella badìa di Casti-ο-Iione ma è meglio riferirne il testo nella corretta lezione di Ireneo' Affò: Hectoreos cineres et Achil \ lis busta superi?! cae-sarenmq. \ caput parlo hoc sub mar \ more tectum credere neu \ dubites pietate Adalbertus | et armis inclitus Ausoniae \ quondam spes fida carinae ] quo duce romuleis Cyrnus subieita triumphis barbara | gens italaq. procul dispelli \ tur urbe marchio dux La 1 tii sacer aedis conditor hu\ uis hac tumulatur humo melior pars aethere gaudet \ Obiit anno salutis Λ1ΧΧΧ IV die VI Januari’. . . Dopo crii studi del Desimoni* e le recenti rigorose inchieste genealogiche del Gabotto*. non rimane dubbio Abbreviazioni: A S I - Archivio Storico Italiano. A S L Atti della Società Ligure di Storia Patria. A M D M - Atti e Me,none della R Dep. di St. P. per le Provincie Modenesi. B ssb - Bollet tino storico-bibliografico subalpino. BSSS - Biblioteca della Società Storica Subalpina. C P - Codice Pelavicino all Are. Capii, di Sar zana (Rg. - Regesto di M. Lupo Gentile in A S L, XLIV/ C 0 - Car • j Rei (rrnnn in A S L il - 1. GSL - Giornale Storico tario Genovese, ed. Belgrano in asl, π . della Lunigiana. S L L - Giornale Storico e lett. della Liguria. Μ Λ L - Memorie dell' Accademia Lunigianese di Scienze G. Capellini. RA - Registro della curia arcivesc. di Genova, ed. Belgrano in a Si-, li - 2. RV - Registrimi Vetus comm. Sarzanae, cod. membr. alt’ Ardi. Com. di Sarzana. ' MURATORI, A. E. I, 102; Affò, Stona di Parma, il, pp.31 sgg. Al v. 5 il M. legge Albertus in luogo di Adalbertus identificando, sebbene con molte dubbiezze, il personaggio con Alberto Azzo I progenitore degli Estensi. Secondo l’Affò il marmo è opera del sec. xvi, dimostrandolo i caratteri e l’arme pallavicina che vi e effigiata. Non si esclude però che la inscrizione possa essere stata trascritta da monumento più antico. Infatti gli esametri ritmici non sono propri dalla epigrafia cinquecentesca, lo stile è quello dei componimenti poetici medievali celebranti simili imprese contro i Saraceni, v. p. es. l’espressione «latie carine· e altre simili nel Liber Maio-lichinus (ed. Calisse, in Fonti per la Storia d'Italia, xxix). 8 C. Desimoni, Sui marchesi di Massa in Lunigiana e di Parodi nell’oltregiogo ligure nei secc. XII e XIII, ASL. KXVin, 235 63. 1 F. Gabotto, / marchesi Obertenghi fino alla pace di I nni, OS L. ix 1918), 3-47; nuova ediz. in: Per la storia di Tortona nell’età del comune, BSSS. XCV. LA MARCA DELLA LIGURIA ORIENTALE 13 che questo marchese Adalberto non sia il progenitore del ramo obertengo che prese in seguito fra gli altri titoli quello della Corsica ed ebbe in realtà lunga signoria nell’isola1. Ma del gran fatto d’armi celebrato con tanta enfasi dall’iscrizione non abbiamo che questa tenue memoria, oppure si tratta di un avvenimento noto per altre narrazioni nelle quali proprio il nome del duce vittorioso sia rimasto oscuro? L’impresa marittima e il tempo dicono che la barbara gens di cui parla l’epigrafe sono i Saraceni; e poiché appunto nel periodo di attività di Adalberto cadono le incursioni in Sardegna e sulla costa d’Italia del re moro Mugàhid, sconfitto nel 1016 dalle armate italiane, in ispecie di Pisa e di Genova, assembrate da Papa Benedetto vin, sembrami che a questi avvenimenti l’impresa di Adalberto si debba riferire. Non è il caso di riesaminare le amplissime testimonianze, sia nostrane che di fonte moresca, storiche e leggendarie, intorno alle imprese tirreniche di Mugàhid ; ne hanno trattato, fra gli ultimi, con critica rigorosa, Giovanni Sforza in una pubblicazione nuziale edita nel 1917, compimento d’altro suo più antico lavoro2, e il Besta nei suoi volumi sulla Sardegna medievaleChe le versioni dei cronisti arabi siano da tenere come fonte storica principali dei fatti non è dubbio; le leggende pisane e genovesi ci interessano sovra tutto per quanto le favole, le amplificazioni, gli anacronismi palesino il motivo segreto dei narratori nel 1 Adalberto (II) figlio di Oberto (il) della linea adalbertina, pronipote di Oberto conte di Luni e primo march, della Liguria Orientale, nato c. 980, morto, come ricorda Γ epigrafe trascritta nel testo, il 6 gennaio 1034. È uno dei soggetti della nota quadripartizione del patrimonio obertengo, da cui discendono i marchesi che s’intitolarono poi da Parodi, da Massa, dalla Corsica. a (Nelle nozze Buraggi - Oalleani d’Agliano) Mugàhid (il re Ma-getto dei cronisti italiani) e la sua scorreria contro la città di Luni, nuovi studi di Giovanni Sforza, Torino, Bona, 1917; Mugàhid e le scorrerie contro la Sardegna in: Giornale Ligustico, 1893, pp. 134-156. 1 E. Besta, La Sardegna medievale, I, Palermo, Reber, 1908, pp. 56-67. 14 UBALDO FORMENTINI dare un colore od un altro agli avvenimenti. Ma è per il nostro assunto di capitale importanza la versione del contemporaneo Thietmarus che inserisce nel racconto dei cronisti arabi l’episodio di una incursione moresca sopra Luni da quelli taciuta, e attribuisce questa precisa occasione alla crociata bandita da Benedetto vili1. Se l’episodio è vero, e la sua attendibilità è avvalorata dalla circostanza già notata dal Jung che Thietmaro potrebbe averne udito il racconto dallo stesso presule lunense quando questi nel 1019 si trovava a Strasburgo 2, la concordanza del racconto storico della gesta di Mugàhid con l’epica novella dell’epigrafe castiglionese assume valore probatorio per l’identificazione del marchese Adalberto come capo delle forze cristiane. Risponde innanzi tutto il concetto dell’epigrafe al fatto che la spedizione era stata impresa federale italiana: Adal-bertas .. . Ausoniae spes fida carinae, mentre il dux Latii sembra accennare con sufficiente chiarezza alla guida del papa; concorda ugualmente l’espressione, barbara gens itala procul dispellitur urbe, col movente indiscusso della spedizione, quello cioè di allontanare dall’Italia la minaccia che aveva avuto tangibile segno con l’anzidetta incursione sopra la città di Luni. Si noti ora eh? il marchese Adalberto era 1 M G H. Script. ///, 850 sg.; Ann. Saxo, ivi, vi, 670. Sulla fede di Thietmarus il MURATORI (Ann. 1016-1017) ritiene che le spedizioni italiane contro Mugàhid siano state due, la prima delle quali di pura iniziativa papale avrebbe dato luogo ad una battaglia navale davanti a Luni, la seconda l’anno successivo condotta in Sardegna da forze comunali pisane e genovesi. Sul rapporto fra I incursione in Luni e le vicende sarde di Mugàhid vedi le contradittorie opinioni del Gregorovius, Guglielmotti, Amari ecc. nitidamente riassunte e vagliate dallo Sforza (op. cit. 25 sgg.), secondo il quale una sola fra la spedizione italiana contro i Mori e questa avvenuta I anno 1016. La nostra dimostrazione si giova di questo assunto e insieme lo conforta, sotto il riguardo che al capitano dell’impresa da noi identificato apparteneva in pari tempo la vendetta della devastazione di Luni e il comando legittimo delle forze navali impiegate nella spedizione punitiva. 3 A M D M, Se. V*., Voi li. p. 276. LA MARCA DELLA LIGURIA ORIENTALE 15 uno dei consorti del comitato di Luni e insieme della marca della Liguria orientale il cui principale ufficio politico-militare era la difesa marittima contro i Saraceni; tutto prova dunque che, se I’ epigrafe di Castiglione non mente, Γ impresa militare d’ Adalderto non può aver avuto altra data ed altra occasione fuori di quelle stabilite dalla concordia delle fonti per la spedizione italiana contro Mugàhid. Vedremo poi, d’altra parte, che parlare d’un’impresa navale d’iniziativa puramente cittadina, cioè prescindere dai poteri militari della marca è, per il tempo, prematuro, almeno sicuramente per quanto riguarda le forze che Genova aveva portate nella spedizione, l’inizio dell’attività militare autonoma della compagna essendo certamente più tardo. Può tuttavia recare meraviglia che il nome di Adalberto non sia registrato nè dalle fonti arabe, nè da quelle italiane; ma, quanto alle prime, osserviamo eh’esse parlano in genere di forze venute dall’Italia o nominano gli avversari di Mugàhid semplicemente come i « Rum »; quanto ai cronisti e ai rapsòdi municipali pisani e genovesi, i quali intitolavano da quella spedizione le pretese dei rispettivi comuni sulla Corsica, dimenticano persino la parte che vi aveva avuto il papa, tanto più avevano ragione di lasciar nell’ombra il merito dei marchesi i cui diritti erano ancora in fiera contestazione nel momento in cui si registravano i primi fasti del Comune. Più grave obiezione è che le fonti arabe e in generale anche le nostrane riferiscano l'avventura di Mugàhid soltanto alla Sardegna, tacendo che nelle stesse circostanze le armi dei confederati siano state portate anche nella Corsica. Non mancano tuttavia versioni pisane le quali accennano alla occupazione della Corsica con riferimento alla spedizione contro Mugàhid, pur indicando date più tarde, ad esempio quella del 1050, stile pisano1. Devesi dunque 1 RlNlERI Sardo, Cronaca Pisana allarmo 962 sino al 1400, in A SI. vi, p. il, pp. 76*79: « ...li pisani con lorb isforzo e con loro r ovili intronno in mare per passare in Sardegna e la fortuna li porlo 16 UBALDO F0RMENT1NI - rettificare questa data, o cancellare dal racconto il nome troppo famoso del re di Denia, o rigettare senz’altro il tutto come favola? 10 penso che questi anacronismi pisani siano tutt’altro che innocenti, nel senso che i cronisti, dovendo storicamente rispettare la circostanza nota e innegabile che la conquista della Corsica da parte di forze continentali era stata conseguenza della sconfitta di Mugàhid, abbiano cercato in qualsiasi modo di mescolare questo nome in altre imprese marittime posteriori, la cui iniziativa fosse stata veramente pisana e municipale. Si noti a questo proposito la leggenda riferita da Pietro Cirneo del plebeo improvvisato ammiraglio che vendica la sconfitta patita dal condottiero pisano Lucio Alliata; l’impresa è riferita all’anno 1055, e, come nelle redazioni avanti citate, questo avvenimento è indicato quale occasione dello stabilimento dei Pisani nella Corsica1. 11 sospetto di questa intenzionale falsificazione pisana è confermatola parer mio, da un singolare caso analogo. Pretese sulla Corsica si coltivano anche dai discendenti dei conti di Provenza; per esempio, si ha notizia che nel 1280 Carlo D’Angiò disponeva della contea di Corsica a favore di Guglielmo visconte di Mèlun. Ora uno scrittore provenzale del sec. xvi, Alfonso Delbène, narrando la parte che i suoi conti avrebbero avuto nella liberazione della Corsica, anch’egli tira in ballo il re Mugàhid; ma gli conviene anticipare e non ritardare il fatto : quindi la spedizione contro il re moro è da lui riallacciata alla cac- in Corsica......e li pisani presero allora l’izola di Corsica e la dienno al vescovo...». Conforme è il racconto di una cronaca lucchese inedita dal secolo xiv scoperta dallo Sforza, op. cit, 19 sg. ; cfr. SlGONlO, De Regno Italico Vili, ad ann. 1051. Altre cronache pisane fissano intorno alla stessa data lo sbarco dei Pisani in Corsica senza però riferirlo a spedizioni contro i Mori (TRONCI, Hist. Pi's. I, 158; Roncioni, Istorie pisane, in A S I. VI, 82). 1 C. De CESARI-ROCCA, Origine de la rivalité des Pisans et des Génois en Corse, 1014-1117, Genova, 1901 pp. 23 sgg, LA MARCA DELLA LIGURIA ORIENTALE 17 ciata dei Saraceni da Frassineto (nella quale ebbero parte in realtà i conti di Provenza), quegli che riunisce Genovesi e Pisani nel racconto del Delbène non è il papa, ma Guglielmo di Provenza, e la vittoria navale e la conquista delle isole avvengono nel 999, in una data cioè nella quale Guglielmo era già morto e nessuna cronaca araba parla ancora di Mugàhid. Il racconto del Delbène, cfie aveva dato ad un moderno storiografo della Corsica, il Poli, qualche indizio della fondatezza dei diritti provenzali nell’isola, venne dimostrato fantastico dal Poupardin, i cui rilievi furono accettati dal precedente autore1. Ma l’insieme di questi falsi conferma che veramente l’impresa contro Mugàhid fu il principio delle signorie continentali nell’isola e la sua data quella della liberazione di questa dai Saraceni; cosa oramai ritenuta per certa dagli istoriografi più recenti della Corsica2. Senonchè il precisare maggiormente le circostanze nelle quali questa invasione di forze continentali può essere avvenuta ci illuminerà anche sul punto fondamentale del principio della signoria marchionale nell’isola. È in primo luogo da domandare, dato che i confederati d’Italia e il loro capitano siano entrati in Corsica in seguito o comunque in relazione con la sconfitta de’ Mauri in Sardegna, contro quali avversari essi abbiano avuto da combattere. Che la durata e l’ampiezza della dominazione saracena nell’isola siano state molte ingrandite dalla tradizione e dalle cronache è da credere3; forse anche nel periodo della loro incontrastata lassocrazia nel Tirreno i Saraceni non ebbero il possesso intero della Corsica; ma certo vi ebbero dei posti militari, organizzati come centri 1 Xavier Poli, La Corse dans V antiquité' et dans le haut Moyen Age, Paris, Fontemoing, 1907 pp. 174 sgg. In appendice (pp. 200 sgg). riproducendo il brano di Alphonse Delbène (De Regno Burgundiae, Lyon 1602, pp. 148-158) ΓΑ. prende atto delle osservazioni del Poupardin. 2 Cfr. DE CESARI-ROCCA op. cit. p, 8; in. et L. VILLAT, Histoire de Corse, Paris 1916 p. 36. 3 Ibid. 18 amministrativi e giudiziari, sovratutto nella regione costiera1, e forse questi stabilimenti coloniali rimasero debolmente uniti ai governi metropolitani di Spagna o d’Africa, o a lungo andare divennero autonomi. Fatalmente quindi la lotta che le armi italiane condussero in Corsica prese il carattere d’una conquista; a differenza di quel che avvenne in Sardegna dove i crociati apparvero come liberatori e alleati delle forze isolane. E la conquista fu parziale. La situazione geografica de’feudi marchionali, quale risulta dalle più antiche notizie, conferma questa ipotesi. Infatti che il più antico dominio dei marchesi preponderasse sopra quello di ogni altro feudatario, che a molte anzi di quest’altre signorie laiche ed ecclesiastiche esso abbia dato vita e titolo, è provato; ma può essere richiamato alla stessa origine la dominazione comitale, così influente nell’isola a partire dal sec. xm quando il titolo viene assunto dai Cinarchesi? Lo escludono in primo luogo i risultati delle ricerche onomastiche del De Cesari-Rocca sulla probabile derivazione del titolo di «Cinarca» da giudici locali il cui potere fosse tradizionalmente disceso da magistrature bisantine, da queste magistrature in progresso di tempo, seguendo l’evoluzione feudale, un gruppo signorile (a cui poi nel sec. xm, di ragione o di pretesa, i conti di Cinarca si riallacciarono) avrebbe ripetuto titolo di dominio sopra una parte del paese, verisimilmente quella che non era caduta in mano dei primi conquistatori. Infatti nessuna prova abbiamo che il dominio feudale dei marchesi abbia superato il di qua dei monti2; e d’altro lato le più antiche lotte fra i marchesi e il consorzio comitale, riccheggianti nei racconti 1 Poli, op. cit., pp. 182 sgg. 2 De Cesari rocca, op. cit. p. 61 : « Si l’on ne peut prouver d'un façon absolue que les Obertenghi furent à une époque donnée, les maîtres de Γîle tout éntiere, l’état de leurs domaines au trezième siècle établit qu’ ils possédèrent primitivement tout PEn-deça-des-Monts». LA MARCA DELLA LIGURIA ORIENTALE 19 leggendari di Giovanni Della Grossa1 non recano segno di una rivolta di antichi vassalli così come le eguali lotte dei visconti e di altri gruppi di feudatari contro i marchesi. Per concludere, dunque, la Corsica sarebbe stata invasa nel 1016 dai vincitori de’ Mauri in Sardegna con la ragione o il pretesto di cacciarne i presidi saraceni ivi stabiliti da tempo remoto e indipendentemente dalle avventure tirreniche di Mugàhid (e questo spiega il silenzio delle fonti arabe sui fatti della Corsica) ; la lotta sarebbe stata poi proseguita contro forze indigene dando luogo ad una conquista che trovò i suoi limiti nella resistenza di queste forze stesse. In tal modo spiegheremmo l’impronta tenace che la storia della Corsica conserva d’un dualismo irrimediabile fra elemento indigeno e forestiero, espresso in pari tempo ed in eguali termini nel contrasto delle tradizioni autonomistiche (nate dal lento dissolversi dell’ amministrazione bizantina onde in certo modo gli ordinamenti imperiali rimasero come istituti locali) contro gli istituti allogeni del feudo. Il confronto fra le condizioni nelle quali sono venute a trovarsi rispettivamente la Sardegna e la Corsica dopo la sconfitta di Mugàhid avvalora interamente la nostra 1 Ibid. pp. 31 sgg. Cfr. De cesari-rocca e l. Villat, op. cit. 44 sgg. Vero è che i Cinarchesi soppiantarono al di là dei monti un’altra casa comitale detta dei Biancolacci (fossero o no i primi u-niti a questa e da vincoli di sangue), casa nella quale, attraverso il dedalo delle leggende, potrebbe riconoscersi la discendenza di una più antica stirpe sovrana venuta dall’Italia e in questo caso probabilmente una prima diramazione dei marchesi di Toscana. Per contro nessun documento ricorda l’esistenza di una contèa della Corsica dipendente dalla antica marca di Toscana. Quindi se anche si volesse supporre che dalla spedizione deir antico Bonifacio fosse derivata l’esistenza di un comitato della Corsica, converrebbe concludere che questo istituto, anziché subire l’evoluzione continentale, a-vrebbe mantenuto il carattere d’una pura magistratura, a somiglianza degli istituti politici lasciati nell’ isola da Bisanzio; di ciò sembrami non lieve indizio che il titolo comitale fosse ricevuto per suffragio popolare dai Cinarchesi nel secolo xm. 20 tesi. Poiché l’introduzione del feudo è il documento storico preciso dell’inizio dei rapporti fra gli isolani e il continente, osserveremo appunto come in Sardegna la feudalità si organizzi da prima come una forma di relazione esterna coi comuni italiani1, mentre in Corsica è certamente istituto precomunale; basta a provarlo il dominio feudale dei visconti genovesi precedente senza dubbio gli scambi col comune. L’origine dunque della signoria marchionale in Corsica, principio e fondamento del feudalismo isolano, è da riferire per via di strette induzioni alla data e ai fatti di discorso. Vedremo ora come le prove deducibili dalla genealogia obertenga e dal codice diplomatico di questo gentilizio portino alla stessa conclusione, sia escludendo uiV origine più antica, sia recando la testimonianza dello stabilimento marchionale in data così prossima all’impresa di Mugàhid da far ritenere questa l’antefatto necessario di quello. Le opinioni degli storici sull’origine del dominio marchionale sono rimaste tuttora, incerte e contradditorie. Da una parte, sulla base della nota genealogia muratoriana, si pensava che il potere degli Obertenghi fosse disceso dal titolo che i marchesi di Toscana avevano sulla Corsica, potesse cioè persino vantare la veneranda antichità della spedizione navale di Bonifacio2. D’altro lato le prove diplomatiche di questo dominio non risalivano innanzi alla fine dell’xi secolo, alle date cioè attestate da un gruppo di documenti dell’Abbazia del Tino riguardanti particolarmente il marchese Alberto Rufo e i suoi discendenti3. Alla stregua di queste date era persino questione se il dominio degli 1 Cfr. Besta, op. cit. il, 145 sgg. e la bibliografia ivi citata sull* argomento. 2 Ehinardi, Ann. ad. ann. 828. 3 De CESARI-ROCCA (op. cit. p. 21 e passim) registra come primo documento della dominazione dei marchesi in Corsica un atto di Alberto Rufo del 1086: egli non tien conto di un atto attribuito al stesso Alberto Rufo e datata dal Muratori Tanno 1050, donazione della corte di Frasso in Corsica al Mon. di S. Venerio al Tino, giudi- LA MARCA DELLA LIGURIA ORIENTALE 21 Obertenghi in Corsica non fosse connesso con le note rivendicazioni di papa Oregorio vii1. Sul primo punto, a prescindere anche dalla teoria del Baudi di Vesme, il quale nega il rapporto di sangue fra i discendenti di Oberto e gli antichi marchesi di Toscana e riunisce i primi al gruppo supponide2, v’ è una prova pa-rentoria per escludere che possessi e giurisdizioni in Corsica (alPinfuori, se mai, del nudo titolo di difensori del-I’isola in partibus infidelium) siano stati trasmessi dai toschi ai liguri marchesi. Infatti, se ciò fosse avvenuto, troveremmo nei feudi marchionali della Corsica le traccie della quadri-partizione documentata per tutti i predii e i feudi venuti ai quattro rami obertenghi dall’ autore comune, particolarmente anche per quei fondi che sicuramente provengono dall’eredità toscana3. Invece le ricordate prove genealogiche del De Simoni, perfezionate dal Baudi e dal Oabotto, stabiliscono senza eccezione che tutti i documenti conosciuti dei secoli xi e xn riferentisi al dominio dei candolo falsificato. Si sa ormai che la data dell’ edizione muratoriana è errata e deve essere rettificata con Panno 1080 (B S S S, cxi, doc. 26); a prescindere pertanto dalla presunta falsificazione, il doc. non ha importanza per la cronologia del dominio dei marchesi in Corsica, tanto più dopo la scoperta dei più antichi documenti di cui nel testo. 1 Che nell’epistola di Gregorio vii del 1077 (Ep. v, 4), quando si parla di conti e signori della Tuscia pronti ad appoggiare le rivendicazioni papali, si alluda agli Obertenghi non mi pare; a quel tempo, a prescindere anche dalla questione genealogica, nessuno li avrebbe chiamati «toscani»; i membri delle varie famiglie ober-tenghe si qualificavano esclusivamente dai comitati delPAlta Italia, particolarmente della Liguria; infatti marchisius Liguriae chiama Orderico Vitale Alberto - Azzo il e ligures germani i suoi figli, contemporanei di papa Gregorio vii. (Cfr. Muratori, A. E. i. 268 sg). 2 Baudi di Vesme, Dai Supponidi agli Obertenghi, in Bsbs, XXII, pp. 201 sgg.; Cfr. Hofmeister, Markgrafen und Marhgrafschajten pp. 74 sg.; Pivano, Stato e Chiesa da Berengario I ad Arduino, pp. 140 sg.; Gabotto, op. cit. pp. 4-5. 3 Senza volere discutere qui la teoria geneologica muratoriana è un fatto che un gruppo di fondi appartenenti alla casa toscana passò agli Obertenghi, sia nelPAretino (v. docc. in Pasqui, Docc. p. la 22 UBALDO FORMENTINI marchesi liguri in Corsica sono da attribuire all’unico ramo d’Adalberto il. Di ragioni e diritti degli Estensi e dei Pallavicino non è traccia, e se più tardi vi compaiono i Mala-spina, questo non ci stupisce, sapendo che sulla fine del xii e lungo il xm sec. essi trassero largo partito dall’indebolimento della consorteria Massa-Corsica (così come altrove e in altre circostanze avevano profittato dell’assenza dei Pallavicino e degli Estensi) per sostituirsi a quei consanguinei nelle pretensioni e nei diritti che non sapevano più difendere, contro vassalli ribellati, vescovi e comuni1. Finalmente un documento sconosciuto agli storio- storm (VArezzo, n. 64 e 104; MURATORI, A. E- I, 217 sgg.), sia in Lunigiana. Sono quest’ultimi i beni indicati nell’atto di fondazione, da parte del march, di Toscana Adalberto il, dell abbazia delTAulla (a. 884, doc. in MURATORI, A. E. I, 210 sgg.), meglio descritti in un altro documento, al quale gli storici regionali hanno posto scarsa attenzione, spettante al figliastro del predetto, il re Ugo v12 die. 938, donaz. propter nuptias alla regina Berta, in M.h.p. XIII, Cod. dipi. Lang. 944). Alcune corti e fondi nominati in questi atti ricompaiono nei diplomi dei vari rami obertenghi: così I’Aulla, Coniano, Valleplana, sono ricordati nel diploma del 1077 di Enrico IV agli Este, e parimente, si noti, per una quarta parte, nel diploma del 1164 di Federico I ai Malaspina; Valeriana o Valerano in più documenti dei Massa-Corsica, oltreché nei ricordati degli Este e dei Malaspina. 1 Sulla fine del secolo xi i marchesi Massa-Corsica si stringono ai Genovesi, inquietati dalle pretese dei Malaspina, loro congiunti, alleati di Pisa. Nel trattato d’alleanza del 1173 i primi si garantiscono da ogni molestia degli avversari anche nella Corsica, ma l’atto non accenna per nulla a ragioni e possessi che i Malaspina possano vantare nell’isola, come suppone De Cesari-R0CCA (op. cit. p. 57), soltanto ad una possibile rappresaglia: si forte pisani aut Malaspina pro conventione quam nobiscuni fecit janidictus guillielnuis marchio... contra eum hostem fecerinit in Corsicam... (Lib. Jur. I, 277>. Ma la guerra, il cui principale obbietto era l’espansione del comune genovese nella Riviera di Levante, non ebbe alcun episodio navale per quanto si può argomentare dagli atti d’arbitraggio e di pace del 1174 (Ibid. 282, 288). Soltanto nel 1269 Isnardo Malaspina fece una spedi zione nelTisola, però ad requisitionem quorundam virorum nobilium de Corsica (Ann. Gen. ad ann.). A possedimenti dei Malaspina in Sardegna e in Corsica accenna poi Tatto genovese-pisano del 1 288 (il\ Jur. lì., 118): quanto alla Sardegna nessun Malaspina vi compare LA MARCA DELLA LIGURIA ORIENTALE 23 grafi dell’isola1 e messo in luce dal Gabotto, il quale lo ha però adoperato a puro scopo genealogico, controlla luminosamente la narrazione dell’epigrafe di Castiglione, della cui veridicità non possiamo più dunque dubitare. È un atto di donazione fatto da un marchese Adalberto figlio di Oberto (certamente il nostro Adalberto n) al monastero di Fruttuaria, delle ville di Mesola e d’Arcosa e del cenobio di S. Stefano di Corsegaglia in Corsica l’anno 1029; donazione confermata nel 1056 da Adalberto in figlio del precedente-. Se ló stabilimento del marchese Adalberto in Corsica non fosse dipeso dalla vittoria del 1016 bisognerebbe supporre fra questa data e il 1029 la ripetizione d’un’uguale spedizione marittima di tale importanza da giustificare il tenore dell’epigrafe di Castiglione, di che tace ogni memoria. (Continua) Ubaldo formentini (salvo la legazione imperiale di Obizzo Malaspina nel 1164; Ann. gen. ad ann.) prima di Guglielmo che nel 1203 invase la Gallura ma se ne ritrasse in seguito alle proteste pontificie (Besta, op. cit. 172); tuttavia sembra ch’egli realmente fondasse il dominio malaspiniano nell’isola, il che può desumersi anche dalla notizia degli Annali genovesi (ad ann. 1220) della sua morte a Genova cu ni de Sardinia ad propria remeasset. Del tutto infine sembrami prova decisiva che nessun accenno a diritti malaspiniani nelle isole faccia il citato diploma federiciano del 1164 nel quale diploma si riassumono tutte le pretensioni dei Malaspina, persino le regalie in Janua et eius marchia! 1 Veramente già il Desimoni (op. cit. p. 249) aveva creduto di trovare un segno del dominio di Adalberto nell’isola nella sua donazione del 1034 al mon. di Castiglione (doc. in Muratori, A. E. i, 98); trattasi di una abbazia di Corsisa nella quale avevano parte quei monaci secondo risulta da una bolla di Lucio n del 1144: «.. puidquid possidetis in comitatu lunensi... et in abatia S. Marie de Corsica que appellatur Plaidelì» (ed. Muratori, A. I. v, 819). Ma non pare che questo luogo risponda all’altro notato «Palaude» nella anzidetta donazione del 1034, dovendosi il secondo identificare con Parodi ligure, noto capoluogo della consorteria. Così non si può escludere che i possessi in S. Maria di Corsica siano venuti al mon, di Castiglione per donazione posteriore di alcuno dei discendenti di Adalberto. 2 Gabotto op. cit. pp. 16 e 19: comunicazione Baudi di Vesme da F. A. Della Chiesa, Descriz. del Piemonte, iv, ms. nella Biblioteca di S. M. il Re a Torino. DAMASO PARETO UN CAPITOLO DEL ROMANTICISMO MAZZINIANO Scrive il Mazzini nel ’36: « Chiedo a Francesco nuove, quante può raccoglierne, di quel Damaso Pareto ch’io conosceva - è poeta sempre? Non entra con Canale etc. nelle sommità genovesi?1 »; e altrove chiama il Pareto «letterato e poeta ». A me parve quindi utile una compiuta indagine, diretta a mostrare sino a qual punto convengano al patrizio genovese i due attributi; e, in particolare, quale sia la sua attività di traduttore e divulgatore della letteratura inglese. Lorenzo Antonio Damaso Pareto, nato nel 1802 da Oian Benedetto e da Aurelia Spinola, fece i primi studi, a partire dal ’15, nel Collegio Reale allora diretto dai Padri Somaschi; ivi gli fu maestro per qualche tempo il Lari che insegnava allora retorica e dirigeva la composizione delle poesie e delle cantate che gli alunni recitavano nei trattenimenti accademici2, Già nel Ί7 Damaso Pareto, recitava alcuni versi sciolti sulla Reggia delle Arti mentre ai suoi condiscepoli Cesare Da Passano e il Marchese Giuseppe Imperiale dei Principi di Sant’Angelo3 era affidata la dizione d’una serie d’ottave intorno all’eloquenza, e di un ringraziamento a dialogo col titolo bizzarro « Politica progressiva», di cui si vorrebbe conoscere il contenuto. 1 Ed. Naz., Epist., N. MDCCCXXX. * Per alcune relazioni tra il Lari e il Pareto, ved. F. L. MANNUCCI, Giacomo Lari, in Giorn. Stor. della Lunigiana, I, p. 1S5 e sgg. 3 A. Neri, Sulla soppressione dell'Indicatore Genovese, in Biblioteca di Storia Italiana recente. Torino, Bocca, 1910, pag. 336. DAMASO PARETO 25 Nel ’18 di nuovo il Pareto si presentava a recitare in versi sciolti «La scoperta dell’America fatta da Colombo»1. Vi son preposti, a guisa di epigrafe, dei versi di Seneca : il sedicenne poeta invoca Clio perchè gFintuoni il carme; egli la seguirà col « giovami pensiero», novello Icaro; al-1’ invocazione fa seguire la protasi, quindi narra il progetto di Colombo, e come chiese ed ottenne le tre caravelle dalla Regina di Spagna. Ed ecco l’audace ligure in pieno oceano, cullato dalle onde, le quali suggeriscono al Pareto l’immagine dell’altalena. A questo punto sono commemorati i liguri Eroi, fra i quali Colombo brilla « come luna tra le stelle ». Nettuno si degna dell’ ardire del nocchiero e le ninfe oceanine fan cerchio alle tre caravelle, piene di meraviglia mentre il muscoso re del mare suscita una tempesta che il poeta descrive sulla falsariga dei classici. Il pio Colombo, in tanto frangente, implora la bonaccia con fervide preghiere ; e la tempesta cessa, ma infieriscono sempre la persecuzione e il dileggio della ciurma che solo si rabbonisce quando appaiono i segni della terra vicina. Su questa Colombo stampa «grand’orma»; v’incontra l’indigeni e li colma «d’almi doni». Ma ohimè!... ··· veggo il livore del Cocito in riva Temprar malvagio sulla negra incude L’aspre ritorte ond’ avrà i piedi avvolti ; Ogni dritto calpesta di Natura, Pone il merto in non cale Regia Fede. Ma stendi, o Diva, sulla triste scena Pietoso vel, che di dispetto e d’ira Desta sensi magnanimi nel core. Con queste utili, se non peregrine esercitazioni, gli entrava « in corpo la voglia di far versi » com’ebbe a scrivere più tardi al Prof. Lari, e a questa voglia indulgeva spesso durante gli studi universitari, a giudicarne dalla non 1 Questo componimento trovasi con altri scritti inediti cui mi riferirò, tra le carte del Lari esistenti a Sarzana presso i suoi eredi. 26 ANNA DAL PIN breve raccolta inedita delle sue liriche dal facile metro, arieggianti, nella forma e nell’ ispirazione, la poesia anacreontica e metastasiana non senza qualche derivazione dal Chiabrera. Ecco una strofe dell’ inno « A Venere » : O Dea. cui sorgono mille are intorno, O Diva amabile, nunzia del giorno, Leggiadra Venere, madre d’ amor, Dal terzo cerchio ov’ hai tu trono, Odimi e tempra a lieto suono L’incolta cetera del tuo cantor. Altra volta, dedica una canzone, « A Elvira »; cui rimprovera la ritrosia ad amare, ammonendola col mito di Dafne; e adergendosi nel suo concetto sino ad Apollo con giovanile baldanza, scherzosamente la minaccia: « Se tu se’ meco, scaccia Dall’alma ogni timore; chè impunemente offendere alcun non può un cantore \ Grazioso è il motivo de € La Ventura » dedicata a qualche vezzosa damigella dell’aristocrazia, qui adombrata col nome di Clori..... Il poeta bacia le rose del giardino dell’amata e si augura ch’ella le colga e se ne adorni il seno; Amore gli è cortese e la bella appare, mentr’egli la spia non visto, dietro alla cupa verzura delle piante; coglie rose e mormora il suo nome. « II sospiro» è uno scherzo poetico che si apre con questa strofe: « Crudel sospiro ond* io deliro, Se’ tu di gioia nunzio, o di noia ? » « Il sì » atteso dal labbro amato gli fornisce il motivo di un’altra breve lirica non priva di grazia. Il Pareto sottoponeva queste poesiole alle correzioni e al giudizio del venerato maestro, il Lari, che pazientemente 27 limava quei saggi giovanili e lo incorava a perseverare nel culto delle Muse, suggerendogli anche qualche lavoro. Le molte lettere, inedite, che gl’ indirizzava il suo scolaro, ci danno notizia di traduzioni e componimenti originali a cui il Pareto attendeva appena uscito dal Collegio Reale, e che non ci son pervenuti. Fin dal ’21 egli studiava la letteratura inglese, e conosceva quella lingua sì da poter cimentarsi alla versione delle poesie del Pope. Il 7 Gennaio egli scrive infatti al Lari: « Gentilissimo Sig. Profess. » La più volte sperimentata sua bontà verso di me mi dà animo a presentarLe un nuovo mio lavoro, acciò -fila si compiaccia di farvi sopra quelle correzioni, e osservazioni che giudicherà necessarie. Ella mi ha così gentilmente e giustamente consigliato altre volte, ed io sento tanto il bisogno del suo aiuto, che mi è impossibile il levarLe questa seccatura, ch’io prevedo non poca; ma abbia pazienza. Non Le mando che il primo canto del « Naufragio » giacché il secondo e il terzo, benché già a buon termine, non sono ancora intieramente finiti. Circa le poesie del Pope sto lavorando ad altre traduzioni, ed ho già fatto assai cammino..... Mi creda coi sentimenti della più alta stima, suo Dev.mo servo ed amico LORENZO A. D. PARETO Più ampio accenno alla versione del Pope è in un’altra lettera che qui riporto, importante altresì perchè ci rivela come sin d’allora il Pareto nutrisse quei sentimenti di generosa ribellione che manifesterà più tardi. Da casa, 5 luglio 1822. « Le ritorno il Ms. e La ringrazio assai delle giustissime osservazioni opposte alla parte prima. Vorrei si compiacesse d’usar la stessa diligenza della seconda, che m’obbligherà moltissimo. Alla fine del quaderno ho trascritto la prefazione che ho in mente di preporvi. La riduca come meglio Le piacerà. Ho idea di farlo stampare in quest’ anno a Milano, anzi son già d’accordo con lo stampatore, giacche non credo che quei tocchi politici, che sono nella prima parte, ne potranno impedire la stampa. Dopo mi darò di nuovo alla versione del Pope, della 28 ANNA DAL PIN quale Ella ha già corretto un tomo, e ne ho già in pronto uno maggiore di pagine e d’importanza.... Mi creda di nuovo suo dev.mo servo LORENZO A. D. PARETO Non ho rinvenuto nè il « Naufragio » a cui evidentemente si allude anche nella seconda lettera, nè le versioni del Pope ; non stampò nè P uno nè Paltro contrariamente alle asserzioni ivi espresse, e inoltre distrusse prima di morire tutti i suoi scritti: quei pochi che rimangono, ci furono conservati dagli amici, a cui egli offriva copia delle sue pubblicazioni. La corrispondenza del ’24 e del ’25 ha frequenti allusioni alla novella romantica: « Ramosky », che il Pareto pubblicò soltanto nel ’26Volle chiamamarla « Esperimento di novella » quale è infatti. Ramosky, proscritto per le calunnie dei cortigiani invidiosi del suo prestigio a corte, dopo un lungo errore per vari paesi, invano cercando qualche conforto, giunge ad un castello presso le nostre Alpi, suo retaggio materno. Amore lo sorprende e gli allieta la dolorosa solitudine nella persona d’una vaga fanciulla U-rilda ; per essa egli abbandona i neri propositi di morte e, dimentico d’ogni sua pena sofferta, s’inebria d’affetto, corrisposto con pari ardore dall’ amata. Ma la loro perfetta gioia è fugace, poiché il padre della fanciulla, che avrebbe voluto darla in isposa ad un gentiluomo assai potente a Corte, scopre P idilio, e per di più è informato dal bando di Ramosky. Vieppiù sdegnato che la figlia osi amare un proscritto, senza por tempo in mezzo, la rinchiude in un lontano castello. Ramosky scopre il rifugio ov’ella langue e la rapisce facilmente. Sorpresi ed inseguiti nella fuga, P infelice amante dopo aver respinto con gran bravura gli assalitori, è ferito da una palla di moschetto; Urilda muore di dolore e presto le tiene dietro Ramosky. 1 Ramosky, Esperimento di novella romantica. Torino, Stamp. Reale, 1826. 29 La novella, per Γ andamento generale, gli episodi, eie passioni dei personaggi, ricorda assai da vicino i romanzi Shelleyani, Zastozzi e Rosicruciano; nè è priva di reminiscenza byroniane, come il pellegrinaggio del protagonista, così alla moda, dopo la diffusione del Child Harold, nelle novelle romantiche uscite per le stampe in quegli anni. È però un’ imitazione mal riuscita, a cui conviene l’epiteto di « esperimento » che le diede il Pareto. Vi si bramerebbe una più precisa e vigorosa pittura dell’epoca; un’impronta più svariata e più individuale nei personaggi, una maggiore ampiezza e coerenza nello sviluppo degli incidenti. Ma il lettore potrebbe ancora interessarsi alle vicende di Urilda e Ramosky, se le deficenze del contenuto fosser compensate dalla bellezza dello stile, il quale, per contro è monotono e fiacco quando non è addirittura scorretto, sicché in tanto grigiore affogano alcuni generosi pensieri; e delle 96 ottave di cui la novella si compone, assai poche allettano per l’aggraziata fattura ed armonia. Con tutto questo il patriottismo e l’arditezza di alcune allusioni allo stato miserando dell’ Italia, ci rendono simpatica la novella indipendentemente dal suo valore intrinseco, e più il giovane autore che la concepì e la scrisse con lo stesso nobile intendimento delle altre sue manifestazioni letterarie, quella di giovare, come poteva, al rinnovamento nazionale. Così i suoi amici non dovevan leggere senza commozione la seguente strofe, ov’è l’eco dei sentimenti di Ramosky al suo giungere in Italia: «..... non più ride il ciel, ride la terra All’ ospite, che in sen raccoglie amica, Poiché i vestigi d’ una lunga guerra Han sformato la sua bellezza antica, E ove caldo dei Padri il cener serra Del fuoco amor, cui libertà nutrica, I degeneri figli empion le arene E s’allegrano al suon delle catene . La novella gli valse una certa fama nelP ambiente studentesco e sovratutto nel cenacolo romantico; ispirato e capeggiato da G. Mazzini. 30 ANNA DAL PIN 11 cenacolo mazziniano, coni’è noto, fece opera di violenta reazione ai metodi e ai programmi scolastici allora vigenti, all’ozioso classicismo dei maestri e alla tirannica politica dei governi italiani. Qui, a notarne gli elementi principali e a sobriamente ritrarne la suggestiva fisionomia spirituale, basterà il ricordare che i Ruffini erano magna pars di quel sodalizio d’eletti; e segnatamente Jacopo che arringava spesso con parola ardente P uditorio ristretto ma devotissimo. Di lui e dei fratelli, e delle loro molteplici relazioni col Mazzini, molti hanno già parlato sino ad esaurire l’argomento. Assai poco conosciuto è invece Giuseppe Elia Benza di Porto Maurizio, ottimo elemento del cenacolo, attivissimo collaboratore dell’ Indicatore Genovese e, dopo Jacopo, caro al Mazzini per le eminenti qualità dell’ingegno e de cuore. Degno per più rispetti di ricordanza è ancora Filippo Bettini, genovese, giovane d’ intelletto vigoroso e di animo nutrito di mansuetudine evangelica e nell’ambiente famigliare religiosissimo; ei portava la sua nota soave e serena nel concerto spesso fragoroso di rivoluzionari propositi onde risonava il cenacolo. Nel quale la voce di Damaso Pareto soverchiava spesso quella degli amici, come si distingueva la foga irruente delle sue argomentazioni ogni qualvolta si vagliavano i giudizi, o si discutevano teoriche filosofiche religiose e letterarie, le quali portavano sempre a qualche scorribanda nei campi vietati della politica. L’atteggiamento di aperta ribellione in letteratura e in politica, è particolarmente commendevole in lui, membro della nobiltà, la quale, specie negli anni troppo vicini alla reazione, era, per evidenti ragioni, ligia al governo e ritrosa ad ogni movimento novatore. Quelle discussioni concorrevano a chiarire anche a Genova la dibattuta questione del romanticismo; nè e certo troppo ardito affermare che il movimento romantico ligure di questi ultimi anni ebbe il centro massimo di espansione nel cenacolo mazziniano; quivi senza dubbio assunse quel 31 suo carattere di milizia spirituale, d’interiore rinnovamento attraverso il quale e per il quale soltanto parve possibile, al Mazzini e agli amici suoi, il nostro risorgimento politico. Ben presto, nella cerchia eletta dei novatori, fu elaborato il progetto d’un periodico che fosse quasi il vessillo delle loro convinzioni politico-letterarie, e a cui s’intendeva dare un indirizzo più apertamente combattivo che non a-vesse F Antologia; d’altra parte occorreva opporre una reazione alle tante frecciate che il padre Giambattista Spo-torno lanciava, di sul Ligustico, all’ anonimo romanticismo genovese. Ciò è opportuno notare per spiegarci F attività giornalistica del Pareto che fu l’oppositore più acre e più audace del dotto barnabita. Nè il solo dissenso letterario basta a giustificare l’animosità del giovane patrizio; un’altra ragione, che gli fa onore assai, lo eccitava infatti a polemizzare sull’ Indicatore con G. B. Spotorno. Questi aveva denigrato una bella cantata composta per un trattenimento accademico dal Lari che gli dava ombra, non essendo sfuggita alla sua vigile perspicacia la vera natura del buon professore, ch’era «un liberale corazzato di contegno reazionario », com’ ebbe a definirlo con frase felicissima il Mannucci. Ora il Pareto già era sceso in lizza, da buon guerriero, a visiera alzata contro lo Spotorno, corroborando sulle pagine dell’ Indicatore F aspro giudizio che della sua storia letteraria della Liguria aveva dato il Salfi1; ivi ancora tacciava di vanità e di malafede F illustre barnabita, il quale, a dire il vero, se fu erudito assai rispettabile, fece pesare un po’ troppo, a tutti, la sua dottrina nè mai tollerò una qualsivoglia censura, pur ragionevole o ragionata, delle sue opere. Poco appresso il Pareto riprese la penna per esaltare il buon maestro e rintuzzare aspramente lo Spotorno2. 1 Ind. Gen. N. 16. 2 Ibid. 32 ANNA DAL PIN Un’ eco di quello sdegno è anche in una sua lettera inedita al Lari che qui riporto. Da Casa, addì 9 Agosto 1829. Preg. Amico, Permettete che vi esprima la mia riconoscenza per la memoria, che conservate di me, e la bontà che mi dimostrate inviandomi la vostra bella cantata. Il soggetto mi pare nobilissimo, e tal quale si conviene ad un trattenimento accademico per la gioventù che è la speranza de* buoni studi; la condotta e i pensieri non sono inferiori al soggetto; voi sapete sempre scegliere dalla nostra storia utilissime ispirazioni. Mi sta sempre in core un’amara memoria d’una cantata dell’irascibile Frate che dirige le scuole Civiche, ove in mezzo ad un trattenimento in lode deir Italia indegnamente dai suoi versi commentata, evoca secoli di ferro e di schiavitù. Io non so perdonare a queirimprudente encomiatore di sè stesso.... Sebbene il mio giudizio non possa certo lusingar V amor propiio di nessuno, Voi gradirete mio ottimo amico, la mia riconoscenza, comune, io credo, a tutte le anime ben note, pei sentimento lodevolissimo che v’ispirò quei versi... La vostra cortese amicizia che per me è un titolo di ben giusta vanità, vi è ricambiata a mille doppi nel cuore del vostro aff.m0 L. A. DAMASO PARETO Al maestro ed' amico egli diede un’altra prova di affettuosa deferenza affidandogli il figlio di una gentildonna inglese, Mss. Thomas, affinchè lo istruisse nelle lettere greche. Lo Spotorno così provocato cominciò sin d’allora a tramare nell’ ombra per tacitare con la violenza la garrula voce del romanticismo genovese che non gli dava tregua e più ed altro voleva dire che non diceva. Ben egli fiutava un oscuro pericolo in quella congrega di giovani che della letteratura facevano velame ad intenti non ancor chiaramente confessati; e tanto fece finché destò il governo sonnolento L’Indicatore non vide l’alba del nuovo anno: rinacque con poco lieti auspici a Livorno, ma il patrizio genovese, pur mantenendosi spiritualmente solidale col nuovo gruppo romantico toscano, non collaborò più al DAMASO PARETO 33 periodico. Mandò bensì al Guerrazzi una nobilissima lettera di adesione che attrasse particolarmente l’attenzione della Polizia livornese, quand’essa la rinvenne nel ’32 tra le carte sequestrate al Guerrazzi1. E secondo le affermazioni di quest’ ultimo, il Pareto seguitò a scrivergli, informandolo dei progetti e delle vicissitudini di Mazzini2. Fu frequentatore assiduo del gabinetto di lettura apertosi in Genova per iniziativa dello stesso Mazzini, col quale conservò un’intima relazione largamente documentata da una corrispondenza che il suo erede ricorda di aver Ietto negli anni giovanili, poi andò perduta nelle complesse vicende della sua casa. Due lettere però ci sono confermate, di singolare importanza perchè si riferiscono agli anni più lacunosi dell’epistolario mazziniano; dell’una e dell’altra avrò a parlare in seguito. Ma quale fu la concezione romantica di Damaso Pareto? I pochi, se pur vivaci articoli, ch’egli inserì nel foglio mazziniano, mostrano come il militare nella nuova scuola non gl’impedisse di veder chiaramente e di deplorare la barocca struttura e il grottesco di certe produzioni romantiche. « Se l’età nostra, (osserva egli a proposito di un infelice romanzo del D’Arlincourt), così distinta per nuova energia di vivere intellettuale ed industre, va ricca da una parte d’ottimi libri, ove alle più utili combinazioni dello spirito, mirabilmente si accoppiano le più piacevoli ispirazioni del genio, ribocca dall’altra di scritti mediocri, che inorpellati di falsi e pericolosi ornamenti, tuttoché traggono la mente del lettore di assurdità in assurdità, sono accolti dal favore della moltitudine avida sempre di nuove e forti sensazioni. E di questo vergognoso successo, ove taluno si faccia senza affezione di nessuna scuola a investigar la ragione, qual’altro potrà riuscir più manifesta che la 1 R. Guastalla. La vita c le opere di Francesco Domenico Guerrazzi 8 Ibid. 34 ANNA DAL PIN smania appunto di cose nuove e Γ insaziabile amore del meraviglioso, onde ogni uomo va preso? A questa invisibile passione, dovettero, devono e dovranno una non invidiabile celebrità tanti inetti scrittori, che, volendo^ speculare sul bisogno di forti emozioni, falsano gli altrui sentimenti e il proprio ingegno, e trascorrono licenziosamente ad ogni novità, persuasi che l’immaginazione si seduce più facilmente del gusto ». E concludeva ammonendo che « la critica doveva gridare la voce contro l’invasione di così fatte stranezze, ed infliggere il maggior biasimo possibile a questi bizzarri concepimenti, nei quali, violando le regole del giudizio e le convenienze del gusto, invece di dipingere i mali violenti dai quali l’anima umana è travagliata, s’adoprano i più falsi colori, e i quadri offerti al lettore sono piuttosto la parodia che la naturale espressione delle più energiche passioni. La sincerità delle ispirazioni d’arte e il concetto di una letteratura esclusivamente ancella di un nobile fine che nel caso particolare era l’indipendenza italica, paiono canoni del suo romanticismo; subiva anch’egli, pur geniale, l’influsso di Mazzini e il preconcetto politico inceppava la sua critica letteraria ed estetica, come quella dei suoi amici. Ma il carattere saliente del suo romanticismo era, in pratica, l’amore e la predilezione delle letterature straniere: non servilismo agli idoli d’oltr’Alpe era tuttavia il suo, ma un culto intelligente, ispirato ad un eclettismo sagace che lo spingeva ad ammirare il bello ovunque fosse, senza distinzione di paesi e di lingue, ed a farsene vital nutrimento. Di ciò fanno fede i voluminosi taccuini, conservati dagli eredi in Pisa, ne’ quali egli soleva raccogliere ordinatamente il frutto delle sue letture. Quei taccuini sono veri e propri florilegi di sentenze e definizioni, intorno a vari obbietti; ordinati per voci; e di giudizi sintetici intorno a numerosi autori stranieri con abbondanti estratti delle loro opere. Essi documentano la seria preparazione culturale che il Pareto pose all’ ufficio di traduttore e di critico della letteratura inglese. DAMASO PARETO 35 Il ’29 e il ’30 sono gli anni più laborosi per Iui, perchè allora videro la luce le sue versioni del Campbell, dello Shelley e del Medwin. Già qualche anno innanzi era uscita per le stampe, lodata dall 'Antologia, la traduzione del poemetto « Dei piaceri della speranza » di Thomas Campbell; n’era autore Michele Leoni che l’aveva accompagnata d’una prefazione in cui elogiava l’argomento del carme, non senza qualche allusione alle speranze patriottiche degli italiani1. La censura era intervenuta a smorzare tutto quell’ entusiasmo, mutilando non solo la prefazione, ma anche il poemetto in quei passaggi che potevano prestarsi a qualche ardita interpretazione da parte dei patrioti. Allorquando comparve2 la traduzione dello stesso carme, che Damaso Pareto offriva al pubblico italiano, Michele Leoni ne diede una recensione su\VAntologia. « II fiore fresco ed odoroso che ci presentava il poeta (egli scrive) è divenuto scolorato ed appassito fra le mani del traduttore.»3 E invero la leggiadria e l’eleganza del poema inglese non furono pienamente raggiunte dal Pareto nella sua traduzione, ove la verseggiatura è qualche volta difettosa, non tanto però che il carme non spiri anche nella nuova veste la nativa fragranza, e il pensiero del Campbell non sia reso con costante diligenza. Peccato che il patrizio genovese non avesse seguito i consigli degli amici, del Bettini soprattutto, il quale sulle pagine dell 'Indicatore aveva espresso l’avviso che si dovesse rendere i capolavori stranieri piuttosto in una prosa poetica che in poesia. E il Pareto scriveva ottimamente in prosa, mentre fu poeta talvolta men che mediocre. 1 Achille De Rubertis, L'Antologia di Gian Pietro Viesseux F. Capitelli, Torino, pag. 23. 2 Antologia, febbraio 1830. Recensione firmata L. (Luigi Leoni). 3 Dei piaceri della speranza, poemetto di Thomas Campbell, Genova, Tipog. Pellas, 1829. 36 ANNA DAL PIN Alla traduzione egli aveva preposto queste poche ma eloquenti parole : « La fedeltà dell’ originale che a parer mio è dover indispettabile d’ogni traduttore, è cagione ch’io abbia esattamente volti in italiano alcuni sentimenti che possono forse offendere chi non rifletta esser questi propri di un paese, ove l’opinione, la libertà, non conoscono o-stacolo o catena ». Il revisore che questa volta fu più longanime del suo collega fiorentino, lasciò correre. Alle due parti in cui è diviso il poemetto, il Pareto premetteva un sunto, e corredava la traduzione di molte note, che comprovavano la sua ottima conoscenza dei classici, così da rischiarare d’una particolare luce questo romantico cultore dei greci e dei latini. Colla traduzione dell’ « Adonais » di Percy Bisshe Shelley, il meraviglioso carme in morte di Giovanni Keats, il Pareto conquistò il vanto, testé riconosciutogli1, di primo shelleyano. L’«Adone» uscì in veste italiana, pei tipi della tipografia Pellas in Genova nel 1830, con una dedica affettuosa e reverente alla memoria di Giacomo Lari, morto Panno innanzi. Era un singolare cimento quello cui si era arrischiato il giovane traduttore prescegliendo per la versione quel poema vibrante di lirismo inaccessibile. Pure non lo scoraggiarono le sublimi oscurità dello Shelley; poiché era suo proposito onorare ad un tempo Shelley e Keats proprio quando pullulavano i loro detrattori, pedanti e classicisti la maggior parte, e mentre il byronismo vigoreggiava a danno, anzi con esclusione, di ogni corrente letteraria che mirasse a porre nella vera luce e a debitamente esaltare il genio dello Shelley. 1 Maria Giardosio De Comten, Shelley in Italia pag 38 e sgg. L’autrice erra nel ritenere il Pareto collaboratore al ^Magazzino Pittorico» : le sigle D. P. che ivi compaiono frequentemente,^celano Didaco Pellegrini (cfr. lett. a G. Mazzini della sorella Francesca in La madre di Mazzini, carteggio inedito, pag. 215 e sgg. Ved. pure E. Tagli alatela, Shelley, Lanciano, ed. Carabba, 1924, pag. 234. _ DAMASO PARETO 37 Le opere di questi esaminò e giudicò acutamente nell’importante discorso premesso alla traduzione. Idealista convinto, egli amava nello Shelley il sentimento umanitario, la fede inconcussa in un progresso indefinito della specie, l’entusiasmo per l’età sua e soprattutto quelle tra le sue concezioni che potevan dirsi romantiche. Per primo lo dichiarava poeta mistico, e, se pur conveniva nel giudizio di Byron che al grande conterraneo rimproverava di aver scritto sempre delle utopie, aggiungeva subito quasi a chiarire il suo pensiero: «Ma il genere di Shelley è un genere a parte, e tutto suo, cosicché egli potrebbe forse assomigliarsi ad un monte che staccatosi da una catena d’altri monti, solo si estolle e domina la sottoposta pianura». E forse intendeva dire che Shelley va preso com’ è, coi suoi pregi, coi suoi difetti, i quali anche concorrono a dare un’impronta originale al suo genio. « In quell’età - egli scrive - in cui vuoisi andar a fondo delle cose, e nuove strade si aprono allo spirito, che dalla fredda creta s’innalza a penetrare ove eragli un tempo inibito di volgere la indagatrice pupilla, vai meglio consumarsi che arrugginirsi; e nello Shelley era potente questo soffio di vita che lo strappava alle cure e alla disordinanza delle cose terrene ». Pur sentiva che Shelley non sarebbe mai riuscito poeta popolare « perchè la poesia intellettuale è fatta per pochi, mentre quella d’ immaginazione giova a molti uomini»; è ed qui implicito il parallelo con Byron che pure ammirava. Certo avrebbe bramato esporre e confutare le opinioni di coloro, ed eran molti, pedanti e classicisti in maggior parte, che ritenevano la poesia shelleyana poco men che diabolica; ma i tempi non glielo consentivano: e allor si scagliava contro i « tanti vilissimi detrattori » che dei grandi uomini non sanno lasciare in pace nemmeno le ceneri, poiché anche sulle opere postume di Shelley versano parole tinte di amarissimo fiele. Bersaglio delle invettive è specialmente lo Spotorno cui attribuisce «la bell’arte d’infamare i migliori»; fra i privilegiati a dar giudizi di libri Ietti a pena, o non letti - 38 ANNA DAL PIN continua egli tra il sarcastico e lo sdegnoso - e molte volte temprato nè a sentire nè a intendere la poesia per cui guerreggiano clamorosi, un tale: Cui mi saria vergogna esser maestro non è certo il più verecondo, scagliando anatemi contro chi Gli aridi bronchi fastidendo, e il pasto dell’ insipida stoppia, il viso torce da la fetente mangiatoia..... E ricordando il feroce giudizio che lo Spotorno aveva dato del Byron nella recensione della Battaglia di Bene-vento, prorompe in queste fiere parole: « Guai a chi non sente le bellezze di Byron!... Costui non ha nè cuore nè mente.... Ma in questo biasimo si è pur condotto un critico imperito ed animoso che inspirato forse da queir Apollo che i Greci chiamano obliquo, asserì i più assennati degli inglesi inorridire ai versi del Byron...; la calunnia si pone sulla fossa e travaglia le ceneri dei sommi; i pedanti simili ai freddi vermi, cadono nella sepoltura che non può schiacciarli ». Si comprende come molto gli piacesse il concetto onde lo Shelley fu mosso a commemorare F amico, sul quale il Pareto pronunciò il seguente giudizio, meritevole di divulgazione : « Giovanni Keats, non ancora toccati i vent’ anni, metteva in luce un volume di poesie, ove in mezzo alla forza dei concetti, all’acume e profondità di pensieri, alla espressione poetica la più abbondante e la più ricca, una certa misticità, tuttoché abbellita da slancio di entusiasmo e dai canti dell’amore, produce non poche tenebre, ed immagini ardite, ed espressioni contorte. Ma ben poteasi discernere in questo esperimento un genio straordinario, che avrebbe sfolgorato di vivissima luce. E forse Byron fu troppo severo al Keats nel giudizio che porta delle opere di lui, poiché chiunque ponga mente agli ultimi scritti sopratutto, farà miglior ragione di tanto ingegno, e si dorrà con noi che sì-legittima speranza tradisse una morte intempestiva». DAMASO PARETO 39 Ma lo Shelley censura aspramente i critici maligni del giovane poeta; e ciò pone argomento al Pareto di prendersela ancora una volta coi pedanti nelle note all’elegia; in quella appunto che si riferisce alla più violenta strofe shelleyana contro i detrattori di Keats, egli dice: « Questa ed altre stanze di tutta verità nella presente elegia siano come una specie di stimmate d’abbominio sulla fronte dei pedanti, un sigillo di riprovazione che nulla mai possa occultare, cosicché cessando una volta dall’ assonnar di continuo •fra le illusioni di una immaginata eccellenza, e dal buttarsi in faccia un incenso che acceca, sappiamo che pronto è il titolo della loro lapide: « Periit memoria eorum cum sonitu ». Lo Spotorno che si ravvisò in quei pedanti, non gli perdonò mai le tremende parole: e nel ’33 non fu forse estraneo alle persecuzioni poliziesche inflitte al Pareto, ch’era innocente; così almeno è lecito indurre da uno schiarimento in proposito di Massimiliano Spinola: « Les hommes noirs avaient des rancunes à satisfaire:»1 Quanto alla traduzione, le ottave di endecasillabi non erano forse il metro più conveniente all’argomento; ma, a parte questo, se pure è palese un qualche miglioramento rispetto alla traduzione del Campbell, pure la verseggiatura è ancor fiacca, disadorna e ben lontana dall’ armonia del-l’originale. Se ne avvide lo stesso Pareto, il quale così giudicava la sua fatica: « La povertà del mio ingegno non può non aver pregiudicato alla dovizia di quelle inarrivabili bellezze, e i fiori, che ho spiccato dal natio stelo, tuttocchè raccolti sotto un clima più felice, avran perduto in gran parte la fragranza e il loro colore ». Ma più che dalla sua scarsa perizia di versificazione, i difetti procedono dalla difficoltà di conciliare la diligenza e la fedeltà della traduzione, doti eh’ egli ebbe in sommo grado, colle esigenze 1 A. ' Neri, Lettere inedite di G. Mazzini, in Rivista Ligure 1911 pag. 162 40 ANNA DAL PIN metriche. E forse per un senso di probità lodevole, come che possano esserne discusse le conseguenze, egli sacrificò la compiacenza di far versi migliori al religioso rispetto del pensiero shelleyano. Un notevole progresso si avverte per contro nella traduzione del dramma di Medwin: «Prometeo portatore di fuoco»1. 11 Medwin dimorò lungamente a Genova, ove conobbe oltreché il Pareto anche il Mazzini; e al giovane patrizio genovese, già in fama per i suoi precedenti lavori, affidò la traduzione del suo dramma (allora inedito), col quale ardì supplire a quello perduto della trilogia di Eschilo. Naturalmente non intese di gareggiare col sublime tragico ateniese, ma piuttosto di offrirgli il tributo della sua ammirazione, giacché riprodurre il colore di quei tempi remoti, anche per chi possedeva, come lui, vastissime cognizioni storiche e mitologiche, era impresa, più che ardua, vana. Il suo «Prometeo» è creatura assai più vicina a noi che ai Greci della remota età in cui sorse il suo mito; e Todio accanito contro il tiranno, l’affettuosa pietà per gli uomini soggetti all’arbitrio di quello, la segreta generosa possente brama di liberameli, tutte insomma le passioni che 10 travagliano, in sé stesse e nell’espressione che loro diede 11 Medwin, erano squisitamente romantiche, e gli conferivano un carattere di modernità che non poteva sfuggire ai vigili revisori. I quali infatti mutilarono tutti quei passi del dramma che potevano suonare come ardite e pericolose allusioni alle cose e agli uomini del loro tempo*. Così la traduzione ha frequenti lacune ; pur tuttavia la forbice del censore si arrestò talvolta dove, almeno in omaggio alla coerenza, avrebbe dovuto tagliare. 1 Prometeo portatore del fuoco, dramma inedito in tre atti di Tommaso Medwin, tradotto da l. a. d. pareto, Genova, dalla tipog. L. Pellas, mdcccxxx. 2 Ivi, pagg. 14,18,25. DAMASO PARETO 41 Ecco del resto Ia prima parte assai espressiva del poemetto : ATTO PRIMO PROMETEO - OCEANO Cori d'Oceanicii e di Mercurio IRIDE - ESIONE PROMETEO - Niuna speranza pei mortali - tutti Cadran, come i loro padri; una succede Etade all’altra, come vanno Tonde, Che incalzan V onde, a perdersi nel vasto Profondo abisso, e scenderan sotterra In cieca notte d’ignoranza involti -Prima che nati maisdetti han chiesto Essi aver vista, o, quali or son, creolli Il libero voler di Lui, che un tempo Tutto reggeva? - mirali - la loro Bellezza osserva - non son pari ai Numi? Misere anch* esse le lor figlie a quelle Del cielo quasi in lor beltà simili. Perchè spargeasi al nascer loro il tristo Seme, che germinando li distrugge ? O te al fango ritorna il fango, e tutte Le infermità debba del fango, e i mille Mali soffrir, eh’ eredita la carne, Dovrà il Tiranno onnipotente all’Uomo Tutti i conforti invidiar, e tutte Negar le cure, e immaginare il mondo Sol per sè fatto, e che il suo peggio è il meglio, O se non meglio, un ben all’ Uom, che basta? OCEANO - E perchè degli umani inutil pena Vorrai prenderti or tu? non siam noi Numi? E sovr’ essi profondere del Cielo Forse i doni vorresti, ond’abbian forza A domar questa figlia della notte Odio dei Numi, e dei mortali, e farsi Simili in tutto a voi? PROMETEO - Io li compiango E aborro ogni tirannide 42 ANNA DAL PIN La fattura degli sciolti seguenti mostra chiaramente qual progresso avesse fatto il giovine traduttore in breve lasso di tempo: in essi è la pittura di Esione addormentata tra le braccia di Prometeo: pittura che, se è poco greca, non perciò è meno leggiadra pur nella traduzione del Pareto: ....... la rugiada Della stanca natura era caduta Sopra Esion - posavami sul braccio Così immota che se contro a’ miei labbri 1 suoi puri sospiri io non sentia, O gl’ interrotti palpiti del cuore Mentre premeva il mio, creduto avrei, Se come è bella anco immortai non fosse, Che l’avesse la vita abbandonata. In un caro languor voluttuoso Profondo e grave sonno i suoi chiudea Occhi leggiadri, che di lunghe e nere Frange adombravan le pallide guancie: De’ suoi capelli le profusa anella Dalla benda di perle ivan disciolte Ondeggiando d’intorno alle leggiadre Membra, e qua e là, come di vite erranle Teneri tralci van cercando appoggio, S’intrecciavano ai miei.... La fama del giovane traduttore aveva varcato le mura cittadine; e VAntologia che già nel ’29 aveva annunziata la novella romantica, la traduzione del poemetto di Thomas Campbell, e dell’elegia shelleyana, ora presentava ai suoi lettori una recensione assai favorevole del « Prometeo portator di fuoco » Il recensore, che era Io stesso Tommaseo, così s’esprimeva: « Oiova ringraziare il Sig. Pareto del dono che fa alla sua patria....; s’egli vorrà in questa guisa farci conoscere altre produzioni o recenti o antiche dell’inglese letteratura, lo faccia egli in prosa o in versi come meglio 1 Antologia, luglio 1830. Recensione firmata Κ. X. Y. DAMASO PARETO 43 gli torna i suoi lavori non potranno non meritare la gratitudine di chiunque, a conoscere la straniera poesia, abbia bisogno di un interprete. E forse non sarebbe sì facile trovarlo migliore ». · La lode del giovane dalmata già illustre dovette consolare il Pareto delle acerbe, maligne, critiche dello Spotorno che ingiustamente lo ammoniva a ristudiare il Trattato dei dittonghi di Melchiorre Cesarotti. Cade ora in acconcio prima di accennare alle vicissitudini politiche del Pareto che fu patriota fervido non meno che buon letterato, di esaminare le due lettere scrittegli dal Mazzini1, e alle quali ho più sopra accennato. NelP una, che risale probabilmente al Giugno 1830, sono importanti gli accenni al Gabinetto Letterario; con essa lo invita, ad associarsi dietro preghiera del Tommaseo, al Dizionario dei Simonimi, che doveva veder la luce pochi mesi appresso; nell’altra del ’32 che proveniva da Marsiglia dove il Mazzini attendeva alla propaganda della Giovine Italia e cercava soci e collaboratori per il giornale omonimo, è scritto quanto segue: « Amico, non so se vi ricordate di me; so che io mi ricordo di voi, e del vostro cuore e della vostra mente. Però non esito a rivolgermi a voi come a giovane che merita di essere cercato ogni qualvolta si tratti di cose patrie. Noi abbiamo insieme fatta la guerra - la piccola guerra contro i pedanti; allora ci gridavano la croce addosso, ma le idee prevalevano e il povero romanticismo, che usciva fuori pauroso e incerto, è diventato re delle menti, e meno Spotorno, i redattori dell’Accademia, de’ quali non ho più udito, dacché mi partii, e pochi altri che nacquero, vissero e moriranno eunuchi, gl* ingegni sono universalmente emancipati in letteratura: se noi paiono, gli è perchè la tirannide uccide come le lettere e mortifica gli ingegni, ma abbiate in Italia tre mesi di libertà e vedrete. Battiamo dunque il resto: il cavaliere non il destiero. Eman- 1 Pubblicate da A. Neri, in Rivista Ligure, xxxm (1911), pag. 160. 44 ANNA DAL PIN cipiamo gl’ intelletti da ben altri vincoli, diamo una tribuna all’Italia. Oli stranieri non ci conoscono ma di chi è la colpa? », Lo invita quindi a collaborare al periodico La Giovane Italia «Scrivete, se potete, ó volete; un giorno verrà in cui l’avere collaborato a un giornale italiano fuori d’Italia, sarà un nuovo titolo all’affetto e alla stima dei buoni ». Non sembra che il Pareto accettasse l’offerta nè che prendesse parte alle cospirazioni del ’33; ma del suo co-raggioso patriottismo è prova la persecuzione eh’ ebbe a subire nel ’33 in seguito alle propalazioni del famigerato Raimondo Doria. Tuttavia il Governo Piemontese aveva le sue buone ragioni per andar cauto con la nobiltà; e per espresso desiderio di Carlo Alberto1 e del Governatore Ve-nanzon, dovette reprimere la furia reazionaria nei riguardi del Pareto, mentre potè porre al Mazzini il dilemma del confine o dell’esilio. Massimiliano Spinola, suocero di Damaso, naturalista insigne, ardente e fautore del liberalismo, che partecipò attivamente ai moti del ’21, nega2 di avere preso parte col genero alle congiure mazziniane, ma la polizia li perseguitò entrambi. Damaso subì il carcere in Alessandria, e peggio ancora la tortura dei molti interrogatori, condotti con efferata nequizia dai magistrati inquirenti ; ma nulla risultò a suo carico. Eppure fu costretto dal Governo che non voleva palesare la propria dabbenaggine, a stendere con altri nobili genovesi, tra cui i fratelli Mari, una dichiarazione ove s’impegnava sul proprio onore a serbarsi suddito leale e fedele al Governo e a non allontanarsi dal luogo di confine. Il Gaberel3 asserisce che Massimiliano Spinola non piegò all’ingiunzione e non fu quindi rilasciato come gli altri 1 A Luzio, Carlo Alberto e Mazzini, Torino, Bocca, 1923, pag. 147 2 A Neri, Letture ined. di G. Mazzini, in Riv. Lig., p. 159 e sgg. 3 Au nord et au midi études littéraires rélige use s et historiques, I. Gaberel, Lausanne, G. Brodel, 1865. DAMASO PARETO 45 ma confinato in aperta campagna e guardato a vista dagli sbirri, ingannò gli ozi di quella pseudo prigionia, secondo egli ci narrava, con gli studi entemologici. Enrichetta Spinola Pareto, moglie di Damaso, mentre questi languiva in Alessandria, ebbe a subire le vessazioni della polizia che prorompeva nelle sue case e vi operava, senza frutto, minuziose perquisizioni. Contro l’illegalismo formale di una di queste visite, l’ardita gentildonna scrisse il 21 Giugno del ’33 una vibrata protesta tutt’ ora inedita, al Governatore di Genova: eccone il testo1. Eccellenza, La Marchesa Enrichetta Spinola, moglie del marchese Damaso Pareto fu Benedetto, ha quest’oggi inteso che ieri siasi trasferito la polizìa nel palazzo di suo marito in Polcevera, ed ivi rompendo ove non poteasi aprire, aprendo dov’era chiuso, abbia preteso fare un’ispezione locale, ed un esame rigoroso di tutte le cose che vi si trovavano, senza che la ricorrente ne abbia avuto avviso qualunque, onde trovarsi sul luogo, o farvisi presentare, e senza che un’autorità giudiziaria qualunque vi sia intervenuta. La ricorrente non si metterà a discuttere (sic) sulla regolarità legale di questo procedimento ; osserva solo che mancherebbe a sè stessa, e a quei doveri che l’onore e la tutela di suo marito le impongono, se permettesse che detta operazione passasse inosservata, ed apparisse pel suo silenzio regolare. No, Eccellenza. Una visita fatta in detto modo non può essere regolare, e le cose che si sono fatte, o notate non possono meritare che la fede che sola può procedere da atti fatti in contraddizione di persone legittime. La ricorrente senz’animo di offese, o di lagnanze, presenta questi pochi cenni onde valgano come protesta contro dett’atto, e contro le operazioni tutte che lo compongono. Dell1 Eccellenza vostra Umilissima Devotissima Ubbidientissima serva Enrichetta Spinola Pareto 1 Estratto dai Precessi Politici IS22 e '33, Cart. vili, fase v, C. 105 (Regio Archivio di?Stato, Torino.) 46 ANNA DAL PIN Alla protesta il Governatore prudentemente non rispose; ma d’allora in poi il Pareto potè condurre una vita tranquilla, tutta dedita agli studi prediletti. Amicissimo di Gian Carlo Dinegro (era cognato della figliola di lui Laura Spinola) non mancava ai lieti convegni di letterati nella storica villetta; quivi lo trovò il Balzac quand’egli nel ’37 e nel ’38 ebbe a visitare Genova; e di tal visita fermò il gradevole ricordo nella protasi al suo romanzo Honorine, esprimendosi in questa guisa intorno ai due patrizi genovesi: «..... le marquis di Negro, ce frère hospitalier de tous les talents qui voyagent, et le marquis Damaso Pareto, deux français déguisés en Génois.....» ; e in segno di grato animo dedicò al Pareto «Le Message». Anche il Gaberel, quantunque non lo affermi in modo esplicito, dovette conoscerlo assai bene nelle sue frequenti visite a Massimiliano Spinola1. E chi intravveda la nobilissima figura di quest’ ultimo, volentieri consentirà che il felice ingegno e l’amore dell’arte ch’ebbe il Pareto, trovarono degno nutrimento nella convivenza col suocero. Ma nuli’altro, oltre i lavori predetti, ci è pervenuto di lui a provare che egli tenne conto del consiglio del Tommaseo sì da continuare la via intrapresa. Per quel che ci consta, dovremmo anzi dire che visse inattivo d’allora in poi: eletto deputato nel ’48, si schierò risolutamente dalla sinistra e dopo il ’49 si ritirò, sfiduciato, anche dalla politica. Subirono le altre traduzioni che potè fare, la medesima sorte toccata alle versioni giovanili delle poesie del Pope? Certo è che egli attese per tutta la vita agli studi letterari; e i suoi eredi, ne affermano l’ulteriore operosità diretta alla divulgazione delle letterature straniere, e concretatasi addirittura in qualche componimento originale. Ma per ignote ragioni egli distrusse prima di morire tutte le sue carte; sicché il ’30 segna per noi il limite della sua attività letteraria. 1 Gaberel, op. cit. DAMASO PARETO 47 Peccato: egli fu uomo di solida e varia cultura, dotato di uno squisito senso del bello, che Io rese per tempo fine intenditore e critico geniale della più eletta poesia inglese; di più la diligenza così rara in quegli anni, da lui posta nel dar Veste italiana alla poesia dello Shelley, del Campell e del Medevin, era sicuro affidamento di quanto avrebbe potuto fare. E tutto ciò giustifica il nostro vivo rammarico di non sapere se e in qual misura egli abbia mantenuto le belle promesse della giovinezza. Anna Del Pin VARIETÀ GIORDANO BRUNO A GENOVA E IN LIGURIA. La recente Vita di Giordano Bruno, con documenti e inediti1, in cui Vincenzo Spampanato lia potuto finalmente sintetizzare oltre vent’anni di ricerche bruniane, mi suggerisce l’opportunità di un breve eenno sul soggiorno del filosofo nella nostra regione, così sulla base di quanto lo Spampanato ha messo novamente in luce come su quella delle antiche notizie da lui rinfrescate. Cel resto l’unica seria esposizione dei fatti che stiamo per narrare era, prima delle dotte pagine dello Spampanato, nella biografia del Berti2: ma sommaria e imprecisa per molti rispetti. Arrivò il Bruno in Genova poco prima della domenica delle Palme, nel 1576: anno in cui la festa cadeva il 15 aprile? Contrariamente al parere del Berti, il quale sostiene non essere capace di prova che il filosofo sia entrato nella nostra città, dobbiamo infatti tener presente una scena del Candelaio dove tino dei protagonisti giura, entrando in scena, sulla « benedetta coda dell’asino, che adorano i Genoesi’3», e il passo correlativo dello Spaccio della Bestia trionfante, che dice proprio così : « Ho visto io i religiosi di Castello in Genova mostrar per breve tempo e far baciare la velata coda, dicendo: non toccate, baciate: questa è la santa reliquia di quella benedetta asina che fu fatta degna di portar il nostro Dio dal monte Oliveto a Jerosolina. Adoratela, baciatela, -porgete limosina: Centum accipietis, et vita aeternam possidebitis4 ». I « religiosi di Castello» sono, è evidente, i Domenicani di Santa Maria di Castello, dove uffiziavano fin dal secolo XV5: e la preziosa reliquia doveva certo esser mostrata 1 Messina, Principato, 1921-22. Vedi, per l’argomento di questa comunicazione, a pp. 269-273. 3 Torino, Paravia, 18691; 18892. 3 ed. Spampanato (Bari, Laterza), pag. 29. 4 ed. Gentile (Dial. morali di G. B., ivi, 1608), pp. 185-186. Quetif et Echard, Script. ord. praed., t. il, p. in. GIORDANO BRUNO A GENOVA E IN LIGURIA 49 al popolo nella precisa circostanza della commemorazione del giorno in cui Gesù discese trionfante sull’asina a Gerusalemme1. Il Bruno veniva da Roma, umile fuggiasco. Aveva avuto notizia che il processo istruttorio pendente presso l’inquisizione, per i sospetti di erodossia avanzati contro di lui, non annunziava buon esito: e così, deposto l’abito, si diresse verso la valle Padana. Più tardi raccontò egli stesso, ai giudici di Venezia, di essere andato subito a Noli. Ma è probabile che la peste, da cui quella plaga fu proprio in quel torno di rempo violentemente aiflitta, lo abbia genericamente consigliato a volgersi verto la Liguria, contrada meno infetta, o non ancora raggiunta dal contagio, e a fermarsi almeno qualche giorno a Genova. Le sarcastiche espressioni dello Spaccio ci fanno immaginare agevolmente il Bruno là sulla piazzetta della vetusta chiesa romanica, pieno l’animo non già di ammirazione estetica perla caratteristica facciata o per gli ornamenti molteplici dell’interno, eh’è tutto un musaico di conquiste orientali, - e tanto meno di interesse psicologico e religioso per la folla affluente ed effluente dal tempio, - ma di cruccio e di sdegno: lui da poco accostatosi alle nuove idee dei riformatori oltremontani, lui per questo costretto a fuggire di patria e dall’amato convento napoletano di San Domenico Maggiore, dove gli allievi pendevano dalla sua parola, dottamente teologizzante. La peste arrivò presto, anzi subito, anche a Genova; a Milano l’ambasciatore veneto Ottaviano di Mazi ne aveva già notizia tre giorni dapo il 15 aprile, il mercoledì santo2. E allora il Bruno, come ci attestano, questa volta, più veracemente, le sue note dichiarazioni ai giudici veneti, se ne andò a Noli. Forse il ricordo dantesco, che per lui umanista poteva contar qualche cosa, e la simiglianza del nome con quello della sua Nola; forse la persistente libertà della piccola repubblica, e anche, chissà, qualche lettera di raccomandazione, qualche consiglio di amico lo spinsero in quel tranquillo rifugio, l’unico veramente tranquillo per lui nella storia delie sue lunghe peregrinazioni. « Andai a Noli, territorio genoese, dove mi intrattenni quattro o cinque mesi a insegnar la grammatica a’ putti ». « Io 1 Per la storia della reliquia v. Imbriani, Natanar II in Propu- gnatore, Vili, 1 (1875), p. 190-91. 3 Mutinelli, Storia arcana ed aneddotica d’Italia, vol. 1, lib. li, pp. 306-307, 50 stetti in Noli.... circa quattro o cinque mesi, insegnando la grammatica a’ figliuoli e leggendo la Sfera o certi gentiluomini...1 ». Lo Spampanato, per ragioni di coerenza con ulteriori dati biografici, pensa che il soggiorno sia durato un po’ più di quattro mesi; e cioè dalla fine d’aprile 1576 ai primi del 1577. Comunque, le occupazioni del Nolano a Noli sono ben chiare: l’esule cercava di trar qualche mezzo di vita con lezioncine private. Ma anche « leggeva la Sfera a certi gentiluomini »: la Sfera, cioè il famoso trattato di Giovanni da Sacroboseo, professore alla Sorbona e monaco domenicano quasi contemporaneo di Dante: che si soleva considerare come perfetta e sintetica esposizione di una teoria fisico-geometrica fondamentale per l’astronomia tolemaica, (la teoria delle sfere celesti), e che Γ insinuarsi dell’ipotesi copernicana aveva, nella seconda metà del Cinquecento, rimesso in gran voga2. Persino a Noli era dunque penetrato il novello interesse del secolo per i problemi astronomici ; perfino a Noli alcuni giovani signori sentivano il bisogno di stipendiare un povero erudito piovuto di lontano perchè spiegasse loro il sistema del mondo. E il Bruno cominciava di quia occuparsi direttamente di quelle indagini che furono oggetto delle polemiche da lui sostenute in Inghilterra e che formano l’argomento della Cena delle Ceneri. Non possiamo naturalmente sapere (a meno che venissero fuori i quaderni di queste sue legioni liguri) s’egli già a Noli professasse la dottrina copernicana, servendosi della Sfera per criticare il sistema tolemaico: o invece, come il Galilei ne’ suoi corsi allo Studio di Padova, si limitasse all’illustrazione del classico libretto. Un sacerdote napoletano, anzi padre Iazzarista, Raffaele de Martinis, che potè consultare gli atti del Santo Uffizio, asserisce nella sua biografia del Bruno3 che a questi fu intentato in Vercelli un processo (che sarebbe il quarto dopo i primi due di Napoli 1 Docc. veneti, vili, c. 8 r-v. (SPAMPANATO, p. 6Ç8). 2 Vedi A. Pellizzari, Il quadrivio nel Rinascimento (Genova, Perrella, 1924). 3 G. Bruno (Napoli, 1889), p. 12-13. Ma cfr. L. Amabile, in Atti Acc. Scienze mor. e politiche di Napoli, vol. xxiv, pp. 468-469 n.; e spampanato, op. cit.., p. 273 n. (e anche Tocco in Arch. fiir Gesch. der Philos., IV, 1891, pp. 346-50; Bonghi, ne La Cultura, Γ-15 ott. 1889, pp. 585-86; Gentile, G. Bruno e il pensiero del Rinascimento, [Firenze, Vallecchi 1920, pp. 63-64. GIORDANO BRUNO A GENOVA E IN LIGURIA 51 e il terzo di Roma) « dalla Inquisizione dello Repubblica genovese»: ma dell’asserzione importantissima (secondo la quale si potrebbe proprio pensare aver il Bruno palesato ancora una volta la sua eterodossia nell’insegnamento di Noli) il De Mar-tinis non dà, e confessa di non aver potuto trovare, le prove. E la notizia non pare affatto fondata, posto che manca ogni riferimento a questo processo genovese nei posteriori documenti processuali di Venezia, e di Roma dove pur dovrebbe trovarsi, posto che a Vercelli non ci consta che il Bruno facesse soggiorno (nè quindi l’inquisizione genovese avrebbe avuto ragione alcuna di perseguirvelo), ma solo vi passò nel 1577. « Eppoi me partii de là [da Noli] ed andai prima a Savona, dove stetti circa quindeci giorni; e da Savona a Turino, dove non trovando trattenimento a mia satisfazione venni a Venezia per il Po1». Da Venezia, di lì a due mesi, a Padova; da Padova a Brescia, Bergamo, Milano. Qui rivestì l’abito, e poi per Buffalora, Novara, Vercelli, Chivasso, Torino, Susa arrivò alla Novalesa, sotto il Cenisio. Un giorno ancora e fu in Francia, oltre monti, lanciato per la gran carraia della Sua fortuna. Troverà onori, trionfi accademici, soddisfazioni di filosofo e di scrittore; ma la queta pace di Noli, mai più. ____Santino Caramella 1 Docc. veti., c. 8. Un lunigianese Prefetto Apostolico in Etiopia e martire della fede. Tra le famiglie notabili di Virgoletta (Verrucola Corbellarlo-rum dei documenti medievali, cosidetta per essere stata antico feudo della omonima famiglia dei Corbellari) fu, nel passato, quella dei Porta o, come allora chiamavasi, dei Dalla Porta : famiglia che tuttora vi esiste. Dei personaggi di questa famiglia che si segnalarono negli uffici ecclesiastici, si ricorda un Don Mattia di Gabriello Dalla Porta, che fu Canonico della Chiesa di S. Maria della Rotonda in Roma, dove morì nel 1671, in età di ottant’anni, e del quale si conservano anche oggi, a Virgoletta, presso i suoi discendenti, un ritratto e il testamento in data 29 gennaio 1664 a favore del fratello Alessandro e del figlio di questi Antonio, con* 52 P. FERRARI tenente, tra l’altro, un legato alla Compagnia del SS. Sacramento di Virgoletta. Nessuna memoria, invece, è rimasta di un terzo fratello dei predetti Mattia e Alessandro Dalla Porta e cioè di Antonio, in religione Padre Antonio da Virgoletta, che fu Missionario e Prefetto Apostolico in Etiopia e che morì il 26 agosto 1642, a Suakim, nel Mar Rosso. Però, del suo fervore religioso e della sua fine edificante ci ha lasciato notizia, con molti particolari, un suo compagno di Missione, Frate Antonio da Pietrapagana, in una sua lettera latina, diretta da Suakim, il 10 ottobre di quello stesso anno, al ricordato canonico D. MattiaDalla Porta a Roma, per informarlo delle vicende che condussero alla morte del fratello. In tale lettera, della quale diamo qui cenno per la prima volta, Frate Antonio da Pietrapagana, dopo aver ricordato i tre anni passati insieme « in ista tam gloriosa Missione », racconta che, trovandosi essi in una isola del Mar Rosso, il Re d’Etiopia, per quanto perfettamente informato della loro qualità di Missionari, anzi appunto in odio a tale loro qualità, fingendo che si trattasse di due portoghesi, stabilitisi colà per intrighi politici, dopo averli fatti sottoporre a rigorosa sorveglianza, nel febbraio del 1642 li fece rinchiudere in una orribile prigione, « vel ut melius dicam in puteo », insieme con quattro Abissini, convertiti al cattolicismo e che, per sottrarsi alla persecuzione, si erano messi sotto la protezione di P. Antonio da Virgoletta. Ma, dopo tre mesi, sempre col medesimo pretesto e con lo scopo di averli nelle mani e di sopprimerli, lo stesso Re d’Etiopia dette ordine di trasportare i sei prigionieri a Suakim, dove giunsero dopo una pericolosa navigazione, durante la quale oltre i patimenti sofferti per il caldo, la sete e i maltrattamenti subiti dalla scorta, corsero anche il rischio di lasciare la vita in mare, a causa di una furiosa tempesta, scatenatasi nel pomeriggio del-Γ11 giugno. Giunti, finalmente e quasi esanimi, a Suakim, furono consegnati al Principe o Governatore del luogo, che, senza dubbio per ordini pervenuti dal Re d’Etiopia, fingendo ed ostentando umanità e benevolenza li fece ricoverare « in cìomum liberam »; ma, in sostanza, sempre in istato di prigionia. Passarono, così, qualche tempo senza sapere quale sorte fosse loro riserbata, quando, 1’ 11 agosto, P. Antonio da Virgoletta fu colto da febbre, « cum sanguinis fluxu », che lo condusse a morte il giorno 26 dello stesso mese. Sopportò la malattia con grande UN LUNIGIANESE PREFETTO APOSTOLICO IN ETIOPIA 53 rassegnazione, dicendo: « hanc mortem ad martyrium trahere possumus, quia propter fidem catholicam haec libenter patior >. La sua fine fu quella di un santo e « santo » lo chiama F. Antonio da Pietrapagana. « Vultus eius — scrive questi — erat tamquan vultus angeli, oculi sui puritate et charifate repleti, loquela sua et actiones omnes tali perfectionis erant, quemadmodum et aliorum Sanctorum, qui post aerumnas in Domino obdormiunt ». E queste furono le sue ultime parole : « Ego morior et indifferens sum in vita remanere. Sigilla Missionis tibi relinquo et quidquid SS.mus Dominus noster Urbanus Octavus mihi concessit per suam sanctissimam auctoritatem tibi committo et post mortem meam eris tamquam et ego ». E qui F. Antonio da Pietrapagana, dopo aver ricordato le insidie e la doppiezza degli Abissini e la persecuz**>ne da parte del Re d’Etiopa, che voleva disfarsi di loro « in odium verae fidei » aggiunge : « supradictae omnes calamitates et alia supplicia a supradicto iniquo Rege Aethiopiae, propter fidem catholicam romanam, usque ad hanc diem super nos fabricata sunt et sic Sanctus Antonius a Virguleta, quemadmodum alter Marcellus martyr, variis aerumnis affictus in Domino obdormivit ». Nè sulle intenzioni del Re d’Etiopia s’ingannò F. Antonio da Pietrapagana, che, infatti, poco dopo, subì il martirio, insieme con due compagni di fede : probabilmente due dei quattro Abissini che, coi nostri Missionari avevano diviso i patimenti e la prigionia. La lettera di F. Antonio da Pietrapagana, che si firma « Frater Antonius a Petra Pagana Vicepraefectus Aethiopiae », esiste presso lo scrivente nella copia che, da altra più antica, fece fare a Napoli, il 27 aprile 1729, un Prete Don Gabriello Dalla Porta, pronipote dell’Alessandro sopra ricordato e persona distinta da quel Gabriello Della Porta, figlio di detto Alessandro, che, nella metà del seicento, arricchì la chiesa di Virgoletta di un sontuoso altare di marmo e di alcuni preziosi arredi sacri, che tuttora vi si conservano1. 1 Tanto l’altare, di stile barrocco, quanto gli oggetti in parola, e cioè un calice, un vassoio, due candelieri e una lampada d’argento, nonché una pianeta, recanti lo stemma di famiglia, consistente in una porta sormontata da un’aquila, sono vincolati come oggetti d’arte. 54 P. FERRARI È merito, pertanto, di questo Prete D. Gabriello 1’ averci tramandato il ricordo del martirio di P. Antonio da Virgoletta, Prefetto Apostolo in Etiopia: ciò che egli, appunto, fece, come si legge in una sua nota posta in calce alla lettera di cui sopra, perchè « li posteri e discendenti di casa mia, presso li quali sta fino ad oggi il Cordone e la Disciplina di detto Ven. Padre, tenghino per sempre vivo un si chiaro ed illustre testimonio di un Martire che scrive la storia di un altro Martire2» . P. FERRARI 2 L’originale autentico della lettera, come si ricava dalla nota di D. Gabriello Dalla Porta, ai suoi tempi, era conservato a Roma presso Pier Maria Dalla Porta, nipote del munifico donatore sopra ricordato. Una copia autentica era posseduta anche da un Mons. Del Giudice che, sempre a quel tempo, era Segretario di Propaganda fide. Ma si tratta di documenti andati probabilmente perduti. NOTE D’ARCHEOLOGIA E DI PREISTORIA La diffusione dei Liguri antichi secondo ricerche toponomastiche e antropologiche. Nessuno ignora che la Liguria nell’antichità e nei bassi tempi, finché le circoscrizioni regionali conservarono un significato politico, cioè fino all’espansione comunale, ebbe termini molto più ampi d’oggi. La Magra fu suo confine meridionale soltanto con la Discriptio Italiae d’Augusto, e rimase, anche dopo, incerto segno: sicuramente nel nuovo ordinamento delle marche settentrionali, circa la metà del sec. x, tutta la Lunigiana fino alla Vesidia rifece parte della Liguria. Dell’estensione della circoscrizione ligure nella valle del Po in epoca romana e dei rimaneggiamenti incessanti che il suo confine subì da questo lato nell’alto Medio Evo è superfluo far cenno. Ma gli studi preistorici assegnano ben più ampio raggio all’espansione del tiomen ligure. Secondo le testimonianze più antiche, a partire da Esiodo, i Liguri avrebbero ricoperto gran parte dell’Europa occidentale, non solo la costa mediterranea, ma le regioni interne alpina e padana, la Gallia, la Spagna, la Brettagna. Verso il mezzodì, per tradizioni letterarie romane che fanno capo a scrittori greci del ve IV secolo a. C., liguri sarebbero stati i più vetusti abitatori del Lazio e ramo ligure i Siculi discesi dal Lazio nella Calabria e nella Sicilia. I Liguri adunque costituirebbero il fondo etnico e psicologico su cui si svilupparono in epoca storica grandi civiltà. Questo immenso campo migratorio, o se si vuole, il territorio di questo primissimo fra gli imperi d’occidente è stato esplorato, a sussidio delle fonti storiche, per mezzo d’indagini toponomastiche, la cui iniziativa è dovuta al Flechia, che ne trattò in uno studio pubblicato nel 1873 fra le Memorie della Reale Accademia delle Scienze di Torino, prima ancora che al D’Arbois de Jubainville, al Muellenhoff e ad altri studiosi di gran nome. Una sintesi magniloquente e appassionata della protostoria ligure è nel primo volume de\V Historié de la Gaule di Camillo Jullian. 56 UBALDO FORMENTINI Ettore Pais da lungo tempo aveva contribuito allo studio della diffusione dei Liguri con dati toponomastici, prima nella sua Storia della Sicilia e della Magna Grecia, poscia nelle Ricerche storiche e geografiche sull’Italia antica, con due articoli, uno sulla storia di Pisa nell’antichità, riguardo all’estensione del confine ligure fino all’Arno e alla posizione di Pisa e di Arezzo nella Liguria prima del II sec. a. C., 1 altro sotto il titolo : Eryx - Verruca ?, dove, dalla corrispondenza dei nomi liguri Entella, Segesta, Eryx nella Riviera orientale con identici nomi dell’estremità occidentale della Sicilia nel territoiio degli antichi Elimi, assimilando il nome Eryx a Veruca, il Pais tiaeva non solo la conseguenza dell’estensione dzW'ethnos ligure alla Sicilia, ma un indizio del negato legame degli Elimi con popoli italici e, per 'converso, della pur discussa italicità dei Liguri . Questi due studi sono riprodotti in una nuova edizione del-lopera2; raccolta che differisce dalla precedente perché, come avverte la prefazione, alcune dissertazioni sono state tolte, altre aggiunte, nuovi studi e considerazioni avendo contribuito a modificare le opinioni dell’autore. Fra i nuovi articoli quello che apre la raccolta torna sul tema ligure con argomenti di precipuo carattere toponomastico, a conferma delle precedenti conclusioni. 11 Pais esamina in particolar modo nomi di fiumi scorrenti in territorio ligure propriamente detto o della regione alpina e della valle padana, ricercandone la diffusione sopratutto in Italia. La prima voce notata è Arno, nome di fiume, il principale, topograficamente ligure, secondo quanto l’autore aveva già stabilito nello studio su Pisa, sulla base di ben note testimonianze di geografi greci; il nome si ripete in voce presso che identica, non solo nella Liguria marittima e nella valle del Po, ma anche nell’Umbria e presso il Oran Sasso d’Italia. Osservazioni simili sono fatte circa i nomi Stura, Rutuba, Fertor, Trebia, Ticinus, Melpum, Cosa, Ambra, Era, Agna ecc. Nell’insieme la toponomastica confermerebbe Γ espansione ligure attestata dalle fonti letterarie e di più anche una penetrazione nelle regioni apenni-niche della media Italia fino al Piceno. 1 Ettore Pais, Ricerche storiche e geografiche sull1 Italia antica, Torino, S. T. E. N. - 1908. J Ettore Pais, Italia antica, Voli. 2 Bologna, Zanichelli (1924). LA DIFFUSIONE DEI LIGURI ANTICHI 57 Ricerche davvero allettanti se pur tali da non toglierci ogni diffidenza giustificata dalla scarsezza di materiale e dalla incertezza del metodo. E infatti qualche dubbio rimane anche al Pais quando si domanda se il trovare tre nomi limitrofi, Signa, Monte Albano, Empoli presso Firenze, ricordanti omonimi luoghi del Lazio, ed egualmente Contrebia, Corbio, Norba, Suessa nella toponomastica antica della Spagna corrispondenti a note località italiche, dipenda dall’espansione di genti dell’età preclassica, quindi probabilmente liguri, o non sia invece un segno posteriore della espansione e della colonizzazione romana. In realtà troppe volte il sistema di questa ricerche si risolve in una petizione di principio : chiamar ligure (e allo stesso modo celtico, etrusco ecc.) un nome trovato in territorio dove memorie storiche attestano la presenza di un tal popolo e attribuire a migrazioni o conquiste tutte le ripetizioni del nome per ogni dove, almeno finché il farlo 11011 porta a troppo grave cimento, come per es. quandi) trovasi il nome « ligure » Stura nelPEubea. Ma è chiaro che le stesse osservazioni possono avvalorare tesi opposte l’una all’altra, ogni qualvolta non siano controllate con i dati di una cionologia, se non assoluta, almeno relativa. Così, stando alla voce Erix, Lerici ligure ed Erice elimia, corrispondenza onomastica già notata da Petrarca ne\VAfrica: ......fortissimus Erix Ausonius siculae retinens cognomina ripae, è un fatto che l’equivalenza con Verruca, su cui il Pais fa fondamento, è singolarmente avvalorata da un documeuto linguistico rimastogli sconosciuto: il nome Ve rici di luogo nel Se-strese. Ma, dato che il popolo degli Elimi presso il quale troviamo Erice, Segesta, Entella, è popolo misto fra cui la presenza di elementi semitici non può essere contestata, perchè i corrispondenti nomi della Riviera ligure non potrebbero spiegarsi con un approdo semitico, diretto o secondario, fenicio o punico? La supposizione è tutt’altro che in contrasto con le notizie storiche rimasteci dalle relazioni fra Fenici e Liguri : di fronte a Lerici, le due isole del Tino e del Tinetto, Tyrus major et Tyrus minor in Porta Veneris, come le indica una carta del secolo xi, richiamano pure un nome e un culto fenicio; e il Lunai portus su cui Lerici s affaccia, e la prossima Luna possono mettersi in rerelazione. come già fece l’Oberziner, con due promontori d’identico nome nella Lusitania e nell’ Iberia, dove è segno di culto UBALDO FORMENTINI e di colonizzazione fenicia. D’altra parte Tarati è anche il nome etrusco d* Afrodite quindi Tiro e Portovenere potrebbero essere il testo etrusco e la traduzione romana d’un medesimo nome, rimastoci così in documento bilingue. Questo non per opporre tesi a tesi ma per dire quanto siano incerti e contradditori i risultati delle ricerche toponomastiche anche se avvalorati da squisite concordanze. E veramente questa disciplina ha fatto pochi passi, per quel che riguarda lo studio dei Liguri, dopo le prime ricerche, le quali non possono considerarsi che preliminari e di puro saggio; e pochi ne farà, seguendo un indirizzo in sostanza dilettantesco, sulla base di un florilegio universale di vocaboli. Non già che noi vogliamo negare il valore di queste ricerche, anzi, pur limitatamente ad una breve zona del territorio ligure, ne abbiamo da poco suffragata l’importanza1. Ma il lavoro preparatorio è ancor tutto da compiere, non solo riguardo alla copia, ma anche alla cernita rigorosa dei vocaboli; considerando, fra l’altro, che questi sono nel maggior numero corrotti dalla traduzione letteraria della toponomastica ufficiale sì che i più strani equivoci diventano possibili se le voci non si restituiscono al loro suono, sulla base principalmente della fonetica locale. Opera immane, evidentemente, che, per tutta 1 ampiezza del territorio ligure, richiederebbe l’interessamento e il concorso di più Stati, t perciò non sperabile. Ma non solo per questa pratica ragione noi abbiamo consigliato, nel breve studio sopra ricordato, un processo d’indagini ristretto a piccole ciicosciizioni territoriali purché geograficamente definite, sebbene anche per un principio di metodo che è qui il caso di chiarire. Non si trascuri in primo luogo il riflesso soggettivo d’una limitazione del campo di studio, nel senso di frenare il facile trascorso dell’osservatore verso conclusioni premature o del tutto romanzesche. Dal plinto di vista obiettivo solo in un raggio relativamente ristretto è possibile un'esplorazione completa dei ruderi linguistici, tale che, non trascurando nessun elemento neppure le semplici denominazioni catastali, sia in grado veramente di riflettere la topografia nella toponomastica, in tutte le forme, gli aspetti, i caratteri, gli attributi delle cose rappresentate dalle parole. Come affidarci ad un metodo empirico, come quello di cui molti, ed 1 Per un dizionario toponomastico della Lunigiana, Memorie del-VAcc. Lun. di Scienze G. Capellini, v pp. 175*181. LA DIFFUSIONE DEI LIGURI ANTICHI 59 anche il Pais nonostante il presidio della poderosa dottrina, danno saggio? Arno è nome « ligure » di fiume ricorrente in più luoghi diversi e lontani, dunque il vocabolo può significare senzaltro fiume. Allo stesso modo molti altri nomi « liguri » che hanno uguale diffusione sono interpretati nel senso generico di fiume, ed egualmente gli innumerevoli che hanno in comune i suffissi liguri trovati dal Jubainville, dal Muellenoff e da altri specialisti, sono intesi nel significato di qualche attributo dell’acqua corrente. Vale a dire che i Liguri avrebbero posseduto un ricchissimo vocabolario per esprimere poche idee e poche immagini, cosa per nulla probabile. Gli è che la semplice interpretazione naturalistica dei vocaboli, a cui si fermano i più, è insufficiente. Se poniamo mente al carattere sacro che i Liguri, secondo vaghe ma attendibili testimonianze, attribuivano ai fiumi, è da considerare, per esempio, la posibilità che i norrfi abbiano un’origine totemistica. Anche qui la ristrettezza del campo di studio, permettendo la ricostruzione psicologica delle condizioni di vita nelle quali può essersi svolta 1’attività di un clan o di un villaggio, è preferibile alle divagazioni internazionali che riuniscono e confondono luoghi, tempi e stati sociali lontanissimi e diversi. Detto ciò è inutile soggiungere che sulla testimonianza della semplice equazione ligustica Eryx - Verruca, o simili, non siamo disposti ad accettare la principale affermazione del Pais che i Liguri siano popolo ario1; tesi già sostenuta dal Jubainville sopra identici elementi; e ciò anche a prescindere in linea generale dalla non provata dipendenza della lingua dall'ethnos. Comunque contro la tesi aria s’inscrive con i dati dell’antropologia tutta l’opera d’uno studioso di questa materia, il Sittoni, ormai di mole e d’autorità rispettabili. Sulle note tracce del Sergi, ma con metodo e indirizzo originali, il Sittoni ha seguito il criterio della ricerca intensiva, per lungo tempo non fuori dei confini della Lunigiana. E le ricerche propriamente 4 Nella sua recente Storia dell'Italia antica, Roma, 1923 (vol. I, pp. 49-17) il P. revoca questa tesi e sembra inclinare all’opinione di C. lullian che il nome ligure non abbia un valore etnico ma puramente geografico, comprendendo stirpi diverse venute ad abitare l’Occidente europeo. Il capitolo dedicato ai Liguri in quest’opera merita però una speciale recensione. 60 UBALDO F0RMENTIN1 antropologiche, ristrette alla discriminazione delle forme craniali, sono state sussidiate da studi d’etnografia e di psicologia, che anzi rappresentano l’esordio dell’attività scientifica di questo studioso. Solamente nel 1923, esplorati lungo oltre un decennio i cimiteri delle Cinque Terre, dell’alta e bassa Val di Magra, sui dati d’un abbondante sepolcretto della città di Luni, i cui resti sono nel Museo Fabbricotti di Carrara, il Sittoni riesce ad una conclusione generale per là Lunigiana, nel senso che il tipo autoctono persistente, onde la regione ha la sua fisonomia etnica, corrisponde alla varietà mediterranea che prese fin dall’antichità il nome ligure1. Da ultimo il Sittoni ascende a più ampia sintesi in un lavoro di fresca data, dove il materiale ligure-lu-nigianense è posto a confronto con altro, etrusco, laziale e propriamente romano, con l’intendimento di portare dati fondamentali alla determinazione del fondo etnico dal quale uscirono le due maggiori civiltà d’Italia: l’etrusca e la romana. Gli autoctoni abitatori liguri del territorio pre-etrusco furono sopraffatti dall· invasione degli Eurasici (Arii, secondo la terminologia dei filologi) distinti nella varietà armenoide (celtica o di Golaseca) e mongoloide (Protoslavi o Villanoviani). L’avvento degli Etruschi ristabilì l’equilibrio a favore dei Mediterranei, poiché il Sittoni, a differenza del Sergi e di altri antropologogi, viene a separare due varietà di Mediterranei, la platiccfala o ligure e la ipsice-fala o etrusca. Nel luogo ove sorse Roma una tribù eurasica staccatasi dai Colli Albani occupò la valle posta fra il Capitolino e il Palatino, come testimoniano le tombe ad incinerazione trovate nel Foro Romano; ma questa occupazione fu troncata violentemente dalle tribù sabine dei Ramnes e latine dei Tities, che il S. dimostra entrambe della varietà mediterranea «ligure», alle quali s’aggiunse, istitutrice di civiltà, l’etrusca tribù dei Luceres2. Noi siamo troppo estranei a questo genere di studi per poter dare un giudizio sui fatti e sul metodo e quindi anche sulle conclusioni che trascendono il puro campo dell’antropologia ; nè sappiamo se a questa scienza possa essere affidato il 1 Giovanni Sittoni, / Mediterranei nella Lunigiana. M A L , iv pp. 126-143, premessa la precedente bibliografia delPautore. 2 Giovanni Sittoni, Ligures (crania nova et vetera), MAL, v. pp. 57-92. LA DIFFUSIONE DEI LIGURI ANTICHI * 61 compilo di spiegare fenomeni così complessi come la storia interna di Roma, rappresantata, secondo le seducenti vedute del Sittoni, come un contrasto fra due stirpi e due temperamenti richiamati misteriormente dall'unità di razza. Ma è fuori di dubbio che questi sono fra i più seri contributi dati dalle scienze antropologiche allo studio deH’antichità e i soli, in Italia, dedicati ai Liguri. Ubaldo Formentini RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Onorato Pastine - La repubblica di Genova e le Gazzette - Vita politica ed attività giornalistica (sec. xvii-xvm), Genova, Tip. F.lli Waser, 1923. Se si volesse scrivere - e un giorno certo la si scriverà - la storia del giornalismo italiano, di quell’attività tra letteraria e politica che s’avviò dalla metà del sec. XVI in poi a rappresentare i progressi dello spirito pubblico attraverso manifestazioni più o meno interessanti e più o meno degne, bisognerebbe dividerla in tre periodi: il primo dei quali svoltosi anteriormente alla grande Rivoluzione, il secondo nei due turbinosi decenni delle guerre francesi e del dominio napoleonico in Italia, e il terzo durante il divino dramma del nostro Risorgimento. Intanto, escono di giorno in giorno contributi locali notevoli, e si è anche aperta, in un autorevole periodico e sotto la direzione di un vero specialista in materia - il prof. Luigi Piccioni una rubrica intesa ad additarli o a raccoglierli e coordinarli. Il campo è vasto ed attraente. Talvolta, in gazzette antiche e ignorate, si son colti dati così importanti da sovvertire opinioni tradizionalissime, e si sono scoperte, almeno in germe, idee divulgate ' come nuove in tempi recenti. Ma è chiaro che cotesto materiale va cercato e valutato con tutte le cautele della critica; e che, d’altra parte, non può studiarsi se non in relazione con le vicende della vita politica o sociale o letteraria eh’ esso fiancheggia. In quel primo periodo, cui accennammo, Genova fu centro di grande attività giornalistica. Nè ci stupiremo che questa città comprendesse subito il valore dei fogli periodici e subito mirasse a giovarsene per i suoi fini potitici; essa che, tre e più secoli innanzi, aveva incaricato gli scribi del Comune di compilare quelle .cronache di cui tutti conoscono gli atteggiamenti e gli scopi. Del resto, la sua posizione geografica era tanto propizia alla diffusione delle notizie di tutta Europa che alle prime gazzette pubblicate in Liguria fin dal secolo xvn, guardarono attentamente gli altri paesi della Penisola e, con sempre maggior interesse, le nazioni straniere. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 63 Come sia sorto e abbia poi progredito e vissuto, tra il principio del sec. XVII e buon tratto del seguente, il giornalismo genovese, indaga e dimostra Onorato Pàstine, nel suo recente volume, che, esorbitando opportunamente da una pura rassegna dei fogli di quel torno, investe, con piena informazione bibliografica e singolare ricchezza di documenti, tutta la vita politica della Repubblica. Dapprima si ebbe in Genova una produzione di novellari manoscritti o stampati, che sfuggiva a ogni controllo del Governo. Ma, dopo il 1634, 1’ Autorità statale, ben consapevole degli intrighi dei foglicttanti, vigilò l’opera loro, cercando di rendersela favorevole o almeno d’impedirle che creasse imbarazzi di carattere internazionale. Vennero quindi concessi privilegi; e il primo a goderne fu tal Michele Castelli che s’impegnò a corrispondere una data quota d’appalto. Il Castelli si rivelò subito propenso alla Spagna, per la quale Genova aveva maggiori simpatie che per la Francia; e non è da escludere che la preferenza, quanto al privilegio, fosse stata accordata a lui dietro patti espliciti sulP atteggiamento politico ch’egli avrebbe dovuto assumere; tanto più che un decreto del 1640 colpì l’abusiva pubblicazione d’altra gazzetta, un po’ francofila, di Alessandro Botticelli. Però, fattisi alquanto cordiali i rapporti di Genova con la Francia, ecco il privilegio concesso anche al Botticelli, ormai caro al Mazzarino. Onde contrasti prima larvati, poi aperti e talvolta quasi polemici tra i due gazzettieri; e un altalenare dell’astuto Governo fra loro, sempre a seconda degli avvenimenti. Altri novellisti spuntan su a mezzo il secolo, fra cui il famigerato Luca Assarino, vero mostro di venalità. E la guerra delle penne esplode. Il Castelli è ora sfavorevole alla Repubblica, il Brotticelli amico degli Spignuoli, l’Assarino sempre più proclive alla causa della Francia. E fra questi se ne cacciano altri ancora; ad esempio, un prete Felice Appianati, che intavola trattative doppie con Francia e Spagna. Verso il 1660 la vita o meglio la gazzarra giornalistica genovese si arresta; ma riprende nel sec. xvm con un Prete Duce, un R. Antonio Benedetto Morando e altri di minor conto; tutti però sempre vigilati e blanditi dal Governo. La conclusione che il Pàstine qui ricava, è che Genova riconobbe tanta importanza alle gazzette fin dal sec. xvil da farsene per lunghi anni un vero e proprio strumento politico. 64 Nè meno pregevole è la parte del lavoro del Pàstine, nella quale si rilevano le relazioni con le gazzette forestiere. A ogni articolo o accenno che potesse suonar ostico o dannoso, la Re pubblica correva ai ripari, regolando la sua condotta, prendendo nuovi provvedimenti, sollecitando colloqui con gli ambasciatori. Vere preoccupazioni recò la Gazzetta di Berna nel 1724, quando riferì che il re di Sardegna aspirava al titolo di re di Liguria; e più tardi, nel 1736, la Gazzetta di Olanda, che riportava « il decreto di Commissione Imperiale concernente i Preliminari di Pace comunicati alla Dieta di Ratisbona » con notizie che potevano pregiudicare Γamicizia del Piemonte. Ma, senza dubbio, le vicende più salienti in quegli anni, e però qui largamente esposte e discusse dalle gazzette a stampa o manoscritte, riguardavano la Corsica, l’isola genovese adocchiata tanto dalla Spagna quanto dalla Francia. Il Pàstine rico struisce quelle precedenti alla rivoluzione, in un capitolo che potrà forse parere eccessivamente lungo come preambolo al seguente su La Corsica e le gazzette; ma che riuscirà molto prezioso a chi, non badando troppo all’economia generale del libro, vorrà trovare esaurienti notizie sull’argomento particolare. V’è, a farla breve, storicamente documentata, tutta la ridda degli appetiti e degli egoismi che le Potenze europee provavano relativamente a quel dominio. Scoppiati dunque i rivolgimenti còrsi, ne riferirono i casi di volta in volta la Gazzetta di Atnsterdam del Paupie, il Mercurio storico e politico d’ Olanda e la Gazzetta di Berna. La Repubblica allora avviò trattative finanziarie per cattivarsi il giornalismo straniero più avverso, e reagì alle notizie false o tendenziose con la pubblicazione dei novellari manoscritti del R. Antonio Benedetto Morando. Ma le cose si complicarono, perchè proprio a Genova si mise a osteggiare il Governo l’agente piemontese Lorenzo Bernardino Clerico, contro il quale furono invano chiesti provvedimenti al re di Sardegna che, in fin de’ conti, aveva tutto l’interesse a cooperare alla tranquillità dell’isola vicina. E gl’intrighi interni ed esterni furono tali che la Repubblica visse in continue pene. La vera anima dannata in cotesta faccenda fu sempre Fé* stensore della Gazzetta di Berna; uomo venale e ricattatore per professione, col quale la Repubblica stimolata dall’ Inviato a Torino, il marchese De Mari, venne finalmente a patti, promet- RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 65 tendogli un « assegnamento », qualora avesse accettato quel che le premeva di pubblicare, e respinto ciò che non voleva si pubblicasse; assegnamento che, dopo lunghe tergiversazioni, fu fissato in lire 300, ma non fruttò poi grandi vantaggi a chi lo sborsava. Anche nelP ultima parte il Pàstine supera spesso F argomento delle gazzette per indugiarsi a descrivere, indipendentemente da esso, Fazione della Repubblica nelle fortunose vicende di Corsica; onde avviene di perder talvolta di vista un aspetto del lavoro per F altro; ma tutto, in ogni modo, appare utile, tutto notevole in questo bel libro; e non è certo un male che che possano trovarvi il fatto loro così gli studiosi della storia politica come quelli dell’attività giornalistica connessavi. Una considerazione storico-morale scaturisce, a mio parere, da questo complesso di ricerche, ed è che, se vi furono dei gazzettieri corrotti in Genova - e tali, in verità, risulterebbero tutti - il Governo non se ne valse con troppa rettitudine; assecondò, anzi, il cattivo andazzo, corrompendo a sua volta. Ragione di Stato? Sia pure; ma, in tal caso, il contegno dei Serenissimi è prova, almeno nei rapporti con il giornalismo interno, di quella loro anima bacata, di quella loro debolezza che di anno in anno li portò alla perdita della Corsica, alle umiliazioni con le potenze straniere e infine al crollo totale. Francesco Luigi Mannucci Emilio Pandiani - La cacciata degli austriaci da Genova nell’anno 1746, estratto dalla Miscellanea di Storia Italiana, S. ili., T. XX. (Li della raccolta). Sebbene la cacciata degli austriaci da Genova possa parere un argomento assai trito, anzi esaurito del tutto, molto, in realtà, v’è ancora da dirvi intorno. Prova ne sia quest’ampia e ben documentata memoria, ove il Pandiani prende a rivendicare la verità dei fatti e a dare al governo dei patrizi quella parte di merito che gli spetta. Coni’è noto, verso la metà del 1746, i Franco-Ispani promisero di tutelare gl’interessi della Repubblica; ma poi si ritirarono abbandonando agli austriaci la misera città, che dovè aprire penosissime trattative, chiusesi il 6 settembre con la sua capitolazione e i gravosi patti per le contribu- 66 F. L. MANNUCCl zioni di guerra. A questo punto il Pandiani e-itra nel vivo della sua tesi. Scoppiali i primi moti popolari il 5 dicembre, il Governo, che già aveva opposto un rifiuto alla richiesta, fattagli dal Botta, di artiglierie e di contribuzioni in contanti, non restò punto impassibile spettatore, come dissero quasi tutti i cronisti contemporanei. Secondo la petizione avanzata più tardi da un tal Rolla per ottenere compensi dell’opera prestata in quei giorni memorandi, il Magnifico Pietro Canevaro avrebbe indicato al popolo i luoghi ove si trovavano le armi occorrenti per la sollevazione; e da altri documenti risulterebbe che i più noti capi popolari, fra cui Tommaso Assereto e Carlo Bava, fossero addirittura mandatari dei patrizi. Vero è che il Governo emanò ordini in contrasto, ma così avrebbe voluto premunirsi contro una possibile accusa di diretta partecipazione alla rivolta; e, in ogni modo, impedì le manovre degli Austriaci facendo smantellare alcune mura, e nella notte dal 6 al 7 dicembre provvide soppiattamente di^ viveri i popolari aquartierati sulle posizioni vittoriosamente occupate. Inoltre, Γ8 dicembre, il padre gesuita Antonio Visetti, dopo un vano colloquio col Botta, incorava il Doge con queste parole: «Vostra Serenità.... non solo lasci operare la moltitudine, ma, almeno segretamente, cooperi alla comune difesa...». E d’allora, cioè dal 9 dicembre, i Serenissimi agevolarono sempre più il popolo, protestando tuttavia in pubblico la loro impossibilità di frenarlo per deficienza di forza pubblica. Si giunse così al 10 dicembre, al giorno della decisiva cacciata degli oppressori. Nemmeno in tal circostanza il Governo fu inoperoso; bensì coadiuvò all’interno le varie operazioni degli insorti e inviò agenti segreti nella Riviera per estendere anche colà tutto il moto. Sicché, nei primi del ’47, poteva, unendosi apertamente alla massa del popolo, iniziare quella mirabile difesa che costrinse gli austriaci ad abbandonare definitivamente il territorio della Repubblica. La esauriente e convincente dimostrazione del Pandiani procede in modo da non attenuare i già noti meriti del popolo per porre in luce quegli ignoti o quasi ignoti del patriziato. Francesco Luioi Mannucci ψ SPIGOLATURE E NOTIZIE A Roma, il 22 giugno 1924, fu inaugurata, alla presenza di S. M. il Re, la «Sala Mazziniana» nella Biblioteca Centrale del Risorgimento. Tenne il discorso d'occasione S. E. Paolo Boselli. *** Delle opere uscite per il Cinquantenario della morte del Mazzini nel 1822 discorre minutamente G. Bourgin, in un articolo su F Histoire d'Italie - l-eriode da «Risorgimento», in Revue historique, 48 année, to. CXLIV, p. 211-214. *** Alla biografia di Goffredo Mameli reca un importante contributo G. Petraccone, con un articolo intitolato Lettere inedite di G. M. e sue relazioni con Raffaele Rabattino (Rassegna Italiana, XIV, 1924, p. 74)* Nella Rassegna storica del Risorgimento, Anno vi, 1924, Achille Neri illustra da pari suo Alcuni documenti riguardanti il Ministero Casali, che si conservano nel Museo del Risorgimento genovese (p. 129 e sgg); E[ugenio] C[asanova] pubblica una lettera di Giovanni Ni cotera Stilla preparazione della spedizione di Sapri (p. 521 e sgg.); Paolo Negri studia La cospirazione Piemontese del 1833, chiarendone il carattere mazziniano, e toccando della scoperta, fatta a Genova il 20 aprile, di tutto il piano insurrezionale (p. 545 e sgg.); Antonio Pilot dà estratti di giornali, che si riferiscono a una curiosa diatriba sorta a Venezia nel 1848 per la strofa di Goffredo Mameli: «Date a Venezia un obolo» (p. 748 e sgg.). Nelle Nouvelles acquisitions du Départ emet ; des manuscrits de la Bibliotéque Nationale pendant les années 1921-1923, registrate in Bibl. de VÈcole des Chartes (Paris, Picard, 1924, LXXXV. p. 50), si annovera, al n.° 22997 un «Recueil des dépêchés adressées à Iacques-Philippe Fyot de la Marche, conte de Neuilly, ministre plénipotentiaire en Francé anprés de la Republique de Gênes, par Antoine - Louis Rouillé conte de Fouy, ministre de la Marine, le duc de Choiseul, ministre des Absairses éstrangeres (1755-1761)». 68 A. Monti, nei Rendiconti del R. Istituto Lombardo di scienze e lettere (LVii, 1924. p. 7-10), studia Lo scisma mazziniano del 1839-1840 alla luce di un importante documento inedito, cioè di una lettera del 21 novembre 1840, natata da Marsiglia e attribuita dal Monti stesso al Campanella. F. L. M. Nell’ultima annata de Le Vie dyItalia si leggono due gustosi articoli di Ulderico Tegani: Camogli e il suo popolo marinaro (Gennaio 1924, pp. 17-26), La Badia di S. Fruttuoso( Novembre 1924, pp. 1223-31). In questultimo si lamenta che dopo l’alluvione del 1915, che fece crollare la facciata della chiesa, non si sia fatto nulla per impedire che si aggravi e si completi la rovina della millenaria Badia e dei sepolcri dei Doria. Nella stessa rivista (7 Maggio 1924, pp. 529-535) Gaetano Rovereto, colla competenza che tutti gli riconoscono, ci fa la storia delle «fasce» dell’olivo in Liguria, che, non coltivato, a quanto pare, ai tempi dei Romani, era ancor poco comune, almeno nella riviera orientale, nella prima metà del secolo xm. Fra i termini dialettali illustrati dal R. ho notato zinn-a significa propriamente ciglio e poi, per sineddoche (la parte perii tutto), la fascia irregolare «sostenuta da un erze (alzata) o givà, ossia da una tessitura di zolle erbose (gii)»', e ricordo che il Rohlfs nei suoi U’nteritaliénische Beitràge (Archivium Romanicum, vii [1923], pp. 449-50) ne fa risalire l’etimologia al lat. gena, additando altri riflessi di questo vocabolo nei dialetti italiani, cioè jena (Castrovillari), proprio nel significato di «ciglione che segna il limite di un campo», lomb. gina, emil. dzina, sicil. yina, quantunque solo, a quel che sembra, nel senso di «intaccatura delle doghe», che ha del resto anche nel genovese. A proposito di etimologie liguri : nello stesso Archivium Romancium, voi. ΥΠ (1923), p. 25, R. Riegler (Italianische Vo· gelnamen) fa derivare il nome bulgaria, con cui si chiama a Savona il «piviere» (charadrus pluviatilis), dal supposto lat. bar dicare, «stuzzicare, frugare, rovistare», non senza un accostamento meccanico del nome di paese Bulgaria, richiamando a riprova il^nome veneziano di questo uccello, biseghin, o bi-sighin, da~bisegar, che significa appunto «stuzzicare» e simili. _____L. v. Direttore Responsabile Ubaldo Formentini Edito dallo Stab. Tipografico Ditta C. Cavanna - Pontremoli A V VER TE NZE 1) Il giornale si pubblica in fascicoli trimestrali di 64 pagine ciascuno. 2) L’ufficio della Direzione è stabilito presso la Biblioteca Comu- nale della Spezia dove debbono indirizzarsi i manoscritti, i cambi, e quanto altro concerne la edizione del periodico. 3) Per quanto concerne Γ Amministrazione, esclusivamente alla Ditta Cavanna Editrice Pontremoli. 4) Il prezzo d’associazione per lo Stato è di L. 20 annue. AI SIGNORI COLLABORATORI La Direzione concede ai propri collaboratori 25 copie dì estratti dei loro scritti originali. Coloro che ne desiderassero un maggiore numero di copie, potranno rivolgersi allo Stab. Tipografico Editoriale Ditta C. Cavanna Pontremoli che ha fissato i seguenti prezzi : Da 1 a 8 PaSine Da 1 a 16 pagine Copie 50.....L. 12 Copie 50.....L. 20 * 100.....» 20 » 100.....» 30 In questi prezzi si comprendono le spese della copertina colo-rata e della legatura. Prezzo del presente fascicolo L. 5. * Giornale STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA PVBBL1CATO SOTTO GLI AUSPICI DELLA SOCIETÀ D’INCORAGGIAMENTO DELLA SPEZIA. :: :: :: NUOVA SERIE DIRETTA DA F.L. MANNUCCI e U. FORMENTINI , m ....... OENOVA 1925 EDITO DALLO STABILIMENTO TIPOGRAFICO Ditta Cesare Cavanna PONTREMOLI SOMMARIO UBALDO FORMENTINI : nuove ricerche INTORNO ALLA MARCA DELLA LIGURIA ORIENTALE (continuazione)........Pag. 69 PIETRO FERRARI : qiuseppe zambeccari . » 90 CAMILLO CIMATI: barbazzano del golfo DELLA SPEZIA...........» 117 F. L. MANNUCCI : rime inedite o rare di GABRIELLO CHIABRERA........» 125 VARIETÀ . INDICAZIONI DI NOTIZIE E DOCUMENTI SU A. D’ORIA E GENOVA TRA IL 1534 E IL 1549 (VITO VITALE) ...........» 142 DAGLI EPIGRAMMI DI GIAN CARLO DI NEGRO (F. L. MANNUCCI).........» 147 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA: dante e la Liguria - Studi e ricerche -(vito vitale)...........» 149 Carlo bornate, L’insurrezione di Genova nel marzo 1821 (ernesta Bertelli) ...» 154 cesare imperiale di sant’angelo, Annali Genovesi di Caffaro e dei suoi continuatori dal mccxxv al mccv, voi. ih. cesare imperiale di sant’angelo, Genova e le sue relazioni con Federico 11 re di Svezia (vito vitale)........» 164 franco ridella, la vita e i tempi di Cesare Cabella (vito vitale)......» 173 SPIGOLATURE E NOTIZIE (f.l.m. e l. v.) » 179 NUOVE RICERCHE INTORNO ALLA MARCA DELLA LIGURIA ORIENTALE. II. Il Consorzio dei Marchesi e la crisi della Marca Al tempo della spedizione navale d’Adalberto non possiamo ancora considerare i marchesi in Liguria estranei alla città, nè decaduto l’ufficio politico della marca, sebbene nell’esercizio in comune di questo potere fosse già insita la crisi che doveva avere rapido svolgimento nel corso del secolo xi. La legge longobarda professât? dagli Obertenghi, benché non fosse propriamente la loro legge nazionale1, non agì, come può credersi, nel senso di salvare, col rigore dei vincoli parentali, la compagine politica del consorzio. Questi vincoli decaddero, come vedremo, non oltre la terza generazione dei marchesi; ed è ovvio, del resto, che i concetti longobardici dell’ uguaglianza dei membri della famiglia e della patria potestas limitata alla minore età non potessero applicarsi ai pubblici uffici senza eliminare il governo monarchico e con esso l’unità della funzione giurisdizionale. Oli eredi del primo titolare della marca, Adalberto [I | e Oberto [11], avevano adempiuto per lo più congiunta-mente agli uffici di conte e marchese2; morto il primo, 1 Secondo la teoria mnratoriana gli Obertenghi sarebbero di nazione bavarese, franchi, stando alla genealogia del Baudi di Vesme. * Nel 985 in placito pavese intervengono i due fratelli unitamente (BSSS, Lxxxvi, 2), il 4 settembre 996 in Sale ufficiano come conti del comitato tortonese (BSSS, LXX, 18). V. anche l’acquisto fatto insieme dal v. di Pisa nel 975 (Muratori, A. /., I, 373) ed il placito aretino del maggio 995, nel quale sono condannati solidamente a favore del mon. di S. Fiora (Pasqu:, op. cit. doc. 80). 70 UBALDO FORM ENTI NI intorno al Mille, i suoi discendenti rimangono uniti con la famiglia del fratello superstite fino alla morte di questi poco oltre il 10141; insieme militano nelle grandi fazioni del loro congiunto re Arduino; intraprendono in Roma nel 1014 la sollevazione contro l'imperatore Enrico li e ne sopportano la disgrazia': solidamente con il vecchio Oberto sono con-dannati negli averi dell’imperatore, in Arezzo, a favore dell’abate di Santa Fiora3, in Vercelli, a favore del vescovo *. Nel governo dei beni la separazione dei patrimoni si manifesta già con le prime diramazioni del ceppo; nel 996 Adalberto 1, quale esecutore testamentario del figlio Oberto, dispone d’una corte con castello e pertinenze a favore dei canonici della cattedrale di Parma, senza notizia del fratello dopo la sua morte il nipote ed erede Adalberto 1111 conserva, è vero, comunanze con il prozio, come risulta da un atto datato dal Oabotto fra il 996 e 999, riferito a questi due personaggi, nel quale si contemplano «massaricias duas que detinet Obertus marchio cum suo nepote »6, ma poco dopo, nel 1002, in Lucca, egli dispone della sua parte del predio obertengo pisano senza assistenza di congiunti Il vincolo parentale rimane stretto nei semplici limiti della famiglia paterna; in atto del 26 febbraio 1012 Oberto [II] interviene per ratificare una donazione dei figli Azzo e Ugo al vescovo di Cremona8, il 6 settembre dello stesso anno assiste Azzo predetto a sua volta consenziente come marito e mundualdo a donazione della moglie Adela*; i 1 Per la genealogia dei marchesi qui riguardati rinvio senza particolari indicazioni alla tavola del Gabotto in gsl, IX. pp. 46-7. 2 Gabotto, Per la storia di Tortona nelPEtà del Comune, BSSS, XCVI-I pp- 77 e ssg. * Doc. in PASQUI, op. cit. n. 104. 4 Dopo la fine maggio 1014; M. G- H. Diplom. ni, 403, n. 321, per la data v. Gabotto, / marchesi Obertenghi, pp 36. 5 Ed. Drei, in Ardi. St. p. le Provv. Parmensi, N. S. XXIV (1924). pp. 265-67. 6 Gabotto, op. cit. p. 13* 7 In Muratori, A. E i, 200. 8 Ibid. 124. • Ibid. 121. » LA MARCA DELLA LIGURIA ORIENTALE_______71 beni donati erano stati acquistati in proprio dai figli e dalla nuora d’Oberto senza il suo intervento. Nell’ altro ramo è documentata l’assistenza d’Adalberto [li], anche unitamente con il suo figliuolo « infantulo », alla sorella Berta, moglie d’Olderico Manfredi marchese di Torino, in atti di vendita e pie donazioni L Dopo la morte di Oberto [11] interviene la nota divisione generale del patrimonio obertengo in quattro parti, con assegnazioni « per certa et diversa loca » 2, onde ha luogo in seguito la divergente attività politica dei rami. Non però che la divisione patrimoniale abbia portato ad una subita partizione di stati entro i confini della marca. Lungo la prima metà del secolo xi il governo dei comitati fu probabilmente ripartito, ma con delegazioni personali e periodiche, le quali non diedero vita a dinastie comitali definite. Vediamo infatti Ugo qualificato conte tortonese, nel 1033in presenza del cugino e commarchese Adalberto, poi nel 1035 '; ma egli era stato nel 1021 conte del comitato di Milano del quale troviamo nel 1045 titolare Alberto-Azzo [1] suo fratello6, questi a sua volta, in altre memorie ricordato conte del comitato lunense '. Sicuramente i consorti ritennero in comune, senza particolari delegazioni, l’esercizio della vera e propria giurisdizione marchionale con gli attributi della giustizia sovrana, come si ha dal placito di Rapallo del 1044 dove compaiono da pari Alberto [III] del ramo di Corsica e Alberto-Azzo [1] estense \ Questo è l’ultimo placito marchionale documentato del contado genovese, l’ultimo nella città è celebrato « in via 1 Atti 6 giugno 1921, 2S maggio 1028, 9 luglio 1029; v. Gabotto, op. cit. pp. 15-16. * Atto di pace 18 ott. 1124 fra il v. di Luni e i Malspina (CP, 50). * In Muratori, A. /. i, 99. 4 BSSS, XXIX, n. xvii. * In Giulini, Meni. St. di Milano, IH, pp. 509 sgg. * In Muratori, A. E. iv, 9. : BSSS, xci - II n. 1. * In Muratori, A. E. i, 210. 72 pubblica » da Alberto [m] predetto P8 dicembre 1039, in causa del monastero di San Siro i. La giurisdizione della marca nella Liguria orientale, in particolare nel comitato genovese, limitata dalle immunità ecclesiastiche2, concorrente con le giurisdizioni viscontili nella città3 e signorili nel contado, durò fino al 1056 nel quale anno il marchese Oberto di Obizzo giurò l’osservanza delle « consuetudini » cittadine, le quali, pur vigenti da tempo, avevano rispettato fino ad allora il vecchio rito giudiziario : « ...quando marchiones placitum ad tenendum venebant » 4. L’atto consacra realmente la dimissione dei poteri marchionali, senza però costituire un trasferimento di diritti sovrani alla città, la quale è contemplata coinè università senza istituzione e senza rappresentanza: « ...cunctis habi-tuntibus infra civitatem janue vestrisque filiis ac filiabus atque heredibus »; non altrimenti che un secolo primo nel regio diploma di Berengario e Adalberto \ Nè il « judex. jannensis », a cui è commesso il lodo del contratto, rappre- 1 C h art. i, 527. a II 30 maggio 1006 il v. Giovanni placita « in laubia soiarii domui episcopio » in causa del mon. di S. Stefano, ASL, i, 222. 3 Sebbene non rimangano documenti giudiziari dei visconti, delle loro potestà giurisdizionali fa cenno espresso la « Consuetudine » del 1056: « ...non debeant dare aliquod foderum... nec placitum nec ad marchiones nec ad vicecomites nec ad aliquem illorum missum ». V. oltre a pag. 78, a proposito del titolo « caput malli » dato al visconte Guglielmo Embriaco. * L. /., i, 2 sgg. 12. Il testo della Consuetudine è stampato erroneamente in calce al diploma di Berengario e Adalberto del 958, anziché di seguito al breve recordationis del giuramento del m. Alberto (cfr. Desimoni, Sul frammento di breve genovese scoperto a Nizza, in ASL, i, p. 130 n.). Nel sommario del L. J. il m. Alberto è detto estensis marchio », ma, secondo la genealogia del Gabotto, trattasi di Alberto [I] figlio di Oberto-Obizzo [I] del ramo malaspi-niano; un contemporaneo Alberto estense non potrebbe essere che Alberto-Azzo [II] il quale non è però figlio di un Obizzo ma di un altro Alberto-Azzo [I]. 6 L. J. i, 2. LA MARCA DELLA LIGURIA ORIENTALE 73 senta, come ha creduto il Desimoni, un magistrato supremo, depositario d’ un novello ufficio politico al contrario, egli è un superstite magistrato della vetustissima costituzione della « civitas »; e se è vero che il rapporto del marchese con l’università cittadina ha formula di privata obbligazione, il testo contiene sostanzialmente una dichiarazione di diritto obiettivo da parte del primo, in che persiste la funzione d’un potere sovrano. Non ancora dunque nella città le manifestazioni positive del « comune », ma il « lapsus » di tutti gli istituti dello stato medioevale, e insieme dell’antico ordinamento cittadino, che nel 1056 agonizza con la marca. Il comune, prima che operazione politica, è processo di diritto privato e patrimoniale nel seno del cèto feudale cittadino, personificato principalmente nei visconti, che, in duplice lotta contro i poteri superstiti dello stato riassunti nella marca e contro la « civitas », definisce i suoi privilegi di classe'-. Di questo avvenimento perii quale si elaborano, più che le forme mutevoli e caduche del governo cittadino, gli elementi della moderna società capitalistica ci occuperemo sommariamente per quanto riflette il declino della marca. La capitola/ione dei marchesi del 1056 era stata preceduta e preparata da un atto d’importanza e significato solenni, la composizione dei visconti con il vescovo per le decime nel 1052 :ì. I visconti vi compaiono divisi nei tre rami di Car-mandino, Manasseno, delle Isole, senza segno di costituzione e di rappresentanza consortile: ma l’unità gentilizia (intimamente costituita sopra il possedimento indiviso delle antiche regalie) è rappresentata nell’ atto dal vincolo sacro 1 Desimoni, 1. c. 8 Ometto per brevità le indicazioni bibliografiche della letteratura intorno alle origini della « Compagna » genovese (Desimoni, Olivieri, Belqrano, Heyd, Lustio, Heyck, Doneaud,Sieveking/Imperiale, GABOTTOecc.) e della polemica dell’ultimo ventennio sulle origini del comune » in generale, nella quale è fatto frequente ricorso alla storia genovese. 3 In Canale, Nuova ist. della Rep. di Genova, i, pp. 409· 10. 74 UBALDO F0RMENTIN1 che li collega intorno alla chiesa di San Siro, la vecchia cattedrale, dove riposano i corpi dei loro maggiori. Il testo li definisce soltanto un gruppo di potenti, ma i titoli di sovrana delegazione di cui sono investiti sono richiamati dalla formula « prò amore domini imperatoris » con la quale essi rogano; e le decime, di cui confessano il debito e del cui rifiuto s’ emendano, sono dedicate dal vescovo all’abbazia di San Siro, della quale sono avvocati, quindi simbolicamente restituite al gentilizio. L’atto commemora le antiche lotte fra le due parti ed implicitamente le dichiara sedate. Di queste lotte non abbiamo nessun racconto negli atti e memorie genovesi, ma non è impossibile rintracciarne qualche indizio. Se veramente il trasferimento della cattedrale da S. Siro a S. Lorenzo, cioè dal suburbio alla città, è avvenuto, come vuole la tradizione, sulla fine del x secolo \ questo fatto può considerarsi un episodio capitale di quella lotta. Il vescovo si riduce nella cerchia immune della città sottraendosi alla giurisdizione territoriale dei visconti, la cui situazione extra moenia prima della metà del secolo xi è stabilita da molte prove, anche dai cognomi delle tre grandi diramazioni famigliar! sopra ricordate, intitolate appunto da castelli suburbani. Entro le mura la curia episcopale assorbe gli antichi uffici amministrativi della città, e questi si trasformano in feudi d’ufficio, dando luogo a dinastie di vicedomini, avvocati, giudici, « pares curiae » investiti particolarmente della colletta delle decime pievane e della « decima maris ». Questo dazio vescovile è sembrato al Sieveking di istituzione relativamente tarda2, ma senza 1 Cfr. Belgrano, lllustr. delR. A., asl ii-I, pp. 427 sgg. Contro l’opinione tradizionale il B. retrodata la traslazione alla seconda metà del secolo x, quando fu trasferito in S. Lorenzo il corpo di S. Romolo. Ma Pargomento che il vescovo Sabatino non avrebbe per fermo eletto a stanza del prezioso deposito altro tempio fuor di quella alla cui custodia si fosse trovato ei medesimo co’ suoi canonici » è di dubbio valore. * Sieveking, Studio sulle finanze genovesi nel M. E., asl, xxxv-i, p. 17. __la MARCA DELLA LIGURIA ORIENTALE_75 prove. Se si pensa che la politica imperiale nei secoli ix e x ha gratificato chiese e monasteri, specialmente nell’Italia superiore, di monopoli e dazi portuali *, mentre a Genova queste regalie non uscirono dalla famiglia dei visconti, sorge il sospetto che P introduzione d’ una imposta vescovile sul traffico navale sia stata anch’ essa uno degli espedienti della lotta contro i visconti, abbia avuto, cioè, non solo una ragione fiscale, ma un motivo politico. Ora, il gruppo dei più antichi ufficiali della curia è uscito anch’ esso dal ceppo dei visconti ? Gli alberi del Belgrano non hanno chiarito del tutto questa questione genealogica. Fra le famiglie che il Belgrano non è riuscito a legare a nessuna delle tre grandi diramazioni viscontili2, alcune, in memorie del secolo xm 3, sono dichiarate «de nominibus vi-cecomitum »; particolarmente importanti per la nostra discussione, i Porcelli, discendenza degli antichi vicedomini della Chiesa 4, i Guerci, ramo dei Guarachi il cui capostipite « Waracus » troviamo già nel 1005 in funzione di giudice vescovile5. Può darsi dunque che all’inizio delle lotte fra visconti e vescovo una parte di quelli abbia tenuto il partito del secondo e dato luogo ad un ramo cittadino distinto dai foranei, Carmandino, Manasseno, delle Isole. Comunque la fonte innanzi ricordata indica sicuramente alcuni discendenti di antichi « pares curiae », quali i Grimaldi, come estranei all’agnazione viscontile6. SCHAUBE, Storia del comm. dei pop. latini del Med., in Bibl. dell'Economista, Serie v, xi, pp. 9-129; Hartmann, Zur Virtscha/ts-geschichte It. ini friViem Mittelalter, Gotha, 1904, pp. 74 sgg. 3 Belgrano, in asl, ii-I, Taw. xxxvi-xlix. Privilegi ed acquisti delle cinque compere del peagetto ecc. p. 23 (anno 1236); cfr. ASL, i, 281-2. 4 Belgrano, Tav. xliii. Un Vicedominus » senza nome è ricordato in carta del 1158 come avo di Guglielmo Porco (Chart. n, 279); che si tratti di un visdomino del vescovo può argomentarsi dai rapporti beneficiari e feudali dei discendenti con la Curia. 5 V. il placito 30 maggio 1006 celebrato dal vescovo in Genova con la sottoscrizione Wuuraco judex interfui » (ed. ASL, i, 222-23). 6 Peagetto, p. 31; cfr. Sieveking, op. cit. p. 11. 76 UBALDO FORMENTINI Non sembra dubbio perciò che la lotta ricordata nell’atto del 1052 abbia avuto attori due opposti gruppi signorili; dal che appaiono nella luce più chiara le conseguenze della pace ora detta : i visconti entrano nella città e per contro l’influenza cittadina si dilata nel suburbio; i marchesi abbandonati dai visconti sono respinti nel contado; i signori esterni e interni vengono a pareggiarsi d’ordine e di grado e s’ uniscono a formare lo stuolo dei vassalli « qui fidelitatem faciunt domino episcopo », le cui discendenze saranno enumerate poi nel Registro Arcivescovile circa la data del 1140 1. Questa federazione gentilizia si svolge da prima nel campo del diritto privato, patrimoniale e famigliare. Ne abbiamo una bella testimonianza nel Registro Arcivescovile, nel prologo del capitolo sulla ricuperazione delle decime, dove è detto che queste « sic inique et confuse a laicis possidebantur ut a multis eorum qui possidebant filiabus suis nubentibus pro patrimonio traderentur et a quibusdam velut seculares possessiones venderentur et distraherentur »2. Tramutamento in patrimonio privato di titoli beneficiari d’origine vescovile che ha pieno riscontro nella uguale conversione dei dazi e introiti goduti dai rami viscontili per avita delegazione e investitura sovrana, e perciò rivela un procedimento generale. La norma giuridica intrinseca del consorzio è la legge romana unanimemente professata dagli ascritti3. Si rilevi 1 ra, pp. 24 sgg. * Ibid. p. 15. 3 Nel sommario della citata monografia del Baudi di Vesme anche i visconti genovesi sono, con gli Obertenghi, compresi nelle diramazioni del ceppo supponide; manca nel lavoro rimasto incompiuto la trattazione particolare dell’argomento. Senza conoscere le prove del B. troviamo ostacolo alla sua tesi nella costante professione di legge romana dei visconti. Le preoccupazioni dell’elemento cittadino genovese di fronte alla creazione della nuova marca, nella metà del secolo X ' » sono documentate dal diploma di Berengario e Adalberto del 958, in singolare coincidenza di tempo con l’apparizione del primo marchese (945-951). Non è improbabile che una transazione fra città e marchese LA MARCA 'DELLA LIGURIA ORIENTALE 77 dal brano sopra riferito del Registro Arcivescovile P efficacia singolare della legge romana, in relazione allo stato giuridico delle donne, come mezzo di comunicazione e diffusione fra gruppi diversi della sovranità inerente ai diritti patrimoniali della specie sovraccennata 1 ; la partecipazione, per esempio, ai privilegi fiscali dei visconti di famiglie estranee al loro ceppo è senza dubbio la conseguenza di matrimoni. Si ha così, lungo la seconda metà al secolo xi, costituita nella trama naturale dei rapporti famigliari una vera società politica, le cui manifestazioni positive e autonome non possono tardare. Questa fase aristocratica della formazione del comune si svolge con la mediazione della sovranità vescovile. Il periodo fra P uscita dei marchesi dal suburbio e P esordio della « Compagna » include un vero dominio politico e giurisdizionale del vescovo, sebbene, come è noto, manchi abbia riunito il nuovo ufficio viscontile (prima notizia: 952) con la carica procuratoria nella famiglia romana * che teneva questa da antico. Il Gabotto dava per dimostrata questa riunione d’uffici nei discendenti di Ydo visconte (Le origini signorili del Comune, BSBS, vili, 137), ma aderiva poi (/ marchesi Obertenghi, p. 4) alla tesi genealogica del Baudi; nel che sembrami implicita una contradizione. 1 L’importanza dello stato giuridico della donna nei rapporti economici e sociali in Genova è testimoniato dalla « Consuetudine » del 1056 che espressamente abroga la legge longobarda anche per le donne di questa nazione: «...femina longobarda vendebat et donabat res suas cui volebat sine interrogatione parentum suorum ecc. Quanto alla partecipazione delle donne ai diritti feudali nei consorzi signorili di legge romana, vedasi il diritto della successione feudale femminile espressamente rivendicato dai « domini » di Vezzano in occasione della lite fra i Malaspina e il v. di Luni nei primi del secolo xm (doc. in Mur. A. E. I. 181 ). Per matrimoni e successione femminile numerosi « lombardi * lucchesi infatti s’ infiltrano nelle consorterie feudali della Liguria Orientale. Vedasi anche la traccia della discendenza feudale femminile in molti cognomi di domini * p. es. < de Donna », « de donna Matelda (Vezzano), de donna Emma» (Carrara), de Matrona», de Turca* (Genova); notisi anche la leggenda sulle origini di casa d’Oria. 78 UBALDO FORMENT!NI la giuridica istituzione di un comitato vescovile 1 ; ne rimane il segno postumo, per non dir altro, nelP autorità deferita al vescovo in caso di vacanza del consolato 2. Ma la giurisdizione viscontile non fu mai formalmente dimessa e forse continuò ad esercitarsi in concorrenza con la vescovile nel suburbio: il nomedi « Caput malli» dato al visconte Guglielmo Embriaco nel racconto della Crociata3 mi sembra ne rechi una traccia. Comunque il cumulo di poteri versati e diffusi dai visconti nella società gentilizia precomunale fece sì che la manifestazione politica istituzionale di questa, la «Compagna », anche se contratta « in honorem episcopatus », non devesse richiedere al vescovo nessuna investitura e delegazione di sovranità. E questa è la ragione perchè, a Genova come a Pisa, la giurisdizione vescovile non riuscì a definirsi ed a prevalere. Ma insieme anche la fase gentilizia declina sotto P impulso di forze economiche e politiche scaturenti sovratutto dalle funzioni commerciali e marittime della città. I privilegi economici del cèto consolare assumono la più tipica definizione nel monopolio dell’armamento e del commercio navale, singolare trasformazione dei poteri aviti, fiscali e militari, appartenenti al nucleo viscontile. La « Compagna » è in primo luogo una società d’armatori avente lo scopo della guerra navale. Ma la guerra richiede uomini e capitali, i quali vengono attinti dal novero dei proprietari e artigiani liberi, dei «servi regis et servi comitis», dei «servi vel aldiones ecclesiarum » che nelle Consuetudini del 1056 avevano conquistato libertà da ogni condizione ascrittizia e libellaria. Questa classe media entra nella nuova vita politica della « Compagna », più che per impulso proprio, in forza 1 Cfr. Olivieri, Serie dei consoli del Comune di Genova, ASL, I, pp. 160 sgg. * Con atto di data imprecisata (post 1130) Guglielmo ed Obizzo Malaspina giurano l’abita'colo «....si consules non fierint per licentiam januensis episcopi * (ed. ASL, I, pp. 325-27). s Ann. Gen. ad ann. 1101. LA MARCA DELLA LIGURIA ORIENTALE 70 di energiche requisioni promosse dal cèto superiore. Come in Roma, dove F uguale necessità era determinata dalle relazioni ultramarine fra cui si svolge dalle più lontane origini la costituzione cittadina1, opera nel comune genovese la « conscriptio », rappresentata nel suo pieno vigore dai precetti del Breve consolare del 1142, i quali escludono il renitente dalla protezione legale e gli comminano il boicottaggio: «... laudemus populo ut personam eius et pecunium suam per mare non portet »2. Così già dalle prime manifestazioni registrate negli Annali la « Compagna » sembra aver perduto il carattere di « conventus » gentilizio per assumere la forma propria d’ un organo di classe. Le pretensioni della marca mantenute da alcuni rami obertenghi di fronte alla Città, ultimamente risuscitate dai Malaspina, con singolare anacronismo, nella seconda metà del secolo xii 3, non furono senza importanza nelle vicende dell’espansione vescovile e comunale in Riviera. Ma in realtà i marchesi non vi compaiono che in veste di signori rurali, come vassalli foranei dell’arcivescovo'1, come coscritti della « Compagna », infine come concittadini di mala fede e ribelli. Oli stretti vincoli beneficiari mantenuti con la classe consolare in virtù degli antichi rapporti d’ ufficio, se non di sangue, coi visconti, non giovarono loro per prendere nel comune la parte che vi presero altri signori esterni, per esempio i conti di Lavagna. Se non fosse fuori dei limiti di tempo prefissi a questo studio addentrarci nelle vicende dei secoli xii e xm, vedremmo che, anche in questa fase postuma della marca, il punto debole degli Obertenghi fu la regola famigliare e particolarmente successoria a cui prestarono fede; irreducibili alla legge romana, essi rima- 1 È noto che il primo trattato commerciale fra Roma e Cartagine risale al 510 a. C. (Polyb. Ili, 22-26). 3 Ed. MHP. ii (Leges municipales); cfr. il breve del 1157, Ibid. XVIII, 13. 3 V. il citato diploma di Federico I ad Obizzo Malaspina del 1164. ' 4 RA, p. 26: « De hiis qui sunt extra civitatem *. 80 UBALDO F0RMENT1NI sero estranei al processo gentilizio della feudalità cittadina e rurale che seppe sostituire agli scadenti legami agnatizi nuovi vincoli politici che costituirono per secoli la classe dominatrice del Comune. A Pisa l’origine contrattuale del comune con le sue tipiche manifestazioni: la temporaneità dell’istituto, il limite incerto ed oscillante fra il diritto privato dei comunisti e il pubblico, il carattere privilegiato e monopolistico della classe consolare, aristocrazia d’armatori proprietari ad un tempo di torri e di navi, infine, il processo antitetico del comune di fronte alla marca e parallelo con lo svolgimento e con l’espansione della potestà vescovile sono stati chiariti dal Volpe nella nota opera sulle istituzioni comunali pisane a cui ci riferiamo senza particolari rimandi l. Determinare concretamente nei ceppi e nei rami questo cèto era il compito che rimaneva agli storici di Pisa dopo quel lavoro, e lo ha assolto in parte il Volpe in nuovi studi, nei quali, senza rinnegare la posizione teorica assunta nella polemica contro il Gabotto2, ma subendo l’influenza di questi scolpisce l’azione protagonistica dei visconti nel comune. A prescindere infatti dalla partecipazione largamente documentata dei membri delle famiglie viscontili nel consolato, le funzioni giudiziarie e militari dei visconti perdurano nella primitiva fase comunale riassunte nell’autorità di un « vicecomes major», il quale, ancora nel 1143 nell’impresa delle Baleari, appare, secondo il racconto del Liber Maiolichinus,iuor di ogni ufficio elettivo, nell’ armata navale pisana in posizione indefinita con le insegne dell’ antica potestà militare: « vice qui comitum campum petit » 3; nella stessa veste in che un altro visconte è rappresentato davanti a Mehedia nel 1089 dall’ignoto cantore di questa impresa. Vuol dire che il vi- 1 Volpe Studi suite istituzioni comunali a Pisa, in «Annali della R. Scuola Normale di Pisa » xv, Pisa, Nistri, 1902. 2 V. la nuova edizione degli scritti polemici sulle origini del Comune in Medio Evo Italiano, Firenze, Vallecchi, 1923. 3 Liber Maiolichinus, v. 2827, ed. CaLISSE, in fisi, xxix; cfr. Volpe, M. E. It. 67 sgg LA MARCA DELLA LIGURIA ORIENTALE 81 sconte fu veramente, secondo la felice espressione del Volpe, 1’ intermediario fra il Comune nascente e lo stato feudale, quale depositario del potere politico e della rappresentanza pubblica per delega ed investitura marchionale e imperiale. II che implica uno svolgimento anteriore nel quale questi poteri politici si sono concentrati nei visconti e trasformati in diritti famigliari ; eliminazione del comes, assunzione dei poteri amministrativi e finanziari del gastaldato, e infine lotta ed emancipazione dai marchesi ; fotta a cui, è vero, le forze cittadine concorrono, collimando con i tentativi dell’impero di trovare nella città una nuova base ma che pur sempre si personifica nel gruppo viscontile. Detto ciò concordiamo col Volpe che allo stato degli atti non sia possibile riunire tutte le famiglie consolari pisane nel solo ceppo dei visconti; anzi, sull’esempio di Genova, riteniamo che anche a Pisa abbiano concorso alla formazione dell’aristocrazia comunale famiglie aventi titolo direttamente e originariamente da benefici vescovili ; purché s intenda non un elertiento indistinto, eterogeneo, collegato da rapporti unicamente contrattuali e da variabili coincidenze d’interessi-, sibbene un gruppo organizzato secondo determinati rapporti naturali e giuridici. Se tali sono le luminose analogie della storia comunale di Genova e di Pisa non ne sono da trascurare le divergenze, le quali riflettono principalmente la diversa costituzione e il diverso processo di disintegramento della marca. La marca toscana, immune dalle forme consortili che spezzarono innanzi tempo la ligure, conservò con maggior vigore il carattere e gli uffici originali, rimanendo per tutto il secolo xi ed oltre un organo politico dell’impero. Ma la partecipazione della marca toscana alla grande politica europea dell Impero portò, come facile conseguenza, la caducità delle dinastie marchionali, sì che di buon ora vennero meno fra marchesi e visconti i vincoli benefi- 1 Davidshon, Storia di Firenze, i, p. 199. 1 Volpe, M. E. lt. p. 79. 82 UBALDO FORMENTINI___ ciarì che avevano unito i secondi con le dinastie più remote, vincoli divenuti il nesso prevalente d’ogni soggezione d’ufficio e che in Liguria durarono fino alla metà del secolo xi ed anche in pieno svolgimento comunale furono rappresentati, sia pure sotto semplice titolo patrimoniale, dai « jura marchionum adversus vicecomites » che il comune stesso salva e riconosce1. L’Impero, inoltre, assente o quasi in Liguria, tende in Toscana a stabilire rapporti diretti coi visconti e ne favorisce l’emancipazione dai marchesi, investendoli di poteri diretti, eh’ essi poi diffusero e versarono nel « comune ». Ora dunque, se un atto d u-guale significato e importanza della capitolazione giurata a Genova dai marchesi nel 1056 è avvenuto a Pisa, questo può essere rappresentato dalla « consuetudo tempore Ugonis marchionis » ricordata nel diploma di Enrico iv del 1081 , essere cioè riferito circa alla fine del secolo x. Certo che già nei primi del secolo xi, quando a Genova i visconti dal suburbio combattono contro il vescovo, a Pisa l’unione delle due forze è avvenuta, cioè la nuova « civitas » è formata. La crisi del potere marchionale a Pisa fu certamente affrettata dalle rivalità civiche con la vecchia capitale della marca. Infatti le notizie del Breviarium pisano, la cronaca di Bernardo Marangone ed altre fonti fanno coincidere le prime lotte di Lucca contro Pisa con le più antiche spedizioni navali di questa città 3. Il grande « exercitus lombar-dorum », mosso contro Pisa nel 1005, fu certamente costituito di milizie feudali lucchesi, ma proprio, come crede il Volpe 4, fu uno stuolo armato dal vescovo ? Una attività militare del vescovo di Lucca, a cui fosse estraneo il potere militare della marca, non è facilmente pensabile nel tempo; così, anche queste lotte più antiche tra 1 asl, 134 n. il. 2 Davidshon, op. cit. i, pp. 188 sgg. 3 Bernardi Marangonis, Vêtus chron. pis., asi, vi, 2, 4; Breve pis. his. ed RiS, vi, 167; ecc. 4 Studi sulle istit. coni, a Pisa, pp. 26-27. _LA MARCA DELLA LIGURIA ORIENTALE 83 le due città sono da considerarsi episodi della emancipazione dei Pisani dalla marca, intesi nel momento storico per « Pisani » visconti e vescovo. Risalire, con i risultati di queste sommarie ricerche ai tempi ed alle circostanze della spedizioue contro i Mori di cui fu capo Adalberto n ci dà modo di sorprendere all’origine la crisi della marca genovese nelle sue manifestazioni propriamente politiche, così come ne abbiamo posto in luce le cause di intima disgregazione. Adalberto π guidò nel 1016 le forze genovesi come capo non ancora dimesso della marca; e la prova obiettiva 1 abbiamo nel rapporto di sudditanza verso i marchesi in cui troviamo originariamente nella Corsica i visconti genovesi, il cui stabilimento concorda in ordine di tempo con la data della spedizione accennata1. Resta da vedere perchè il comando militare s’imperniasse in Adalberto n ad esclusione degli altri contemporanei Obertenghi (esclusione certificata dal fatto esposto nel primo capitolo che solo i discendenti d’Adalberto ebbero feudo antico nella Corsica), mentre l’autorità marchionale era esercitata contemporaneamente da tutti i consanguinei. Infine è da spiegare come lo stesso personaggio potesse assumere il comando di forze estranee alla circo-scrizione della marca di cui era titolare, in particolare di forze pisane e toscane. Sul primo punto circostanze specifiche spiegano l’inattività intorno al 1016 di più Obertenghi. Alludiamo alla 1 Cfr. U. Assereto, Genova e la Corsica, Bastia, 1092, pp. 18 segS'· Secondo 1 A. la più antica signoria dei visconti genovesi in Corsica iisalirebbe a Lanfranco Avvocato (viv. nella seconda metà del secolo XI) autore delle linee Avogari, Pevere, Turca, formanti il consorzio di Capo Corso. I De Mari, altro ramo viscontile, vi avrebbero acquistato diritti solo nella seconda metà del secolo xm. Ma i documenti prodotti dal De Cesari Rocca (Origine de la rivalité ecc. pp. 26 sgg.) per dimostrare che i diritti dei De Mari precedevano questo acquisto, mi sembrano probanti. In tal caso si potrebbe risalire ai fratelli Dodone ed Ingo. vivv. nella prima metà del sec. xi, caposti-piti delle due diramazioni 84__UBALDO FORM ENTI NI sollevazione contro Γ Imperatore del 1014 che portò alla cattura e alla fuga di tre o quattro membri della casa. L’incertezza sul numero e sull’ identità dei partecipanti al-1’ impresa perdura1; tre fratelli, quindi i tre figli d’Oberto [11], secondo la versioni di Thietmaro 2, quattro, secondo la fonte d’Arnolfo3, con l’aggiunta d’un Adalberto che dovrebbe essere il nostro Adalberto II; il quale dunque, se capitanò la spedizione del 1016 fu quegli, che sfuggì alla cattura o il primo dei prigionieri liberati, giacché 1’ ultimo non fu dimesso che nel 1018 l. Ma forse le nostre prove sulla partecipazione d’Adalberto alla guerra contro Mugàhid recano un nuovo indizio per giudicare equivoca la notizia di Arnolfo, il quale, secondo pensa il Gabotto, può aver fatto d’ una due persone, ingannato dal duplice nome di Alberto-Azzo [1]5. Tuttavia queste circostanze non giustificherebbero pienamente la esclusione dei consorti dal beneficio d’un acquisto fatto da uno nell’ esercizio d’ un potere indiviso, se la tendenza del consorzio non si fosse già pienamente affermata nel senso della individualizzazione delle famiglie e delle separazioni dei patrimoni, dando luogo in pari tempo ad una attività politica singolare dei vari capostipiti trascendente i confini territoriali della giurisdizione comune. Così, come vediamo gli autori degli Estensi diffondersi e stabilirsi lungo l’Adriatico da Este ad Ancona, i Pelavicino fortificarsi nell’Emilia occidentale, i Malaspina vagare inquieti da cittàa città (raccoglieranno poi in Lunigiana gli ultimi avanzi predio comune), ci appaiono Adalberto n e i suoi discendenti in singoiar posizione rispetto agli altri rami della casa per svolgere, come fecero, le loro fortune sul mare. E le prove di ciò, come ora vedremo, portano luce anche 1 V. la bibliografia in Gabotto, / marchesi Obertenghi, pp. 33, 36 e nota. 1 Chron. vii, 1, in mgh, Script. in, 836. 3 Gesta Archiep. mediol. MGH, Script, vili, 11. 4 Thietm. Chron. vili, i, mgh. Script. 861. 5 Gabotto, Per la Storia di Tortona, p. 80 n. LA MARCA DELLA LIGURIA ORIENTALE sullci secoiida parte della nostra inchiesta; spiegano cioè come Adalberto potesse essere il capo di armate anche estranee alla sua marca. Tralasciamo la circostanza che il titolo di marchese della Liguria orientale si tramuta specificamente nel titolo di marchesi della Riviera e di « marchiones Janue » nei discendenti d’Adalberto IP; sta il fatto che noi troviamo questa casa stabilita lungo il secolo XI in tutti i luoghi della Riviera ligure da cui poteva partire un’attività marittima e insieme largamente diffusa nella costa tirrenica fino al Lazio. Le donazioni all’Abbazia del Tino della vedova di Adalberto Il e dei figli Oberto, Guido e Adalberto j, disegnano ed integrano un gruppo di fondi contigui comprendenti le isole, Portovenere, il Varignano, Cigliano, Panigaglia, il Fezzano da mare a monte, racchiudono cioè per intero la zona naturalmente portuosa del golfo della Spezia. Negli atti suddetti e nell’atto di fondazione del monastero di S. Maria di Castiglione più volte ricordato sono collegati a fatti e possessi della stessa casa, Vernazza, Monterosso, Ceula (Levanto), Moneglia, Sestri, Lavagna, Quinto. L’attività marittima di tutti questi luoghi è documentata ab antiquo ed è sicuramente riferibile in origine a consorzi di « milites » i cui legami con i discendenti d’Adalberto II sono pure provati. , Portovenere è la più antica base navale ligure delPÀlto medio evo, succeduta a Luni e organizzata forse allo stesso tempo di quella genovese nel periodo carolingio3. Nei 1 In atto del 119o « Andrea Blancho marchione palodi, corsice, masse, et marce janue ». rv, c. 40. doc. iv. 8 Falco, Le carte del monastero di San Venerio del Tino, BSSS, XCl-1, docc. 2, 3, 4, 5, 7,9, 11, 14. 3 11 primo documento di Portovenere come scalo marittimo è dell’anno 801 (Ehinardi, Ann. MGH, i, 160); nel racconto leggendario dell’incursione normanna su Luni, Portovenere è il punto d’approdo della flotta corsara (v. Sforza, La distruzione di Luni nella leggenda e nella storia, in « Mise, di St. It. » Se. Ili, T. xix). Cfr. Heyck, Genua and seine Marine, Innsbruck, 1886, pp. 149 sgg.; Formentini, Questioni d1 archeologia lune use, MAL, iv, pp. 112 segg. S6__UBALDO FORMENTINI primi del secolo XI1 vi si stabiliscono i Genovesi per acquisto fattone dai signori di Vezzano i quali, come dimostra un atto del Tino non registrato dal Gabotto nel sommario dei documenti che riflettono Adalberto II, ripetono da questi diritti sul circostante territorio1; e i Vezzanesi, diffusi fra Portovenere e Sestri, sono armatori e militi di mare, come da più notizie e particolarmente dallo stesso atto di vendita citato dove i venditori assumono specificamente l’obbligo della milizia navale : « Et si fecerit hostem per mare usque in fredum, et nobis requisitum fuerit a Comuni, nos ei dabimus consilium et adiutorium de nostris personis vel de nostris hominibus » 2. Gli Annali Genovesi documentano la partecipazione alla guerra marittima, nella seconda metà del secolo XII, di galee di Vernazza, di Sestri, « Paxani », « Rapallinorum » ecc.. Questa non è attività di comuni, ma di consorzi signorili entrati di mano in mano nella Compagna; i signori di Ponzò da Vernazza, i Passano da Levanto e da Moneglia, i Lagneto da Monterosso, i conti di Lavagna dal loro capoluogo, da Sestri e da Rapallo, conti che nelle loro vetuste tradizioni vantavano imprese marittime contro i Saraceni 3; tutti legati da vincoli ben noti con la casa Ober-tenga e particolarmente con il ramo di Corsica. Verso la Toscana non è il caso di ricordare, fra i luoghi ma ritti mi, Massa, principale possesso della casa di Corsica che ne fece anzi suo titolo. La prossima Versilia è ricordata genericamente nell’atto di Castiglione tra i possessi adalber-tini : noi sappiamo infatti che ancora nel secolo XIII i signori della Versilia, i Corvaia, i Vallecchia, i Porcari ecc., cioè il gruppo più potente dei « lombardi » attori esterni della storia di Lucca e di Pisa, nell’ atto solenne di con- 1 Agosto 1055: donazione di Ingo, figli e nipoti signori di Vezzano, al mon. del Tino di quanto era pervenuto al fu Conone loro autore da Adalberto marchese (Falco, op. cit. doc. 8). 2 Doc. (agosto 1054) in Sforza, La vendita di Portovenere ai Genovesi, GSLL, in, 345. Cfr. Federici, Della famiglia Fiesca, pp. 52. __LA MARCA DELLA LIGURIA ORIENTALE 87 sorziamento fra loro stipulato nel 1219 eleggono come loro arbitro permanente, insieme con il vescovo di Luni, il marchese Guglielmo di Massa tardo nepote di Adalberto II i. La stessa donazione adalbertina a Castiglione novera beni in tutta la Toscana, segnatamente nei comitati marittimi di Pisa e Volterra. Una parte della terra obertenga pisana era stata alienata da Adalberto II nel 1002, come abbiamo detto, ma una parte era venuta in possesso di un suo fedele e forse consanguineo, Ugo conte di Lavagna2; nè è da trascurare la comunanza d’origine che, secondo la geneologia leggendaria dei Lavagna, esiste con gli Oppe-zinghi pisani : certo è infine che Adalberto aveva conservato beni e relazioni nel territorio pisano, perchè vi fa cenno nel citato documento di Castiglione, indicando luoghi e fondi. Troviamo poi i discendenti d’Adalberto nella prima metà del secolo XII padroni del castello e della corte di Livorno, dominatori quindi del sito dell’ antico Porto Pisano dove raccoglievasi in numerose ville il maggior nucleo foraneo della popolazione marinara di Pisa 3. Vi compaiono questi marchesi, Guglielmo Francigena e Oberto Brotoporrada, in fiera contestazione coi vescovi pisani, a loro volta aventi ragione sul castello da una donazione della contessa Matilde all’Opera del Duomo; e ne mantengono il possesso contro sentenze imperiali e bolle 1 Metti, e doc. per servire alla storia di Lucca, in, pp. 187-192. a Baudi di Vesme, op. cit. pp. 204 sgg. 3 Vi voli, Annali di Livorno, Livorno 1848, I, pp. 39-79, 106-110, 114-122; VOLPE, Studi sulle istit. coni, a Pisa, pp. 89 sgg.; F. Schnei-DKR, Die Reichsvenvaltung in Toscana, Rom, W. Regemberg, 1914, pp. 248-49. La corte di Livorno, data nel 1103 dalla c. Matilde al-l’Opera del Duomo di Pisa, fu ceduta al vescovo Azzone nel 1121. Un posteriore diploma di Corrado II dichiara irrita e nulla la con- cessione di questa tenuta ai marchesi liguri. Da ciò si argomenta che la signoria obertenga in Livorno abbia avuto origine da un atto di concessione del v. Azzone posteriore al 1121, concessione contestata dal successore Balduino sulle cui istanze è spedito il diploma impe- riale accennato. Ma noi troviamo che, nonostante la suprema sentenza, il v. Balduino transige coi marchesi rinnovando loro la investitura 88 _ UBALDO FORMENTINI pontificie, indizio ch’essi difendevano possessi e ragioni dei padri. Se infatti il luogo « Territa » nominato nel documento di Castiglione come predio adalbertino non è Turrita, possesso obertengo nell’Aretino, potrebbe indicare il maggiore nucleo abitato del Porto Pisano che aveva ugual nome nell*Alto Medio Evo. Un solo, ma non trascurabile indizio delle relazioni feudali della casa ligure in Toscana nei primi del secolo XI l’abbiamo anche specificamente in Corsica, trovandosi uno dei signori di Bagnara, noto gruppo di feudatari pisani nell’isola, segnato nel 1077 fra i seguaci d’ un marchese Adalberto obertengo x. Se noi ora consideriamo che l’organizzazione militare al principio dell’ XI secolo aveva il suo fondamento nel « contractus » feudale, comprendiamo come il marchese Adalberto fosse quegli fra i grandi d’Italia che poteva realmente convocare nell’alto Tirreno una milizia navale, anche a prescindere dalle funzioni d’ammiraglio inerenti all’ ufficio ed alle tradizioni della marca di cui era titolare, il qual titolo lo erigeva tuttavia capo delle cèrne propriamente estranee alla gerarchia feudale che i visconti levavano dalla città, dove l’antica coscrizione militare non era mai del tutto venuta meno. Tutto ciò è chiaro per Genova dove il marchese era a un tempo il signore feudale dell’aristocrazia militare cittadina e il depositario del supremo potere politico; riguardo a Pisa, tenendo conto come elemento negativo dell’ indipendenza della città della propria marca, come elemento positivo dei vincoli feudali che il marchese ligure manteneva con la classe militare del contado, possiamo intendere che realmente le forze proprie della città (visconti-vescovo) abbiano partecipato alla spedizione da pari. Può darsi cioè che la posizione del marchese nell’ armata d’una terza parte del castello e della corte di Livorno; il che fa sospettare che anche il precedente atto del v. Attone non fosse stato che una eguale transazione con i marchesi, i quali vantassero sulla corte e sul castello diritti aviti, non pregiudicati dalla concessione matildina del 1103. 1 MuR. A. E. \, 250; cfr. De Cesari-Rocca, op. cit. pp. 6465. LA MARCA DELLA LIGURIA ORIENTALE 89 federale sia stata simile a quella che vediamo assumere nelle posteriori spedizioni navali pisane dal « vicecomes major », specie di soldato principe fuori del collegio dei « consules exercitus ». L’attività marittima cittadina di Pisa, prima che di Genova, appare, già all’alba dell’ XI secolo, l’opera d’una classe più vasta che non sia 1’ antica milizia feudale ; è tuttavia prematuro, a nostro giudizio, vedervi la manifestazione d’una « piccola aristocrazia feudale fra campagnola e cittadina », esclusa « qualsiasi azione di Principi e Pontefici1 ». L’ elemento militare del contado non poteva essere condotto alla guerra marittima dalla città, finché, con l’espansione territoriale del comune, questa non avesse creato esterni vincoli di cittadinanza; non prima dunque del secolo XII, tanto a Pisa come a Genova. Bensì questi militi potevano obbedire, come obbedirono nella spedizione del 1016, ad un principe, il quale, nel'caso, come duce e magistrato imperiale, forse anche, per il titolo avito di « defensor Corsicae », come investito d’una delegazione papale, era in pari tempo l’indispensabile elemento unificatore dell’alleanza fra citta e città. Questa e simili imprese federali italiane nel Tirreno non sono dunque, come spesso si giudica, la rivelazione miracolosa d’ un presentimento' nazionale smarrito poi, per deplorevoli equivoci e sordidi interessi, in lotte fraticide. Il dramma storico del secolo XI è un altro. Il fascio delle forze feudali e cittadine, strette nel pugno del ligure ammiraglio nel 1016, è forse l’ultima manifestazione piena dello stato medievale sopravivente nei poteri e nel prestigio della marca. Poco oltre nel tempo, il dissolvimento di questo grande ufficio scioglie la gerarchia feudale e insieme la vecchia costituzione cittadina, determina il moto fatalmente antiunitario del comune. (Continua) ubaldo formentini 1 Volpe, M. E. It.t pp. 70 sgg. GIUSEPPE ZAMBECCARI I. Del famoso anatomico, medico e naturalista pontremo-lese Giuseppe Zambeccari, che fu vanto dell’Ateneo pisano ed è gloria autentica della scienza italiana, non si conosceva, si può dire, che il pochissimo che ne aveva scritto Angelo Fabroni, lo storico illustre della gloriosa Università1. Fu solo qualche anno addietro che, avendo avuto occasione di fare alcune ricerche sull’ argomento, potei raccogliere intorno allo Zambeccari un più copioso materiale biografico, di cui mi valsi per una breve nota, comparsa, nel 1914, su un giornale politico di Pisa2, a proposito di una pubblicazione del Prof. Carlo Fedeli di quella Università, che, come è noto, è il più autorevole indagatore e ri-vendicatore dell’opera zambeccariana ed ha il merito grandissimo di aver richiamato, per primo, 1’ attenzione degli studiosi sulla personalità scientifica del grande pontremo-lese. Ma poiché di quel mio modesto scritto, ormai introvabile, mi sono pervenute, anche recentemente, varie richieste da parte di cultori degli studi zambeccariani, che accennano, oggi, a un nuovo e promettente risveglio, così, in attesa di poter dare una più compiuta biografia dello Zambeccari, ritengo opportuno ripubblicare di tale scritto la parte sostanziale, con quelle maggiori notizie intorno alla vita, alla famiglia e all’ opera scientifica, che sono consentite dall’indole di questa rivista. ' A. Fabroni, Hist. Academiae Pisanae, Pisa, 1795. Al Fabr. attinsero quanti, in seguito, scrissero dello Z., dal lunigianese E. Qekini, Meni. Stor. della Lunig., al Prof. C. Fedeli, che, però, più che la vita ne indagò l’opera scientifica. 2 Corriere Toscano, xxi, 9 genn. 1915. GIUSEPPE ZAMBECCARI 91 Giuseppe Zambeccari, contrariamente all’opinione diffusa, che lo riteneva nato a Pontremoli, vide la luce a Castelfranco di Sotto (Firenze), il 19 marzo 1655, da Bernardino Zambeccari e da Livia Maraffi, appartenenti entrambi a note ed antiche famiglie pontremolesi. Si legge, infatti, nel Registro dei battezzati di quella Collegiata: « A’ dì 19 marzo 1655. Giuseppe Mario Giovacchino di Bernardino di Pompeo Zambeccari, di presente Cancelliere di questo Comune, e di Livia di Giovan Francesco Maraffi, del suddetto legittima consorte, si battezzò questo dì suddetto da me prete Piero Guerrazzi, Vicario Proposto, compare Sig. Canonico Domenico Turi di Castelfranco » *. Dei Maraffi è nota la parte che essi ebbero nella storia di Pontremoli, durante i secoli xv e xvi, a proposito delle loro lotte coi Reghini ; e basterà ricordare che furono nobile, antica e potente famiglia pontremolese, ora estinta, da cui uscirono anche non pochi eccellenti soggetti, segnalatisi nei pubblici uffici, nelle professioni liberali e negli studi. 1 Zambeccari, essi pure estinti, sebbene di più recente fortuna, non tardarono a conquistare, a loro volta, lustra e larghezza di censo. Secondo il notaro e annalista pontremolese Ser.G. Rolando Villani, fiorito nel secolo xvi, essi sarebbero oriundi di Dozzano, villa presso Pontremoli2; e il primo di tale famiglia, di cui ci è rimasto notizia nelle memorie pontremolesi, è quel « lohannis Becari », ricordato in un documento del 1471, a proposito di una casa che i suoi eredi possedevano, a quel tempo, nella Parrocchia di S. Nicolò3. Certo è che i Zambeccari cominciarono a figurare nella vita pubblica pontremolese sul principio del cinquecento ; nel qual tempo, come risulta dall* Estimo del 1508, 1 Reg. dei Battezzati della Collegiata di Casteltranco di Sotto. a « Stirps de Zambeccaris ex Villa Dozani », Cfr. Protocolli di G. R. Villani in Ardi. Notar, di Pontremoli- 3 Carte delPArcli. Maraffi, presso Manfredo Giuliani a Pontremoli. 92 P. FERRARI che è il più antico che ci sia rimasto di Pontremoli, oltre che in quella di S. Nicolò, dove la casa suddetta era posseduta da un Geminiano del fu Pietro Zambeccari, essi erano diramati anche nella Parrocchia di S. Geminiano, con Lorenzo e Giacomo del fu Cristoforo Zambeccari, tutti già saliti a notevole grado di fortuna. E così il 4 maggio 1526, G. Giacomo e Domenichino Zambeccari compaiono tra i bar-genses, intervenuti al Consiglio Generale per provvedere in merito alle contese sorte tra i pontremolesi e i rurales; e PII dello stesso mese, tra i capi famiglia « alicuius conditionis et gradus terrae Pontremuli », partecipanti, per lo stesso motivo, alla seduta del Consiglio Generale, sono ricordati il medesimo G. Giacomo, Ippolito e Giacomo Zambeccari, il quale ultimo, in detto anno, fu anche Massaro del Comune di Pontremoli. Un Gerolamo Zambeccari, nel 1547, fu implicato, con altri pontremolesi, nella congiura di G. Luigi Fieschi, e ne soffrì il bando e la confisca dei beni, venendo, poi, graziato nel febbraio delP anno successivo. Pietro Zambeccari fu giureconsulto di gran fama nel cinquecento e, oltre a vari pubblici uffici coperti in patria, fu a Bologna e a Ferrara, dove insegnò anche diritto e pubblicò apprezzate consultazioni legali. Achille e Ottavio Zambeccari furono avvocati concistoriali a Roma e vi godettero ottima fama ; e molti altri della famiglia, in quel tempo e dopo, si segnalarono nelle professioni liberali, negli uffici, negli studi e nelle armi. Tanto che il Villani, costante esaltatore delle glorie pontremolesi e diligente annotatore delle famiglie, degli uomini e ‘delle cose del suo tempo, scrivendo nel 1568, attesta che i Zambeccari erano « casatae nobiles inter alias in Pontremulo et ex eis fuerunt in humanis personae lite-ratae et armigerae et doctores ». Così, tra le personalità più in vista a Pontremoli nel 1570, lo stesso Villani ricorda Geminiano Zambeccari, medico, Orazio, giureconsulto, Margherita, monaca nel Convento di S. Giacomo, Giovanni Remedio, rettore della Chiesa di S. Geminiano. E più tardi, e cioè nel tempo in cui fioriva GIUSEPPE ZAMBECCARI 93 Giuseppe Zambeccari, « eccellente medico e lettore di detta professione nello studio di Pisa », il pontremolese Bernardino Campi, paziente e amoroso ricercatore di patrie memorie, non mancava di ricordare i nomi di molti Zambeccari, tra cui si vedono primeggiare medici, giureconsulti e notaii. Adunque, Giuseppe Zambeccari usciva da una famiglia, nella quale esistevano notevoli e antiche tradizioni di cultura e, per giunta, egli nasceva in un tempo in cui gli studi erano ancora tenuti in molto onore presso le famiglie pontremolesi. Infatti, come osserva giustamente il massimo storico di Pontremoli, si sa che, in ogni tempo, « Pontremoli seppe dare a più di una università d’Itatia insegnanti valenti ç popolare di buoni giudici i tribunali tutti della penisola e menare il vanto di giureconsulti che scrissero opere che furono tenute per guida da chiunque amministrava la giustizia » 2. E la bella tradizione continuava nel seicento ; tanto che lo stesso Campi poteva affermare, con ragione, che, ai suoi tempi, « fioriscono di molto le lettere a Pontremofi » e, con legittimo orgoglio, poteva compiacersi che tanti pontremolesi si fossero illustrati nei pubblici uffici e negli studi, e specialmente negli studi legali, « in cui si sono sempre esercitati e tuttora si esercitano i pontremolesi, essendosi ritrovati a Pontremoli sino a cento e più dottori in un volta », non pochi dei quali « resero pari-menti chiari ed illustri non meno se stessi che la patria et i posteri ». Ciò che si può dire, a ben più alto titolo, di Giuseppe Zambeccari. 1 Le riportate notizie intorno ai Zambeccari sono ricavate dagli annalisti pontremolesi G. R. Villani e B. Campi, nonché da carte e doc. degli Arch. comun. e notar, di Pontremoli, ecc. 3 G. Sforza, Meni, e doc. per servire alla Storia di Pontremoli. 94 II. Il padre di lui, Bernardino Zambeccari, nato a Pontremoli, il 16 ottobre 1610, nella Parrocchia di S. Geminiano ', esercitò, per qualche tempo, il notariato, prima a Calice al Cornoviglio e poi a Pontremoli. Ma, passato Pontremoli, nel 1650, sotto il dominio del Granduca di Toscana, abbandonò il notariato per darsi alla carriera dei pubblici uffici; e, in qualità, appunto, di cancelliere della Comunità, si trasferì, nel 1562, a Castelfranco di Sotto e successivamente a Fucecchio e a Fivizzano, dove fu eletto il 17 giugno 1676 e dove morì il 12 settembre 1682 -. Dalla moglie Livia Maraffi, sposata intorno al 1636, e morta ella pure a Fivizzano il 7 marzo 1692, ebbe undici figli, dei quali solo Giuseppe e Domenico, nato anche quest’ ultimo a Castelfranco di Sotto, il 21 novembre 1656, raggiunsero 1’ età matura. Nulla si conosce della prima giovinezza e dei primi studi di Giuseppe Zambeccari. Si sa solamente che, nel 1673, trovandosi la sua famiglia a Fucecchio, egli chiese di essere ammesso nel Collegio Ducale della Sapienza di Pisa, che accoglieva gratuitamente quaranta giovani dei vari luoghi della Toscana, per intraprendervi gli studi universitari. Ecco la domanda con la quale il giovane Zambeccari si rivolgeva, a tale scopo, al Granduca: « Serenissimo Granduca. Giuseppe di Bernardino Zambeccari di Pontremoli humilissimo servo di S. A. S. riverente la supplica farli gratia di un luogo nel Collegio Ducale della Sapienza di Pisa per potervi tirare avanti ne’ studi non potendo ciò fare per la sua povertà, il che spera ». Tale domanda veniva trasmessa al Dottor Giacinto Coppi di S. Geminiano in Toscana, Podestà di Pontremoli, con questa annotazione: « Il Podestà di Pontremoli informi dell’ età, qualità et fa-cultà del supplicante, il quale immediatamente dovrà rappresen- 1 Reg. dei Battezzati della Chiesa di S. Geminiano di Pontremoli. 2 Reg. dei Morti della Prepositurale di Fivizzano. GIUSEPPE ZAMBECCARI 95 tarsi in casa del Serenissimo Auditore Capponi al solito esame. Benedetto Quaratesi, 1 agosto 1673 ». E il Podestà di Pontremoli rispondeva : « Serenissimo Granduca. Il supplicante è un giovane d’ ottimi costumi e rare qualità, è nato a Castelfranco di Sotto in tempo che suo padre era cancelliere di quella Comunità et per relatione havute da persone qualificate mi viene asserito che na-scette Tanno 1654 e che abbi 19 anni circa et per quanto alle facilità patrimoniali intendo che sia assai scarso, vivendo per il più con i guadagni del padre, che si trova presentemente cancelliere per il pubblico a Fucecchio et non havendo da aggiungere alla comandata informatione, resto con inchinarmi alla V. A. S. alla quale bacio humilmente la veste. Pontremoli 19 a-gosto 1673. Di V. A. S. humilissimo, indignissimo, obbligatissimo servitore, Iacinto Coppi, Podestà1 ». In seguito all’ esame di cui sopra, lo Zambeccari veniva così qualificato: « Giuseppe di-Bernardino Zambeccari di Pontremoli di anni 19 è giovane d’ottime qualità e costumi, ben nato, di spirito assai elevato e studioso. Ha il padre che serve di presente S. A. R. per cancelliere del pubblico di Fucecchio con tenui facoltà e nell’esame ha ottenuto d’ottima intelligenza. G. B. Tozzi Provveditore e in questa parte come cancelliere dello studio » Pertanto, il 15 novembre di quello stesso anno, insieme con altri undici giovani, lo Zambeccari otteneva l’ammissione nel Collegio ducale della Sapienza e vi intraprendeva gli studi di Medicina3. L’Università di Pisa era tra le più famose di quel tempo e P insegnamento della medicina vi aveva tradizioni antiche e gloriose. Bisogna anche aggiungere che P ambiente scientifico di Pisa si trovava singolarmente preparato a secondare il meraviglioso rinnovamento che P opera di Galileo aveva suscitato nel campo delle scienze sperimentali e della stessa medicina. Infatti, quella Università non solo era 1 Negozi dello studio (1671-78) in Ardi, di Stato di Pisa. 8 Negozi ecc. c. 3 Negozi ecc. c. Relatione dello studio della Sapienza deiranno 1673, a firma Benedetto Quaratesi. 96 P. FERRARI stata tra quelle che più avevano contribuito al risorgere del sapere medico, ma, specialmente nelPinsegnamento dell’anatomia, essa si era acquistata la più invidiata fama, sia in Italia che fuori, per merito dei sommi maestri che furono suo vanto, quali Andrea Vesalio, Realdo Colombo e Gabriele Falloppio. La durata degli studi medici a Pisa era, allora, di 5 anni, essendo stabilito « non potersi alcuno dottorare se per cinque anni non ha frequentato le scuole e studiato diligentemente nella professione nella quale vuole dottorarsi » i. L’anno scolastico era diviso in tre trimestri, o terzerie, e cominciava in novembre. Le materie dell’insegnamento medico erano le seguenti: filosofia morale e logica, medicina teorica e pratica, anatomia, chirurgia, botanica, ostetricia o de morbis mulierum. Aristotile in filosofia, Avicenna, Ippocrate e Galeno in medicina, erano ancora i testi che si leggevano e si commentavano nella scuola. Come si vede, 1’ insegnamento medico era già costituito in un insieme organico di discipline, ognuna ben determinata e tutte perfettamente coordinate tra di loro : ma, malgrado i progressi raggiunti da alcune di esse, e special-mente dall’ anatomia, altrettanto non poteva dirsi, per e-sempio, della medicina teorica e pratica, e cioè della patologia e della clinica, nelle quali dominavano ancora, in gran parte, i procedimenti aprioristici e deduttivi, dai quali, per molto tempo ancora, la medicina non seppe liberarsi. Quando, nel 1673, lo Zambeccari intraprese lo studio della medicina a Pisa, il Collegio dei Signori dottori in filosofia e medicina, come allora si designava la facoltà medica, era costituito dai seguenti professori o, come dice-vasi, lettori : Alessandro Marchetti, lettore ordinario di filosofia, Giuseppe Puccini, Luca Terenzi, G. Battista Gornia, lettori ordinari di medicina teorica e pratica, Pietro Boc-ciantini, lettore ordinario di chirurgia, Lorenzo Bellini, lettore ordinario di anatomia, Pietro Nati, lettore ordinario di 1 Fabroni, o. c. _______________ GIUSEPPE ZAMBECCARI 97 # botanica, Didaco Zerilli, lettore straordinario di filosofia, Felice Violi, Felice Pagni, Francesco Verzani, lettori straordinari di medicina teorica e pratica, Giuseppe Del Papa, lettore di medicina e de morbis mulierum *. Tra i ricordati maestri, chi più influì sullo spirito e sulla educazione scientifica del giovane Zambeccari fu, senza dubbio, Lorenzo Bellini, che ebbe il vanto di risollevare all’altezza dell’antica fama l’insegnamento della anatomia e del quale lo stesso Zambeccari doveva raccogliere, più tardi, I’ eredità gloriosa. Il Bellini, per quanto educato all’indirizzo iatro-mec-canico del Borelli, non si irrigidì nelle sue formule; ma, associando i metodi dello sperimentalismo galileano alle tendenze del pensiero cartesiano, fissò, come guida della investigazione scientifica, il principio che non bisogna accettare alcuna ipotesi che non sia rigorosamente dimostrata. Così, egli stabilì, quale condizione necessaria dell’esperimento fisico, l’esperimento, per dire così, mentale, cui è affidata l’esatta valutazione e interpretazione dei fatti : senza di che, osservazione ed esperienza sono procedimenti destituiti d ogni valore. Assertore convinto del ragionamento e della dimostrazione contro ogni apriorismo, egli portò, anche nell indagine anatomica e fisiologica, un metodo rigorosamente matematico; e per quanto appaia spesso prevalentemente teorico o troppo astruso e non risulti immune da molti errori e pregiudizi del suo tempo, è un fatto che l’opera sua, ebbe un altissimo valore ai fini di quella educazione della mente, che egli si sforzò di formare nei giovani, cercando di sviluppare in essi l’abitudine del ragionamento e della critica e di combattere la naturale tendenza dello spirito ad accogliere per verità ipotesi e affermazioni non dimostrate. E di questo indirizzo del Bellini è illustrazione perspicua la memorabile lettera da lui scritta ad Antonio Valli- 1 Registro di dottorati dal primo novembre 1673 a tatto ottobre 1674, in Arch. Arcivesc. di Pisa. 98 snieri, che gli chiedeva quale via avesse egli seguita per acquistare tanto sapere nella medicina: lettera che mi duole di non poter qui riportare, giachè in nessun modo, meglio che con le parole del maestro, si potrebbe dare un’idea adeguata della via medesima percorsa dallo Zambeccari 111. Terminati i corsi di medicina nel Collegio Ducale della Sapienza, lo Zambeccari si laureò a Pisa nel 1679 2; dopo di che, per «fare la pratica», come allora dicevasi, in quel-Γ Ospedale di S. Maria Nuova e per perfezionarsi negli studi, si recò a Firenze, dove conobbe il Redi, di cui, a quel tempo, suonava alta la fama come medico e come esperimentatore. Francesco Redi, sebbene sia ora più noto come letterato e come poeta, segnò certamente la sua maggior gloria nel campo delle scienze naturali e della medicina, nella quale ebbe il merito di applicare, con grande genialità e fortuna, il metodo sperimentale. Osservatore acuto e spesso felice scopritore, purgò le scienze naturali da molti vecchi e grossolani errori, muovendo sempre sulla scorta dei fatti e della esperienza ; e, con ogni suo potere, si adoperò a ricondurre la medicina alla osservazione e alla semplicità ippocratica, combattendo le idee errate più comunemente invalse e additando orizzonti del tutto nuovi alla indagine scientifica. L’opera del Redi, malgrado non pochi errori inevitabili, riuscì di sommo giovamento alla medicina, in quanto rappresentò una audace corrente innovatrice, in contrasto con le vecchie tendenze e coi pregiudizi dotni- 1 La lettera si legge in Giornale dei letterati d'Italia, v. II. 2 Nei Reg. di dottorati in Arch. Arcivesc. di Pisa non si trova notizia della laurea dello Zambeccari, che, però è ricordato tra i laureati nel 1679 in una Relatione dello Stato della Sapienza di Pisa Vantjo 1679, fatta da Federico Nomi, Rettore del Collegio della Sapienza. Negozi dello Studio (1678-86) ecc. GIUSEPPE ZAMBECCARI 99 nanti, ai quali si mantenevano tenacemente legati i medici di quel tempo. II Redi, infatti, sebbene non professasse ufficialmente l’insegnamento della medicina, raccoglieva intorno a sè una schiera di studiosi e di sperimentatori, ai quali, nella stessa sua casa, era largo di aiuti e di consigli e che, per opera sua, formarono quella gloriosa scuola naturalista, che così validamente contribuì al progresso delle scienze mediche. E si deve, altresì, al Redi il decisivo impulso dato, in quel tempo, alta metodica ricerca sperimentale sugli animali, da cui derivarono tante preziose osservazioni e scoperte alla fisiologia e alla anatomia, nonché alla medicina. Fu, adunque, a Firenze e sotto la guida del Redi che lo Zambeccari, come egli stesso ci attesta, eseguì quelle sue esperienze sugli animali, da lui descritte nella famosa lettera indirizzata al maestro, pubblicata a Firenze nel 1680. In tale suo scritto, che è un vero trattateli di vivisezione e di fisiologia sperimentale, nel quale, anche oggi, meraviglia la tecnica, in ragione del tempo, precisa e rigorosa, e sopra tutto, 1 abilità e 1’ acuto spirito di osservazione dello sperimentatore, lo Zambeccari, pur rivelandosi discepolo del Redi, si affermò uno sperimentatore veramente originale, che, con sagace intuizione, sa indirizzare l’indagine allo scopo prefisso e interpretare esattamente i risultati della esperienza. Egli dimostrò, in altre parole, di possedere, nel più alto grado, quei due requisiti fondamentali del metodo induttivo, che erano stati i cardini dell’ insegnamento di Lorenzo Bellini ; 1’ attitudine ad osservare e-sattamente i fatti e quella di trarre una interpretazione logica dai fatti osservati. Con tali esperienze, in alcune delle quali egli ebbe a principali collaboratori tre suoi antichi compagni di università, e cioè i dottori Bernardino Ciarpaglini, Ippolito Neri e Stefano Bon ucci, e che, per la maggior parte, egli eseguì presso il Redi, « il quale nella sua casa ha somministrato tutti quanti gli aiuti e tutti quanti i consigli necessari», lo 100 P. FERRARI Zambeccari si conquistò subito un posto cospicuo tra i discepoli del Redi medesimo e si mise subito in prima linea tra gli sperimentatori del suo tempo. Tanto che la molta considerazione che gliene derivò e, senza dubbio, i buoni uffici del Maestro, che come medico del Granduca, godeva moltissima influenza a Corte e che dimostrò sempre allo Zambeccari una costante e cordiale amicizia, gli valsero, nel successivo anno 1681, la nomina a lettore straordinario di medicina pratica nella Università di Pisa, in sostituzione di Giuseppe Del Papa. Lo Zambeccari aveva, quindi, ventisei anni, quando tornò a Pisa a insegnare in quella medesima Università, dove aveva terminato da poco i suoi studi e dove ritrovava come colleghi i suoi maestri di due anni prima. L’ insegnamento a lui affidato era quello della medicina al letto deir ammalato o, come oggi si dice, della clinica . insegnamento che si teneva nell’ Ospedale di S. Chiara, dove, a tale scopo, egli ebbe uno dei turni ospedalieri. Cominciò a insegnare nel novembre di quello stesso anno, con l’assegno di 130 scudi, che gli fu aumentato di 30 scudi nel 1687 e di altri 40 scudi nel 1689, allorché fu « promosso alla cattedra di medico ordinario » i. E anche a questa promozione non fu estraneo il Redi, che, in una sua lettera allo Zambeccari, datata da Artimino il 23 Settembre 1689, gli scriveva, tra altro: « Che V. S. Eccellentissima mi ringrazi della ottenuta lettura ordinaria con 1 au-gumento de’quaranta scudi annui è tutta sua gentilezza, io non ho servito V. S. se non col rappresentare sinceramente al Serenissimo Gran Duca mio Signore la virtù e il merito del mio caro Sig. Giuseppe Zambeccari, insieme con la bontà ed esemplarità dei suoi costumi; e che se S. A. voleva fare un’ ottima elezione per questa cattedra non 1 Cfr. Quaderno di Cassa dello Studio di Pisa tenuto dalVill.mo Rev. Mons. Felice Marchetti, provvisore generale V anno 1681-82 Neg. dello Studio (1687-93) ecc. GIUSEPPE ZAMBECCARI 101 doveva aver la mira se non nella sua persona di già per tanti anni esperimentata in quello studio di Pisa » i. L’ anno seguente, ad alleviare al Bellini il carico della scuola, lo Zambeccari fu designato a coadiuvarlo nell’ insegnamento dell’anatomia, con questa ordinanza, in data 6 ottobre, firmata da Benedetto Quaratesi : « Dispensa S. A. S. Lorenzo Bellini dal leggere in cattedra, con l’obbligo di far solamente le lezioni in teatro in tempo dell’anatomia e vuole che in luogo di esso si leggano le materie anatomiche da Giuseppe Zambeccari con scudi 40 di aumento » 2. Così pur continuando a tenere l’insegnamento clinico nel-1’ Ospedale di S. Chiara, lo Zambeccari cominciò a insegnare anatomia alla Sapienza ; e con tanto fervore attese al nuovo incarico che, come riferisce il Fabroni, oltre alle lezioni pubbliche nei giorni fissati, non trascurava quelle private, riunendo nella propria abitazione i giovani che egli iniziava, con grande amore, alla scienza anatomica. E questa sua amorosa cura dell’ insegnamento era tanto più degna di nota, in quanto, a quel tempo, la disciplina degli studi era assai rilassata e professori e scolari erano facili a disertare la scuola. Era questo un abuso che aveva vecchie radici e persisteva malgrado i richiami, le minaccie e i provvedimenti, ai quali si era dovuto, in più occasioni, ricorrere. Aveva dovuto occuparsene, fin dal 1Ó74, lo stesso Cardinale Leopoldo di Medici, al quale era affidata la suprema vigilanza dello Studio pisano, e che scrivendone, il 29 gennaio di quell’anno, al Curatore della Sapienza, Felice Marchetti, si meravigliava che « con tanta audacia si pretenda da codesti dottori e scolari di non voler studiare, nè insegnare ne’ tempi delle vacanze dalle lezioni pubbliche », 1 Lettere di Francesco Redi, Firenze, 1779. In varie lettere del R. non mancano accenni allo Z.: cfr. lettere del 6, xii, 1682 al Dr. Jacopo Del Lapo, del 28 marzo 1683 a Giacinto Gestoni, del 24 aprile 1688 alla poetessa pisana Selvaggia Borghini, e altra senzadata a Federico Nomi. 2 Negozi dello Studio (1687-93) ecc. 102 P. FERRARI lamentando i molti abusi e le molte vacanze arbitrarie, per le quali « si ridurrebbe codesto Studio più ad apparenza che a sostanza » e minacciando seri provvedimenti per i professori e per gli scolarii. E sullo stesso argomento, il 25 novembre 1579, tornava a scrivere l’Auditore Ferrante Capponi, dolendosi « della diminuzione grande delle lezioni, della tiepidezza con che in oggi si cammina nello studio delle scienze, della trascuraggine che si pratica nelle lezioni pubbliche e private », e facendo rilevare che, invece delle 150 lezioni stabilite dalla Riforma dello Studio del 1554, se ne tenevano, complessivamente, appena 70 e meno, « onde ne segue la poca applicazione alli studi e la poca abilità necessariamente de’ soggetti » : per le quali ragioni ordinava che si cessasse dall’ abuso invalso di vacanze non prescritte e che, inoltre, i professori rimettessero in uso « la frequenza alle private ripetizioni e circoli nelle case loro», con l’obbligo di presentare, a fin d’anno, «una nota puntuale degli esercizi praticati per farne relazione a S. A. » ; stabilendo, altresì, varie multe per i professori, che non facessero lezioni o non intervenissero agli esami e alle dispute pubbliche in Sapienza o non prendessero parte a tutte le cerimonie e solennità ufficiali, salvo regolare dispensa e per giustificate ragioni 2. Ma non cessò per questo il malanno. Infatti, in una ordinanza del 23 ottobre 1692, firmata da Benedetto Quaratesi si legge: «Volendo inoltre S. A. S. provvedere al disordine che ha presentito essere in detta Università per i pochi giorni nei quali pacificamente si legge da’ professori, ordina e comanda che si leggano universalmente in detto studio trenta lezioni nella prima terzeria, venti nella seconda e venti nella terza e se in alcuno di detti giorni non sarà letto pacificamente si ritenga ogni volta a ciascun professore rispettivamente tanta rata della sua provisione quanta importi la lezione di quel giorno in cui non si sarà 1 Fabroni, o. c. Fabroni, o. c. GIUSEPPE ZAMBECCARI letto e se in detti giorni destinati per le lezioni si leggesse pacificamente la mattina e non 11 giorno o per il contrario, si detragga la rata della provisione a quei professori che dovevano leggere la mattina o il giorno in cui non si sarà letto et il medesimo si osservi anco nella mancanza da’ circoli da farsi secondo Γ ordine stampato » i. E pare che il cattivo esempio di disertare le lezioni fosse seguito anche dagli allievi dello stesso Collegio Ducale della Sapienza, poiché una successiva ordinanza del 25 ottobre, dopo aver rilevato « che dai giovani studenti del medesimo collegio non si faccia quel profitto nelle scienze che già si vedeva ne’ tempi trascorsi, perchè da essi poco si frequentino le scuole contro la disposizione delli statuti e riforma del predetto collegio », stabiliva che agli scolari del Collegio « che non anderanno a sentire le pubbliche lezioni sera e mattina in Sapienza, ogni volta che contravveranno, siano privati del Collegio per quel tempo che parrà al Rettore del medesimo » 2. E, per qualche tempo almeno, sembra che le cose procedessero meglio. Intanto, nel 1704, moriva Lorenzo Bellini e, il 5 Ottobre di quello stesso anno, veniva designato a succedergli Giuseppe Zambeccari 3. L’onore era grande: ma ben più ardua era l’eredità che egli veniva à raccogliere. Tuttavia, nessuno meglio di lui, che era stalo allievo dello stesso Bellini, che aveva avuto a guida il Redi e che aveva rag- 1 Negozi ecc. c. 2 Negozi ecc. c. 3 Neg. dello Studio (1703-05) ecc. Con tale nomina lo stipendio dello Z. veniva portato da 430 a 460 scudi. Si legge a qnesto proposito nel Quaderno di cassa del Studio di Pisa dell1 anno 1704-05 in Arch. di Stato di Pisa: « Il Sig. Dr. Giuseppe Zambeccari di Pon-tremoli lettore ordinario di anatomia in questo studio dare a di 15 novembre scudi trenta per un sottomano confermatogli da S. R. S.: se. 30 — e a dì detto scudi centoquarantatre per a conto di sua provisione: se. 143 — e a dì 6 febbraio Ό5 se. centoquarantatrè c. s.: se. 143 — e a dì 30 maggio se. centoquarantaquattro per resto: se. 144. Scudi: 460 ». Nè gli mancarono anche in seguito aumenti e gratificazioni. 104________________________P. FERRARI_______ giunto la sua piena maturità scientifica attraverso i suoi molti e fecondi anni di insegnamento a Pisa, poteva essere all’altezza del compito affidatogli. Ed egli, proseguendo sulle orme del Bellini, seppe mostrarsi in tutto degno di lui e della gloriosa tradizione dell’insegnamento anatomico a Pisa, che, per opera sua, sali a nuova e grandissima fama. Lo Zambeccari, infatti, fu un maestro mirabile; poiché, come attesta il Fabroni, nel breve ricordo che di lui ci ha lasciato e che è tutto un elogio di scultoria eloquenza per il grande pontremolese, egli dette al suo insegnamento a-natomico un indirizzo essenzialmente pratico e sperimentale; ma mentre sapeva esporre ai giovani le nozioni anatomiche con esemplare chiarezza, nulla tralasciava di quanto poteva meglio servire a far loro conoscere, nella più intima struttura, l’organismo umano. Ne risultava che i giovani uscivano dalla sua scuola non solo con una solida conoscenza dell’ anatomia, ma col vivo desiderio, altresì, di nuove indagini; poiché ad ognuno egli sapeva infondere, con l’amore dello studio, lo spirito della ricerca. Possedeva, poi, incomparabili qualità come didatta, e alla sottigliezza e non comune lucidità della esposizione accoppiava un eloquio facile ed elegante ed una profonda dottrina in ogni campo del sapere medico *. Ben a ragione, adunque, un altro pontremolese non oscuro, il giuriconsulto Marzio Venturini, che fu lettore a Pisa al tempo dello Zambeccari, ebbe a lasciar scritto di lui che fu « uomo dottissimo ed eccellentissimo medico, dignissimo successore nella cattedra d’anatomia del celebre Bellini > *. E quella cattedra celeberrima egli tenne, ininterrottamente, fino, si può dire, al momento della sua morte, che avvenne, il 13 dicembre 1728, a Pisa, dove fu sepolto, per 1 Fabroni, o. c. * [M. Venturini). Discorso, legale, istorico, politico della No biltà di Pontremoli [ 1725J- 11 Venturini insegnò dal 1702 al 1733 Istituzioni di diritto civile e diritto criminale. GIUSEPPE ZAMBECCARI 105 sua espressa volontà, nella Chiesa di S. Eufrasia. Anzi, non tralasciò l’insegnamento neppure quando le sue condizioni fisiche erano orinai ridotte allo stremo; tanto che, in una lettera del Cancelliere della Sapienza, che ne annunziava la morte a Firenze, si legge : « se bene si vedeva estenuato, sono pochi giorni che ha lasciato di venire in Sapienza a fare le sue lezioni, per le quali è stato sempre indefesso » IV. Dice il Fabroni che, in Giuseppe Zambeccari, non tanto si ammirava la dottrina quanto la integrità della vita e dei costumi : affermazione questa nella quale appare bellamente incisa tutta la nobile figura delio scienziato pon-tremolese. E, veramente, come si può argomentare anche dalle poche lettere che di lui ci sono rimaste, i tratti fondamentali della sua personalità e del suo carattere furono la semplicità, la modestia, la cordialità espansiva e la religiosità. Di questa è prova anche lo scritto che egli ci ha lasciato intorno alla vita della Venerabile Caterina Brondi. E non mancò di notarlo lo stesso Fabroni, che dice di lui : « vir religiosus illa potiora semper duxit quae ad Dei cultum spectabant » *. Tale vivo sentimento religioso nello Zambeccari è tanto più notevole in quanto ad esso fa riscontro lo spirito spregiudicato, da lui dimostrato in materia scientifica. E certo la religiosità non fu in lui 1111 abito esteriore in omaggio a tradizioni 0 convenienze, molto sentite al suo tempo ; e neppure essa si presenta in lui come uno dei termini di quell’intimo dissidio, che travagliò, a quel tempo, lo spirito di non pochi dei primi indagatori delle sconosciute verità scientifiche. Ma scienza e fede furono, nello Zambeccari, 1Negozi dello Studio ecc. 1 Fabroni, o. c. 106 P espressione di una stessa aspirazione ideale, alla quale egli consacrò tutta la sua vita, che fu semplice e modesta nei rapporti famigliar] e privati, ma nobilmente operosa e mirabilmente feconda nei campi del pensiero e della esperienza scientifica. Pur troppo, ben poco si sa della sua vita privata. Sposò, intorno al 1690, Anna Maria Palmieri, appartenente a nota famiglia di Pisa, imparentata con cospicue casate della Toscana ; e da essa ebbe vari figli, quattro dei quali gli nacquero a Fivizzano, tra il 1ÒQ1 e il 1704. A Pisa dovette nascergli, invece, Bernardino, che, con la madre, fu Punico che gli sopravisse. A Fivizzano, infatti, dove, come si è detto, si era trasferita la sua famiglia paterna, era solito recarsi lo Zambeccari a trascorrervi il tempo che gli restava libero dalle cure dell’insegnamento : tanto più che, in detto luogo, nel-P ufficio medesimo di Cancelliere della Comunità, dopo la morte del padre, era succeduto, nel 1683, il fratello minore di Giuseppe, Domenico, laureatosi egli pure a Pisa, in leggi, nel 1673. Ma anche questi, che, nel 1899, aveva sposato Lucia Succi pontremolese, andò poi a stabilirsi, a sua volta, a Pisa, dove già si trovava nel 1710, esercitandovi per lunghi anni P ufficio di Provveditore generale della Mensa Arci-vescovile *. Anche a Pontremoli, però, lo Zambeccari ebbe relazioni, amicizie, interessi. Senza contare i parenti della madre, i Maraffi, a Pontremoli esistevano ancora due rami dei Zambeccari, che facevano capo rispettivamente a G. Battista e a Ranuzio; quest’ ultimo cugino in terzo grado del padre di Giuseppe Zambeccari. Con Ranuzio, anzi, Ίο Zambeccari riallacciò i rapporti nel 1710, in circostanze che sono accennate in una sua lettera al medesimo, nella quale egli chiede anche conto di alcune ricerche genealogiche, di cui aveva incaricato il parente a Pontremoli e con le quali ten- 1 Ricavate le predette notizie intorrto ai due fratelli Z. da più fonti, che si ritiene superfluo citare. GIUSEPPE ZA MBECCA RI 107 deva a ottenere il riconoscimento della nobiltà della famiglia e a dimostrare la derivazione di questa dai Zambeccari di Bologna. Ecco la lettera: IlI.mo Sig mio e Padrone Col.1,10 . Ella non :può credere quanto m’abbià afflitto il suo dolore, il quale ben l’ho concepito per doppio capo, e perchè mi son trovato nel caso d’aver con simil dolore perso una figlia, e perchè nell’aver io ritrovato l’animo delle nostre case parmi che mi si sia riacceso nel sangue un nuovo calore di parentela, per il quale proprie mi sieno le di Lei afflizioni. Siane di tutto ringraziato Iddio e con Dio consoliamoci. lo ringrazio il medesimo Signore del torto ricevuto da chi mi fece la lettera contro P onor mio, giacché da ciò me ne è risultato tanto bene da i trovare le nostre case, che tanto bramavo. Attenderò, dunque, ma con tutta sua comodità, il compimento dell’opera intorno all’albero sì della famiglia Zambeccari, sì delle donne moglie de’ nostri ascendenti; e di vero Eli’è andata in là bene, ond’io conto dieci personaggi col mio ragazzo e sono hipolline, 2 Cristofono, 3 Gian Giacomo, 4 Antonino, 5 Leonardo, 6 Orazio, 7 Pompeo, 8 Bernardino, 9 Giuseppe, 10 Bernardino, e di tre trovo la moglie e i suoi alberi, lamia, di Bernardino mio padre, che è Livia Maraffi, e di Pompeo, mio nonno, che è Camilla Maraffi, e di tutte ho gli alberi. Con quei signori poi di Bologna in oggi ho una tal confidenza, che quando avrò avuto tutte le notizie di V. S. 111.ma , mi farò con quei Signori per farci riconoscere del loro ramo. Io non la tedierò più con questa mia e attenderò con suo comodo le notizie, che mi fa sapere la sua bontà e a V. S. IIl.ma , e alla Signora sua faccio devota reverenza come fa mia moglie. Di V. S. III.ή* , Pisa primo luglio. Dev.mo obb.mo Servitore e Parente Giuseppe Zambeccari ». Questa della nobiltà della famiglia e delP antica parentela con i Zambeccari di Bologna fu una aspirazione vivissima e, per così dire, quasi una debolezza dello Zambeccari: cosa che non meraviglia neppure in un uomo del suo stampo, date le idee e le tendenze del suo tempo. Ma, per quanto la Comunità di Pontremoli, con un pubblico attestato in data 19 Settembre di quello stesso anno, autenticasse P albero genealogico della famiglia e ne 108 P. FERRARI riconoscesse la derivazione dai Zambeccari di Bologna 1 ; e per quanto Io stesso Zambeccari si adoperasse per il suo scopo in tutti i modi, trascorsero non pochi anni prima che il suo desiderio venisse appagato. Infatti, sebbene, il 9 febbraio 1719, i due fratelli Zambeccari, Giuseppe e Domenico, fossero ammessi, in seguito a loro domanda, alla cittadinanza pisana, fu solo il 16 dicembre 1722, dopo una deliberazione del Magistrato Supremo della città di Firenze, < in ordine alla dichiarazione stata fatta da sei di detta famiglia de’ Signori Zambeccari di Bologna a favore di detti Sigg. istanti », che il Magistrato degli Anziani e dei Priori di Pisa, li dichiarò « della stessa nobil famiglia e casa de* nobili Zambeccari di Bologna Malgrado, però, questo ambitissimo riconoscimento, che veniva ad appagare un’ antica aspirazione della sua famiglia, e malgrado anche la sua cospicua posizione e la sua alta fama, lo Zambeccari non disdegnò, talora, di dedicarsi a ben più umili attivitài come quando, ad esempio, ci appare quale socio in certa gestione di una farmacia a Pontremoli, che gli costò noie e quattrini non pochi. Ne racconta egli stesso le vicende in una lettera, diretta a certo « sig. Caldesi in Corte del Serenissimo Granduca » e che vale la pena di riportare, per mettere in luce un nuovo e inatteso aspetto della figura dello Zambeccari. « Ι11.ωο Sig.re mio Sig.rc Padrone Col.mo. Io posso dire aver perso quasi tutti gli Amici e Padroni portatimeli via dalla morte. Mi ci rimane V. S. \\\.m* in cui so che una volta regnava per me deH’Amore; io mi voglio far animo e sperare che in un cuore sì gentile quale ho provato per tanti anni il suo, viva qualche scintilla del primo Amore con esporle i miei bisogni. V. S. Ill.raa sappia che io pure mi trovo nella nave combattuta della mia Patria di Pontremoli. Tengo in quella una lite, che cammina sotto il nome del Sig. Bonaventura Falaschi, di cui sono compagno in un negozio di spezierie. Accudiva a questo negozio come ministro con autorità assai limitata di non potere pigliare 1 Arch. Com. di Pontremoli. • Cittadinatico in Arch. di Stato di Pisa. GIUSEPPE ZAMBECCARI 109 ad interesse denari un tal Gio. B. Bedodi, ciò non ostante costui ne prese da più Persone. Avendoci costui dilapidato il più bel negozio che fosse in Pontremoli lo levammo via. Ora costui s’è ficcato a far lo scrivano nel Tribunale di giustizia e con tal braccio s’ è unito con quegli che gli hanno dato i denari a censo e con esso ci fanno guerra tutti. S’è principiata la lite et avendo il giudice assegnato un termine alli contrari a provare che il loro denaro sia veramente andato in utile della spezieria, non Γ hanno mai potuto provare; ed essendogli spirato tutti i termini colla scorta del Bedodi hanno fatto un memoriale a S. A. S. per avere nove proroghe. Costì in Firenze si sono appoggiati al Sig. Angeloni della Pratica, stretto amico del Bedodi, e questo Sig. Angeloni fa dubitare che possa far passare il memoriale, il che seguendo sarà contro ogni giustizia e con mio gravissimo pregiudizio. Meglio di quanto qui gl’ ho esposto l’informerà il latore della presente che è il Sig. Avvocato Ant. Maria Venturini, informatissimo della lite e delle qualità del Bedodi. Io la supplico ammettere alla sua presenza questo Signore e sentirlo e porgerci quell’aiuto, che gli detterà l’amore della nostra antica amicizia. Caro Sig. Caldesi, io la prego d’ aiutarmi, ho perduto un capitale di sopra 5 mila pezze, sono per perdere più d’altrettanto se il Bedodi la spunta. Io voglio sperare nel-ΓAnimo suo gentile e resto con fare a V. S. Il!.nia divotissima riverenza, Pisa 3 novembre 1725. Divmo. Obbmo. Servitore Giuseppe Zambeccari * \ Proprio vero che, nelle umili vicende e nelle ordinarie necessità della vita quotidiana, gli uomini eccelsi come gli oscuri dimostrano spesso la stessa povera e meschina umanità, e che anche i più grandi sembrano rimpicciolire ai nostri occhi quanto più ne indaghiamo la vita intima nei loro rapporti famigliari e privati. V. La fama di Giuseppe Zambeccari è legata specialmente a quelle mirabili esperienze sugli animali, da lui descritte 1 Questa lettera come F altra già riportata faceva parte, con qualche altra carta zambeccàriana, dell’archivio domestico della famiglia Venturini di Pontremoli. no P. FERRAR! nella nota lettera al Redi e per le quali fu giustamente considerato come un precursore della moderna fisiologia sperimentale. Eppure, tra i nomi che in Italia, sono stati più lungamente e più ingiustamente dimenticati è, senza dubbio, quello di Giuseppe Zambeccari. Quale fu la causa di tale dimenticanza? La ragione vera, io credo, è da lui stesso adombrata nella sua lettera al Redi, là ove egli dice di essersi accinto alle sue famose esperienze, € in quella guisa appunto che i primi scopritori del nuovo mondo si misero la prima volta in mare a benefizio di fortuna, senza sapere, in un modo di dire, quello che essi si facessero o dove andassero; ma io non ho avuto poscia la fortuna di questi; ma è ben intervenuto come a coloro che si son messi in traccia dalla terra Australe incognita, alla quale non sono mai arrivati. Pure, quantunque non vi arrivassero, hanno nientedimeno lasciate scritte alla posterità le relazioni de’ loro viaggi, le quali potrebbero esser forse giovevoli ne’ tempi che verranno ». Ed il suo spirito fu, veramente, profetico : poiché i tempi che vennero poi furono più propizi alla sua fortuna e, dopo un silenzio quasi due volte secolare, la posterità cominciò a rendergli finalmente la dovuta giustizia. Il primo che tornò a occuparsi di lui, come ebbe a rilevare Io stesso Fedeli, fu Augusto Murri, che, nel 1873, in un suo lavoro intorno alla genesi renale dell’urea, citava appunto la ricordata lettera dello Zambeccari al Redi Più tardi, nel 1898, il Prof. Roberto Alessandri di Roma, a proposito di alcune sue ricerche sperimentali intorno alla legatura dei vasi dell’ ilo renale, ricordava, a sua volta, i mirabili esperimenti dello Zambeccari, dicendoli perfetti e condotti con una techica così precisa che meglio non si potrebbe oggigiorno *. * A. MURRI. Due nuovi argomenti della genesi renale dell'urea. Lo Sperimentale, 1873. * R. Alessandri, Lu legatura dei vasi delVilo renale. [Per il xxV anno deir insegnamento di Francesco Durante, Roma, Soc. Ed. Dante Alighieri, 1898]. GIUSEPPE ZAMBECCARI 111 Ma, come abbiamo detto, il merito di aver rivendicata la gloria di Giuseppe Zambeccari spetta essenzialmente al Prof. Carlo Fedeli, che fu il primo a rimettere nella giusta luce e ad illustrare da par suo Γ opera scientifica dell· insigne pontremolese, della quale sono preclaro documento i pochi scritti che ci restano di lui. Tali scritti sono i seguenti: a) Esperienze del dottor Giuseppe Zambeccari intorno a diverse viscere tagliate a diversi animali viventi e da lui scritte e dedicate all’illustrissimo signore Francesco Redi, Firenze, MDCLXXXI. È la famosa lettera al Redi, ristampata nel 1907, dal Fedeli, il quale, in una dotta introduzione, ne ricorda anche la traduzione latina pubblicata da G. Giacobbe Monget, nella sua Biblioteca anatomica (Ginevra, 1699), col titolo seguente: Josephi Zambeccari Doctoris experimenta circa diversa e variis animalibus viventibus execta viscera et ab ipso ad illustrissimum dominum Franciscum Redi scripta eique dicata f. b) Breve trattato de1 Bagni di Pisa e di Lucca dell'illustrissimo signor Giuseppe Zambeccari famosissimo lettore di anatomia nel celebratissimo studio di Pisa. Dedicato all’ illustrissimo Sig. Antonio Bertini celebre professore di Medicina in Firenze, Padova, mdccxii. L’operetta fu dottamente illustrata dal Fedeli nel 1912 *. c) Lettera intorno al sonno e alla veglia e all'uso dell’oppio. Pisa, 20 maggio, 1685. Questo scritto fu edito per la prima volta, e accompagnato da una dotta illustrazione, dal Fedeli nel 1914 7. d) Lettera della dottrina delle separazioni, Pisa, 15 dicembre 1686 [R. Bibliot. Naz. Centr. di Firenze, Cod. Palatino Targioni η. 1688). 1 Lettera di Giuseppe Zambeccari a Francesco Redi sulle vivisezioni ed asportazioni di alcuni visceri (1680), edito nuovamente con illustrazioni di Carlo Fedeli, Pisa, 1907. * Carlo Fedeli, Di uno scritto idrologico di Giuseppe Zambeccari. Studio storico-critico. (Raccolta di scritti nel giubileo del Prof. Barduzzi), Livorno, 1912. e Giuseppe Zambeccari, Del sonno, della veglia e dell'uso dell'oppio. Lettera inedita pubblicata con una introduzione di Carlo Fedeli, Pisa 1914 )Estr. dagli Annali delle Università Toscaney\om. Xxxiu). 112 P. FERRARI e) /dea glandulae, fabrica, usu et generali doctrina secretilo-nis [Id. Cod. Mogliabecch. II, 4, 3635]. d) Compendio della vita di Maria Caterina Brondi e Dissertazione sul Digiuno [R. Bibi. Riccardiana di Firenze, Cod. n. 2455]. I tre ultimi scritti sono ancora inediti ed è da augurarsi, nell’ interesse degli studi zambeccariani, che essi pure vedano presto la luce in quella edizione completa delle opere dello Zambeccari, vagheggiata dallo stesso Prof. Fedeli e che nessuno meglio di lui potrebbe tradurre in atto, a onore della scienza italiana. E ce ne dà affidamento Γ instancabile attività del venerando Maestro dell’Ateneo Pisano, che, proseguendo con giovanile fervore, la sua bella fatica d’indagatore e di divulgatore del pensiero e dell’opera dello Zambeccari, ha ormai quasi condotti a termine, e potrà darli tra breve alla luce, due nuovi, importantissimi studi : uno sulla Lettera della dottrina delle separazioni, l’altro intorno alla Dissertazione sul digiuno. Mi scriveva Egli stesso recentemente : « Il più lungo lavoro dello Zambeccari sul quale ho dovuto spendere tempo e ricerche è quello sulle «separazioni»: lavoro veramente galileano, che esige un commento critico larghissimo, riconducendo la questione fino ai termini sui quali la compendiò il grandissimo Haller. L’ altro manoscritto è la « dissertazione sul digiuno », che già feci noto come fosse sfuggita alla acutezza del Luciani: anche questo esige un più breve, ma completo commento e lavoro di paragone. È quasi un corollario allo scritto di indole ascetica, lavoro così schietto che rivela l’indole dello Zambeccari, costituito dalla vita della Venerabile Brondi. È citato dal Fabroni ; ed io ne rinvenni P originale fra le le carte delPAverani, nella Biblioteca Riccardiana di Firenze, Panno ormai remoto 1873, quando ero scolare di quart’anno di medicina ». È certo, però, che non poche delle cose scritte dallo Zambeccari devono essere andate perdute : sorte che, senza dubbio, è toccata alla maggior parte del suo carteggio, che dovette essere assai ricco e, per giunta, molto importante. Nella Biblioteca universitaria di Pisa, si conservano quattro GIUSEPPE ZMBEACCARI_113 lettere da lui dirette a Guido Grandi, ritenuto da Newton il più grande matematico d’Europa a quel tempo, e legato allo Zambeccari da intima amicizia 1 : ma pur troppo non ci sono rimaste le lettere al Redi, che facevano parte della preziosa raccolta posseduta da Gregorio Redi, in gran parte andata dispersa in una vendita all’asta, avvenuta circa tren-tacinque anni addietro2. Ma per ciò che riguarda il superstite carteggio dello Zambeccari, oltre le poche lettere di carattere privato sopra riportate o citate, è da notare la notevole raccolta, che appartiene al Prof. Calamida dell’ Ospedale Maggiore di Milano e che è costituita da 80 lettere indirizzate al Senatore Marchese Zambeccari di Bologna, nonché da una lettera diretta al Vallisnieri, intorno alla salubrità dell’aria di Pisa : materiale di non trascurabile importanza e che lo stesso Prof. Calamida si propone di rendere di pubblica ragione, nell’ interesse degli studi zambeccariani. Ai quali mi piace dirlo, si accinge a portare un nuovo contributo un altro illustre maestro dell’Università di Pisa, il Prof. Guglielmo Bilancioni, che, in un suo scritto di prossima pubblicazione, si propone di richiamare alcune idee dello Zambeccari sugli organi dei sensi e specialmente sull’udito e sull’olfatto. Pertanto, è da sperare che da questo promettente risveglio di studi e di ricerche intorno a Giuseppe Zambeccari, promosso dal fecondo impulso del Prof. Fedeli, ne risultino illuminate in pieno la figura nobilissima e la personalità scientifica, che fu veramente, varia e multiforme. Naturalista, medico e anatomico sommo, egli seppe, infatti, esercitare, anche in altri campi della cultura e della esperienza scientifica, la sua insaziata curiosità di studioso e di esperimentatore. E così, come attesta anche il Fabroni, 1 Cfr. Morini e Ferrari, Autografi e codici di lettori dell1 Ateneo Pisano esposti in occasione dell7 XI Congresso di medicina interna, Pisa, Mariotti, 1902. J Tra le molte lettere di tale raccolta pervenute alla R. Biblio- teca Marucelliana di Firenze non ne esistono dello Z. 114 egli fu tra i primi, in Italia, ad eseguire esperienze con la macchina pneumatica da poco perfezionata da Roberto Boyle e di cui Anna Luigia de’ Medici aveva inviato da Dusserdolf un esemplare in dono alla Università di Pisa : esperienze intorno alle quali non ci sono rimaste precise notizie, sapendosi solo che furono condotte dallo Zambeccari, insieme con altri studiosi, per la maggior parte valenti professori dello Studio di Pisa, e cioè con Michelangelo Tilli, botanico, Pascasio Giannetti, medico, Giuseppe Ave-rani, giureconsulto, Guido Grandi, matematico, Luca Al-bizzi, filosofo1. E unitamente a Michelangelo Tilli e al lunigianese Pascasio Giannetti, egli studiò anche le sorgenti termali della regione pisana e lucchese, illustrando, per quanto lo consentivano le cognizioni chimiche e idrologiche di quel tempo, le terme di S. Giuliano, Casciana e Bagni di Lucca, con originali e interessanti osservazioni, raccolte nell’operetta sopra ricordata. Ma fu, sopratutto, all’insegnamento che lo Zambeccari dedicò, come si è accennato, la maggiore e la miglior parte della sua attività scientifica, la quale ebbe per suprema finalità l’attuazione pratica del sapere medico. Sebbene cresciuto negli insegnamenti di Lorenzo Bellini e maturato agli stessi indirizzi scientifici e filosofici, egli dimostrò, forse, uno spirito più largo e più pratico del maestro. Infatti, acuto fisiologo quanto profondo anatomico, non dimenticò che sia la l’anatomia che la fisiologia, come tutte le scienze ausiliarie della medicina, non devono perdere di mira i fini ultimi della clinica : verità questa che era il risultato, oltre che della influenza del Redi, dei lunghi anni del suo insegnamento clinico nell’Ospedale di S. Chiara, e nella quale egli fissò le basi dell’ indirizzo da lui seguito nella medicina e inspirato al criterio costante della osservazione e della esperienza, « vera maestra di tutte le cose », come ebbe a proclamarla nella sua lettera al Redi. 1 Cfr. vita del Tilli in Fabroni, Vitae italorum doctrina excellentium qui saeculis XVII e XVIII floruerunt, Pisis, MDCCLXXIX. GIUSEPPE ZAMBECCARI 115 Si può, pertanto, intendere agevolmente I’ importanza che ebbe P insegnamento dello Zambeccari, non solo ai fini della pratica, ma altresì nei riguardi del rinnovamento scientifico della medicina. E se grande fu la fama che egli godette come medico e come anatomico, ben più notevole è il posto che, oggi, gli spetta nella storia della evoluzione del pensiero medico. Sotto tale rapporto, anzi, egli può essere considerato come un precursore del moderno indirizzo della medicina; giacché egli possedette, in grado eminente, quelle qualità che, ai nostri tempi, furono dette da Ewald indispensabili al medico, il quale « deve avere, innanzi tutto, metodo e cognizioni positive, poi essere naturalista e osservare e pensare con critica ». E a questo indirizzo, di cui lo Zambeccari fu uno dei primi e più illuminati assertori, superata la crisi regressiva dovuta a quel movimento vitalistitico browniano, venutoci d’oltralpe, è tornata la moderna medicina : indirizzo che è il solo fecondo di risultati positivi, poiché si propone di indagare sperimentalmente i vari fenomeni della vita, giungendo alla sintesi solo attraverso alla più completa analisi e mettendo a contributo della clinica le cognizioni fisiologiche, anatomo-patologiche, microscopiche e chimiche. A proposito del quale metodo, che è gloria tutta italiana, quel grande Maestro che è Augusto Murri, mirabile fusione di clinico, di scienziato e di filosofo, ebbe a scrivere giustamente: « E credete voi forse che questo metodo ci venga dalla Germania? Non erano già patologi sperimentatori lo Zambeccari, il Fontana ed altri? ». Così, per lo Zambeccari, si può ripetere ciò che lo stesso Murri ebbe a dire di un altro grande medico italiano, Maurizio Bufalini, che circa un secolo fa, fu il primo ad insorgere contro il vitalisimo ancora dominante in medicina e a ritornare sulle orme gloriose dello Zambeccari : e cioè che « fu il più pertinace nell’ istigare i cultori della medicina a ricercare nella materia analizzatala causa d’ogni fenomeno vitale, nel predicare in una parola la rivoluzione contro tutti i sistemi, che nella nostra scienza significano Pautorità e il dogma ». 116 P. FERRARI Si spiega, pertanto, dopo il lungo e ingiusto oblio, questo nuovo fervore di studi e di indagini intorno alla vita e all’opera di Giuseppe Zambeccari; la quale ultima fu, veramente, geniale e precorritrice, e tale che, ben a ragione e con sicuro senso profetico, egli poteva attenderne la fortuna e la gloria dai « tempi che verranno ». Pietro Ferrari BARBAZZANO DEL GOLFO DELLA SPEZIA In alto della costiera,, folta di meravigliosi ulivi, che ardua s’innalza sul mare di smeraldo del golfo della Spezia che un poeta chiamò un pezzo di paradiso caduto in terra, tra la punta della Stella, nel seno di Fiascherino, e la spiaggia della Vittoria, così chiamata, dicesi, in memoria d’un vittorioso combattimento sostenuto contro i Corsari Saraceni dagli abitanti di quei luoghi, sorgeva, probabilmente ancora nella prima metà del secolo xvi, il borgo, o castello che dir si voglia, di Barbazzano. Poco lontano dal mare, ma non accessibile in caso di sbarco di nemici, mentre godeva di comodità di traffico con Lerici, suo porto naturale, esso costituiva, con Trebbiano, un luogo forte della regione circostante al valico che mette dalla Magra al seno lericino. E certo in luogo forte vollero erigere i due borghi i loro primi abitatori - forse popolazioni della marina costrette a rifugiarsi sui monti per difendersi dalle incursioni saracinesche delle quali i litoranei d’allora stavano in continuo timore - se li circondarono di mura e Trebbiano munirono anche di forte castello i. 1 Dell’antico castello di Trebbiano, scrive il mio amico Prof. F. Poggi nel volume Γ di Lerici e il suo Castello, dal quale ho tratto molta parte delle notizie per compilare questa memoria, non esistono più che i muri esterni, racchiudenti un piccolo recinto di forma pressoché quadrata, ai cui quattro lati s' innalzano delle torri, due verso oriente quadrate e le altre due rotonde. Le prime sono congiunte, dalla banda interna, per mezzo di un muro, lungo una ventina di metri e sporgente per circa un metro di spessore dal muro di cinta, di cui forse un tempo formava la parte più bassa e più massiccia. Sopra di esso posano due arcate sorreggenti una strada a guisa di pogginolo, la quale corre anche dal lato di tramontana sostenut-parimenti da questo lato da altre due arcate e conduce a una torretta, sormontata da una piccola loggia con sedili di marmo di costruzione recentissima. /18 CA MILL O CIMA TI Non fa quindi meraviglia, per non parlar che di Bar-bazzano, se questo anche per P importanza e il pregio che gli derivava dalP essere un borgo forte, destò subito la cupidigia della vicina repubblica di Genova, che volle averne la signoria, e con, P astuzia o con la forza, riuscì ad ottenerla i. E sembra che la signoria di Genova su Barbaz-zano fosse all’ intorno ben presto riconosciuta, poi che abbiamo da un documento del 1264- che avendo gli uomini d’Ameglia e di Barbazzano assalito con una loro saetta, sopra il Corvo, il fiorentino Lapo di Bompagano, che ritornava con una nave da Pisa, derubandolo di certe mercanzie e denari, esso Lapo ricorse per avere giustizia al vicario del Podestà di Genova. Però, troviamo ancora nelle cronache di non molti anni dopo che Enrico Fucecchio, vescovo di Luni, volendo ottenere dagli abitanti d’ Ameglia e di Barbazzano la rigida osservanza del vassallaggio, a cui erano tenuti verso il vescovato lunense, protestasse per iscritto eh’ egli, nel 1283, aveva speso ben mille lire imperiali per ricuperare i castelli d’Ameglia e di Barbazzano, eh'erano stati presi a tradimento da Guglielmo Mascardo per il Comune di Genova. Ad ogni modo, come attesta un documento del Liber Juriu/n della Repubblica di Genova, proprio intorno a quel tempo, 1 Ma poiché e uomini e Stati, comunque operino, sentono il bisogno di coonestare gli atti loro almeno con le apparenze del diritto e della ragione, Oenova si richiamò a certi atti del llo2, dai Quali risultava eh’essa aveva allora fatto acquisto di certe porzioni del monte Ilicis, dove sorse Barbazzano. 2 Notisi che il primo documento, da cui risulti l’esistenza di Barbazzano, è del 1235, e fa parte di scritture indicate nelP indice del Codice pubblicato dal Mons. Luigi Podestà, riferentisi a contratti privati tra Barbazzanesi. Altre di tali scritture sono del 1288; ed altre ancora, pubblicate nei Manuali delPArchivio notarile di Sarzana, del 1293; ed altre finalmente dal 1293 al 1330, indicate parimenti nei detti Manuali, stavano fra gli Atti del notaro Giovanni parente del quondam Stupio, lo stesso che rogò gli atti della pace del 6 ottobre 1306 tra i laspina e il Vescovo di Luni, cui partecipò Dante Alighieri. BARBAZZANO DEL GOLFO DELLA SPEZIA 119 cioè nel. 15 settembre 1286, certo Oliviero Ottonelli, in nome proprio e nella sua qualità di sindaco degli uomini di Barbazzano, dichiarava di rimettersi nella grazia e nella benevolenza del Comune di Oenova, di fare ammenda di tutte le offese recate al Comune stesso dagli uomini di Barbazzano durante la guerra, allora non ancor cessata, fra i Genovesi ed i Pisani 1 e di obbedirgli in ogni cosa. Prometteva quindi a Giorgio De Mari, vicario della riviera orientale, stipulante pel Comune di Genova, di adoperarsi perchè in avvenire non venisse più fatta alcuna offesa dagli uomini di Barbazzano al detto Comune, nè ad alcuna singola persona di esso, e perchè in Barbazzano e sue pertinenze non fosse accolto alcun fuoruscito genovese, nè alcun traditore od omicida dello stesso Comune, nè alcun debitore di cittadino genovese, ma che anzi costoro dovessero venir consegnati a richiesta delle Autorità genovesi. Prometteva infine di pagare, entro quindici giorni, a Genova una somma di L. 300 a soddisfazione delle offese e 500 per danni, interessi e spese, garantendone il pagamento sui beni degli uomini, dell’ Università e del Comune di Barbazzano. Del resto, una prova della dipendenza, volontaria o forzata, di Barbazzano da Genova, parmi ravvisarla nel fatto che alla Parrocchia di questo borgo fosse dato per titolare e conseguentemente, come d’uso ordinario, per patrono del borgo stesso, San Giorgio, il protettore di Genova. Ed è precisamente da un documento di oltre due secoli dalla data di quelli che abbiam citati che tale fatto risulta. Invero, in un atto del 1500 del notaio Bibolini di Le- 1 La guerra, come è noto, terminò il 6 agosto 1284 con la battaglia della Meloria. Però a me non sembra che dall’atto citato si possa dedurre, come fa il Poggi, che in quella guerra Barbazzano avesse preso le parti dei Pisani contro i Genovesi, ma solo, o molto più probabilmente, che abbia approfittato dell’occasione per tentar di liberarsi dalla signoria di Genova, o quanto meno per sottrarsi ad obblighi che questa gli imponeva. 120 CAMILLO CIMATI rici si parla del conferimento, da parte degli uomini di Tellaro, al Sacerdote Antonio Ronchieri della chiesa di S. Giorgio di Barbazzano, vacante per la morte del prete Si-monini, col patto eh’esso D. Antonio non possa angariare o costringere gii uomini di Tellaro per l’esazione delle decime, nè locare terre, possessioni ed altri beni appartenenti ad essa chiesa, se non agli uomini di Tellaro. Ed in altro atto, rogato l’anno appresso dallo stesso notaio, si parla nuovamenta di detto Ronchieri, rector parochialis ecclesiae S. Georgii de Barbassano de Telario. Ma, per quei due secoli e più, cioè dal 1286 al 1500, manca ogni luce di documenti, anche privati, intorno a Barbazzano *. Che fu di esso in tutto quel tempo ? Più che difficile, è impossibile dirne alcunché di positivo. Ma argomentando dallo stato in cui lo troviamo alla fine del secolo xm, vessato, taglieggiato da coloro che pretendevano averne signoria o giurisdizione - il Comune di Genova da una parte e il vescovo di Luni - dall’ altra -è lecito dedurne che gli abitanti a poco a poco 1’ abbandonassero per ridursi nella vicina Tellaro, altra delle castella o fortezze, che secondo il cronista lucchese Sercambi, Genova possedeva verso i confini di Lucca, dalla parte 1 Sola eccezione a questo silenzio si ha da un Estimo delle chiese della diocesi lunense (compilato in occasione dal Sinodo tenuto in Sarzana negli anni 1470 e 1471, sotto il vescovo Anton Maria Paren-tucelli) in cui figura la rettoria di Barbazzano (G. Sforza: Un Sinodo sconosciuto dalla diocesi di Luni-Sarzana). 2 Da un atto del 22 Giugno 1274 in cui Enrico da Fucecchio Vescovo di Luni fece trascrivere i diritti dovutigli dagli uomini, castaidi, ufficiali di Ameglia e Barbazzano, si ricava che gli uomini di Barbazzano dovevano provvedere la barca quando il vescovo dovesse andare a Roma, Pisa, Genova ecc. Nel detto atto si legge anche la curiosa notizia che Oliviero Cacciaguerra d’Amelia il 15 agosto doveva dare al vescovo tre giumente et facere balneum domino episcopo et aportare aquam de mari et colligere herbas odoriferas ad dictum balneum faciendum (Codice Pelovicino, Regesto, in Atti Soc.Lig.di Stor.Patr. 1912, p 661). BARBAZZANO DEL GOLFO DELLA SPEZIA 121 della Versilia, mossi fors’anche a ciò da quella nostalgia del mare che spinge i liguri ad avvicinarglisi quanto più possono e a riaccostarsiglisi per poco se ne siano allontanati. Ma, trasmigrando a Tellaro, gli abitanti di Barbazzano perdettero naturalmente la loro distinzione nominale dai Tellaresi o forse cedettero a questi, prezzo dell’ ospitalità, i loro diritti sul borgo natio. Quindi si spiega come nel succitato documento del 1500 si parli di conferimento della parrocchia di Barbazzano fatto unicamente dai Tellaresi, e a profitto di questi. Corre anche la leggenda, che vuoisi tradizione tellarese, che Barbazzano sia stato sorpreso e distrutto dai corsari la notte di Natale d’uno dei primi anni della seconda metà del secolo xvi, e quei corsari, secondo l’accennata tradizione, sarebbero stati Mori Catalani, che negli anni dal 1438 al 1442 fecero, come risulta dalla storia del tempo, scorrerie lungo la riviera di levante, saccheggiando e di-struggendo gli abitati indifesi o quasi. E siccome col nome di Mori Catalani la tradizione, a cui mi riferisco, intendeva i pirati in genere, potrebbe anche darsi che distruttori di Barbazzano siano stati i Portoveneresi, già celebri ladroni e infestatori di mari ; e ciò forse per gelosia di mestiere -poiché, come risulta dal sopracitato documento del 1264, anche gli uomini di Barbazzano correvano il mare pirateggiando - e per trarre vendetta di qualche torto da questi ricevuto. Tuttavia, siccome tutti questi indizi del fato tragico di Barbazzano restano molto incerti di fronte alla mancanza assoluta d’ una prova positiva, e la stessa tradizione tellarese può essere stata ispirata dal fatto dell’ incursione che due secoli più tardi, cioè nel luglio 1660, i turchi fecero su Tellaro stessa1 io, senza escludere che una qualche 1 Una nota apposta al libro dei battezzati della parrocchia di Tel-laro per P anno 1660, riportata dal Falconi nella Iscrizione del Golfo di Spezia, reca: «Anno Domini 1660. Sopradicto anno 19 julistriremes turca-rum venerunt ad surripiendum locum Telarii ab oriente summo mane 122 CAMILLO CIMATI incursione nemica su Barbazzano sia stata fatta, come sarebbe provato dalle eversione delle sue mura, che non dovette per certo esser opera degli abitanti, propendo a credere che la fine di Barbazzano sia avvenuta per morte naturale, ossia, per successivo graduale spopolamento. Il quale spopolamento, determinato, come sopra ho detto, dal desiderio di maggior libertà, tranquillità e sicurezza, cominciato forse quando presumibilmente potè aver luogo P assalto nemico che distrusse le mura di Barbazzano e probabilmente ne danneggiò non poco P abitato, cioè, tra gli anni 1438 e 1442, ebbe il suo massimo sviluppo tra quel tempo e la fine del secolo, e continuò ininterrotamente anche dopo, finché Pabbandono non fu completo. Mi conferma in questa opinione il fatto che nel 1500, quando già certamente il grosso della popolazione di Barbazzano era emigrato a Telaro, e, o spontaneamente, o per condizione imposta dai Tellaresi, aveva in prò di questi rinunziato al proprio nome e a' proprii diritti borghigiani, fu lasciata sussistere la parrocchia di Barbazzano (però anche questa nel giuspatronato dei Tellaresi, come abbiamo veduto) e solo verso il 1574 essa venne completamente abolita col condurne il battesimo, secondo Pespressione d’un documento del tempo *, a Tellaro. Si sa, infatti, che Pam-ministrazione del battesimo è di spettanza esclusiva delle parrocchie e ne costituisce la caratteristica essenziale 2. supra Groppinam emissis parvulis ae foeminis ad montes, reliqui ad pugnandum remanserunt. E una nota sul libro dei morti dello stesso anno riferita come sopra, ha: «Die 22Julii 1660 Ea die denuo 6 triremes turearum venerunt ad sur ripie ndam Telar inni. 1 Un atto del libro dei battezzati della parrocchia di Tellaro pel 1764, reca che il giorno 9 aprile di detto anno, il prete Vincenzo Mattanti della Ameglia rettore di detta chiesa battezzò Gioviano, figlio di Battista D 3 Bernardi e di Pellegrina sua moglie, e fu il primo, dice testualmente Patto, che si batezase ne la ciesa de Telara dopo che fu conduio il battesimo da Barbazan in Telara. 3 La tradizione tellarese vorrebbe che oltre il battesimo, fosse condotto allora da Barbazzano a Tellaro anche il battistero, ma ciò è da BARBAZZANO DEL GOLFO DELLA SPEZIA 123 Di Barbazzano, oltre il nome e le poche memorie che ho qui raccolte, oggi non esistono più che alcuni ruderi, sparsi nel suolo dove esso fu, e cioè la porzione inferiore, fino ad una altezza dai 7 agli 8 metri, denudata e sgretolata dal tempo, di una torre quadrata, di cui non riman- gono in piedi che tre lati, l’anteriore con porta che evidentemente serviva d’ingresso al borgo, e i due laterali ; una porzione dell’antico cerchio di muro, o piuttosto di un grosso muraglione a secco, costruito con le pietre delle mura antiche, sulle fondamenta e i primi strati di queste, escludersi. Il battistero non proviene certamente da Barbazzano, ed è lavoro eseguito, per la chiesa stessa di Tellaro nella prima metà del XVII secolo. É una vasca battesimale di tipo comune e di stile barocco, in marmo bianco di Carrara, poggiata sopra un piedistallo a base esagonale, ornato di bassorilievi a fogliami; sulla vasca poggia la lanterna, pure esagonale, con due fori elittici e sormontata da una cu-poletta sferica. Sul plinto della base è scolpita la data 1635. \ parte lo stile architettonico del battistero, basta questa data, indubbiamente quella della sua costruzione, per distruggere la tradizione popolare tellarese. 124 CAMILLO CIMATI il quale partendo dalla torre s’avanza per settantatre metri, e a poca distanza dal punto dove termina il muro, le rovine d’una chiesuola: quattro muri in gran parte diroccati e in quello che serviva di facciata, una porta a sesto acuto con cornice di grosse pietre squadrate. La fantasia popolare si sbrigliò a immaginare che nella chiesa e nella torre fossero stati nascosti tesori ; nè mancarono i cercatori, sicché qualche volta i contadini recandosi agli uliveti videro il suolo tutto sossopra; ma non risulta che siasi trovato nulla, nè nulla mai risultò essersi rinvenuto negli sterri e scavi fatti per coltivazione; e ciò a mio parere sta pure a dimostrare che Barbazzano non fu violentemente distrutto, per invasioni di pirati ma abbandonato dai suoi abitanti per trasferirsi a Tellaro. Ma su questi pochi ruderi, che segnano il posto dove sorse Barbazzano, e s’ anche tragico non ne fu il fato, il viandante si sofferma, pensando eli’ivi, pur nel giro di solo quattro secoli, pochi davvero per la vita d’una popolazione, s’ avvicendarono urne e tombe e tra le une e le altre una gente, per quanto piccola, s’ agitò, lottò, sofferse, pianse, pregò, gioì, sperò, amò e odiò, compediando così in angusti limiti di tempo e di spazio qualunque storia umana. Camillo Cimati RIME INEDITE O RARE di GABRIELLO CHIABRERA Le rime che qui pubblichiamo, se non aggiungono molto ai meriti del Chiabrera, concorrono a dimostrare quanto feconda sia stata la sua vena poetica. Sono sei canzoni eroico-morali (una già pubblicata in minima parte; un’altra totalmente, ma in un periodico raro e con molti errori di trascrizione) ; due canzonette amorose (la seconda delle quali costituiva, originariamente, il seguito della « O man leggiadra, o bella man di rose », N. LxXxin della racc. Geremia, vol. II; cui trovasi accodata nel ms. fiorentino); e tre sonetti di vario argomento. Non è difficile stabilire la cronologia delle sei canzoni. La prima si data da sè, col titolo; è degli ultimi mesi del 1591, ossia del tempo in cui Carlo Emanuele I, chiamato in Provenza dai Marsigliesi, vi combatteva sperando di essere eletto re dei Francesi. Di poco posteriore è la seconda, per lo stesso principe ; poiché vi si esaltano come recenti i casi della guerra provenzale. La terza fu composta dopo che il Batori ebbe ceduta, nel 1598, la Transilvania aH’Imperatore Rodolfo. Nella quarta s’allude alla ferita che Antonio de Medici riportò nella guerra contro il Turco in Ungheria l’anno 1595. La quinta, indirizzata al fratello del Granduca, già « Generalissimo del Mare di Sua Maestà Cattolica », non può assegnarsi che al 1638. La sesta a Giambattista Strozzi (una di quelle che il Chiabrera chiamava più propriamente morali) contiene accenni alla guerra orientale, alTinvasione del Monferrato e alla dimora bolognese del Cardinal Maffeo Barberini; epperò va riferita al periodo 1613-1618, e, con tutta probabilità, all’anno 1616. Invece, degli altri componimenti non sapremmo indicare la data con certezza. Canzonette nel metro di quella Alla Sig. Caterina Catana, il poeta ne scrisse buon numero tra il 1600 e il 1610; e a un Lorenzo Cattanei egli professava amicizia verso quel torno (ved. Lettere di G. Ch., Genova, Ponthenier, 1837, un lxvii e CXVin). Il sonetto per il ritratto della Granduchessa di Toscana Maria Maddalena fu scritto dopo il 1608; e quello che comincia: «Tempo fu...» pare indirizzato all’autore di qualche poemetto religioso. Francesco Luigi Mannucci. 126 F. L. MANNUCCI I. Per Carlo Emanuele Duca di Savoia quando egli lasciò Genova assediata ed andò a soccorso della Provenza. Se vibrare asta e dare aspra battaglia È possente cagion ch’altri si vanti, Per Ossa, per Olimpo e per Tessaglia Vantarsi anco potran gli empi giganti ; Ma sol vantarsi allora Può guerrier quando in arme il cielo onora. Quinci su l’arco infaticabil tende Questo opportuno arder gemino strale; L’un di Marsiglia il Vatican difende, L’altro i perversi di Gebenna assale, E gli empi a lei vicini Empie di tema, abitatori alpini. Sacro portier degli alti regni eterni E già pastor dell’umane alme in terra, Gli occhi rivolgi inverso il mondo, e scemi Come a Fumil tua greggia or si fa guerra Per fera immensa, e come Di te la fede e si disprezza il nome. Porgi tu preghi al fondator dei cieli Sì che a morte si tragga il fiero mostro; Qua giuso arme non hanno i cor fedeli Se costà su non gli arma il pregar nostro; Cada confuso e péra Chi lontano da Dio vittorie spera. Ma tu Perseo d’Italia, or ch’è via chiusa; Corri ne laghi abominati, e tetri; Corri a troncar l’eretica Medusa, Perch’indi poscia l’Ottomano impetri, E con più nobil prova Del tuo prisco Amedeo l’arte rinnova. Prendi a mirar sì come nembo oscuro Copre le ciglia de le menti inferme, Che quasi del morir faccia securo, E sommo pregio altrui vile ozio inerme, Onde da’ rei mortali Virtù ben lunga ha dispiegate l’ali. RIME INEDITE O RARE DI G. CHIABRERA 127 Alma virtù, che su dal cielo adorno Dispregi il mondo, e più noi guardi ornai, Riedi, riedi qua giù ; degno soggiorno Del nobil Carlo nel bel sen farai ; E se torto non miri, Albergo più celeste in van desiri. Biblioteca Reale di Torino, cod. 287, 19. (Le prime due strofe furono pubbl. dal Rua, nel Gior. stor. (1. lett. it.} xxvil, p. 214). II. A Carlo Emanuel Duca di Savoia Del Permesso in su le rive Tra i bei mirti e tra gli allori, Lungo il rio ch’almo discende, Spesso udii l’indite Dive Or cantar soavi ardori Che bel guardo in cor m’accende; Or orrende Miserabili catene Poste in collo a Re scettrati ; Duri fati Da turbar teatri e scene ; Chiaro aprendo a’ cor mortali Che lor ben, son vani e frali. Ma via più cantano altere S’a narrar prendono l’ire Degli eroi frementi in guerra, Il troncar l’armate schiere, Gli ululati in sul morire E de’ morti i monti in terra; Sogna ed erra De’ vulgari il basso ingegno Adorando argento ed oro; Ma coloro Ch’a ragion seggono in regno, San, ch’a’ Regi è propria l’arte, Che in sue scole insegna Marte. 128 F. L. MANN UCCI Anzi il dì che Marte fiero Col tumulto Miceneo llion ponesse in pianto, Per Tessaglia aveva impero Il bon germe di Peleo; Ma per lui non s’udia canto; Ebbe vanto Contra i colpi dell’oblio E del Tempo e della Morte Poiché forte A’ trofei volse il desio Sgomentando i frigii campi Con fulgor d’orridi lampi. E l’alter, cui spirto egregio Già costrinse a trar sospiri Per cantor di sommi onori, Procurando immortai pregio, Non fe’ servi i suoi desiri Di gran gemme a vii fulgori; Geli, ardori, Sotto ciel vario sofferse Guidator d’alta falange ; Indo e Gange Rimirò com’ei disperse L’armi avverse, e come ardente Fulminò su l’oriente. Calliope è forse vile De’ miei duci il pregio eterno Che tu vaghi infra gli estrani? Di Beraldo il cor gentile Trar poteva estate e verno Infra l’ozio de’ Germani ; Ma lontani Cinto d’arme erse trofei Su le sponde di Durenza. O Provenza, Come lieti i versi miei Rammentando antica gloria Del tuo nome or fan memoria A fatica è cheto il suono De le sacre invitte trombe RIME INEDITE O RARE DI G. CHI A BRERA 129 Su’ tuoi campi paventosi La ’ve Carlo quasi un tuono Che fra’ nembi aspro rim bombe Diè spavento agli orgogliosi; Men focosi Son d’Encelado i tormenti Quando in pianto orribil geme, Quando ei freme Fier spettacolo ai viventi, Che non fur le vampe accese Per Calvin, l’empio francese. Di gran duol quante fur voci Largamente a l’aria sparse In quest’ora acerba e dura ! Quanti aitar ! quante fur croci Calpestate in terra ed arse ! Empietà non ha misura ; Gran ventura Fe’ di Carlo il brando amico Di Marsiglia al Vaticano ; Sorse invano L’esecrato, aspro nemico Del gran Duce in paragone ; Sempre invitto è pio campione De l’invidia atra tempesta Già si leva ; ecco per l’alto Conturbarsi il suol marino ; Di venen gonfio s’appresta Ogni mostro a darmi assalto, Fatto avverso al bel cammino; O divino Sgombrator di nembi oscuri, Vibra, Carlo, i tuoi bei raggi ; Miei viaggi Due splendor farà securi ; Nè vedrà l’onda crudele Abbassarmi unqua le vele. Carlo, cento e cento lustri Ha Siroo scorto il tuo sangue Fulminare incontra gli empi ; E tra palme e lauri illustri ! 130 F. L. MANN UCCI- ’ Per vecchiezza egli non langue Vago pur d’eccelsi esempi ; Carlo, adempì De le Muse la speranza ; Ch’io ti tesso auree ghirlande; E s’è grande Il valor di tua possanza, Emmi grazia singolare, Ch’ il delfin nota in gran mare. Biblioteca Reale di Torino, Ms. Varia, n. 288; c. 13. (pubbl. in 11 Baretti, anno VII, N. 1). III. Per Grismondo Batori Principe di Transilvania Empi che tante arene Di nude ossa spargete E carco il tergo e ’l piè forti catene A giogo vii traete, Com’è che in guerra or sì vi cacci al fondo E s’erga al cielo eccelso il buon Grismondo? Scarsa augusta contrada Sue belle leggi intende ; Pur cinto il fianco altier d’inclita spada La tromba a schernir prende Ch’ha tante volte in tanti modi asperso Di pallidezza il volto all’ universo. Empie squadre frementi, Larghi immensi tesori, Ferri tonanti, giostratori armenti V’empion d’orgoglio i cori; Ma che? Se Ί nostro Iddio veglia là sopra E gli altri Dei di mortai man son opra? Se come ben l’adora Il sì gentil guerriero, Così Germania Padórasse ancora, Ah ! che vostr’ empio impero, Vostra fierezza se n’andrà qual gelo Allor che scorre tepido Austro il cielo. RIME INEDITE 0 RARE DI G. CHIARBERA 131 Ma non cada tua speme. Se ne la nobil ira Or mille duci non son teco ·insieme ; Volgi nel petto e mira Qual fé’ già piaga al Madian rubello Del sacro Gedeon l’alto coltello. Crude orribili voci Innumerabil gente Promettean gioghi inusitati atroci Ad Israel dolente, Ma poscia in arme agli orgogliosi avvenne Ciò che dianzi Sinam per te sostenne. Qual se scorge archi e strale Dileguasi augelletto, Tal, fuggendo, Sinam par mettesse ali ; Colmo di ghiaccio il petto Intanto fama dei suoi falsi onori Su l’Ellesponto lusingava i cori. Volta a dolci novelle D’avventurosa sorte Lieta dicea fra le seguaci ancelle La barbara consorte : Egli or percote a’ fuggitivi il tergo ; Però vien lento al disiato albergo. 1 soggiogati regi Stringe in catena acerba E di gemme superbe alteri fregi Per la mia fronte ei serba. Così dicea ; ma quei, spogliato e vinto, Lagrimava angosciato il campo estinto. Bibl. naz. di Firenze. Mgl. Cl. vii, 302, c. 143 r. IV. Per Don Antonio de Medici La dolce, ch’era in sul Parnaso appesa, Ammirabile lira Assai detto ha fra voi come sospira 132 F. L. MANNUCCI Alma d’amore accesa E come vada altier d’un cor ferito Bel viso colorito. Or ell’ama cantar piaghe e veleni Che non soavi sguardi, Ma poco dianzi fèr Scitici dardi Ne gl’italici seni Piaghe che danneran l’altrui viltade Per la futura etade. Or se a grado ti fumo, Arno, i primieri Bei citaristi amanti, Fa che sereno oggi raccolga i canti De’ musici guerrieri ; Che non si giungerà dolcezza al core Per istrano valore. Dolce de’ figli gloriosi il nome AlPorecchie paterne, Arno, raccogli le ghirlande eterne Onde le fresche chiome Del buon Antonio il tuo cospetto onora, Melpomene canora. Qual in teatro corridor che sente L’atteso suon del corso, Divora il calle, empie di spuma il morso, Gonfio di spirto ardente, Tal ei dell’armi al suon mise le penne Fin eh’ al Danubio venne. Ivi tra nembi di ree squadre avverse Sovr’ampio campo aperto Tutto di turca grandine coperto Gran turbine sofferse E le vinte d’orrore armi germane Il miraro lontane. Ah senz’aita il giovinetto appresso Gente vile e crudele..... Ma non vo’ che trabocchi onda di fiele Il mio gentil Permesso : Marte ha riposto ne’ perigli estremi I pregi suoi supremi. RIME INEDITE 0 RARE DI G. CHI A BRERA_133 Qual stella in ciel, tal si riluce in petto Quaggiuso alma ferita ; Or questi ch’illustrar sua nobil vita Col sangue ha per diletto, Di Dirce a’ cigni ognor tanto sia caro Quant’è lucido e chiaro. Bibl. Naz. di Firenze, Mgl. C. VII, 302, c. 36. V. Al Serenissimo Principe Conte G io : Carlo di Toscana G e aeratissimo del Mare di Sua Maestà Cattolica. Strofe D’altre vele il mio legno, Melpomene cortese, armar conviene; Non di Cefiso l’onda o d’Ippocrene S’ha da solcar, ma di Nettuno il regno; Forse paventerem l’orgoglio e l’ira Di tonanti procelle ? Invan torbido Arturo in ciel s’ adira Se rispendon per noi Medicee stelle. Solchi adunque cantando, e ai nostri canti Sparga il fiero Ottoman sospiri e pianti. Antistrofe Dentro agli abissi di una notte densa Sotto caliginose onde profonde Quanto dispone e pensa L’ eterna mente a noi mortali asconde ; Occhio benché linceo Nel discerner il ver quanto s’inganna ! Macchine di Tifeo Nostro pensiero a fabbricar s’affanna, Ma ne’ suoi lacci avvolto Sotto la mole sua resta sepolto. Epodo Su cento navi e cento Là nell’Egeo spumante Già rimiro innalzar barbare antenne ; Ecco preda del vento 134 ___F. L. MANNUCCI Il vessillo ondeggiante Ecco i remi sul mar cangiati in penne Dal grave peso di spalmati abeti Oppressa mugge Paffricana Teti. Strofe Scopre luna infedele Nell’arabico sen turbata faccia, Chè di sangue innocente oggi minaccia Sopra il popol di Dio nembo crudele, Ma destinato a disgombrare il duolo Con maraviglie nuove Sorge propizio al battezzato stuolo Dall’onde Occidentali il Tosco Giove Che Marte sembra all’inimica gente Vibrando rai di morte in occidente. Antistrofe Se dianzi, al fulminar di mille spade Ne’ regni d’Adria in su PAlpine creste, Dall’algose contrade Fuggian le Ninfe impallidite e meste, Qual prenderan consiglio Allor che diluviar di sangue Ircano Divenuto vermiglio Tutto rosseggerà l’ampio oceano E i cadaveri e Possa Faran sorger nel mar l’Olimpo e l’Ossa ! Epodo Ne’ campi d’Anfitrite Scorgo al tuo dolce impero, O gran Carlo, volar spalmate selve; Ai lampi sbigottite Del tuo ferro guerriero Mansuete vegg’io le Tracie belve; Così la fama ti potrà cantare Tifi non sol, ma nuovo Orfeo del Mare. Strofe Là dove al sole espone L’Etiopica Dori il crespo crine, Oppose orride chiome e viperine Contro l’Orca crudel Geteo campione : Apre, Signor, le sanguinose labbia RIME INEDITE 0 RARE DI G. CHIABRERA 135 Fiera belva ottomana, Che per sfogar la velenosa rabbia Predar sempre desia turba cristiana. Vanne e discopri al mostro empio e feroce Medusa no, ma la temuta Croce. Antistrofe Cadranno, o Tosco Alcide, un giorno estinti Dalla tua destra i Persiani Antei E soggiogati e vinti T’adoreranno ancora Indi e Sabei ; Va, Giason fortunato, Là dove fu rapito il vello d’ oro, A portar l’argentato Vessillo onde biancheggi il Lido moro; Fa che sotto l’aurora S’adori ornai al Sol che ’l sole indora. Epodo Le tue sovrane imprese Nell’eterno zaffiro Risplenderanno tra i più degni eroi; Con mille penne accese Già descritte le miro Nel volume immortai, ma non so poi S’ avrà nel ricco suo gemmato velo Stelle bastanti a tante glorie il Cielo. Bibl. Naz. di Firenze, Mgl. CL VII. 9, 878, c. 125. VI. A l Sig.r G io : Batta Strozzi L’aurea catena, onde con doppio onore Mi vien da te la preziosa carta, Perchè dall’amor tuo mai non mi parta, Fatta è corona al collo e laccio al core. Ma non tanto il tesor che ’l vulgo ammira Con quei lampi adorati il guardo abbaglia, Ch’a serenarmi il cor vie più non vaglia L’inclifo don di tua celeste lira. 136 F. L. MANNUCCI Congiuri a’ danni miei fortuna ostile, Chi questo nettar bee, mai non s’affanna ; Nè distillò sì preziosa manna Sugli orti di Calavria alba gentile. Minacceran con suoi veleni ed armi E l’invidia e l’oblio morte al mio nome ; Ma, se di questi allori orno le chiome, Trionfai carro avrò ne’ tuoi bei carmi. Arda Agosto le piagge o geli il verno Fioriran fruttuosi i saggi detti. Nell’orizzonte de’ miei grati affetti Rider faranno un oriente eterno. Altri men lieto accuserà la Parca Prodiga d’oro a tanti, a me sì avara ; Già so ben che il Perù qua non s’impara Con cento chiavi a imprigionar nell’Arca, Miniere altre che d’or virtù promette Se di Castalia ambrosia il petto irrigo ; Cercherò viver sì che a mio castigo Vulcan non abbia a fabbricar saette. Che importa a me che la mia man dimostri Sovra il monte del sol linee felici ? Non son sempre agli scettri i cieli amici E i regi al carro incatenò Sesostri. D’ogni fortuna in terra è vario il corso, Tremar fa l’Asia or Baiazzette armato; Poscia in gabbia sì vii re catenato Ai piè del Tamburlan suppone il dorso. Tra i re l’affanno ambizioso stassi; Ecco or del Po nebbia d’angosce oscura Tragge con dubbio orror Marte e procura Ch’Italian sangue il Monferrato ingrassi. Dall’altra parte Transilvania offesa gotto il giogo ottomano afflitta geme : Ben si può dir con sì dubbiosa speme Più d’un signor se la corona presa. RIME INEDITE O RARE Dì G. CHI A BRERA 137 Io, se nemico non avrò me stesso, Godrò lungi dal ferro un secol d’oro ; Non manca a Povertade il suo tesoro, E di gioia immortai ricco è Permesso. Chi dagli affetti suoi non teme guerra, Ben dir si può che spenga un’idra in Lerna ; Sa trovar pace in cor, quando più verna, Re di se stesso e nuovo Giove in terra. Ne’ regni di Sion domina il giusto, Bench’ei non regga imperatrice verga ; Per tutto è Dio: difficilmente alberga Scelleraggine immensa in letto augusto. Non degna intorno a sè povera veste L’empia tragedia. Insanguinar gli aratri Chi senfe mai pe’ tragici teatri ? In palazzo reai cenò Trieste. Nuova tromba di Marte, aste guerriere, Dedalo di virtù l’ali m’impenni Fuor di tai labirinti. Io qua non venni Bellerofonte a soggiogar chimere. Nè, s’io non splendo d’or, però men caro AlPimmortal Maffeo suona il mio plettro ; Giustizia con pietà regge il suo scettro Ed io qual sia l’idea de’ regi imparo. Speme di merto i favor suoi m’impetra, Più di gloria che d’ostro il crin gli splende ; E come unir si può, Felsina apprende Con la spada d’Astrea, di Clio la Cetra. Bibl. Barberiniana di Roma. N. A. 3044, n. m. xliv. 147, c. 48. 13 S F. L. MANNUCCI VII. Alla Sig.ra C.na Cat.na [Caterina Catana/ Per dure unghie spietate Leon sembra possente, E tal sembra serpente Per labbia avvelenate ; Ma giovinetta etate, Se di bellezza altera Gira gli sguardi armati, Vince gli uomini nati A vincere ogni fera. Oh come ratto allora Dall’oceano uscia E per l’usata via Come facea dimora ! - Ma da la prima aurora Fin ch’egli al mar tornava Gemendo sospirava, Palpitando amoroso Leucotoe guardava. Di beltà sì vivace Sparse Tecmessa ardore Ch’ella distrusse il core Al Telamonio Aiace; Nè di men calda face Al Tessalico amante Accese i desir suoi ; E pur per questi eroi Tutt’Asia era tremante. Spesso atterrossi, spesso, Sì come Amore informa, Cangiossi abito e forma Dal gran disire oppresso ; 11 pregio a lui concesso D’illuminar la terra Quasi egli avea per vile, Sì bel riso gentile Gli fece amabil guerra. Qual uomo alta bellezza Poco devoto ammira S’una sol volta ei mira Ch’il sol tanto s’apprezza? Ei che immensa chiarezza Spande per l’universo Già scolorì suoi rai Per amorosi guai Di pallidezza asperso. E quando spense alfine Ira paterna ardente Del bel guardo lucente Le fiamme peregrine, Ei d’ambrosie divine Cosparse il morto petto Onde il bel corpo amato Venne incenso odorato Al ciel tanto diletto. O degli Aonii allori Giovane amica e vaga Di quegli onde s’allaga Parnaso almi liquori, Lieta cotanti amori Della bellezza intendi, Poscia che nel bel ciglio E nel volto vermiglio Sì ne fiammeggi e splendi. Bibl. Naz. di Firenze, Magi. VII, n. 302, c. 144. v. RIME INEDITE 0 RARE DI G. CHI A BRERA 139 Vili. Strofe che seguono alla canzonetta : « O man leggiadra, o bella man di rose » (II Am., lxxxiii). In su la chioma ed a gentili spirti Sì come Tebe ordì, Acconciava le pieghe del bel velo Quel fortunato dì. Io la mirava attentamente ed ella L’anima mi rapì. Da quel momento in qua, della mia vita Vidi vedovo il sen, E null’altro che foco indi raccolto In vita or mi manti en ; Per te siffattamente, o man di rose, Ardere mi convien. O Clori, amante in duri nodi afflitto Lodarvi mai potrà? Per certo ogni mio spirto arso e riarso Solo lagnar si sa; Ma ben vi loderà, s’unqua apprendete L’arte della pietà. Bibl. Naz. di Firenze. Mgl. CI. vii 10, 356, c. 278. X. Per un'immagine della Serenissima Arciduchessa Maria Maddalena d'Austria Gran Duchessa di Toscana Opera del Bronzino. I più vaghi d’april teneri fiori Che su volto reai sparse natura E della crespa chioma i bei fulgori Ch’ai fin oro degl’indi il pregio fura; I candori del seno onde s’oscura, L’alba quando fra’ gigli ella vien fuori, Formò qui dentro con mirabil cura, Toscano Apelle, il Fiorentino Allori. 140 F. L. MANN UCCI Seco ogni grazia a colorir s’accinse E dagli occhi si tolse Amor le bende E gli resse la man mentre dipinse. Chi l’alta imago ad ammirar non prende? Bronzili la fece e se medesmo ei vinse, Dalla cui destra ogni stupor s’attende. Bibl. Naz. di Firenze, Mgl. Cl. VII, 878, p. 179. XI. Tempo fu che dell’Arno in su la riva Si facevan sentir cigni canori Maravigliosi in contrastar gli onori Di qual cetra più dolce il Tebro udiva; E tempo fu che su la terra argiva Vera nutrice degli altier cantori, Tremavano gli spirti anco a’ migliori Intenti al suon che di Firenze usciva. Or di nobile plettro arma la mano E tempra su’l Sion corde devote Novellamente Peregrin Toscano. E non in van ch’alle soave note Arresta Tonde il Galileo Giordano, E l’eccelso Tabor fronda non scuote. Bibl. Naz. di Firenze, Mgl. Cl. VII, 632, p. 2 XII. Come tosto il vigor n’involi e ’l sangue, Rapace veglio, e pronto a’ nostri danni Muovi il dente vorace e scuoti i vanni Per farne il volto in breve scarno e esangue! Stelle crudeli! è pur [concesso?] a l’angue Cangiar la spoglia e rinnovare gli anni Miseri ; e fra le noie e fra gli affanni Di beltà umana il fior repente langue ; RIME INEDITE O RARE DI G. CHIABRERA 141 Tal dianzi ebbe il crin d’oro, e or l’ha d’argento; Fanciul dianzi già fu cui copron ora Ispida barba e rughe il viso e il mento. Vedesi in oriente, ohimè! l’Aurora E in occidente il sole in un momento. Un dì fugace è l’anno e il mese un’ora. Biblioteca Baibcriniana di Roma; N. A. 3044 nn., xLVl, 17. VARIETÀ INDICAZIONI DI NOTIZIE E DOCUMENTI SU A. D’ORIA E GENOVA TRA IL 1534 E IL 1549. Nei due dotti, densi, importantissimi volumi che Carlo Capasso ha, con lunghi amorosi studi, dedicati alla figura e all’opera del papa Paolo in (C. Capasso, Paolo III in Bibl. stor. Principato, diretto di P. Egidi, voi. il e III, Messina, Principato, 1925) si trovano, nel testo e più nelle note formicolanti di indicazioni bibliografiche e archivistiche, numerosi accenni con notizie e documenti intorno a persone e cose di Genova, e naturalmente in primo luogo ad Andrea D’ Oria, durante il periodo di quel pontificato. Raccogliere quelle indicazioni così sparse mi è sembrato tanto più utile in quanto i due grossi volumi del Capasso mancano di un indice che sarebbe stato certo ampio e laborioso, data la moltitudine delle persone e dei luoghi nominati, ma di indiscutibile utilità, dopo le più che 1400 pagine dell* opera. Vol. I pag. 9, η. 1. Tutta un*ampia, importante fonte di notizie intorno ad Andrea D’Oria si ha nelle moltissime e importanti sue lettere inedite, che sono distribuite anno per anno dal 1534 al 1546 nAVArchivio generai de Simancas - Estad legajosy dal n. 1367/ 524 al 1380/ 539. Esse meriterebbero di essere raccolte. Ibid. Giudizio delPambasciatore imperiale a Roma, card. Garcia de Loaysa, in lettera del settembre 1531 sul governo del D’Oria a Genova « viendo che el [D'Oria] gobierna la ciudad y quel governo hecho es cerimonia pues no se hace sino lo que el orden ». Arch. Simancas Est. legajo 852/317. Ibid. pag. 12, n. 4. Sui tentativi della Francia per ordire trame e suscitare congiure in Genova, importante la corrispondenza dell’oratore^ cesareo a Genova Gomez Suarez de Figueroa, e specialmente una lettera del 7 marzo 1534 su DOCUMENTI SU A. D} ORI Λ E GENOVA 143 un complotto preparato da Paolo Fregoso ed altri contro il D’ Oria - Ardi. Si/nancas, Secr. Mar y Tierra; legaio 5. (Per queste mene Cfr. A. Neri, A. D’ Oria e la corte di Mantova, Genova, 1899, pag. 43 sgg.). Vol. Il, pag. 578, n. 2. Tutta la corrispondenza del Figueroa, ambasciatore imperiale a Genova, dal 1534 in Arch. Sirnan-cas Est. dal legalo 1367/574 in poi. Vol. I pag. 99-100 e η. 1. Ordini e istruzioni di Carlo V ad A. D’ Oria per preparare la difesa dei regni di Napoli e Sicilia contro i barbareschi; lettera 11 giugno 1534, Arch. Si/nan cas Est. legajo 861 / 320. Ih., pag. 101 e n. 3. Paolo in, appena eletto, invita A, D’ Oria a recarsi a Roma per trattare della difesa contro i barbareschi. Archivio segreto Vaticano, Minut. brev., Arm. 40, to. 49, il. 12. Ih., pav. 100, η. 1, pag. 101 e n. 6. Il D’Oria che si era mosso da Napoli alla notizia della morte di Clemente vii, tratta subito col nuovo papa accontentandosi di un contributo di navi anche minore di quello ch’egli offriva, purché immediato. Lettere deU’ainbasciatore imperiale Ciffuentes da Roma 3 ottobre, Arch.. Si/nancas Est. leg. 1310/501 ; e 29 ottobre ibip. 861 / 320. Ib., pag. 104 e η. 1. Francesco i non vuol unire le sue navi a quelle del papa per combattere i barbareschi temendo un attacco del D’Oria su Marsiglia - Lettera Ciffuentes, 4 aprile 1535, Arch. Si/nancas Est. leg., 863/321. Ih., pag. 114-115 e n- 3. Dopo la presa di Tunisi per parte di Carlo v, il D’ Oria con le sue lentezze impedisce la spedizione di Algeri. Questa attitudine più che a negligenza o incapacità, va riferita a ragioni politiche, al suo desiderio cioè che l’imperatore non si trattenesse sulle coste d’Africa come volevano gli spagnuoli, ma passasse subito in Italia. Lettere dell’oratore mantovano Ciovanni Agnello al duca di Mantova; 5, 6, 13 agosto e dell’oratore Fr. Peregrino al duca, 26 agostoT Ardi, di Stato, Mantova, fase. 885. Ib., pag. 228 e n. 3, 268-9 e note. A. D’Oria è mandato a Genova dall’imperatore per intensificare gli armamenti contro la Francia. A Genova si concentrano i fanti e i denari provenienti dalla Spagna e si allestiscono le altre cose neces- 144 VITO VITALE sarie. Il D’ Oria sostien la spedizione di Provenza e spinge insistentemente Carlo v all’azione. Numerose sue lettere in proposito, del marzo 1536, Arch. Simancas, Est. leg. 1369, 1525 (Cfr. Gaetano Capasso, Un manipolo di lettere di Andrea e Giannettino D’ Oria, in Giornale storico e letterario della Liguria, 1906, p. 37. Ib., pag. 292-293, η. 1 (con ricca bibliografica). Tentativo del conte Guido Rangone, d’accordo coi Fieschi e coi Fregoso, di attaccar Genova (30 e 31 agosto 1536), fallito per i soccorsi mandati da Andrea Doria. Lettere del Doria e del Fi-gueroa in Arch. Simancas, Est. leg. 1369/525; Arch. di Stato di Modena, Avvisi, 31 agosto. Ib. pag. 302 sgg. Convegno di Genova tra Carlo V e Pier Luigi Farnese legato di Paolo III, che non riguarda però partico^ larmente cose genovesi. Ib. p. 434 e n. 2. Rapporto di A. Doria all’imperatore sulle varie offerte di Ariadeno Barbarossa, coi suoi giudizi e rilievi e con la conclusione non sia da prestarvi fede, Arch. Simancas, Est. leg. 204. Ib., pag. 438-9. Azione del D’Oria nella mancata difesa di Corfù contro Solimano ; sue spiegazioni e malcontento del papa. Lettera D’Oria « de Galera da Napoli » 16 settembre 1537; Arch. di Stato, Parma, Carte farti. Napol; Lettera Arcella ibid. ; Lettera Rivaliati al nunzio di Spagna, 20 sett. ; Arch. Vaticano, Lett. Principi, voi. 14 A, fol. 24 sgg. Ib., pag. 451, n. 1. L’oratore imperiale a Roma Aguillar comunica al D’ Oria la costituzione della lega cristiana contro i Turchi, 15 agosto; Are. Simancas, Est. leg. 866/322. Ib., pag. 431 n. 3 e 493 n. 4. Domenico Centurione mandato dal Papa a trattare col Duca di Savoia la cessione della rocca di Nizza prima del convegno che Paolo III doveva avervi con Carlo V. Lettere Centurione, 5 maggio 1538, Arch. di St. Parma, Carte Farnesi Genova; 7 maggio: ibid.: Nizza\QAx. anche Venetiani sche Despëschen vom Kainserhjfe, Wien, 1889, vol. I, 20). Ib. pag. 555 sgg. Per tutto quanto si riferisce al disgraziato episodio, della Prévesa e alla responsabilità del Doria, è da vedere tutto il cap. VIII e specialmente le pag. 568-572. Le conclusioni sono riassunte nel « Caffaro» di Genova del DOCUMENTI SU A. D’ ORIA E GENOVA 145 settembre 1925. Questioni, storiche. Andrea Doria alla Pre-vesa. Vol. II, pag. 38 e n. 4. Azioni del Doria presso Brindisi contro i Turchi, e sospetti dei Veneziani. Lett. 9 agosto 1539 del Papa al nunzio Poggio in Spagna, Arch. di Stato, Napoli, Cart. farnes., fase. I, e lett. Diego de Mendoza oratore a Venezia, 3 sett. 39, Arch. Simancas, Est, leg. 1314(503. Ib. 57 sgg. Nuove trattative tra l’ imperatore e Barbarossa e parte avuta dal D’Oria, che in quelle piatiche aveva però poca fiducia. Lett. Doria all’imperatore, 7 sett. 1539, Arch. Simancas, Est. leg. 1372/526; Istruzione di Ferrante Gonzaga ibid., Armadas y Galeras 442/193 e un suo Discurso sobre las cosas de barbaroxa ibid. Ib. 211, η. 3. Preparativi del Doria per la spedizione di Algeri (1541). Sue lettere all’imperatore Leg. 1374 527. Ib. 269, n. 2. Difese di Genova, Portofino e Portovenere nella guerra del 1543: Arch. Napoli, Carte farnes., fase. 731, cifra. Ib. 296 segg. Passaggio di Carlo V da Genova e suo incontro con Pier Luigi Farnese. Lettera di P. L. al card. Farnese, 22 maggio 1543, Arch. Stato Napoli, Carte farnes. fase, j a; lett. P. L. a Verallo, 14 giugno, Arch. Vaticano, Lettere Principi, 13, fol. 47 sgg.; lettere dell’imperatore a Conchano, da Genova 14 maggio, Archives Bruxelles, Puiss-Etrang. fol. 434; id. al figlio Filippo, da Genova, 30 maggio e 9 giugno; Arch. Simancas, Est. Leg. 59. Ib. 356 e n. 2. Giannettino D’ Oria cattura quattro galee pontificie, non per ordine deirimperatore, ma per suo « interesse particolare». Questioni che ne derivano col papa, agitazione a Genova, ordine imperiale di restituzione. Narrazione dei fatti in Arch. distato, Modena. Avvisi, 18, 20, 28 agosto 1544, Lettera del nunzio a Napoli Fabio Arcella, 16 ag., Arch. Stato, Napoli, Cart. farn. fase. 709; lettera dell’imperatore da Chalontf, 30 luglio « nos havemos meravillado mucho y lo havemos tenydo por estrano » Arch, Simancas, Est. leg. 872/324. Ib. pag. 579-580 note. Cenni, con bibliografia, della congiura dei Fieschi, importante la notizia di una lettera del S. Mauris al Covos de Blois in cui si accenna che il Fieschi aveva mandato in Francia per aiuto contro i Doria, che il re non ne aveva voluto sapere, mentre il delfino era favo- 146 VITO VITALE revoie e infine la cosa era stata differita. Arch. nation. Parigi, Sim. K 1485. Relazione della congiura, di Ferrante Gonzaga al fratello duca, 3 gennaio \541, Arch. Stato, Mantova, ï&sc. \9\b\ del fratello al Varchi, 28 maggio 1550, Arch. Stato, Firenze, Mediceo, 328 (altre del Doria in NERI, A. Doria e la corte di Mantova, pag. 110). Delle provvidenze da lui prese in seguito alla congiura, parla il Gonzaga, governatore di Milano, nelle lettere 2, 6, 14 febbraio, Arch. Simancas, Est. leg. 1194/454, e 18-19 genn. pubbl. in Documenti ispano - genovesi (Atti Soc. lig. di St. pat., vili, 335 sgg.). Le lettere di don Ferrante, di questi anni, sono numerosissime e originali in Arch. Simancas, Est. leg. 1193/453 e 1194/454. Nell’edizione dei Documenti ispano - genovesi le lettere pubblicate, anche relative a cose genovesi, sono inferiori a quelle rimaste inedite, moltissime e interessanti. Al carteggio del Gonzaga deve essere poi accostato, per le risposte, quello di Natale Musi, suo agente alla corte imperiale, che si trova nella Biblioteca Palatina di Parma. La discussione del Capasso (pag. 580, n. 1) sulla presente partecipazione dei Farnese alla congiura è riassunta in Questioni storiche : Fieschi e Farnese, « Caffaro » di Genova, 1υ settembre 1925. Ib. pag. 605, η. 1. Per la congiura che uccise Pier Luigi Farnese e il giubilo dei Doria, lettera di Antonio Doria, 14 settembre in Arch. Stato, Parma, Carte James., Genova. Ib. pag. 638 e n. 5-6; 699, n. 7. Ferrante Gonzaga mette in guardia Andrea DOria contro trame ordite a Genova e lo aiuta, lettere 6 febbraio e 7 marzo 1548, Arch. Simancas, Est. leg., 1195j455, in cui accusa anche il papa di avervi mano e i rappresentanti imperiali a Genova di fiacchezza. Ma, come è noto, non riesce a indurlo alla costruzione della fortezza desiderata del Figueroa (lett. 26 febbraio, 20 marzo, 24 maggio; ibid) e che anch'egli crede assolutamente necessaria per tenere a freno i genovesi (lett. 15 giugno, ibid.); tanto più che, come scrive alP imperatore il 9 marzo (ibid.), tutti gli diventano nemici in Italia, persino a Genova. Vito Vitale DAGLI EPIGRAMMI DI GIAN CARLO DI NEGRO 147 DAGLI EPIGRAMMI DI GIAN CARLO DI NEGRO Il Marchese G. C. Di Negro pubblicò nel 1848, con i tipi del R. I. de’ Sordomuti di Genova, una raccolta di epigrammi, scritti « mano a mano », come narra egli stesso nella prefazione, « che si avvicendavano i destini europei ». Queste poesiole, più importanti sotto il rispetto storico-politico che letterario, sono oggi quasi irreperibili. Ne riferiamo alcune, che riflettono le opinioni professate dal liberale patrizio e for-s’ anche da molti frequentatori del notissimo suo cenacolo. Nel 1814, egli cantava (p. 5) : Il Congresso di ViennaTfa le carte; L’Inglese ruba e raspaci’Alemanno; Libertà fugge; è vinto Bonaparte; E la Liguria è avvolta in bruno panno. e poco dopo aggiungeva (p. 12) : I Politici fiso han l’occhio a Norte, Chè dall’Anglia si parte un turbin fiero. Quale sarà dei popoli la sorte ? Ristretta a declinare il verbo spero. Conclusosi il trattato di Parigi, egli ironeggiava così sulla partenza degli Inglesi da Genova (p. 7) : Parton gl’ Inglesi, e la città sen duole; Chè si apprese in politica da loro, Che son le verità, come le fole, In bocca al vincitore un gran tesoro; e lamentava in questi versi l’annessione della Liguria al Piemonte (p. 28 e 101): Nei tempi antichi Genova fioriva In toga e in armi libera reina; Venduta dagli Inglesi, ora captiva Piange, qual Mario, sulla sua ruina. È la tratta dei Negri alfin proibita Ch’ era il disdoro dell’ umana vita; Ed ora in questi tempi illuminati I popoli si vendono e gli Stati. 148 F. L. MANNUCCI Commentava intanto la caduta di Napoleone (p. 6): Perchè fortuna lo cacciò nel fondo, Di Buonaparte tutti dicon male; Ma, se tornasse a governare il mondo, Sarebbe il Redentore universale. Ecco poi il suo pensiero sulla rivoluzione spagnuola (p. 7) : In movimento rivoluzionario E fatalmente oggi 1’ Ispania terra. Della sua libertà chi fia il sicario? La Francia in amistà con l’Inghilterra. Dichiarava più tardi, a proposito forse del moto costituzionale (p. 6): Non è il mio spirto rivoluzionario, Ma al dispotismo sarò ognor contrario. Amo che all’ombra della legge ognuno Trovi giusto soccorso ed opportuno. 1 tentativi unitari lo lasciavano scettico, sebbene l’idea d’una patria unita gli sorridesse quanto mai (p. 137): L’unità dell’Italia è una chimera; La vedria di mal occhio Europa intera; La politica astuta farà tutto Perchè l’alber non dia sì caro frutto. Infine, del mazzinianismo repubblicano sentenziava, verso il 1848 (p. 118): Proclamar la Repubblica è un gran male Or che l’Italia sorge liberale : La setta di Mazzini la promuove : Sarà come il Titano in faccia a Giove. (F. L. M.) RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Dante e la Liguria. Studi e ricerche. Milano, Fratelli Treves, 1925, in-8, pp, vili - 442. Il volume che la Sezione ligure della R. Deputazione di stoiia patria per le Antiche Provincie e la Lombardia deliberò di pubblicare a celebrazione del sesto centenario e ad esempio e a illustrazione degli studi danteschi in Liguria, se, per ragioni varie, d’indole specialmente tipografica, esce con notevole ritardo, nulla perde della sua importanza e del suo valore, e prende onorevolmente posto tra le pubblicazioni consimili che in molte regioni d’Italia furono consacrate ai Mani del Poeta. E’ un’accolta di studi vari di carattere e di mole, ma tutti degni dell’altezza dell’argomento, tutti per importanza di ricerche per serietà di risultati, per valore letterario e scientifico ben meritevoli di far parte di una pubblicazione che non è effimera occasionale celebrazione, ma raggio duraturo dell’ attività letteraria ligure e del culto di Dante in Liguria. II volume è diviso in tre parti: la prima, Dante e la Liguria, si apre con uno studio su Dante e il dialetto genovese nel quale il compianto Ernesto Giacomo Parodi con la consueta mirabile dottrina e con molta elegante e spigliata vivacità, pur in materia così severamente scientifica, studia il celebre passo del De Vulgari Eloquentia intorno al dialetto genovese, ove si dice che, se i Genovesi dovessero per dimenticanza omettere di pronunciare la lettera z, dovrebbero o totalmente ammutolire o addirittura procurarsi un’altra favella : infatti quella lettera ha una gran parte nella loro elocuzione e la pronunciano « non sine multa rigiditate ». E bisogna riconoscere, conclude il Parodi, che, se il moderno dialètto non abbonda di z, anzi non ne conserva la minima traccia, è assai probabile che allora, tra i dialetti principali dell’Alta Italia, il genovese fosse quello che si era spinto più oltre nelle sue preferenze per la disgraziata sibilante: e perciò bisogna adattarsi pazientemente a riconoscere eh’ era in colpa 150 VITO VITALE verso le delicate e forse un poco mal prevenute orecchie del divino Poeta. Sicuro, incalza Paolo Revelli, in La Liguria nell'opera di Dante; ma questo stesso accenno e l’jsplicita indicazione della rapidità del cammino onde Vassi in Sanleo e discendesi in Noli, o quella che scolpisce P asperità del passaggio attraverso l’impervia Liguria: Tra Lerice e Tuibia, la più diserta, la più rotta ruina è una scala, verso di quella, agevole ed aperta; e le famose parole con le quali Ottobono Fieschi, per breve tempo pontefice col nome di Adriano V, indica il corso del fiume Lavagna e il nome della propria famiglia: Intra Sèstri e Chiaveri s’adima una fiumana bella, e del suo nome lo titol del mio sangue fa sua cima, questi accenni e l’episodio celeberrimo di Branca Doria forniscono molteplici ragioni e argomenti, se pur indiretti, per inferirne una immediata e precisa conoscenza e quindi il passaggio almeno, se non la dimora, di Dante in Liguria e a Genova. E da questi argomenti e da queste ragioni, con larga erudizione e con accento vivace e appassionato, l’illustre geografo ricava un quadro suggestivo della Liguria nell opera di Dante e della Liguria al tempo di Dante. A sua volta Arturo Ferretto, il ricercatore acuto e paziente, per il quale i registri e le filze deU’Archivio genovese non hanno segreti, compensandone con ghiotte rivelazioni 1 industre fatica, fa passare dinanzi agli occhi dei lettori, rievocandole dalle pagine dei cronisti e dagli aridi atti dei notai, numerose figure della Divina Commedia, da Bonturo Dati, il lucchese tuffato, come barattiere, nella pece bollente, all’ infelice Corradino di Svevia, da Marzucco Scornisciani « Lo buon Marzucco forte » della turba spessa dei neghittosi nell’Antipurgatorio, a Romeo da Villanova, dal conte Guido da Montefeltro a quei Fieschi di Lavagna dei quali il Ferretto si è tante volte occupato e che richiamano, a proposito della celebre terzina, la polemica da lui sostenuta alcuni anni or sono col prof. Chiama sulla identificazione del Siestri Dantesco; polemica che ora, con l’autorità anche RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 151 del Revelli, può dirsi definitivamente risoluta nel senso appunto difeso dal Ferretto. In altro campo trasporta Francesco Luigi Mannucci, studiando con vastità di dottrina e profondità di acume, soltanto superate dal calore del sentimento, V ideale politico di Dante Alighieri e il verbo di Giuseppe Mazzini. 11 più .grande non solo dei Liguri ma degl'italiani moderni ha visto in Dante un’Italia risorgente dall’abbiezione, destinata a una missione umana di rinnovamento e di guida, composta nell’ indispensabile unità nazionale. L’interpretazione del pensiero politico di Dante nella sua precisa estensione non è certo sicura e indiscutibile : e il Mannucci studia e discute le varie interpretazioni e Γ ipotesi di un pensiero dantesco precisamente unitario anche in studiosi recenti come Francesco Ercole. Ma che importa - egli dice - se a Dante il profeta attribuisce anche quel che forse non era nel suo pensiero, se anche oggi dopo tante dotte discussioni e tanti appassionati dibattiti non sia possibile precisare con esattezza indubitabile fino a che punto il poeta abbia pensato all’unità politica e morale dell’Italia, a un’ Italia stato moderno? A volta a volta, nei vari momenti della vita nazionale, nel Poeta è stato ricercato anche quel ch’egli probabilmente non ha detto e non poteva sentire, per vedervi riflesso li bisogno di tempi e spiriti diversi, tutti ricercantisi in quella immagine d’italianità, in quella prima e massima manifestazione dell’anima nazionale. Qual meraviglia che a Dante abbia prestato il suo pensiero politico e abbia attinto il suo ideale umano Giuseppe Mazzini ? Chiude la prima parte un garbato ed elegante articolo nel quale Orlando Grosso studia le figurazioni artistiche di argomento ligure o inspirate ad artisti liguri dall’opera dantesca, notevoli specialmente nell’ultimo secolo. Ma più importante che nelle arti figurative è, naturalmente, l’influenza del Poeta nella poesia. Si passa così alla seconda parte: Liguri imitatori e studiosi di Dante, che si apre con un ampio lavoro nel quale, con la solita ampiezza e sicurezza d’informazione e acutezza d’indagine, Santino Caramella parla del maggiore dei liguri imitatori di Dante, Bartolomeo Gentile Fal-lamonica, e ne investiga e chiarisce la personalità e la figura spirituale attraverso un minuto ed esauriente esame filologico e filosofico del poema anepigrafo da lui lasciato e chiamato dai posteri semplicemente col nome di Canti, vasta esposizione en- 152 VITO VITALE ciclopediea in terzine di tutto il sistema della realtà, per cui l’autore trascorre dietro la guida sapiente di Raimondo Lullo, il suo Virgilio. A sua volta sotto la mano esperta del giovane e dottissimo filosofo l’esame intrinseco del poema e delle sue derivazioni dantesche si allarga a un raggio originale sulla storia e la fortuna del lullismo al principio del 500, sulla dottrina del-1’ Universo e dei mondi secondo il sistema lulliano esposto dal Fallamonica con colorito e venature dantesche. È questo indubbiamente uno dei saggi più densi e più originali del volume. Segue il Mannucci, 1’ infaticabile ordinatore della raccolta, parlando del Chiabrera non come imitatore di Dante, che tale realmente non fu, ma per le sue pretese di accomodare, nientemeno, i versi danteschi, e per i suoi, talvolta, strampalati giudizi, come quando il Savonese trovava addirittura una zeppa nella celeberrima delimitazione geografica: Sì come a Pola presso del Quarnaro Ch’ Italia chiude e i suoi termini bagna ; e si chiedeva se non sarebbe stata più schietta ed efficace la comparazione senza quel riempitivo ch’Italia chiude? «Oh buon Chiabrera! —commenta giustamente il Mannucci — Quel verso ricorda ciò che voi in tutte le vostre poesie così risonanti di rettorica, avete dimenticato: che v’è un’Italia, segnata nei suoi c )iifini dalla storia e che codesta Italia s’affaccia già in Dante. E.I è, quel verso, visione, ed è sentimento: non particolare sovrabbondante messo a petizion di rima!». Un nutrito manipolo di studj, eleganti insieme ed eruditi, si occupa degli altri liguri studiosi imitatori di Dante : di Bernardo Laviosa parla con ampia notizia Carlo Calcaterra, di Lorenzo Costa e di Federico Alizeri con la consueta signorile eleganza Silvio Bellotti, e dell’Alizeri, il maggior commentatore ligure dantesco, in una commossa pagina proemiale anche il Parodi, che, scomparso mentre il volume si componeva, è a sua volta ricordato con ammirata devozione da Alfredo Schiaffini, mentre Camillo Guerrieri Crocetti ricorda affettuosamente Stefano Grosso, e Angelo Redaelli, da poco scomparso anche lui, dedica alcune argute pagine a un curioso gesuita, Giambattista Pastorini, un commentatore di Dante animato da caratteristico spirito antidantesco. La terza parte Con Dante e per Dante in Liguria contiene la descrizione di frammenti di codici danteschi scoperti a Chia- ____RASSEGNA BIBLIOGRAFICA__153 vari dal prof. Leopoldo Valle e da altri sulle sue orme ; la descrizione del codice Baratta pure dovuta al Valle e quella dei tre codici della Commedia conservati nella biblioteca dei Marchesi Durazzo-Pallavicini dovuta ancora al Mannucci. Finalmente, in quasi duecento fitte pagine, magnifico e compiuto lavoro, la preziosa bibliografia ligure dantesca compilata dal Valle. Chi esamina questa sua fatica apparentemente modesta, con una conoscenza appena lontana e superficiale di così fatto genere di lavori, si chiede ammirato quanto tempo, quanta industre e paziente competenza, quanto acume e sicurezza di giudizio debba essere costato l’ordinare e vagliare Γ immenso materiale raccolto. Fatica doppiamente meritoria: dal punto di vista della coltura, per l’abbondanza e la compiutezza delle notizie, onde chiunque voglia essere informato di ciò che è stato scritto in Liguria 0 da Liguri intorno a Dante, di ciò che in Dante riguarda la regione o i suoi personaggi, di tutto insomma quel che unisca direttamente o indirettamente Dante e la Liguria dovrà ricorrere a quest' opera diligente e sicura ; dal punto di vista regionale e locale, perchè, raccogliendo per la prima volta in modo compiuto tutto questo materiale, mostra in limpida luce la partecipazione varia, molteplice, efficace della regione ligure agli studi intorno al poeta, « che Italia tutta onora» perché si sente in lui insuperabilmente espressa e rappresentata, perchè ha visto e vede in lui, come il Balbo diceva « l’italiano che più di niun altro raccolse in sé 1’ ingegno, le virtù, i vizi, le fortune della patria, l’italiano più italiano che sia stato mai ». Dai codici alle edizioni, dai commenti agli studi storici e critici, dalle poesie ispirate dal poeta o dall’opera sua o a lui rivolte, alle traduzioni dialettali del poema, dalle opere massicce e voluminose agli articoli di giornale e alle recensioni, c’è tutto: e la fortuna di Dante, attraverso ai tempi diversi e il mutar delle condizioni e degli spiriti, si segue agevolmente, e il lavorio continuo e continuamente rinnovatesi sui punti più disputati e incerti, sui personaggi più celebri 0 più egnimatici. Chi voglia sapere quel che è stato scritto, per esempio, intorno ai rapporti di Dante con la Liguria, o su Branca D’Oria o Alagia 0 Bonifazio Fieschi 0 Adriano V ; chi voglia seguire le discussioni e le opinioni intorno alla famosa lettera con la quale 154 ERNESTA BERTELLI Frate Ilario del monastero di Santa Croce del Corvo avrebbe mandato per incarico di Dante, passato di là per andai e in Francia, Γ Inferno a Uguccione della Faggiola, troverà qui una quantità di materiale da restare atterrito. Meno male che 1 indicazione è fatta in modo da permettere un sicuro orientamento e che un minuzioso e diligente indice per materie agevola qualunque ricerca. Così questo denso volume coi suoi studj originali, con 1 e-sanie critico dell’opera degli studiosi precedenti, con l’indicazione bibliografica di tutta l’attività ligure dantesca, menti e attesta onorevolmente come, non meno delle altre regioni, la Liguria ha costantemente e devotamente commentato, studiato, esaltato il Poeta che assomma ed esprime la più alta virtù della stirpe, è esso stesso una valorosa affermazione e una nobile conferma di questa costante e fervida tradizione del culto di Dante in Liguria, VITO VITALE Carlo Bornate, L'insurrezione di Genova nel Marzo /52/, estr. dalla Biblioteca di Storia Italiana Recente della R. Deputazione sovra gli studi di storia patria per le antiche Provincie e la Lombardia, voi. xi, Torino, Bocca, 1923. Nel presente volume il Bornate fa uso di un largo e pie-zioso materiale, sinora inesplorato; anzitutto degli Atti dei «Processi del 1821 » depositati nel Museo del Risorgimento a Genova (Palazzo Bianco), poi di altri documenti trasmessigli dagli Archivi di Torino e di Milano; e ne trae nuovi elementi per una ricostruzione precisa e ampia dell’ insurrezione di Genova nel 1821, correggendo e integrando acutamente le versioni precedenti. Egli divide il suo lavoro in cinque capitoli : La preparazione, L’inizio deir insurrezione, Il 23 marzo, Le conseguenze della sommossa, L'epilogo. Aggiunge un’Appendice in cui si trovano alcuni dei più importanti documenti su accennati. Nel cap. 1. si esaminano, cou la scorta dei più autorevoli storici, dagli antichi ai più recenti, le cause remote e piossime dell’antagonismo tra Genovesi e Piemontesi, cause politiche ed economiche, ma sopratutto queste ultime, tanto gravi da giustificare veramente le attive pratiche dei Genovesi per impedire _______RASSEGNA BIBLIOGRAFICA___/55 I unione della vecchia repubblica al Regno di Sardegna, quando ormai l’annessione era progettata dai sovrani alleati nel 1814. II B. ricorda opportunamente qui 1’ opera diplomatica di Agostino Pareto, inviato dai Genovesi a Parigi per difendere la loro causa presso lord Castlereagh, mentre al congresso di Vienna veniva mandato il marchese Antonio Brignole - Sale. L’ opposizione dei plenipotenziari inglesi ed austriaci ai desiderii espressi dal governo genovese era mossa dall’ intento di opporre un baluardo alle velleità imperialistiche di Francia: ma il motivo recondito delPannessione era di soffocare in sul nascere un centro di propaganda rivoluzionaria, formatosi a Genova, per affermazione dello stesso Metternich. Da notare è pure la proposta di una costituzione per la Liguria, che il Brignole presentò ai plenipotenziari di Vienna quand’ebbe perduta ogni speranza di ottenere l’indipendenza. Tale progetto di costituzione naturalmente fu dichiarato inaccettabile dal conte S. Marzano, ministro del Re Vitt. Em. I, nonostante che il Brignole affermasse che il sottoporre i Genovesi allo stesso regime di governo degli altri sudditi del re di Sardegna si doveva considerare come un’ingiustizia intollerabile. A Genova furono concessi privilegi irrisori e l’avvenuta annessione della Liguria al regno di Sardegna, ratificata il 12 Dicembre, destò grave malcontento fra i Genovesi che accolsero diffidenti il nuovo Governo, sebbene possa parere altrimenti dalle comunicazioni officiose della Gazzetta di Genova (v. pag. 7 nota) e dalle dimostrazioni di ossequio della Municipalità al Re di Sardegna. Il Re si mostrò affabile e largheggiò nel concedere onorificienze : ma nulla fece per abbattere il malumore profondo e ben giustificato della popolazione : anzi mantenne le barriere doganali tra Liguria e Piemonte ed estese alla Liguria i vecchi metodi amministrativi piemontesi, contrari agl’ interessi commerciali dei Genovesi. Si spiega, in tal modo, come dagli animi esasperali fosse accolta e favorita la diffusione delle Società segrete dei Carbonari, degli Adelfi, dei Federati, dei Concistoriali. Che la propaganda di tali società fosse in Genova attivissima, è dimostrato da testimonianze raccolte e vagliate dagli studi storici più recenti e confermate ora dalle ricerche del Boriiate sui nuovi documenti. Veramente singolare è, oltre al rapporto del Dolce (informatore della Polizia Austriaca) intorno alla setta dei Concistoriali o Filadelfi, un rapporto del Frizzi (già confidente del \ 156 ERNESTA BERTELLI governo britannico e poi deH’austriaco). Il Bornate lo trascrive interamente da una copia che si trova nel Museo del Risorgimento di Genova (l’originale è nell’archivio di Stato a Milano). Il Frizzi osserva che lo stato di Genova si trovava allora diviso in cinque partiti: Aristocratico, ossia quello dell’antica Repubblica, Democratico, Bonapartista, Indipendente, Austriaco; e sopra ognuno di questi partiti dà copiose ed interessanti notizie giusta i vari ceti: nobili, negozianti, professionisti, impiegati, basso popolo, contadini. Nota poi che l’aspirazione comune a tutti è l’indipendenza; ma non mancano quelli che la ritengono impossibile e preferirebbero a qualunque altro il dominio dell’Austria. Esposte infine le varie ragioni che, secondo lui, giustificavano tale preferenza, fomentata pure dall’odio assai vivo verso i Piemontesi, per la cattiva organizzazione del loro governo, dà minuti ragguagli sulla deficiente amministrazione del potere giudiziario sì civile che criminale, sul pessimo funzionamento delle dogane, delle gabelle, sulla scarsa preparazione della milizia e delle fortificazioni, fornendo un Quadro caratteristico dei principali individui dello Stato ligure, in cui passa in rassegna i più notevoli personaggi di Genova in quel tempo. Anche da questo interessante documento il Bornate attinge abbondanti notizie in tutto il corso del suo lavoro, presentando i principali attori dei fatti di Genova nel 1821. La propaganda settaria in Genova da parte di emissari di Sicilia e di Lombardia, già provata da vari studi storici, è confermata da un nuovo documento tratto dall’Archivio di Milano. È di un anonimo informatore della polizia austriaca nel 1820 e 1’ A. ne ricava cenni preziosi per integrare e spiegare meglio i dati di altre fonti. Si viene a conoscere, fra le altre cose, che a Genova comparivano sovente manifesti eccitanti alla sommossa e si diffondevano libelli forse provenienti da Torino. L’informatore, inoltre, esprime 1’ opinione, poi verificata dai fatti, che la guarnigione militare potesse piegarsi a favore del popolo e sospetta prossima un’insurrezione a Torino. Inglesi e Russi s’adoperavano a tener viva in Genova la fiamma della ribellione, e a tal fine lavoravano anche i Francesi. Non è vero, e ben lo dimostra il Bornate, che i Federati non estendessero la loro propaganda a Genova, temendo che la rivoluzione si volgesse qui contro la dinastia sabauda. Tale timore risulta infondato, come riconobbe lo stesso Santarosa : RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 157 anzi la rivoluzione del. 21 fu il primo atto che contribuì ad eliminare la diffidenza tra Genovesi e Piemontesi. La propaganda era diretta specialmente ai militari, tanto più che la guarnigione di Genova era composta non esclusivamente di liguri, ma anche di soldati piemontesi. È confermata pure, con nuovi argomenti, la corrispondenza attiva fra i liberali genovesi e i lombardi e la relazione tra i costituzionali napoletani e liguri. Dalla Gazzetta di Genova si ricavano cenni sulle notizie strane ed inverosimili che si diffondevano in Piemonte e Liguria per eccitare gli animi in cui viveva il malcontento contro l’Austria, specialmente nell’ esercito, per varie cause. Ma il piano dei Federati, non ostante l’attiva propaganda, doveva fallire. Esisteva un piano comune? L’A. se lo domanda: ma non abbiamo notizie sufficienti per affermarlo. Nel 2. cap., ΓΑ. ci dà notizie interessanti, tratte dai nuovi documenti, sul contegno degli studenti dell’Università genovese all’annuncio dei fatti avvenuti all’Università di Torino (gemi. 1881). La polizia non riusciva a soffocare il fermento diffuso tra la scolaresca e solo l’autorità universitaria ottenne che gli studenti si astenessero da dimostrazioni clamorose. Quando giunse la notizia dell’insurrezione scoppiata ad Alessandria (9. 10 Marzo), i Genovesi stettero calmi, ma « la calma era preludio di mutamenti più importanti ». Questo il giudizio espresso dal Governatore di Genova, il conte De Geneys nel suo Rapport sur Les événements qui ont eu lieu à Gênes pendant les malheureuses circonstances de Mars et Avril dernier (19 Maggio 1821), che si trova in un documento dell’Arch. di Stato di Torino ed è pubblicato dal Boriiate in Appendice, come una delle fonti principali sui tumulti di quei giorni. Da tale rapporto, messo a riscontro ed integrato con deposizioni di agenti di polizia, di testimoni d’incriminati nei «Processi del 21», e da notizie tratte dalla Gazzetta di Genova e da un manoscritto di Memorie del notaio Balestreri (Bibl. Un. di Genova), il Boriiate ricava una viva, precisa narrazione dei fatti avvenuti in Genova in seguito alla promulazione della Costituzione fatta dal Reggente e comunicata ai cittadini con un proclama del De Geneys. Il Governatore ringraziava i cittadini della tranquillità mantenuta nei giorni in cui ferveva P insurrezione in Piemonte, ma nello stesso tempo prendeva prudenti misure per conservare il buon ordine e teneva sorvegliate le truppe onde non si unissero al popolo nell’ostilità. 158 ERNESTA BERTELLI Espressioni di ringraziamento furono rivolte specialmente da parte dei commercianti al De Geneys per la sollecitudine nel tutelare i loro interessi. Di particolare importanza un indirizzo inviato dal Consiglio municipale di Genova il 19 marzo 1821 a S. A. R. il principe Reggente; documento di coraggio e di sincerità politica, ove si plaude al nuovo sistema di governo più affine a quello dell’antica Repubblica, e si dice che «i Genovesi avrebbero obbedito, d’ora in poi non solo per dovere, ma per naturale inclinazione ». Qui, nota ΓΑ, è messo in luce il punto su cui era possibile la conciliazioni fra le tradizioni repubblicane della Liguria e la monarchia sabauda: l’adozione di una forma liberale di governo. Il popolo e i militari festeggiavano con banchetti e clamorose dimostrazioni l’accordata costituzione, ma « erano ignari e incapaci di valutare le riserve e le restrizioni del Reggente nella sua adesione alla Costituzione spagnola ». Intanto gli avvenimenti precipitavano. Carlo Felice col proclama di Modena sconfessava 1’ opera del Reggente. Mentre Carlo Alberto, in attesa di nuove istruzioni, ritardava la pubblicazione del proclama, una copia di esso veniva mandato diretta-mente al Governatore di Genova, con una lettera di Carlo Felice: poco dopo giungeva pure al De Geneys una lettera di C. Alberto che gli comunicava il suo proposito di ritirarsi a Novara con le truppe rimaste fedeli. Il Governatore comunicò alle autorità il proclama di Carlo Felice e la lettera del Reggente, domandando aiuto e consiglio per preparare gli animi a ritornare rassegnati all’antico regime. Ma alla pubblicazione del proclama l’ira popolare scoppiò repentina, mentre gravi calunnie si spargevano contro lo stesso w De Geneys.. La dimostrazione degli studenti presso il palazzo del Governatore a Banchi segnò l’inizio dell’insurrezione (21 marzo). Si disse che G. Mazzini, appena sedicenne, era tra i dimostranti, ma i nuovi documenti non ce ne forniscono al( una conferma. Agli studenti si unisce una folla di cittadini e di militari: il governatore esce e si mostra per le vie della città, sperando indurre gli animi alla calma: ma la folla continua a tumultuare al grido: «Vogliamo la costituzione o la guardia nazionale» e «non vogliamo i Tedeschi». Il governatore promette la guardia nazionale, ma il moto si estende in altri punti della città. Essendosi attaccato con le armi il ponte della Legna e il ponte RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 159 Reale, il presidio sparò due cannonate a salve e molti colpi di fucile: il marchese Claudio di Sommariva, comandante dei Dragoni, fu aggredito e ferito dai rivoltosi, ma poi, alla testa del suo manipolo, disperse i dimostranti, i quali tentarono pure, ma inutilmente, d’impadronirsi delle armi eh’ erano nell’ arsenale. 11 contegno dei militari fu incerto in quel giorno: alcuni s* erano uniti ai dimostranti, ma i più si mantennero fedeli alla consegna. Ora è comprovato dall’A., sulla scorta dei nuovi documenti, che, per assicurarsi che i soldati stessero fedeli al loro dovere e non facessero causa comune coi costituzionali, si sparse la voce che la sollevazione, voluta dal partito aristocratico genovese, era diretta contro il governo di Torino e mirava alla restaurazione della Repubblica ligure indipendente. Tale voce poteva accreditarsi dal fatto che in Genova era tra i nobili una forte tendenza per la restaurazione della Repubblica; ma i Costituzionali reagirono energicamente e riuscirono a dimostrare assurda quella voce e a persuadere i militari che vi avevano già aderito. Il governatore indugiava a mantenere le promesse fatte ai dimostranti; e intanto, invece di ritirarsi nei forti e dominare la città e imporre il suo valore con la forza, prendeva blande misure con le quali s’illuse d’assicurare l’ordine. Ma alla sera scoppiò il tumulto : il segnale, come pare dalle testimonianze, non del tutto concordi, fu dato da un colpo di pistola, sparato contro i soldati posti a difesa del Ponte Reale; seguirono fucilate della truppa ai dimostranti; gli artiglieri di guardia al Ponte Reale spararono a loro volta due colpi di cannone a mitraglia. Fra popolani e soldati vi fu qualche ferito, il Reggimento Monferrato pare abbia avuto sette morti e tre feriti. Fu questo il Reggimento più fedele al Re e più saldo sostenitore della reazione; ma i Costituzionali avevano fatto propaganda attivissima tra le file dell’esercito. Dagli atti del Processo balzano in luce, in modo assai interessante, due figure di popolani, tra i più attivi organizzatori della sollevazione, Pasquale Badino e Giacomo Pavese, e di altri che vi presero pure parte notevole. Ma, bene avverte 1Ά., Γ insurrezione di Genova maneò di un vero Capo che con l’autorità del nome e la fede nella buona causa dirigesse il movimento: a questa deficienza oltre che alla scarsa organizzazione nei varii centri (Torino, Alessandria, Genova) si deve attribuire Γ insuccesso. Tuttavia ΓΑ. può dimostrare che il Badino ed altri costituzionali di Genova avevano relazioni abbastanza \ 160 ERNESTA BERTELLI attive coi dirigenti del moto di Alessandria ed è questo pure un notevole dato per valutare i moti di Genova del 1821. Nel cap. Ili ΓΑ. fa, col sussidio delle nuove fonti, una vivace ed esauriente narrazione dei fatti avvenuti nella tumultuosa giornata del 23 marzo in Genova. Avvalorandosi la voce che il Governatore avesse segreta intesa coi Tedeschi, gran folla di rivoltosi si raduna presso il suo palazzo a Banchi, e in breve s’ingrossa di un drappello armato di soldati e di ufficiali della Legione Reale Leggera. I soldati del 2.0 reggimento artiglieria di marina, posti co’ cannoni a guardia del palazzo, non fecero fuoco per solidarietà coi dimostranti o perchè da essi sopraffatti. Il contegno di alcuni ufficiali superiori in quella circostanza appare assai dubbio nelle deposizioni del processo (specie, del Magg. Cresia della Legione R. L.). Nel cap. IV sono considerate le conseguenze della sommossa. Si espone ampiamente l’attività esplicata da Pasquale Badino, uno dei caporioni degli insorti, che nella corri spondenza con Γ Iliani d’Alessandria l’informava dell’entusiasmo degli studenti, dei soldati, dei cittadini per la Costituzione, ma lamentava insieme la lentezza con cui a Torino si procedeva verso la città insorta. Dagli Atti del processo l’A arguisce che il 24 marzo giunsero a Genova due commissari dell’Ansaldi : il Mantovani ed il conte Pisani Dossi, allo scopo d’incitare i Genovesi ad un’azione energica ed immediata. Fu mandato uno degl’insorti, il cap. Zuccarini, ad Alessandria, latore d’una lettera dei Tedeschi alPAnsaldi. Intanto il generale, comandante in capo delle forze di terra e di mare in Genova, ordinava la partenza per Alessandria di gran parte delle truppe della guarnigione (25 marzo). Vi fu qualche ritardo nella partenza del reggimento d’artiglieria per mancanza d’accordo tra gli ufficiali, alcuni dei quali si mostravano saldamente attaccati al vecchio regime. Mentre le notizie giunte da Torino con le parole incitatrici del Santarosa e con gli attesi provvedimenti riguardanti la città alimentavano l’entusiasmo dei soldati, una pastorale dell’Arcivescovo di Genova esortava gli animi alla pace e la Commissione amministrativa si adoperava per l’opera di riordinamento e organizzava la guardia nazionale con decreto 25 marzo. È da notare, dice l’A. che la Commissione appoggiò l’istanza dei forieri e dei sergenti della Legione Reale Leggera che tra i primi s’erano uniti ai dimostranti il 23 marzo, e chiedevano ora di essere nominati uf- RIVISTA BIBLIOGRAFICA 161 ficiali. Ciò dimostra che la Commissione o approvava il loro operato o cedette, come poi asserirono i suoi membri nel processo, ai postulanti per riuscire a calmarli o addirittura ad allontanarli. Altri provvedimenti della Commissione erano volti a ottenere il favore del popolo: la riduzione del prezzo del sale, la diminuzione del dazio sul grano e sul vino. Intanto un decreto della Giunta Provvisoria di Torino stabiliva l’abolizione del Corpo Decurionale di Genova (29 marzo) e la creazione in sua vece d’un Consiglio municipale. I Sindaci della città di Genova protestarono contro quest’atto che parve inconsiderato e prematuro. La Giunta Provvisoria di Torino aveva pure nominato un capo politico che doveva, secondo i decreti, presiedere alla Provincia e vigilare sull’amministrazione comunale; ma due, successivamente nominati, rifiutarono la carica onerosa! Il Governatore, credette di poter ancora calmare gli animi con la persuasione, scendendo in mezzo alla folla; ma questa, non appena fu aperto il palazzo, Io invase, tutto mettendo a soqquadro. I personaggi che accompagnavano il Governatore furono malmenati; il De Geneys stesso, trascinato dai dimostranti, mentre già stava per isvenire, fu soccorso dal capitano marittimo Giacomo Sciaccaluga e ricoverato in casa sua. Uno dei caporioni, il Bodino, si proclamava capo della Guardia Nazionale e cercava provvedere di armi i suoi ; altri militari avevano voluto unirsi al movimento, ma contribuirono ad evitare peggiori disordini della folla che minacciava il saccheggio al palazzo del governatore. Veniva assaltato il Brick Zefiro, perchè si credeva ivi fossero contenuti gli oggetti preziosi e i denari dati dagli Austriaci al De Geneys; fu assalita la casa del direttore di Polizia; i dimostranti scorrevano la città inneggiando alla Costituzione. II De Geneys era bloccato in casa Sciaccaluga dalla folla minacciosa che lo costrinse a stendere una favorevole relazione dei fatti al Principe Reggente e a nominare una Commissione amministrativa. Veniamo a conoscere dall’ampio studio del Boriiate, nomi e informazioni di ciascuno dei membri di quella commissione. Nuovi particolari si apprendono pure sull’ intervento dell’arcivescovo di Genova chiamato per indurre alla pace P a-nimo dei dimostranti e per liberare il Governatore, trasferendolo al Palazzo Ducale. Infine ΓΑ. osserva che l’insurrezione non fu solo, come asserirono tutti coloro che scrissero intorno ai moti 162___ERNESTA BERTELLI___ genovesi, un’ improvvisa rivolta contro la creduta malafede del De Geneys. I nuovi documenti ci provano che, specialmente i soldati della Legione Reale Leggera avevano presi accordi e progettata 1’ insurrezione già da tempo e la mattina del 23 già sapevano le notizie di Torino che testimoniavano la buona fede del Governatore, ma non desistettero perciò dal loro proposito. A Torino, in cui prevalevano elementi più moderati, questi tumulti vennero deplorati : ad Alessandria invece FAnsaldi lanciava gravi accuse ed invettive contro 1’ opera del De Geneys. Si opponeva ancora il Badino per ottenere la consegna dei forti, finché la Commissione deliberava di ricorrere a mezzi persua sivi e con largizioni di denaro ai più accaniti, riusciva a tacitarli. Questo singolare provvedimento è ampiamente documentato negli Atti del Processo. Un altro degl’insorti, il Tubino, era mandato dai compagni in Alessandria a prender accordi per il concentramento dei Costituzionali in Genova. In quello stesso giorno, il 10 aprile, il Consiglio Comunale di Genova deliberò l’invio di tre deputazioni, composte di benemeriti cittadini, una diretta a Carlo Felice a Modena, un’altra a Re Vittorio Emanuele a Nizza e una terza al comandante delle truppe austriache. 11 De Geneys, in un proclama, si mostrava conciliante e affabile verso la città ed anche verso la Guardia Nazionale. Non volendo che in città entrassero i profughi che in gran numero affluivano verso Genova, provvide a concentrarli a Sampierdarena e di qui a imbarcarli. Î1 governo di Genova fornì d’ un po’ di denaro i più bisognosi e la popolazione non nascose i suoi sensi di profonda pietà. La magnanimità del De Geneys parve ad aleuni eccessiva (atti del Processo,): tuttavia il Consiglio Comunale gli espresse la sua riconoscenza per aver ben provveduto alla città in quei difficili momenti. Questi fatti, rievocati con l’ampiezza consentita dai numerosi documenti consultati e interpretati accuratamente dall’A., si chiudono con l’Epilogo (cap. V), ossia con l’esame del processo istruito contro i ribelli. Anche qui possiamo raccogliere molte notizie nuove e importanti intorno ai principali promotori dell’ insurrezione e sull’andamento del processo. Molti fra i compromessi godettero dell'indulto accordato il 30 settembre 1821; altri furono condannati in contumacia; pochi scontarono la pena. L'Autore conclude osservando che i moti del 21 a Genova ebbero una fisionomia propria, poiché risulta che vi prese parte RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 163 la massa popolare non incitata da improvvisa facondia di demagoghi, ma attratta verso un ideale di libertà per un sentimento tradizionale. Non mancarono persone di ceto elevato a sostenere la Costituzione; ma il loro contegno parve troppo prudente e cauto. Esse, per la tendenza al calcolo e alla riflessione, innata nei Liguri, stettero in disparte e, vedendo dagli avvenimenti deluse e frustrate le imprese dei più audaci, si rinchiusero in sè e dissimularono l’animo loro, aspettando tempi migliori, mentre la città nutriva già nel suo seno il più grande Apostolo del nostro riscatto. Ernesta Bertelli. Cesare Imperiale di Sant’Angelo, Annali Genovesi di Caf-faro e dei suoi continuatori dal MCCXXVal MCCL, vol. Ili, Istituto Stor. Italiano, Fonti per la Storia d’Italia, Roma, 1923. Cesare Imperiale di Sant’Angelo, Genova e le sue relazioui con Federico II di Svezia. Venezia, Tip. Edit. Emiliana, 1923. La storiografia genovese, meno ricca più tardi di quella delle altre città e dei maggiori comuni d’Italia, ha, com’ è notissimo, il privilegio di vantare non solo il più antico cronista laico del medioevo ma il più antico esempio di storia ufficiale. Dal momento in cui Caffaro, il primo e il maggiore dei cronisti genovesi, lesse ai Consoli la narrazione delle gesta, delle quali egli stesso, diplomatico e uomo d’armi e di governo, magistrato e ambasciatore, era stato gran parte; dal momento in cui i consoli ordinarono al notaio Oberto di continuarne la narrazione, sino al 1293, quando Iacopo D’Oria, fratello di Oberto capitano del popolo e vincitore alla Meloria, dichiarava di non poter più attendere, per l’età avanzata e le sopravvenute infermità, all’ onorevole incarico, per oltre due secoli gli Annali, sospesi e ripresi più volte, scritti da un solo narratore o opera di compilazione, accompagnano le vicende e l’ascensione della repubblica. Risentono essi l’eco delle lotte interne violente e delle agitate fazioni; e, con varietà di tono e di colorito, con diversità di atteggiamenti e di preoccupazioni, a seconda dei momenti, delle condi- 164 VITO VITALE zioni di governo, degli uomini che attendono alla narrazione, seguono e commentano gli eventi della vita e della storia genovese nell’età della massima gloria e della massima espansione, conducendole sino alla vigilia della vittoria di Lamba D’Oria a Curzola, segno e coronamento del conseguito, anche se breve e non duraturo, predominio genovese del Mediterraneo. Ebbene, di questa vasta narrazione storica non possediamo ancora, una compiuta edizione italiana degna dell’opera e del progresso degli studi. Persino 1’ unica edizione critica pubblicata a cura dell’istituto Storico Italiano e destinata a migliorare e sostituire la sola interamente compiuta, la germanica del Pertz, procede così lentamente che minaccia di rimanere arretrata di fronte al movimento degli studi e delle indagini e alle pubblicazioni documentarie che dovrebbero costituirne l’illustrazione e l’apparato critico. E del 1890 il primo volume curato da Luigi Tomaso Bei-grano che diede a tutta l’opera l’indirizzo e ne segnò il metodo nella densa e bellissima prefazione; è del 1901 il secondo volume curato dal marchese Cesare Imperiale di Sant’Angelo, succeduto nella meritoria fatica al Belgrano improvvisamente rapito, nel 1895, agli studi prediletti e nobilmente illustrati. Dopo oltre vent’ anni, è pubblicato da alcuni mesi, per opera dello stesso Imperiale, il terzo volume comprendente la narrazione dal 1225 al 1250. È lecito far voti che la legittima attesa degli studiosi abbia per l’avvenire meno tarda soddisfazione e sia prontamente compiuta, anche per decoro nazionale, P edizione italiana che onora Γ editore e P Istituto. Il metodo della pubblicazione non dà luogo a particolari rilievi perchè continua, nei criteri e nella collazione dei codici, quello seguito nei precedenti volumi: anche qui si possono ripetere le sagge osservazioni che a proposito del secondo volume, faceva, tra altri, Gaetano Cogo, nel fascicolo del 1° meggio 1902 della Nuova Antologia, che cioè « la interpretazione di alcuni passi degli Annali porgerebbe materia di non inutile discussione e la bibliografia storica, nelle note, avrebbe potuto essere qua e là più completa: tuttavia sia nella Introduzione che nel ricco commento, l’imperiale rivela erudizione adeguata all’importanza dell’argomento e bontà di critica congiunta ad una forma limpida ed efficace ». Aggiungerei ancora che, se, molto opportunamente, V editore si è servito, per il commento, di numerosi RASSEGNA BIBLIOGRAFICA a talvolta molto interessanti documenti visti da lui o da altri nell’Archivio di Stato genovese, dai quali il racconto del cronista riesce spesso illustrato e chiarito nei luoghi e nelle persone, questa parte avrebbe potuto essere assai più sviluppata con ampie i icerche nel materiale prezioso offerto dai Notulari, inesauribile miniera, ma, pur troppo, di difficile uso e tale da richiedere pazienti lunghissime indagini. La narrazione compresa nel volume precedente è dovuta, con piena sicurezza a tre distinti e successivi narratori : Ottobono Scriba, Ogerio Pane e Marchisio Scriba. Qui invece la paternità non è così sicura. La tradizione attribuisce a Bartolomeo Scriba tutto il peiiodo dal 1225 al 1264. Ma già il Pertz per considerazioni d indole paleografica aveva ritenuto opportuno limitare Popera di Bartolomeo al 1248. L’imperiale a sua volta è indotto a portare anche più indietro l’estremo limite dell’attività dell’annalista del quale dopo il 1238 non è più cenno nella vita pubblica e nella privata. La conclusione a cui l’esame interno dell’ opera e lo studio dell’ambiente e della vita politica in quelPagitatissimo periodo hanno condotto l’editore, è che, pur essendo dovuta a Bartolomeo più particolarmente la redazione dal 1225 al 1238, neanche in questo periodo il racconto sia tutto suo; e, accettando la congettura del Petz che nel periodo dal 1249 al 64 gli Annali debbano essere opera collettiva della cancelleria del Comune, per il periodo dal 1238 al 1248 avanza l’ipotesi che abbia lavorato alla compilazione quell’Urso o Ursone, che, prima collega poi successore di Bartolomeo nell’ufficio di Scriba del Comune, è noto come autore di un prolisso poema dove si esalta come meravigliosa vittoria geno’vese su Federico II una incruenta dimostrazione navale nella Riviera di Levante. Il tono enfatico, lo stile sforzato, la cura minuziosa dei particolari, le declamazioni contro Federico e i nemici di Genova in molti punti degli Annali dopo il 1239, sono gli argomenti che confortano l’imperiale in questa sua ipotesi non priva di genialità ma che, allo stato attuale delle conoscenze, non mi sembra poggiata su forti argomenti di fatto: quegli atteggiamenti spirituali potevano ben essere comuni a molti a Genova in quegli anni di lotta intensa contro Γ imperatore. Ancora meiita di esser notato il carattere inorganico, slegato, saltuario che la narrazione viene ad assumere in certi momenti, quasi si trattasse di fugaci appunti inseriti e inalam.ehte 166 VITO VITALE legati nel corso del racconto, il che confermerebbe come in questo momento la cancelleria comunale non seguisse più il sistema di accompagnare costantemente con metodica e organica esposizione lo svolgersi degli avvenimenti; probabile conseguenza questa del rapido loro variare e delPalternarsi delle parti a governo. Ma alcuni caratteristici silenzi non possono avere questa ragione; ci sono periodi brevi ma di intensa, e agitata azione politica, come tra il 1228 e il 1230 e dal 1232 al 36, nei quali non si parla di colui che riempie di sè la scena politica del tempo. Sono i momenti nei quali, attenuate le più gravi ragioni di dissidio, Genova tendeva a mantenere una sua difficile e non troppo benevola neutralità verso Federico II, indottavi special-mente dagli interessi economici e commerciali nel Regno e in Levante. Poiché P interesse particolare e P importanza specialissima di questo volume degli Annali sta appunto in ciò che comprende gli anni della grande lotta tra P Imperatore e i Comuni, tra P Imperatore e il Papato e narra gli atteggiamenti vari di Genova che dalla faticosa neutralità, attraverso le violente lotte degl’ interni partiti, arriva ad assumere una delle parti maggiori e una funzione preponderante nell’ultimo grandioso periodo della drammatica lotta. La narrazione degli Annali, che l’Imperiale riassume brevemente nell’ Introduzione e più ampiamente riproduce e commenta in un interessante studio, del quale il racconto annalistico fornisce la trama, acquista perciò un interesse e un rilievo affatto particolari: fazioni in contesa e capi di parte; magistrati comunali e podestà forestieri; comandanti di navi e di eserciti; uomini insigni e folle anonime rivivono nelle pagine degli Annali e nel racconto del recente editore, col caldo tono vibrante e commosso di chi ha vissuto e rivissuto epici eventi. Il passaggio della Sicilia dagli Arabi ai Normanni, nella seconda metà del secolo XI, aveva aperto alle nazioni marittime l’adito a un paese importante per i suoi prodotti e le sue ricchezze e centro di comunicazione e punto d; intersezione di vaste correnti commerciali, un paese che, per le Crociate, venne a trovarsi sulla via obbligata delle repubbliche marinare del Tirreno verso P Oriente. La gara di concorrenza per il predominio commerciale nel-P isola è uno degli infiniti episodi della rivalità tra Genova e RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 167 Pisa: e quando il figlio di Federico Barbarossa, Enrico VI, va a conquistarsi il regno, Genova crede di aver raggiunto la piena vittoria. « Mio sarà il regno di nome, ma vostro di fatto » assicura generosamente l’Imperatore bisognoso dell’aiuto navale genovese, e promette territori di diretto dominio e privilegi commerciali e ogni sorta di larghe e fruttifere concessioni. La pronta e amara delusione ha un’ espressione tra irosa e ingenua, quasi ridicola, nelle arroventate parole dell’annalista Ottobono Scriba. Quel che il feroce e beffardo imperatore ha impedito si avvera però alla sua morte, durante la reggenza per il giovane Federico II, zimbello di avventurieri e di ambiziosi che si disputano la tutela del giovane sovrano e concedono terre e redditi e benefici a chi li sostiene e li aiuta. E gli abili mercanti di Genova si destreggiano tra le parti e divengono i padroni dei porti e delle dogane, mentre un di loro, Alamanno da Costa, si impadronisce persino di Siracusa ed Enrico Pescatore diventa ammiraglio di Sicilia. Poi le vicende politiche portano il giovane re, colto e geniale, scettico e sospettoso, reso dalla precoce esperienza diffidente e incredulo, simulatore e dissimulatore, a farsi pretendente del trono imperiale. Nel passare da Genova per recarsi in Germania, povero e bisognoso, vi trova liete accoglienze e prestiti cospicui : in compenso, è naturale, rinnova le più ampie concessioni culminanti nella piena e compiuta franchigia doganale nel Regno. È il trionfo : ma quando Genova crede che la Sicilia sia divenuta la sua colonia di sfruttamento, la scena cambia improvvisamente. Il giovinetto condiscendente è diventato l’imperatore di Germania, uno dei sovrani che hanno avuto più alta la coscienza e l’orgoglio della regalità, più profonda la convinzione della missione divina della monarchia universale. L’uomo che riordina il regno meridionale dandogli la prima forma di un potere assoluto e accentrato, che vuol risollevarlo dall’anarchia in cui è caduto e, ricostituitolo su salde basi gerarchiche e autoritarie, farne sostegno e punto di appoggio di tutti i suoi stati dal Baltico al Mediterraneo; l’uomo che tenta di stendere anche ai Comuni del Settentrione d’Italia il sistema deH’assolutismo regio e provoca la ricostituzione della Lega Lombarda, e si pone di fronte al Papato in quella lotta formidabile e mortale da cui le due grandi istituzioni, centro e fulcro della politica mediovale, escono spossate e disfatte, non è tale da ri- 168 conoscere e ammettere le concessioni strappategli dalla necessità. Tutta la sua politica economica nel Regno mira a ricostituire le forze sopite, a mettere in valore le ricchezze naturali, a favorire ed aiutare i sudditi perchè « è nostro interesse che i nostri sudditi siano ricchi ». Occorre perciò sottrarli allo sfruttamento altrui e reagire contro la situazione che si è creata durante la sua minorità, in Sicilia per opera dei Genovesi, nel continente adriatico per parte dei Veneziani. Tuttavia non intende interrompere quelle correnti di traffico che sono utili e necessarie al paese come favorevole sbocco delle sue esportazioni : perciò evita di rompere apertamente coi Genovesi e, mentre ne limita i privilegi, li tiene a bada mirando a un equilibrio di forze economiche tale da arricchire i mercanti esterni senza impoverire i sudditi. A sua volta Genova, per quanto delusa, ha troppi interessi che la trattengono danna lotta aperta. Grande potenza marittima con colonie fiorentissime in tutto V Oriente, con meta suprema Costantinopoli, che i Veneziani hanno strappato al suo predominio nella quarta crociata, con bisogno assoluto di libera navigazione e di sicuro approdo intorno all’ isola e nei suoi porti, ha nella sua politica troppo ampio respiro e troppo largo raggio d' azione per compromettersi, senza assoluta necessità, in una lotta col più alto sovrano. Perciò lunghe e sfibranti trattative condotte spesso con sottintesi e senza sincerità da ambe le parti e un faticoso lavoro di ricomporre la tela degli accordi che da ogni lato minaccia di rompersi, dovunque gli interessi si urtano, in Sicilia come in Oriente, sulle riviere come nella stessa Città. Nella grande lotta infatti che si delinea e assume drammatici contrasti tra Γ Imperatore e il Papa, tra l'imperatore e i Comuni, le fazioni interne che costituiscono l'essenza, quasi la vita e la ragion d’essere del Comune, si vanno disponendo e polarizzando intorno ai due capi supremi; ciascuno si schiera nel campo opposto del suo vicino e nemico; e Guelfi e Ghibellini chiedono aiuto e sostegno, più assai che non diano, al Papa e all'imperatore. I D' Oria, gli Spinola, i Castello, gli Embriaci, i De Mari con tutta la numerosa parentela, coi seguaci per devozione, per simpatia o per interesse, costituiscono la fazione ghibellina e tentano da prima di conservare almeno la neutralità mostrandone RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 169 la reale utilità, resistendo, col peso del numero, della ricchezza, delle aderenze, alle suggestioni del Papa e della Lega sui Guelfi rivali perchè assumano un più aperto e deciso atteggiamento. Quando però Federico, vittorioso sulla Lega a Cortenuova, pretende quell’omaggio feudale che Genova ha sempre negato; quando Albenga e Savona, sempre insofferenti del dominio genovese, sollecitano e ottengono l’aperto appoggio dell’imperatore e dei suoi alleati di Lombardia e di Piemonte, e gl’ interessi vicini si sovrappongono ai più lontani e, pur di conservare il possesso della Riviera, si affronta 1’ espulsione da tutti i porti del Regno, i Ghibellini, sentendosi sopraffatti e raccogliendo intorno a sè i malcontenti e i danneggiati, tentano di impadronirsi del potere e di imprimere tutt’altro indirizzo alla politica del Comune. E non sembra strano a loro, e forse neanche agli avversari, tanto il concetto della fazione si sovrappone e annulla quello della patria, che i loro capi, Nicolino Spinola e Ansaldo De Mari, continuando la tradizione di Enrico Pescatore, siano ammiragli di Sicilia e alla testa della flotta imperiale contrastino e combattano la flotta della loro città, che è per loro soltanto l’armata dei Guelfi. Così la sconfitta del Giglio, quando Ansaldo De Mari affronta e affonda le galee comandate da Giacomo Malocello recanti i prelati diretti al Concilio di Roma, è, in certo senso, anch’ essa vittoria genovese. La lotta è entrata nel suo periodo più acuto; non si tratta soltanto di potenza, ma di esistenza; è in giuoco queirautonomia che è fondamento e radice della vita comunale; nessun sacrificio e nessuna rinuncia possono parere di troppo per salvare 1’ esistenza. Allontanata dalla Sicilia e dai domini imperiali, minacciata e danneggiata nei possessi di Siria, ma più nella perdita dell’autonomia che seguirebbe, la vittoria imperiale, Genova è condotta a un capovolgimento della sua politica marittima e rinuncia, sia pure temporaneamente, a ogni rivalità con Venezia, a ogni mira suirimpero di Oriente, e si allea con la rivale contro il maggior pericolo incalzante; assurda situazione che l’assenteismo veneziano nella lotta con P Imperatore e la fine della grande contesa faranno prontamente cessare. Ormai però il dado è tratto : 1’ ultimo periodo della lotta assume una drammaticità intensa; gettatasi disperatamente allo sbaraglio, Genova assume una delle parti maggiori; dal suo atteggiamento deriva in gran parte la vittoria finale. Lo sente il 170 VITO VITALE buon notaio Ursone che canta in esametri tra classiche reminiscenze le gesta dei suoi concittadini, lo sente il compilatore degli Annali che trasforma l’arida cronaca in narrazione calda di passione e vibrante di orgoglio. Quando racconta che, dopo il disastro del Giglio, tutti i cittadini, abbandonate le consuete occupazioni, lavorano giorno e notte allestendo in breve tempo una flotta di 52 navi che resistè ai tentativi del De Mari e salvò la patria, si sente vibrare, con accento che ha commossa risonanza negli animi nostri, la coscienza d’aver vissuto un eroico momento; quando narra del tiro giuocato all’ Imperatore coll’ardimentoso e romanzesco salvataggio del Papa concittadino, canta nelle semplici parole la sicurezza e l’orgoglio della vittoria. « Stavo per dare scacco matto al papa quando i Genovesi hanno messo le mani nella scacchiera e mi hanno scompigliato il giuoco ». Così, con pittoresca frase espressiva, Federico II di Svevia esprimeva il suo rammarico allorché 1’ aiuto delle navi genovesi sottraeva il papa Innocenzo IV alle sue minaccie e gli permetteva di recarsi al concilio di Lione, da cui, non ostante 1’ abilità oratoria e i sottili ragionamenti di Taddeo da Sessa, doveva uscire V ultima condanna e la rinnovata scomunica del-Γ Imperatore. Il colpo magistrale, che aveva vendicato la disfatta del Giglio, aveva anche fatto di. Genova il centro della resistenza guelfa e dell’azione pontificia, il nodo a cui convenivano, di Francia e d’Italia, messi e notizie, in cui si concludevano le trattative diplomatiche e le convenzioni finanziarie indispensabili al compimento della lotta mortale. Ma, quando Federico scompare, tra le incomposte voci di gaudio del papa e degli altri nemici si leva nobilmente solenne la parola del cronista a ricordare «Imperatus a divina potentia quem gentes humanae non poterant Imperare »; mentre i ghibellini fuorusciti ritornano in patria e, con esempio nuovo nelle torbide lotte medievali, sono anche ri" sarciti dei danni subiti. Questa terribile lotta e i suoi grandiosi momenti con affetto di genovese e probità di studioso il narratore ha cercato di rivivere e raccontare sulla scorta special-mente degli Annali. Pur volendo limitarsi a un commentario ampio e organico di quella spesso disordinata e inorganica e saltuaria narrazione, non ha potuto, nè gli sarebbe stato possibile, isolare il suo par- RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 171 ticolare argomento dall’opera complessiva e dalla grande contesa della quale i rapporti con Genova sono soltanto una parte, anche se talvolta molto importante. E allora, per quanto il lavoro voglia avere soltanto un ca-raitere divulgativo, era forse necessario allargare maggiormente il campo della letteratura storica da Raumer e Zeller, Schirrma-clier e Baetghen, Hampe e Graefe ai nostri Amari e De Blasiis e Merckel e Paolucci e De Stefano per non dire d’infiniti altri; almeno, poiché i rapporti tra Federico e Genova hanno, specialmente da principio, una base essenzialmente commerciale ed economica, era necessario tener conto delle indagini del Chone e dell’amplissimo Schaube. Poggiata soltanto sulla base degli Annali - sebbene corroborata dagli studi e dai documenti di 1-l’Huillard-Bréholles e del Winkelmann e delle raccolte locali -la visione corre pericolo di essere troppo ristretta, direi quasi troppo genovese. Rivivendo la vita e le lotte degli antichi concittadini, Γ autore partecipa dei loro sentimenti e delle passioni della fazione guelfa dominante. Ma che Federico II debba davvero considerarsi come tipo di principe tedesco, egli che la Germania ha sempre più trascurato a misura che si immergeva nella lotta mortale col Papa, egli che ha posto il regno di Sicilia a base dell’Impero, capovolgendo la politica dei suoi padri, mi sembra affermazione discutibile. Anche quando adulò ed esaltò lo spirito di razza dei Tedeschi e il loro disprezzo iroso per questa terra tante volte attraversata in vittoriose cavalcate e mai sottomessa, lo fece per averne aiuto contro coloro che considerava ribelli alP autorità imperiale. Assertore dell’ impero universale, certo; e, tenacemente, dell’autorità monarchica: ma ricordiamo quel che dell’impero pensasse Dante, e bisogna considerare che riordinò il regno di Sicilia e gli rivolse tutte le cure e volle sottrarlo allo sfruttamento degli altri stati per favorirvi 1’ incremento delle forze indigene c dargli l’indipendenza economica e abolì i privilegi goduti più di tutti dai Genovesi, donde il principio del profondo contrasto. Per questo ancora gli diede, continuando l’opera dei Normanni, quell’ordinamento organico e gerarchico che fa di lui appunto il primo dei sovrani moderni. L’ Imperiale gli nega questo vanto perchè le Costituzioni di Melfi sono il codice delP assolutismo; ma è troppo noto che lo /72 VITO VITALE stato moderno si è fatto attraverso l’assolutismo ordinatore delle disgregate forze politiche e sociali, del medioevo. Errore, certo, l’aver tentato di sottomettere anche le città del nord alle stesse norme, che avrebbero arrestato l’autonomia, vita e forza dei liberi Comuni i quali non avevano compiuto ancora il ciclo della loro gloriosa esistenza; e giustamente l’imperiale rimprovera gli unitari ad ogni costo che hanno lamentato il fallimento di quel tentativo, trasportando nel secolo XIII criteri e idee del XIX. Ma il regno di Sicilia aveva un ordinamento politico-sociale affatto diverso ; e ad ogni modo è sempre vero che, sebbene troppo precocemente, Federico vide e tentò la forma di governo per cui gli stati europei dovevano passare. Quanto alla lotta col papato, era fatale che egli, prendendo la corona imperiale, ne prendesse tutte le tradizioni e le ambizioni; il Papato si era ingannato credendo che, cambiata la persona, si potessero cambiare i termini del problema delle due autorità; la contesa doveva essere anzi in tanto più aspra in quanto i due poteri erano arrivati a dare una formula definitiva alle loro pretese; erano giunti alle estreme conseguenze: 11110 della teocrazia, l’altro della regalità assoluta. Ma i partigiani dell’una e dell’altra parte non combattono in realtà per questi principii supremi, ma per i loro interessi e i loro odii particolari; la lotta più che per la propria libertà è per la libertà di estendere il proprio dominio e di odiare e combattere i propri vicini; e quel caos della vita italiana alla metà del duecento mal si presta, visto da vicino, ad essere ridotto a una lotta per l’indipendenza contro la tirannide. E anche Genova rientra nel quadro generale : essa che ha tanto contribuito a metter Federico sul trono imperiale, gli diventa poi acerrima nemica per gli interessi colpiti in Sicilia, per i danni alle sue colonie recati dalla spedizione in Oriente, per i rapporti dei paesi ribelli della riviera con 1’ Imperatore. La figura di Federico II è di quelle che ispirano allo storico un particolare e costante interesse e appare sotto le più diverse luci e gli aspetti più complessi. Era, dice un cronista contemporaneo, di statura non alta ma proporzionata, di tratti regolari, di aspetto piacevole, di capelli biondi tendenti al rossiccio; era, scrive uno storico arabo che Io vide nel 1229, rosso, calvo, mingherlino, di vista corta; messo in vendita come schiavo, non sarebbe costato più di 200 dramme. Se i contemporanei non sono RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 173 d’accordo neanche sulla descrizione fisica dell’uomo, come possiamo noi conoscerne appieno e giudicarne il carattere e le opere con unità d’impressione e sicurezza di giudizio? Ma debito di onestà e di precisione vuole che si dica che rihtento dell’imperiale non è stato di giudicare nel suo complesso Topera dell’Imperatore: chi questo gli attribuisse sviserebbe il suo lavoro e la sua meritoria e nobile fatica. Egli ha voluto narrare le vicende di Genova nella lotta con Federico II, ampliare e illustrare il racconto degli Annali; e questo suo preciso intento ha pienamente raggiunto, così che nulla o certo ben poco mi pare possa ancora essere aggiunto, specialmente sotto il rispetto politico, a quanto egli ha diligentemente raccolto e narrato della grande contesa tra Genova e Federico II. Vito Vitale Franco Ridella. La vita e i tempi di Cesare Gabella, in Atti della Società Ligure di Storia Patria, Serie del Risorgimento, Voi. i, Genova 1923. Con ampiezza di particolari e larga preziosa documentazione derivata da fonti disparate, ma sopratuttò dai tesori dell’archivio Cabella, con abbondanza di commentario storico e morale, Franco Ridella narra la vita di una delle più austere e intemerate figure genovesi della generazione passata, e reca un contributo prezioso alla storia di Genova nel risorgimento. Non narratore arido di una storia puramente prammatica il Ridella ; non l’erudito che si arresta alla scoperta e alla ri-produzione del documento ; ma, non senza qualche ridondanza e prolissità, indotto da certa sua tendenza moraleggiante e filosofeggiali te, un biografo che, rivivendo la vita del suo personaggio, ne ritesse piuttosto un classico elogio nobilmente composto. Ben degna, del resto, di questa ammirata contemplazione la vita e l’opera di Cesare Cabella che, tra il 1807 e 1888, abbraccia il più fortunoso periodo della nostra resurrezione nazionale, in cui egli tenne degnamente il suo posto. Una vita che si apre, si può dire, con Pamicizia calda e veemente di quel grande letterato e stilista e curioso e frenetico uomo che fu Pietro Giordani, e si chiude con quella serena e riposata di Giovanni Ruffini, acquisterebbe perciò solo, se altro mancasse, un vero valore storico. Nell’una i primi passi faticosi 174 e difficili, le aspirazioni e le speranze, gli sconforti e le delusioni, il solito attrito tra la idealità e la realtà che affatica le prime prove dei giovani non volgari, ma che lo spirito dei tempi - non per nulla era il colmo del romanticismo - tendeva ad aggravare e colorire di tetra malinconia : nell’altra l’affetto e la riverenza reciproca di due vecchi superstiti che una volgare questione legale riavvicina e vicendevole ammirazione e comunanza di pensieri e di sentimenti congiunge in un dialogo commosso e commovente, perchè così dalle parole alte e nobili del giurista insigne e onorato, come da quelle dello stanco autore del Lorenzo Benoni e del Dottor Antonio spira un senso triste e accorato della realtà presente, una profonda stanchezza fatta di delusione e di scontento per l’Italia uscita dai plebisciti che stentava cementarsi insieme, l’Italia degli scandali e del trasformismo ben diversa da quella che essi avevano sognato e per cui avevano lavorato e sofferto. Nessuna meraviglia che in quelle condizioni l’ultimo dei Girondini, come il Cabella fu chiamato, egli che era venuto dalla sinistra allora imperante e alla sinistra si vantò sempre di appartenere, pensasse a rinunziare alla dignità senatoria e scrivesse allo Zanardelli una lettera che è una limpida e fiera requisitoria dei metodi di governo del Depretis. L’evoluzione politica del Cabella è l’evoluzione stessa della vita italiana, e genovese in particolare, nel periodo più agitato e drammatico del risorgimento. Come l’unità si sia andata formando e cementando negli spiriti, oltre che nel fatto materiale e negli ordinamenti, si può vedere anche seguendo l’azione e il pensiero del giurista genovese nelle vicende dell’età sua. Dai primi entusiasmi del 46 e del 47, quando, nel congresso degli scienziati e nel pellegrinaggio votivo al colle di Oregina, parvero fondersi in un sentimento unico e in un unico affetto le anime di ogni regione d'Italia e sopirsi per sempre le avversioni tra Piemontesi e Genovesi, sino alla compiuta formazione unitaria, è come una lotta costante tra il sentimento municipale e la coscienza della patria più vasta, tra l’amore della patria locale che stenta a dimenticare l’antica autonomia e il sovrapporsi di più vasta coscienza che supera gli antichi ristretti confini; quanto più il concetto nazionale si allarga e le vicende acquistano più ampio respiro e più vasto orizzonte, tanto più si sommergono i ricordi e i risentimenti municipali e regionali e l’occhio spazia in una visione più alta e più serena. . RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 175 Nel Cabella, come negli altri spiriti superiori, questa trasformazione è più pronta, ma nella contesa tra i due municipalismi, il genovese e il piemontese, che è gran parte delle vicende del triennio dal 47 al 49, egli non può che essere, senza eccessi faziosi ed esclusivismi esagerati, con lo spirjto dei suoi concittadini. Perciò è in prima linea nell’ azione che Genova ha esercitato, in quel triennio, di propulsione verso la guerra sempre più intensa e cioè contro il municipalismo torinese e quindi in senso nazionale. Persino la minaccia di separazione fatta dagli elementi più accesi, persino il mostruoso proposito di una lega ligure-lombarda, durante la guerra, contro Torino, andavano a sboccare nell’aspirazione a più larga compagine in cui il dissidio tra le due vicine, insofferenti l’una dell’altra, si attenuasse e svanisse. Ma questa era conseguenza non immediata : nel momento affioravano soltanto l’avversione e la gelosia che, specialmente dopo la fine della disgraziata campagna e l’armistizio, spingevano Genova sempre più verso il movimento radicale e repubblicano che minacciava nuove scissioni. Acuto osservatore, il Cabella denunciava gli eccessi e i danni di tutte le tendenze municipaliste e separatiste, dava prova di coraggio opponendosi ai più acerbi e frenetici ; nobile assertore di unione e di concordia appariva quale relatore della risposta al discorso della Corona nel febbraio 49 e più nella risposta ai diversi oratori ; ma quando affermava che Genova amava sinceramente il Piemonte e la monarchia e non avrebbe pensato mai a moti incomposti, esprimeva certo un suo nobile sentimento e un vivissimo voto, ma non poteva dirsi sicuro interprete dell’animo dei suoi concittadini. La tempesta degli odii e delle avversioni, delle recriminazioni e dei sospetti, in ambiente arroventato dalle più fiere passioni e centro di profughi di ogni regione e di stranieri, scoppia infatti in quel moto che non ha ancora trovato un degno illustratore e un esame spassionatamente veridico e nel quale, come in tutti i movimenti di popolo, i più nobili moventi si mescolano con le più audaci aspirazioni e gli odii più intensi col desiderio e lo spirito dell’avventura. E’ l’episodio saliente e più triste - in cui da ogni parte fu dolorosamente esagerato - della storia genovese del risorgimento ; ma ne derivò rafforzato il desiderio delPunità nella patria più vasta, per avversione alla più vicina dominatrice. Per tante vie, e le più diverse e impensate» doveva formarsi l’unità nazionale ! 176 Non partecipe del moto - si trovava allora a Torino - ma fiero censore degli eccessi e della reazione, conservò anche in questa occasione il Cabella, pur tra qualche esagerazione verbale, quel senso di equilibrio che lo caratterizzava. Uomo di parte, anzi divenuto dei capi più notevoli della sinistra, come aveva avversato il Gioberti nel suo tentativo d’intervento a Roma e in Toscana, per impedirvi l’intervento austriaco, così avversò il trattato di pace con l’Austria onde derivò lo scioglimento della Camera e il proclama di Moncalieri. Che il passo del Gioberti fosse erroneo e inopportuno nessun dubbio, ma che fosse inconseguente ed illogico, davvero non si saprebbe ripetere; e, pur condannandolo, il compianto Anzil-lotti, ha esaurientemente dimostrato come fosse in diretta connessione logica e una naturale conseguenzadelle premesse teoriche giobertiane e del loro successivo adattarsi alla realtà contingente del movimento politico. E la Camera eletta dopo il proclama di Moncalieri sarà anche stata tutta o quasi composta di nobili e clericali e retrivi, ma accettando il trattato di pace silenziosamente, secondo l’austera proposta del Balbo, ha salvato il paese da una situazione senza uscita e dal pericolo di un ritorno indietro sulla via della libertà politica, e aperto P adito a una nuova era nella storia italiana. Nessuno può meravigliarsi di quelle discussioni e di quei contrasti che sono l’anima della vita politica e rispondono a particolari visioni del momento. Avversario leale e aperto del Cavour, che lo chiamò il più abile degli oratori genovesi e lo combattè poi nelle elezioni come nemico temibile, osteggiò il deputato genovese, con quasi tutti i suoi colleghi, la spedizione di Crimea della quale il Ridella discute a lungo senza ricavarne la esplicita conseguenza che, vista oggi, essa appare in luce ben diversa da quella in cui poteva apparire allora agli oppositori di Cavour. La mentalità nobilmente c generosamente ingenua della democrazia di quegli anni si rivela tutta nel discorso del Cabella contro la dolorosa cessione di Nizza e risalta per contrasto il felice, anche se talvolta spietato, realismo cavurriano. Ma non si leggono senza profonda commozione e ammirazione le lettere che i due uomini, cosi diversi d’importanza politica ma di eguale nobiltà di spirito, egualmente amanti della patria, si scambiarono i primi giorni d’agosto del 60 quando RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 171 voci allarmiste correvano sulla cessione di Genova e della Sardegna alla Francia in compenso del riconoscimento della conquista garibaldina. Passa da quelle lettere nello spirito del lettore non torpidamente ignaro o scetticamente insensibile un soffio appassionato e ardente e lo eleva ad epiche altezze. L’ignobile spia che, rivelando al Cavour una innocente riunione tenuta in Genova presso il Cabella all’ intento di sventare il temuto pericolo, ha determinato la lettera vibrante di passione e nobilmente generosa, pur tra le accuse e i partigiani apprezzamenti, del patriota genovese e la risposta lapidaria e serena del ministro, illuminata dal consueto lampo di superiore lepidezza e dalla profonda coscienza dell’opera compiuta e della responsabilità assunta di fronte alla storia anche nella spedizione garibaldina, ha reso ai due uomini e alla storia un meraviglioso servizio ; e sono quelle due lettere come il punto saliente a cui arriva l’opera politica del Cabella e la narrazione del suo biografo. Poi, l’attività politica dell’insigne giurista si affievolisce sebbene riappaia in episodi e momenti notevoli ed egli si trovi a contatto e in corrispondenza con gli uomini maggiori, competitore, nelle elezioni, di Nino Bixio, in relazione epistolare con Garibaldi, di cui tratta affari come avvocato, e con Canzio, De-pretis, Zanardelli e tanti altri, specialmente della democrazia. Anche dopo la nomina a senatore, non sollecitata ma conferitagli dalla giustizia serena e dalla adamantina onestà del Lanza, uomo di destra, 1 attività sua diventa più locale e professionale e, in Senato, di carattere tecnico, in materia giuridica. Ormai l’unità è un fatto compiuto; il concetto che Mazzini ha imposto all’anima nazionale è un acquisto indistruttibile; le antiche passioni sono dimenticate o sopite, gli uomini che hanno agito tra il 48 e il 60 si mettono in disparte e, occupate Venezia e Roma, affidano ai posteri il vaticinio di Cavour : Trieste e l’istria sarà l’opera di un’altra generazione. Tristi e difficili i tempi tra problemi interni morali e di organismo nazionale paurosi ; un velo di mestizia si stende sull’animo del vecchio patriota che tuttavia nei consigli forensi, nell’avvocatura, nell’Università, nella fondazione della scuoia navale, diffonde una molteplice mirabile attività in favore della città natale ormai dimentica dei vecchi rancori assorbiti e confusi nel senso della patria comune. 178 VITO VITALE Nobile vita operosa e disinteressata, diritta e solida nella struttura morale, in cui quelli che a noi possono apparire errori di valutazione e di giudizio, talvolta offuscanti l’innato equilibrio serbato in difficili frangenti, poterono dipendere dall’amore per la sua città e da ardore di passione, ma nella quale mai fu velato il senso dell’equità e della serena misura; nobile vita ben degna di essere nell’affettuosa rievocazione fatta rivivere ad ammonimento ed esempio. Vito Vitale. SPIGOLATURE E NOTIZIE C. Manfroni, intrattenendosi Sui recenti negatori dell' italianità di Colombo (Atti del R. Ist. Veneto di Se. lett. ed arti, Serie ix, to. vii, 1922-23, pp. 135-143), confuta gli argomenti di uno scrittore spagnuolo che vorrebbe il C. un gallego di Pontevedra ed ebreo. Il Manfroni stesso ha poi recentemente provato, nell’adunanza ordinaria del R. Ist. veneto, tenutasi il 29 marzo 1925 a Venezia, che lo storico francese Carlo La Roncière cadde in un abbaglio asserendo d’avere scoperto nella Biblioteca Naz. di Parigi la carta che Cristoforo Colombo presentò a Ferdinando il Cattolico e ad Isabella di Castiglia per indurli a consegnargli le navi (Bull, del Ministero della P. /., N. 16, 16 aprile 1925, p. 900). Anche Cesare de Lollis, in Giornale d* Italia, 7 aprile 1925, e in La cultura, iv, 15 maggio 1925, fase. 7, dimostra insussistenti le ragioni con le quali il Sig. Charles de la Roncière sostiene la sua tesi. * * * Alcuni storici della Corsica ritengono tuttora che Cristoforo Colombo sia nato a Calvi, altri lo negano. Per definire una buona volta la vexata quaestio, il direttore di La Revue del la Corse credè opportuno d’interpellare un insigne studioso che aveva praticato lungo tempo gli archivi genovesi; il Signor Colonna di Cesari Rocca. Il quale, in una lettera comparsa poi nella citata rivista (1922, p. 1 e sgg.) col titolo La veritable origine de Cristophe Colomb, statò fondamentalmente la leggenda tanto cara alla cittadina corsa, concludendo che ormai tutti ammettono la « concordance étroit des travaux des érudits avec la tradition répandue du vivant du grand navigateur, à savoir que celui-ci était né à Gênes, de parents liguriens ». Fu come gettar fuoco sull’esca. Subito dopo Paul Graziani, in un altro articolo Cristophe Colomb el la Corse (n. 41), dichiarò che dai -documents invoqués pour les partisans de la naissance à Gênes » non si può dedurre se non che il famoso ammiraglio nacque « citoyen génois », ossia qu’il était de nationalité ligure»; e che, pertanto, nulla vieta il crederlo di Calvi, ove era al suo tempo una famiglia Colombo, d’origine genovese. Rispose allora il Colonna di Cesari Rocca, rincalzando la sua tesi con nuovi argomenti e chiarimenti (p. 78). Ma un Sig. Pierre Capitali ritornò a sostenere per suo conto la possibilità della nascita in Corsica, con uno scritto intitolato Cristophe Colomb Corse et Français (p. 114). E infine A. Clavel delineò Le vrai Cristophe Colomb di su il noto e molto discusso libro di 180 SPIGOLATURE E NOTIZIE Carlos Pereyra, per dire che non può essere stato corso chi, avendo l’anima di un genovese, voleva vendere comme esclaves les paisibles populations qu’il avait découvert (p. 188). La questione, come si vede, è stata trattata storicamenfe, moralmente, sentimentalmente e in molti altri modi. Nè si può ritener chiusa. Intanto è probabile che ognuno resti del suo rispettabilissimo parere. * * * Maria Cossu studia, sopra carte dell’Archivio di Stato romano, i componenti e le leggi de L’Assemblea Costituente romana del 1849 (Roma, 1923, Tip. Sociale, 157-80); e ha quindi occasione di intrattenersi a lungo sull’opera spiegata dal Mazzini durante il Triumvirato. * * * Per la bibliografia mazziniana, segnaliamo ancora l’opusc. di B. Pareto Magliano, Lettere e ricordi di G. M., con pref. di A. Luzio (Paravia, 1924, p. 91), e ì seguenti articoli: A. Lewak, G, M. e Verni g razione polacca (Il Risorg. ital., xvii, 1924, p. 95); I. Rinieri, Le cospirazioni mazziniane nel carteggio di un transfuga [Michele Accursi] (ib. xvi, 1923, p. 173, 439; xvii, 1924, p. 171, 475, 589); N. Boselli, La prima « Internazionale » e la crisi del mazzinianismo (Nuova Riv. stor., vili, 1924, 74-8); A. Montanari, Una donna: Giuditta Sidoli (Aurea Parma, x, 1, 1925). * * * M. Mazziotti, conchiude un bellissimo articolo su L9offerta del trono d’Italia a Napoleone I esule a l’Elba (Rassegna storica del Risorgimento, anno vii, 1920, p. 18) con le parole: «Di due congiurati soltanto sappiamo i nomi, il Delfico e il Corvetto : per gli altri si tratta di mere congetture ». Questi altri » potrebbero essere, secondo l’illustre storico Pellegrino Rossi, il Salfi e il Coco. Ma il Mazzini, in una lettera alla madre, ricordava (ed. naz., Epistolario vili, p.233) «un Solari genovese, compromesso nel 1815 per corrispondenze tenute coll’Elba»; e la testimonianza dovrà tenersi presente da chi vorrà ritornare sull’ interessante argomento. * * * Chi fosse la donna vagamente indicata come 1’«amica ignota» del Mazzini e 1’ amica Adele di Goffredo Mameli, chiarisce Arturo Codi-gnola nel n° del 13 gennaio 1925 del giornale II Lavoro, pubblicando SPIGOLATURE E NOTIZIE 181 alcune lettere conservate tra le carte Mameli del Civico Museo del Risorgimento genovese. Si tratterebbe quasi certo di una Adele Baroffio, fattasi infermiera dell’eroico Goffredo, mentr’egli era all’ospedale Trinità dei Pellegrini. Il Codignola coglie l’occasione per riportare altre due lettere, con le quali Madame Laura Pollet, anch’ essa prodiga di amorose cure al poeta-soldato, forniva ad Adelaide Zoagli qualche notizia su di lui. * * * Vittorio di Tocco, rilevando e studiando Un progetto di confederazione italiana nella seconda metà del Cinquecento (Archivio storico il., Serie vu, vol. 1, 1924, pp. 161-197J, ideato da Girolamo Muzio, riferisce che, secondo questo pensatore, « tutto dipendeva da un punto solo, che Genova cioè si fosse sottratta all’influenza spagnuola >. Il Granduca avrebbe dovuto accordarsi col Papa e con i Veneziani per obbligare quella città a farsi italiana; e, ciò conseguito, sarebbe liberato facilmente anche Milano dal suo giogo. « Strana illusione », osserva il Di Tocco nell’ interessantissimo articolo, « di un’ insurrezione dei popoli soggetti al dominio straniero..... Riguardo poi al disegno di fiaccare la potenza spagnuola col recidere i nervi a Genova, Carlo Emanuele Idi Savoia, alleato dei Francesi, tenterà di attuarlo cinquantanni dopo, ma con poca fortuna ». * * * La Società Nazionale per la Storia del Risorgimento italiana, sotto l’alto patronato di S. M. il Re e la presidenza di S. E. il generale Giardino, ha chiuso il Congresso di Torino, designando Genova come sede di un nuovo congresso, da tenersi nel 1925, anno in cui il centenario della bella fazione di Tripoli, risolta a favore della Marina Sarda dal memorabile gesto di Giorgio Mameli. Il Comitato genovese della predetta Società prepara per la circostanza una Mostra Storica e le seguenti pubblicazioni: un voi. miscellaneo su La Liguria nel Risorgi-sorgimento, un Catalogo di documenti e carte della Bibl. Brignole Sale, un voi. di Medaglioni e Profili e, col concorso della Società Ligure di Storia Patria, il Carteggio dei fratelli Ruffini. * * * Francesco Torraca, in un articolo su Peire Vidai in Italia, che fa parte degli Studi di storia letteraria (Firenze, Sansoni, 1923, p. 68 e sgg.). tratta incidentalmente dei rapporti del Vidai con Genova e tocca in particolare delle canzoni Quant hom e Neus ni gels, ove il poeta provenzale si chiama « imperatore » o « signore » dei Genovesi. 182 SPIGOLATURE E NOTIZIE A. Sapori dà, sotto il titolo : Gli Italiani in Polonia nel medioevo (Archìvio stor. italiano, Serie vii, voi. ni, p. 125 e sgg.) un prezioso compendio dell’opera di Q. Ptasnk, Italia mercatoria apud Potonos sacculo XV ineunte, Roma, Loescher, 1910, nella quale son nominati i seguenti mercanti o appaltatori genovesi : Goffredo Fattinanti (t nel 1393). Pietro Messopero, Girolamo de Olmerio, Paolo Grimaldi, Angelo de Lercario, Cristoforo e Battista Fraga, Barnaba de Negrorio, Andrea e Corrado de Portu. * » * In un articolo su Nobili e popolani in Napoli nel medioevo in rapporto alV amministrazione municipale, di Michelangelo Schipa (Archivio stor. italiano, Serie vii, voi. m, cap. il, p. 21) si parla di una Loggia di Genovesi, fondata a Napoli nella seconda metà del sec. xm e più tardi ubicata prope Petram Piscium. I Genovesi ascritti ad essa avevano facoltà di eleggersi consoli con la doppia giurisdizione. * * * G. I. Bratianu, in un notevole scritto: Vicina, Contribution à F histoire de la domination byzantine et du commerce génois en Dobrogen (Bull, de la Section histor. de VAcad. Romaine, Bucarest, 1923), prova documentatamente che Vicina è da identificarsi con Vitzina. * * * Per la storia del costume natalizio in Liguria, è opportuno vedere, a p. 87 e sgg. della Nuova antologia (1 gennaio 1925), il bell’articolo di Arturo Lancillotti, intitolato II Natale in Italia. * * * Nel bel volume di Roberto Almâgià, su Giovanni Antonio Magini (Ly « Italia » di A. Magini e la cartografia delVItalia nei secoli XVI e XVII, Napoli - Città di Castello - Firenze, F. Perella, 1922, p. vili, 183, in 4° gr. con 9 tavole), si rilevano le relazioni fra le carte maginiane della Liguria e quelle di Domenico Ceva, Domenicano di Santa Maria di Casfello in Genova. * * * Sulla antichissima Piazza di San Matteo, s’intrattiene Domenico Castagna in II Comune di Genova, Bollettino Municipale del 30 Nov. 1924, per raccomandarne ai Genovesi il restauro, giusta il progetto preparato SPIGOLATURE E NOTIZIE 183 dall’ Ufficio di Belle Arti e già preso in seria considerazione dalla R. Sovraintendenza ai monumenti. * * * Secondo Alfredo Schiaffini (La diffusione e Vorigine dei fidei fi in Archivum romanicum, vili, 3, p. 294-201; e p. 10 delPestrJ, non si può stabilire la vera etimologia della parola fidello, ina si può esser certi che i fidelli provengono da Genova, dove si preferiscono tuttora ad ogni altra pasta alimentare. * * * Nell’ Archivio stor. lombardo, Serie vi, fase, m-iv, p. 504, Felice Fossati pubblica, di sul ms. Ambrosiano D, 193 inf., il documento di nomina di Bartolomeo della Capra a Governatore di Genova. Λ Dal bel volume di M. Pisani, intitolato Un avventuriero del Quattrocento. La vita e le opere di Benedetto Dei (Genova, Perrella, 1923), ricaviamo che il Dei, fra i quattro più grandi nemici di Firenze, annoverava, dopo i Veneziani, i Genovesi. * * * Richiamiamo 1’ attenzione dei lettori sopra un importantissimo art. di Paolo Revelli intorno a Genova eie relazioni culturali fra T Italia e ΓAmerica latina (Nuova Antologia, 1° ottobre 1924, pp. 277-88). * * * Il Giornale storico della letteraturv italiana ('fase. 249, dell’ anno XLII, 1924) chiudeva un suo cenno della Bibliografia di Achille Neri, dicendo: Ai rallegramenti ed agli auguri degli amici suoi, il Giornale è lieto di unire i propri, cordialmente». — Con altrettali espressioni dàva notizia di quella Bibliografia Carlo Bornate, nella Rivista storica italiana, luglio, 1924, p. 348. Ora che l’illustre e caro Uomo è mancato ai vivi, il predetto G ioni, storico pubblica (fase. delTanno xvm, 1925) una affettuosa Necrologia di Lui, ricordandone l’operosità diuturna e nobilissima. * * * 11 voi. vii degli Atti della Società Savonese di Storia Patria (Savona, Tip. Savonese, 1924) contiene uno studio di Federico Bruno (Le Con- 184 SPIGOLATURE E NOTIZIE venzioni Commerciali e la Marina Savonese dai tempi più antichi sino alla fine del sec. XIV), corredato di una vasta silloge cronologica di documenti dal 1088 al 1399; e, inoltre, un’accurata memoria di Filippo Noberasco (I commerci savonesi del sec. XV), intesa a dimostrare che ■ 1’ Aquila dell’ attivissima Repubblica ligure in competizione con concorrenti, con avversari ben più forti e possenti, in lotta continua con la mezzaluna, corre da signora tutti i mari conosciuti ». * * * A proposito del Convente di San Francesco a Cairo Montenotte, Ettore Zunino ha occasione, nella Liguria (a. Il, v. 2, p. 24), di rievocare su documenti sicuri le origini e le più antiche vicende di Cairo Montenotte. * * * M. Lupo Gentile pubblica ne\V Italia (vii, 2, marzo-aprile 1924) Uno statuto comunale del sec. XVI, promulgato a Sarzana. * * * A p. 41 e sgg. del volume II Settecento a Bologna, di Lodovico Frati (Collezione Settecentesca di S. di Giacomo, Palermo, Sandron, 1923) si parla a lungo di Carlo Innocenzo Frugoni e del Cardinale Giorgio Dpria, genovese. * φ * Al Viaggio musicale in Italia (1770) di G. Burney, tradotto da Virginia Attanasio (Collezione Settecentesca di S. Di Giacomo, Palermo, Sandron, 1921), la traduttrice appone (p. 251) una interessantissima nota sulle Casaccie e sugl’ inni eh’ erano in esse cantati. * * * L’Annuario del R. Liceo-Ginnasio classico Andrea DO ria di Genova, anno scolastico 1923-24, per cura di Adolfo Bassi, (Genova, Stab. artisti tipografi) reca interessanti e compiute Notizie storiche del vetusto edificio in cui è tuttora allogato, nonostante la sempre crescente popolazione scolastica, il Liceo-Ginnasio stesso, di Genova. Nella prima parte (La sede) si svolgono questi argomenti : Storie di guerrieri e di vescovi (Dall’età romana sino al 1449), Le monache domenicane (1450 c - 1797) Le monache Clarisse (1845-1865); nella seconda (L’Istituto) SPIGOLA TURE E NOTIZIE___185 questi altri: Le scuole Pie e le Scuole Civiche (1623-1849), Il Ginnasio Civico, Il Liceo-Ginnasio < A. Doria municipale e pareggiato (1849-1884), Il R. Liceo-Ginnasio « A. D’Oria » (dal 1884 ad oggi), Giovinezza eroica. * * * / E uscito con i tipi della Casa Editrice Fratelli Treves e sotto gli auspici della Sezione genovese della R. Deputazione di Storia Patria, un volume miscellaneo su Dante e la Liguria, contenente scritti d’insigni dantologi e una copiosissima bibliografia. Se ne parla in questo stesso fascicolo. Notiamo qui che di quest’opera importantissima sono già venute in luce, sui maggiori periodici italiani, autorevolissime recensioni. * * * Negli Inventari dei manoscritti delle Biblioteche df Italia di Albano Sorbelli (voi. xxvm, Firenze, Leo S. Olschki, 1922) sono notati i seguenti mss. della Bibl. Naz. di Torino: a p. 135 - R. 1312 (H-vi-12). 1 Stella Giovanni, Epistola ad Colucium Petrum de Salutatis - Carmen Itala gens gaude etc. ». 2 Epistolae diversorum Ducum Gemiensium et illustrium virorum. 3 Oratio boniffatiani populi ad Genuenses. Oratio legatorum genuensium ad Alphonsum regem Arag. 8 Bracelleus Jacobus. Epistolae. Oratio ad Alph. Reg. Arag. Libellus de Genuensibus claris. Descriptiones ligusticae (cart. sec. xv); a p. 181,1834 (0-1-29) Miscellanea di cose patrie riguardanti Genova (cart. sec. χνιιι). (F. L. M.). * * * La pubblicazione degli Inventari dei Manoscritti delle Biblioteche d'Italia, iniziata da G. Mazzatinti e ora diretta da Albano Sorbelli, è giunta al XXX voi. (Firenze, Leo S. Olschki, 1924, in-4°, pp. 283), nel quale è descritta una parte dei mss. della Biblioteca Comunale dell’Ar-chiginnasio di Bologna. Precedono succose notizie sulla biblioteca dovute al Sorbelli stesso, che ne è il direttore, segue poi il catalogo compilato con molta dottrina e cura da Carlo Lucchesi, bibliotecario aggiunto. Nel voi. si può spigolare qualche cosa che interessa la nostra regione. Di frate Antonio da Moneglia, ricordato dal Soprani (Scrittori della Liguria, ecc., pp. 38-9), è l’opera Sursum corda, che troviamo al n° 44 (p. 31), per altro già edita. Anche gli Affetti devoti di suor Tommasa Battistina Vernazza sopra V orazione domenicale (n° 49, p. 33) furono pubblicati nelle sue Opere spirituali una prima volta a Venezia nel 1588, presso gli eredi di Francesco Ziletti, sotto il titolo Della Unione delVa-nima con Dio, sopra il « Pater noster » (vol. i, p. 1 e sgg.), e una se- 186 SPIGOLATURE E NOTIZIE conda volta a Genova, stamp. Gexiniana, 1754, ma col titolo Trattato primo sopra il Pater noster» (vol. i, p. 35 e sgg.). Tuttavia questo ms., che è anche mutilo (contiene solo i capitoli i e il, e i primi due paragrafi del in, secondo l’ediz. genovese, pp. 35 - 56;, merita la nostra attenzione, se è vero che si tratti di un autografo, come è affermato in una nota di mano del sec. xvn su un foglietto incollato sulla c. 4.v Il ηυ 251 (p. 106) contiene il « Maggiordomato di Mons. Camillo Cybo Patriarca di Costantinopoli e sua promozione al Cardinalato . Il Cybo, nominato cardinale da Benedetto XIII il 28 marzo 1729, morì il 12 gennaio 1743; fu sepolto in S. Maria degli Angeli. Una curiosa raccolta di poesie (n° 357, p. 145) ci ricorda un’aspra contesa sorta nel 1722 fra i Carmelitani di S. Carlo e i Gesuiti. Racconta l’Accinelli (Compendio delle Storie di Genova dalla sua fondazione sino alTanno 1776, Genova, 1851, vol. il, p. 22) che i Carmelitani volevano alzare la fabbrica della loro libreria in Salita Pietra Minuta. I Gesuiti, che avevano a lato le loro scuole, si opposero e rovinarono il lavoro avanzato. I Carmelitani trassero i Gesuiti in giudizio, ma questi» spalleggiati, sembra, dai nobili, riuscirono a tirare in lungo la cosa, finché la Curia Arcivescovile il 2 marzo 1725 decise in favore dei Carmelitani. L’Auditore Buttari, dice l’Accinelli, compose speciose centurie di sonetti contro l’attentato dei Gesuiti e del P. Emanuele Spinola, procuratore del Collegio , che si trovano manoscritti nell’Universitaria di Genova (cfr. P. L. Levati, I Dogi di Genova e Vita Genovese dal 1721 al 1746, Genova, 1913, pp. 59-61). Probabilmente il ms. Bolognese contiene le stesse poesie, ma vale la pena di riferirne il curioso titolo: La Forza della Poesia in contrasto. Vim vi repellere licet. Assioma volgare de RR. PP. Gesuiti del Colleggio de SS. Girolamo, e Francesco Xaverio. Risposta dei RR. PP. Carmelitani Scalzi di S. Teresa in S. Carlo. Vi opus est, ut vim repellamus. R. C. Lib. vili. Bar. L. vini. In Genova MDCCXXII, il. Giugno . La Biblioteca Brignole Sale De Ferrari di Genova (Palazzo Rosso) possiede tre memorie legali a stampa in cui si tratta di questa vertenza, le prime due a favore dei Gesuiti: Informa-zio ne I In Genova, M.DCCXXII. | Nella Stamperia di Giovanni Franchelli: in-8°., cc. 2 nn. — La Chiara Giustizia | delle Scuole del Collegio | posta in luce al confronto di cinque principali Quesiti | contro gli attentati I de RR. PP. Carmelitani Scalzi di S. Carlo j In Genova, M.DCCXXII I Nella Stamperia di Giovanni Franchelli: in-8°, pp. 9. Questa allegazione porta il nome dell’Avv. Pietro Agostino Solari. Per i Carmelitani rispose l’Avv. Giacomo Tomaso Lodi colla stampa: Breve esame | della risposta data \ dal M. Pier' Agostino Solari | a’ cinque Quesiti proposti nella Causa de MM. \ RR. PP. Teresiani di S. Carlo di Genova, \ con li MM. RR. PP. Gesuiti del , Collegio di detta città | In Genova. Per Giovanni Franchelli : in-8°, pp. 7. Nel n° 390 (p. 156), una raccolta di poesie di vario argomento fatta dall’Ab. Gioacchino Munoz, troviamo a c. 9 un sonetto di Gio- _ SPIGOLATURE E NOTIZIE__187 safatte Biagioli, di cui debbo la copia alla gentilezza del Sorbelli. Eccolo : In morte di J. Kenible di gloriosa memoria. Ahi, Morte cruda ! in un baleno intomba Tuo furor quanto bene il mundo aduna; E qual s’a un tratto orribil notte piomba, L’universo per te tutto s’imbruna. Veggio’l tuo reo trionfo, odo la tromba, Ferai che stride intorno, e’ n veste bruna La gran donna de’ mari all’umil tomba Dolorando accusar l’empia fortuna. Godi ! ma s’oscurar sperasti i tanti Regi d’onde maggior sua gloria elice, È vano il tuo furor, stolti i tuoi vanti ; Che d’ogni sua virtù la chiara vampa In ogni ramo della sua radice (*) Profondamente il cielo imprime e stampa. 1878, vol. I, pp. 95-6. Può interessare gli scienziati il ms. n° 431 (p. 175), ove fra l’altro si trovano: La vie et les Ouvrages de Jean Dominique Cassini ; Notes de Jean D. Cassini sur ses Découvertes ; un Epigramma di un certo Guglielmini in onore del Cassini e una lettera dell’Halley al Cassini stesso. Come molti sanno, il C. era di Perinaldo, sopra Bordighera (1625-1712). Finalmente fra gli amanuensi ho notato un Gasparinus de Sarzana filius Magistri Christophori de Ponzanello, che nel sec. XV copiò il libro De doctrina dicendi et tacendi ad Stephanum filium di Albertano cfca Brescia, (n.° 242, p. 103). L. V. (l) Alludesi ai fratelli assai benemeriti alla patria. John-Philipp Kemble, nato a Preston nel 1757 e morto a Losanna il 26 febbraio 1823, fu un grande attore tragico inglese; non meno famosi di lui sulle scene furono suo fratello Charles e specialmente la sorella Sarah. Fra i Kemble e il Biagioli correvano rapporti d’amicizia come ci attesta F. A. Kemble (Mrs. Butler) in Record of a Girlhood, A V VERTENZE 1) Il giornale si pubblica in fascicoli trimestrali di 64 pagine ciascuno. 2) L’ ufficio della Direzione è stabilito presso la Biblioteca Comu- nale della Spezia dove debbono indirizzarsi i manoscritti, i cambi, e quanto altro concerne la edizione del periodico. 3) Per quanto concerne Γ Amministrazione, esclusivamente alla Ditta Cavanna Editrice Pontremoli. 4) Il prezzo d’associazione per lo Stato è di L. 20 annue. AI SIGNORI COLLABORATORI La Direzione concede ai propri collaboratori 25 copie di estratti dei loro scritti originali. Coloro che ne desiderassero un maggiore numero di copie, potranno rivolgersi allo Stab. Tipografico Editoriale Ditta C. Cavanna Pontremoli che ha fissato i seguenti prezzi: Da 1 a 8 pagine · Da 1 a 16 pagine Copie 50.....L. 12 Copie 50.....L. 20 » 100.....» 20 » 100 ..... » 30 In questi prezzi si comprendono le spese della copertina colorata e della legatura. Prezzo del presente fascicolo L. 5 DIRETTORE RESPONSABILE UBALDO FORMENTONI _ v I i . I . Γ. _ Giornale STORICO E LET TERARIO DELLA LIGURIA S ^ PVBBLICATO SOTTO OLI AUSPICI DELLA SOCIETÀ D’INCORAGGIAMENTO DELLA SPEZIA :: NUOVA SERIE DIRETTA DA F. L. MANNUCCI e U. FORMENTINI VOL. I FASC. IV GENOVA 1925 EDITO DALLO STABILIMENTO TIPOGRAFICO Ditta Cesare Cavanna _ PONTREMOLI ■s*c< ? I SOMMARIO L. staffetti : Donne e Castelli di Lunigiana - iv. La moglie di Gün Luigi Fiescl’i . Pig- 189 u. formentini : Nuove ricerche intomo alla Marca della Liguria Orientale. Cap. ni. Le origini ed il compito storico delia Marca » 220 a. pesce : Due episodi prerivoluzionari in Ovada '797 ......» 231 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA: - graziella taccetta: Gabriello Chiabrera e la sua produzione epica (f. l. mannucci) . . » 241 Ubaldo formentini: Questioni d’archeologia lunense con un frammento inedito di U. Mazzini. Scavi e monumenti romani del Golfo della Spezia nelle opere edite ed inedite di U. Mazzini (c. magni) . » 243 Pietro baroncelu : Nuove ricerche nella città Lìbarna · Albintimilium (m.n. conti) » 247 SPIGOLATURE E NOTIZIE: . . . » 249 Di recente pubblicazione : BIBLIOTECA DELLA « RASSEGNA » VOL. IX FRANCESCO LUIGI MANNUCCI LA LIRICA DI GABRIELLO CHIABRERA STORIA E CARATTERI (un voi. in 8°, di pp. 298; L. 35) QUESTO LIBRO CHIARISCE LA VARIA SPIRITUALITÀ DEL POETA SAVONESE E DETERMINA LE ORIGINI, LE RAGIONI, LE VICENDE E LA FORTUNA DEL NUOVO E COMPLESSO INDIRIZZO D’ARTE A CUI È LEGATO IL SUO NOME. DIRIGERE richieste alla SOCIETÀ’ ANONIMA EDITRICE FRANCESCO PERELLA, GENOVA, VIA ASSAROTTI, 16 A. TEOFILO GAUTIER SMALTI e CAMMEI TRADUZIONE DI L. VOLPICELLA ELEGANTE VOLUME RICCAMENTE ILLUSTRATO DAL PROF. GENNARO D’AMATO, FINEMENTE RILEGATO CON COPERTINA IN TRICROMIA. EDIZIONE DELLA DITTA C. CAVANNA PONTRKMOLI LIRE VENTI DONNE E CASTELLI DI LUNIGIANA IV. LA MOGLIE DI GIAN LUIGI FIESCHI Dal matrimonio malamente concluso, per opera di Leone x, fra Lorenzo Cybo, suo nepote per parte della sorella Maddalena dei Medici, e Ricciarda, figliuola ed erede di Alberico Antonio n Malaspina, marchese di Massa, dovevano nascere discordie, vergogne, litigi, scandali e violenze. 1 figliuoli, cresciuti pur troppo fra Γ imperversare di tempeste domestiche, non erano incamminati per buona strada, nè bastava l’autorità del cardinale Innocenzo Cybo, loro zio, troppo volto, del resto, a curare le proprie fortune, per allontanarli dalle pericolose vie per cui s’erano messi. Giulio finì, a 23 anni appena, sotto la mannaia del carnefice, nel castello di Milano, vittima più infelice che colpevole dell’ira funestissima dei suoi genitori l. Alberico ebbe sorte migliore, perchè di tutti il più giovine, e singolarmente favorito dalla madre e dallo zio cardinale2. Eleonora, invece, fu anch’essa vittima delle contrarietà continue de’ suoi3. Le sue vicende meritano d’esser narrate, e son curioso contributo alla storia delle genealogie patrizie di Genova, oltre che a quella più generale del costume italiano nel 500. 1 staffe rn luigi : Giulio Cybc-M alaspina, marchese di Massa. in Atti e Memorie della R. Dep. di Stor. patr. per le Prov. modenesi. Serie iv, vol. i e ir Modena, Vincenzi, 1892. 3 II Libro di Ricordi della Fani. Cybo, pubb. da L. staffetti in Atti della Soc. lig. di Stor. patria, voi. xxxvm, Genova, 1910. 3 REUMONT Alfredo. Eleo no ra Cybo iind ihrc Angchorigen; in Beitàge zur Italienischen Geschichte ; toni, iv, pp. 188-297, Berlin, 1855. 190 LUIGI STAFFETTI * * * Eleonora nacque a Massa il 1°. di marzo del 1523, primogenita di Lorenzo Cybo, innanzi che divampassero le discordie di costui con la moglie Ricciarda \ Fu posta nel monastero delle Murate, a Firenze, in accomandigia di sua zia Caterina Cybo Varano, duchessa di Camerino, che, ridottasi in quella città, nutrì grande affetto per la nipote, priva delle cure materne, mentre Ricciarda vivea in mezzo agli splendori della società cortigiana a Roma, in stretti rapporti col marchese d’Aguilar, oratore spagnuolo. Pare che, quando aveva appena 16 anni, nel 1539, si cominciasse a trattare di darla in isposa al figliuolo di Sini-baldo Fieschi e di Maria della Rovere, quel conte Gian Luigi rinomato per la famosa congiura genovese del 1547. Ma la pratica fu più volte per andare a monte per varie ragioni2. Prima la contrarietà che al parentado mostrava il principe Andrea D’Oria. Il marchese del Vasto, governatore di Milano, ne aveva riferito a Gerolamo Vecchiano, segretario d’Innocenzo Cybo, in questi termini: « Me par ch’el Cardinale (Cybo) parli benissimo, nè io saprei che potermeli replicare; et se io t’ho a dir l’animo mio, parmi ch’el conte de Flisco non l’intenda, non consideri nè bene nè lì appresso el caso suo, perchè io son certissimo che mai, in-duggi pure a maritarsi quanto li pare, troverà, non dico partito miglior de questo, ma nè anco forsi così bono : ma 10 ti voglio dire da che io penso che questo defecto venga. 11 Conte è giovane et non discorre le cose sue più in là che tanto; et quelli che Io consigliano, et governano, et lui 1 E’ curiosa la franca schiettezza di Ricciarda, che scrivendo al Duca di Ferrara il 9 Luglio del 1541, dicea della Eleonora: Perchè la non stesi in dubio di qual marito fuse figliola, questa dico essere del Signor Lorenzo ». 2 Alberico Cybo nel .« Libro di Ricordi pone al 27 giugno 1539 la data in cui sarebbe stato stabilito il matrimonio, che subì una dilazione di tre anni e mezzo. Cfr. op. cit. pag. 13. DONNE E CASTELLI DI LUNIG/ANA 191 et sua madre, son tutti Genovesi, et non solo noi vorreb-bono più grande di quel che è, come con effetto sarìa facendo questo parentado col tuo padrone, et maxime sempre che un suo fratello fusse poi arcivescovo di Genova 1 ; ma li rincrescie che sia si grande come è. Et il creder mio si è eh’ el principe D’Oria sia quello che, non solo lo disconsigli allui et a sua madre, ma ch’el facci opera con ognuno ch’el sa che possi far bene o mal in questa pratica, per far che la non si concluda mai : oltre che io so, per altri conti, ch’el non vuol bene nè fa volentieri piacere al tuo padrone, (il cardinale Cybo), anzi dove li può far il contrario si sforza farlo in tutti quelli modi et per tutte quelle vie ch’el può »2. Con l’avversione del D’Oria s’univano gli intrighi del cardinale Innocenzo Cybo e di Ricciarda, che eran legati da più stretti rapporti che la parentela; la marchesa di Massa, dopo aver pensato a maritar la figliuola col conte Sforza di Santa Fiora, nipote del papa Paolo ih, * nell’estate 1 Si allude a Scipione, il più giovane dei figliuoli di Sinibaldo nato nel 1528 e indirizzato agli studi, a cui il card. Cybo disegnò, più tardi, resignare, oltre quello di Genova, anche 1’ arcivescovato di Torino. R. Arch. di St. in Genova, Busta Paesi, 333. Non fu poi ordinato, ma sposò Alfonsina Strozzi. 3 R. Arch. di Stato in Massa, Carteggio orig. dei Cybo - Lett. al cardinale Innocenzo. 4 apr. 1541 Gerolamo da Vecchiano agente del cardinale, al suo Signore. 8 Francesco Babbi, segretario di Giovanni dell’Antella, ambasciatore di Cosimo de Medici, duca di Firenze, a Roma, scriveva, da questa città, il 19 giugno 1540 al Magnifico Sig. Ugolino Grisoni, segretario di S.‘ E. ; « Parlando questa mattina con M. Pietro Mellini, quale mostra esser molto servitore a S. E., mi disse come la Marchesa di Massa con grande instanzia, per via di Madama et del Sig. Marchese (d’ Agui-lar, ambasciatore spagnuolo a Roma) cercha con Nostro Signore di far parentado; cioè di dare la figliuola al Sig. Sforza Santa Fiore, et una sorella del prefato Signore pigliarla per il Signor Julio suo figliuolo; et lei vuole aggiungere 2D mila scudi : et che havendone parlato più volte con Nostro Signore, mostrava, così in prima facie, piacerli, dando qualche intentione di volerlo fare, benché quanto a me non credo sia per concludersi così presto . R. Arch. òkStato in Firenze, Arch. mediceo, fil. 3263. i 192 LUIGI STAFFETTI del 1541 brigava col duca Ercole di Ferrara scrivendogli, il 9 Luglio : « Mi ritrovo una figliola da maritare, e desidreria darla al Conte di Perleza nipote del Reverendissimo 1 ri-vulzi » (il famoso parteggiante de’ Francesi, cardinale Agostino Trivulzio, gran cooperatore della elezione del papa Farnese)l. Ne sperava un accordo di costui col Cardinale suo cognato, rispondente, forse, al segreto fine di preoccupare il Papa affinchè tollerasse ancora la lontananza del Cybo da Roma, proprio in quel tempo in cui, avversando Paolo ih i cardinali medicei, a’ quali appartenne Innocenzo, e cercando privarli di cariche e benefici, più vive si facevano le insistenze per richiamarvelo \ Ercole d’Este non 1 sforza Giovanni : Cronachetta massese del sec. xvi in Giornale stor. e lett. della Liguria, Voi. in, a. 1902, pp. 53-54 3 Questi - intrighi - appariscono dal carteggio della Marchesa di Massa col cognato cardinale Innocenzo. Il 30 marzo 1542 ella scriveagli, da Roma Che ha piacere sia guarito : si guardi da pericoli e disordini. Non le dispiace la ripetuta pratica dei Fieschi, nia più le piace la risposta all* abate. (Giov. Francesco Guiducci). E’ d’opini ore che Sua Signoria tiri innanzi le pratiche del D’Oria e Riario: il Gauna (agente del Cardinale) farà le visite ai Reverendissimi Salviati, Bembo e RidoKi. S. E. il Marchese (d’Aguilar) le ha detto che se lui non va volentieri a Roma, farà che il Duca Cosimo lo ricerchi per Firenze. (Il Medici però ne faceva volentieri a meno!) Ne parlerebbe col Papa a nome di Sua Maestà : attende la sua risposta per entrarne in pratica con Don Francesco di Toledo e coll’ambasciatore del Duca. Il 26 d’aprile gli scrive che un corriere di Spagna ha portato la nuova della protezione d’ Alemagna datagli dall’ Imperatore Carlo V : quella di Spagna F ha Farnese. II Nunzio apostolico ha scritto al Papa che Sua Maestà aveva dato tal protezione al cardinal Cybo perchè andasse a Roma. Ella lia fatto uffici perchè il Cardinale possa andarsene a Genova : potrà insistere clic l’aria cattiva di Roma gli nuoce. Ma Paolo III ha dichiarato esplicitamente: - Noi vogliamo che tutti li cardinali siano con noi per poterci valere nelle occorrencie - . In quella lettera c’è ancora questo accenno: Quanto al matrimonio di Leonora poiché il Fiesco muta sempre, « l’abbi come pratica non intrapresa e segua l’altre . R. Arch. di Stato in Massa, Carteggio originale dei Cybo; Lettere al cardinale Innocenzo. Cfr. Staffetti: Il Cardinale Innocenzo Cybo: Firenze, Le Monnier, 1892, pag. 234. DONNE E CASTELLI DI LUNIGIANA 193 parve insensibile alle sollecitazioni della marchesa di Massa, che lo ringraziava, il 13 d’agosto di quel 1541, avendo « visto con quanta amorevolezza la s’è dignata acetare le pregere mie e a afaticarsegli dentro per mia satisfacione ». E si parlò anche d’interessi. «Perchè la me ricerca ch’io gli dica la dota dela figliola, per potere gagliardamente fare questo oficio, gli dico che sirà dicioto milia scudi ; dodice niilia pagarli quando la menerà ; li sei milia tempo 3 anni, a du milia per anno Gliene sarebbe stata grata: « offrendomi a renderli tanti guanti di Spagna e cusinetti profumati ». Anche il 10 di settembre dello stesso 1541 pregava il Duca « a non lo scordarsi. » * Il cardinal Cybo non restò estraneo alla pratica. Il 26 settembre dello stesso 1541 scriveva al Duca di Ferrara: Sono tanto da diverse bande stimulato sopra al casamento de la Signora Leonora mia nipote, che mi farà con la E. V. passar forse li termini del sollecito et del diligente ». Gli ricorda la risoluzione della pratica col Rev.mo Trivulzio. Gli manda apposta un gentiluomo perchè durante la sua dimora presso di lui » possa trar le mani et risolvere il negotio » * * * Ma con tutto ciò proseguivano gagliarde le pratiche per le nozze col Fieschi e s’avviavano a fine in quello stesso 1 Le riluttanze del cardinal Cybo per non andare a Roma, nel pontificato di Paolo ni di cui temeva, indussero il papa a minacciargli la revoca. Il R.nto Farnese haveva risposto alti ministri et agenti di V. S. R.ma e Ill.ma et del card. Cybo che Sua Beatitudine vuole che vadino là, se non che procederà alla privatione . Lett. di Lorenzo Ragni al card, di Ravenna, da Castello, 2 dicembre 1543. Arch. di St. in Firenze - Carte Cerviniane, Fil. 2 f Da Roma veniva, poi, la voce che il Marchese d’Aguilar, oratore di Spagna, desiderasse dar la giovane in moglie a un suo figliuolo, ma pretendeva 50.000 scudi di dote. Lettera di Averardo Serristori al Duca Cosimo de Medici, del 18 febb. 1542, da Roma. R. Ardi, di Stato in Firenze, Mediceo, fil. 3264. * R. Arch. di Stato in Modena ; Carteggio del card. Cybo col Duca Ercole. 194 mese di settembre, come rilevasi da una lettera che Lorenzo Cybo, padre della giovane promessa, scriveva il 26 di quel mese al cardinale Cybo, da cui appare che Messer Giovali Francesco Guiducci, agente di costui, aveva partecipato quanto aveva trattato per cavar Eleonora fuori delle Murate e fare il parentado \ Queste ultime trattative ebbero conclusione per P intervento del conte Vitaliano Visconti Borromeo, genero di Ricciarda perchè aveva in moglie P Isabella, nata dal primo matrimonio della marchesa di Massa con Scipione Fieschi, zio di Gian Luigi. Costui si adoperò energicamente per dirimere ogni contrasto e vi riuscì, tanto che il 16 novembre del 1541 ricevea remissione da parte del cardinal Cybo e del conte Gian Luigi Fieschi « attorno al matrimonio da contrahersi trai prefato Signor Conte da Fiesco e la Signora Leonora Cibo » 2. Ma prima che il matrimonio fosse consumato doveva passare tutto il 1542. Eleonora, in quel frattempo, struggevasi di uscir di convento e si raccomandava allo zio cardinale. Il 30 marzo del 1542, ringraziandolo dalle Murate di un dono di pescagione ricevuto da Massa, così prorompeva : « Nè altro fo che continuo far pregare per quella, che Idio lo ispiri quando li par tempo liberare Fincarcerati, che sarà misericordia grandissima e hopera pietosa; però non posso pensare che le horacione si fano non intercedino gratia in nel cospetto di quella e possino tanto, che lo facino divenire un novo Santo Lionardo, che quel medesimo efecto facci, venendo in Fiorenza, che esso faceva andando in Francia. »:l. Soltanto in settembre del 1542 gli accordi furono definitivi, perchè il 15 di quel mese stendevasi I'/strumento pubblico del matrimonio contratto tra l’illustrissimo Signor Conte de Fiesco et l’illustre Signora Leonora Cybo, cele- 1 R. Arch. di Stato in Massa, Carteggio originale dei Cybo, lettera al cardinale Innocenzo. 1 R. Arch. di Stato in Massa ; Carteggio dei Cybo. Inventario delli capi delle scripture consegnate al Magnifico nostro Messer Thomaso Calvo Bavastro, per la gita di Genova. 3 R. Arch. di Stato in Massa; Carteggio del card. Innocenzo Cybo* DONNE E CASTELLI DI LUNIOIANA 195 brato in Milano sotto ’l dì xv di Settembre 1542, per Messer Galeazzo Visconte et Messer Girolamo Bertolio, notari milanesi. » Tale solenne promessa era stipulata medio et opera di Vitaliano Visconti Borromeo, fra Giovan Francesco Guiducci, procuratore di Lorenzo Cybo e del cardinale Innocenzo suo fratello, e Don Giuseppe Ghirlanda, procuratore di Ricciarda, da una parte, e Paolo Pansa, (quello che acquistò fama dalla congiura del’ 47), procuratore di Gian Luigi Fieschi, dall’altra·. Per la dote lunghe trattative eran corse fra Lorenzo, il Cardinale e Ricciarda. Costei fin dal 15 febbraio 1542, scrivendo al cognato, da Roma, di suo pugno, faceva premure « per la sicurtà di parte della dote della figliuola ». E pregava che, « avendo Lorenzo il modo di pagare, il Cardinale non mettesse lei in disordine » :t. E Lorenzo, dal canto suo, nella già cit. lettera al fratello, del 26 Settembre 1541, dopo aver dichiarato che l’agente Giovan Francesco Guiducci avea trattato con lui per cavar fuori dalle Murate la Eleonora e fare il parentado, insisteva perchè Innocenzo desse perfezione aH’accertamento di migliorare l’abbazia di Miramondo, uno de’ più ricchi cespiti delle rendite cardinalizie, per assicurarvi il Fieschi degli assegni alla nipote. Certo è che il gravame se lo dovette accollare il cardinal Cybo, che, un mese innanzi dell’accordo di Milano e precisamente il 12 agosto 1542, quale procuratore di Lorenzo Cybo, suo fratello e come mallevadore per Ricciarda, moglie di lui, prometteva di dare a Gian Luigi Fieschi l’importo di scudi - sexdecim millibus - per parte della dote di Leonora - de proximo desponsandae, et eius persona mediante futurae uxori - per mediazione di Vitaliano Visconti, e ai patti e condizioni che risultano da patti mandato e procura rogati in Pisa, dove Lorenzo Cybo dimorava. Seguivano le ' R. Arch. di Stato in Massa ; Inventario cit. 1 Cfr. Libro di Ricordi della Famiglia Cybo, pubb. da L. Staffetti in Atti Soc. Lig. St. patria cit. vol. xxxvin pag. 31S. R. Arch. di Stato in Massa : Carteggio originale dei Cybo. Lettere al cardinale Innocenzo. 106 dichiarazioni d’ Innocenzo, a nome di Lorenzo, di tenere indenne Ricciarda di ogni pretesa che su quei 16 mila scudi avesse potuto vantare Gian Luigi. E concludeva garantendo lui sui beni di Lorenzo, a Genova, a Roma, nella diocesi di Spoleto e nel dominio fiorentino Nella promessa nuziale del 15 settembre 1542, a Milano, il Guiducci, quale procuratore del Cardinale e di Lorenzo, promise che la dote di Leonora sarebbe stata di 34 mila scudi d’ oro del sole, che 9 mila da pagarsi quando sarebbe stato contratto il matrimonio - per verba de praesenti - e altri 9 mila dopo un anno. Per questi due pagamenti di 9 mila scudi ciascuno il Guiducci promise di dare assicurazione in Genova, presso persone sicure, innanzi delle nozze. E di più promise « tanta iocalia aurea et argentea et gemmas quae ascendant ad valorem scutorum mille auri, » in difetto di che si pagherebbero i 1000 scudi al Fieschi « ad effectum illos convertendi in iocalibus tempore dicti matrimonii pro usu et ornamento ipsius dominae ». Per gli altri 16 mila scudi, residui per arrivare, oltre quei 18 mila ricordati, ai 34 mila, si promise nei sei anni posteriori al matrimonio, dando facoltà al Fieschi di procedere contro i beni 1 L’ atto fu rogato da Giuseppe di Ser Pandolfo Ghirlanda, notaro e prete carrarese, - in domo Magnifici honorandi doctoris D. Rafaelli, Carrariae, præsetibus D. Pierino Cichi Petri da Massa et dicto domino Rafaelle, ac. Rev. Dom. Hercole Machiavello, Ferrariense, testibus etc. R. Arch. di Stato in Massa. Copia. 1 L’ Inventario delle robbe che F Illustrissima Signora Leonora Cybo contessa da Fiesco ha manifestato aver appresso di sè di quelle della bona memoria dell’illustre Signor conte Gio. Aluigi suo marito », fu pubblicato nel\ Omnibusì giornale genovese del 1S69, a pag. 29, sotto il titolo - Archeologia -(!) Fu comunicato dall’ avv. G. C. Alizeri e si trova nell’Archivio genovese dei notari, atti giudiziari, rogito del Notaro Gerolamo Giustiniano Roccatagliata, 8 marzo 1547. Comincia: Una veste d’oro di broccato riccio in campo turchino. - Segue a pag. 38 del n. 5: Gioye. Un cinto d’oro pieno di granatini. Una copia di questo inventario trovasi anche fra le Carte Sparse (Gavazzo) dell’Arch. di Stato genovese. DONNE E CASTELLI DI LUNIGIANA_197 dei fratelli Cybo fideiussori, nel caso di inadempiuto pagamento entro i termini. 1 Impegnavano per ciò « domos suas sitas in civitate Ianuae ' cum suis apotecis, magazenis et pertinentiis, quae sunt praefati Domini Laurentii. Item domum ibidem contiguam emptam per praefactum Reverendissimum Cardinalem, nec non domos praefati Illustris Domini Laurentii in Burgo romanae civitatis:1. Item domum quam habet in civitate Florentiae cum poderibus redemptis per ipsum ab heredibus Pazzorum in territorio fiorentino \ Item domum quam habet in civitate Pisarum ». Item predia « quae habet in loco Agnani, molendina Riparafractae et poderia » dello Spedaletto e dei Pontedera, e tre castelli alia Badia di Ferentillo. II Fieschi non potea disporre che di 4000 scudi ; del resto dovea far sicurezza personale \ Sui 36000 scudi d’oro del sole della dote di Eleonora, compresi i 2000 di gioie ? corredo, vennero fatti, via via, pagamenti dal Cardinale secondo questo listino : 1543. Per mano di Giuliano e Agostino Saivaghi, scudi 5000 da porre in S. Giorgio. Per mano di Ambrogio Calvi, scudi 4000. 1 Ne\VInventario ddli capi delle scritture ecc. cit. dell’Arch. di St. di Massa si nota la * copia di polizza e dichiarazione di Vitaliano Visconti, del 1. ottobre 1542 dei 1000 scudi d’oro da darsi a Eleonora oltre la dote, e convertibili in gioie, oro, ecc. oltre altri 1000 scudi simili . E si nota anche il « pagamento e quietanza dei 2000 scudi per le gioie ecc. fatto dagli sposi a Innocenzo, Lorenzo e Ricciarda il 27 agosto 1543 p. rogito del notaro genovese Granello. 1 Nel cit. Inventario dell’ Arch. di Massa si fa ricordo della cessione della casa genovese de’ Cybo in Via del Campo in persona di Giuliano e Agostino Saivago, 1’ 8 gennaio 1543, per atti del notaro Granello. Nel rione di Ponte, in Borgo, dov’è ora la piazza Rusticucci. Cfr. ADINOLFI, La Portico di 5. Pietro, pag. 136. 4 II palazzo de’ Pazzi e la villa della Loggia a Montughi. Cfr. Libro di Ricordi dei Cybo, cit. pag. 276. * Nel R. Arch. di Stato in Genova, Carte Sparse (Gavazzo) sono i capitoli che si trovano nell* istrumento dotale di Eleonora, fatto col cardinale Cybo. E nelle carte stesse, sotto il 13 giugno 1545, v’ha un istrumento di ricevuta d’una parte della dote d’Eleonora, dove si cita l’atto costitutivo dotale del 1542, 15 Settembre, rogato in Milano. 19S LUIGI STAFFETT/ Per conto delle gioie, scudi 1000. Vitaliano Visconti, poi, fin dal giorno della stipulazione del contratto milanese avea fatta un’ordinanza per la provvisione di 1150 scudi da darsi a Gian Luigi ogni anno. E delle somme notate si faceva istrumento di confessione per 4000 scudi, per conto della dote; per 1000 scudi delle gioie, e per S221, in seguito alla promessa fatta di pagare in termine di 18 mesi, con rogito di Ser Bernardo Usodimare Granello, notaro genovese, dell’8 gennaio 1543; mentre, con altro rogito Granello, stendevasi strumento di 5000 scudi pagati al Fieschi il 19 marzo 1543 Già fin dal corso delle prime trattative il Fieschi aveva provveduto alle garanzie della dote con la compera di Ca-riseto, come da atti di Giovan Cibo Peirano, dell’ 11 giugno 1540, in seguito a sentenza data dal Principe Andrea D’Oria nella causa di Cariseto, il precedente 16 marzo 1540. E oltre produrre il privilegio d’investitura di Cariseto in persona propria, il 4 marzo 1541 2; Gian Luigi Fieshi aveva provocata la licenza di poter obbligare il suo, sebbene non fosse in età (aveva 20 anni, perchè nato nel 1522) con atti Granello del 10 luglio 1541 Le valute della dote furono assicurate nelle compere del Banco di S. Giorgio sotto il nome della marchesa Ricciarda e d’ Elenora, per mediazione dei fratelli Saivago 4. Un secondo versamento di scudi 9000 si fece per mano di Tommaso Calvo Bavastro. 1 R. Arch. di Stato in Massa, Inventario di capi di scritture cit. * Cariseto fu comprato coi danari della dote di Leonora. Quando, dopo la congiura del 1547, fu confiscato cogli altri beni dei Fieschi, venne richiesto per la nepote dal card. Cybo che mandò il sommario della scrittura. Carlo v, al seguito di relazione di Don Ferrante Gonzaga, espresse parere favorevole alla restituzione. Documenti genovesi dell* archivio di Simancas, pubbl. da spinola, belgrano e PODESTÀ in Atti della Société) Ligure di Storia patria, voi. Vili, pp. 137 e 207. 3 Inventario cit. dell’Arch. di Massa. * L’ 11 d’agosto 1543 faceasi un pagamento per scudi 5220 notato nel cartolario secondo di S. Giorgio, per rogito di Giuliano Pallavicino. Sei giorni dopo, per rogito di Gregorio Spinola, redigevasi polizza di DONNE E CASTELLI DI LUNIGIANA__199 Un terzo nel giugno 1544, per metà a mani del Signor Adamo Centurione. Un altro pagamento ne’ luoghi di S. Giorgio. Altri ancora per tramite di Antonio Fiorelli computista. In tutto si pagarono da 26000 scudi \ Nè mancò a tutta questa pratica l’imperiale sanzione, perchè Carlo V concesse il consenso al Fieschi, come feudatario, di assicurare la dote d’ Eleonora ~. * * * Conclusi gli accordi di Milano, Gian Luigi scrisse al futuro zio cardinale Innocenzo Cybo, di cui vedeva ormai l’autorità e l’influenza, in termini ossequiosissimi, anche per dissipare ogni resto d’incertezza sui suoi buoni propositi e sul favore, che pareva ottenuto, del D’ Oria. Ecco la lettera : Reverendissimo et lll.mo Monsignor mio osservandissimo. È stato il Rev.nio Sig. Vescovo Cybo di Mariana 1 a visitar la Signora mia Mad.e e a congratularsi in nome di V. S. Rev.ma della amicitia rinovata e parentella novamente tra noi contratta per mezzo della Signora Leonora Cybo, sua Nipote e mia Consorte e Signora; che l’ha veduto molto volentieri, e così ho fatto io insieme con li Signori miei fratelli, tutti devotissimi servitori di S. Ill.ma ; poi è venuto qui per partecipare la detta conclusione con l’Illustrissimo Signor Principe D’Oria, e insieme siamo andati a far questo uffitio, qual è stato accettissimo. Esso Signor Vescovo se ne ritorna da V. S. Reverendissima, et in mio nome le bacerà le mani et dirà quanto ho comu-nic.ilo con Sua Signoria. luoghi 15 delle Conipere di S. Giorgio, sopra Eleonora. Altre polizze, nel di stesso, redigevansi per luoghi 205. ' L’operazione fatta dai banchieri Saivago ammontava a 8221 scudi e i luoghi ragionati si trattavano a Lire 46 per luogo. R. Arch. di Stato in Massa; Inventario cit. * R. Archivio di Stato in Massa; Matrimoni della Casa Cybo 1487-1590. * Cesare Usodimare Cybo, vescovo di Mariana in Corsica, dal 1531, per designazione dello zio card. Innocenzo Cybo, poi vescovo di Torino, nello stesso modo, del 1548. Morì a Trento durante il Concilio nel 1562. 200 LUIGI STAFFETTI Resto supplicandola che si degni dargli fede quanto a ine proprio, con che a V. S. Reverendissima, bacio le mani. Da Genova, Pultimo Settembre 1542. Di V. S. Rev.mo et Ill.mo Ohedientissimo Servitore Gio. Luise Fiesco 1 I buoni rapporti con la famiglia Fieschi si estendevano e rinsaldavano. Obietto, cugino di Gian Luigi *, il 5 di ottobre 1542 scriveva, da Genova, a Lorenzo Cybo in Agnano, manifestandogli che sapeva degli accordi confermati in Carrara dal Cardinale col Conte. 11 vescovo di Mariana, che era partito, avrebbe portato Panello se non si fosse dovuto ritardare per fare una carta di procura alla sorella del Conte per maritarla s. Prepari buoni vini e capponi, che si apparecchia venire a dare un assalto terribile. Scriva a Leonora perchè lo riceva con buona cera, affinchè non apparisca al conte Fiesco mentitore, avendogli detto che è molto bella e virtuosa, mentre dopo che è entrata nel monastero non le ha parlato nè Pha vista4. Non pare che la notizia del concluso matrimonio fosse piaciuta al papa Paolo 111, perchè Francesco Babbi, segretario dell’ oratore del Duca Cosimo dei Medici, così ne accennava, il 31 d'agosto 1542, al suo Signore, da Roma: Qui s’intende come il Conte di Flisco si è maritato con la figlia del Signor Lorenzo Cybo con dote di 32000 scudi, cosa che non piace, perchè Sua Santità haveva in disegno di 1 R. Arch. di Stato in Massa; carteggio originale dei Cybo, lettere al cardinale Innocenzo. * Obietto (Ibletto) figliuolo d’Antonio Fieschi e di Innocenzo Cybo qm. Francesco. Era sacerdote, battilana. Genealogìa Fieschi, tav. 17. Cfr. Libro di Ricordi de’ Cybo, nota 234. pag. 445. * Camilla, sorella di G. Luigi, che fu il primo giovanile amore di Giulio Cybo ma andò sposa a Niccolò D'Oria; mentre Giulio si indusse a sposar la nipote di Andrea, Peretta, sorella di Giannettino DOria. * R. Arch. di Stato in .Massa ; Carteggio orig. dei Cybo. Lettere a Lorenzo. DONNE E CASTELLI DI LUNIGJANA_201 darli una delle figliuole della Signora Gostanza1 ». Da questa notizia appare che in casa Santa Fiora s’era trattato un duplice matrimonio: questo del Fieschi con una figlia di Costanza di Paolo III, e Γ altro, da Ricciarda proposto, della Eleonora con uno Sforza, come già vedemmo. Concluse ormai definitivamente le nozze, il matrimonio per verba de praesenti * si fece a Carrara, dove il Cardinale dimorava, il 30 di Gennaio del successivo 1543 '·. Venne alla spiaggia di Carrara, con due galere, Gian-nettino D’Oria per rilevare, cavallerescamente, la moglie di Gian Luigi Fieschi \ E chi sa, forse, che sin da quel punto non sorgesse nell’animo dell’ardente e impetuoso giovane quella simpatia per la giovanissima sposa che, per quanto egli avesse in moglie Ginetta del richissimo Adamo Centurione, lo prese vivamente, e, pare, non fosse una delle ultime ragioni del 1 R. Arch. di Stato in Firenze, Mediceo, Carteggio dell’ ambasciatore Serristori, fil. 3264. * odo ardo rocca nelle Varie memorie del mondo ed in specie dello Stato di Massa dal 1481 al 1738, mss. del R. Arch. di Stato in Massa, riferisce la notizia, tratta certo da una cronaca del sec. XV! : 1343 Li 39 gennaro. La Signora Dianora figlia della Signora Ricciarda Malaspina, Marchesa di Massa, prese in marito il conte del Fiesco del conte Sinibaldo di Genova. Le nozze si celebrarono in Carrara presente il R.mo cardiral Cybo. Ebbe in dote 36 mila scudi; 1S mila in contanti, e li altri s’obbligò detto Cardinale a pagarli nell’Arcivescovado di Genova. - Cfr. Raccordi dell’ anniboni in Cronache di Massa cit. pag. 73. L’ Anniboni attinse alla stessa fonte del Rocca, perchè essendo nato nel 1330 non potea essere di lui tredicenne l’annotazione del 1343. Giovan Battista Ghirlanda, pittore di Fivizzano continuus habitator Massæ negli interrogatori fatti a Carrara nel 1367 per la causa promossa da Scipione Fieschi che intendeva rivendicare i beni patemi confiscati dalla Repubblica di Genova, depose che trovandosi nel gennaio a Genova p. ragioni professionali vide Giannettino, morto, e lo riconobbe per averlo già veduto in loco Carrariæ ad pladiam cum duabus triremibus cum comes Aloysius duxit uxorem filiam Marchio-nissæ . R. Arch. di Stato in Genova, Busta Paesi, 339, Y'arese - Cfr. anche forza G. Cronache di Massa, Lucca Rocchi, 1SS2, pag. 14S. 202 LUIGI STAFFETTI divampare delle animosità fra i due avventurosi emuli, caduti entrambi nella congiura del 1547 per un tragico destino. * * * A Genova Eleonora ebbe stanza nel suntuoso palagio de’ conti Fieschi in Vialata. Del marito Gian Luigi stavano a Genova tre sorelle : la Camilla, sposatasi poi a Niccolò D’Oria di S. Matteo, e due monache : Suor Angela Caterina, del convento di S. Leonardo, un’altra, minore, Francesca, nel monastero di S. Andrea1. Una quarta, Claudia, era figlia naturale. V’eran poi i tre fratelli: Gerolamo, Ottobuono e Scipione, e tre altri, figli naturali di Sinibaldo: Camillo, Cornelio e Giulio. In casa esercitava grande autorità la madre, Maria Grosso della Rovere, nipote del papa Giulio II. Leonardo Platone, che fu paggio di Gian Luigi dal 1534 al 1546, riferisce che egli viveva sotto la tutela, (sub regimine), della madre, di Ettore Fieschi-e d’altri contutori3. Aveva appena 21 anno per esser nato nel 1522; era d’un anno maggiore della moglie ventenne appena. Eppure tra i due giovanissimi coniugi non sembra vi fosse eccessiva tenerezza. 1 Interrogatorio dell’abate Don Agostino D’Oria di S. Fruttuoso. R. Arch. di Stato in Genova, Busta Paesi, 323. s Nel carteggio del Cardinal Cybo c’è una lettera di Ettore Fieschi, da Roma, del 13 marzo 1545 in cui gli dà notizie riguardanti il rifiuto delle berrette fatto dai cardinali spagnuoli. A Trento (pel Concilio) andarono molti vescovi c*)i tre Cardinali (Legati'. Si raccomanda col vescovo suo figliuolo. R. Arch. di Stato in Massa, Cartegg. cit. ad annum. Ettore implicato nella congiura del 1547, era figlio di Giacomo qm. Paride, e marito di Maria Fieschi qm. Girolamo. Girolamo, loro figliuolo, fu vescovo di Savona, batti lana natale, Genealogia delle famiglie nobili di Genova; Genova, Pagano, 1825-33. Voi. HI, Famiglia Fieschi. Cfr. Documenti cit. di Simancas; doc. n. lx, pp. 95 e 97. 3 Interrogatorio di Leonardo Platonus de Burgo Vallistari. Loc. cit. Busta Paesi, 333. Fieschi. Parte di questi interrogatori furono pubblicati anche dal gavazzo, Nuovi documenti sulla congiura di G. L. Fieschi, Genova, Sambolino, 18S6. DONNE E CASI / / U DI LUNI Gl AN A__203 Lodovico Minuerio, teste nella causa di Scipione de’ Fieschi per la rivendicazione pei beni paterni, deponeva che quando Giulio Cybo, « sororius dicti lo. Aloysii veniebat in « Violatum, sororium non alloquebatur, eo quia dicebat -so-« rorem ipsius lulii a dicto comite Iohanne Aloysio male tractari 1 ». Dunque litigi fra moglie e marito e avversità dei cognati. Nè v’era estranea la cagione, già detta, della predilezione per Camilla Fieschi-Doria di Giulio Cibo, costretto per ragioni di convenienza a sposare Peretta D’Oria2, la sorella di Giannettino nipote prediletto di Andrea. Di questa avversione fra cognati fa testimonianza un ane-dotto raccontato da Alberico Cybo ne’ suoi Ricordi : « Disse già il Signor Antonio Maria Bracè, che trovandosi in Violà nel palazzo del Conte, dov’ era il Sig. Giulio, vide che il detto Signore stava a sedere in una finestra con le spalle alla friata, et che venne il Sig. Nicolò D’Oria, cognato del Conte, et che il Sig. Giulio si mosse poco, come quello che per avventura non lo vedeva volentieri per la moglie tolta. Per il che dipoi il Conte disse alterato al cognato, cioè al detto Sig. Giulio, che termini erano quelli e che creanze, e se l’aveva portate di Spagna; e che n’era parso male a molti. Rispose a lui: — E chi son costoro? — Disse il Conte, ponendo la mano sul pugnale : — Io sono quello, et io lo dico. — Al che rispose lui con molta flemma : Voi non sete, però, il più savio homo del mondo; e cusì fini 3 ». E il mal animo del Fieschi per la moglie avea per movente la gelosia. Ce lo riferiscono parecchi testimoni nella causa già spesso citata ; Gian Luigi tornando a casa sapeva dell’assiduità di Giannettino D’Oria presso la consorte e se ne irritava, mordendosi le mani. Taddeo de Platone dichiara : Ipse Ioannettinus uxoris dicti lohannis Aloysii erat captus Interrogatorio cit. Busta Paesi, 333 - Varese. * Libro di Ricordi dc' Cybo, cit. pag. 18. Vedi le confidenze fatte da Claudia Fieschi ad Alberico Cybo. * 11 Libro di Ricordi de■’ Cybo, cit. pp. 18-19. 204 LUIGI STAFFETTI amore, nani semper quod dictus Iohannes Aloysius domi non erat, ad Eleonoram dicti Iohannis Aloysii accedebat, palam tamen et coram omnibus familiaribus dicti Joannettini. Nihilominus id Iohannes Aloysius valde aegre ferebat, et semel vel bis interrogavit Iohannes Aloysius dictum testem numquid Ioannettinus domi esset, et ipse, cum testis adesse responderet, dictus Iohannes Aloysius digitum momordit, et dictam suam uxorem pluries corripuit, licet esset hone-stis.sima \ Alterchi, dunque, fra coniugi, malumori fra parenti furono le prime conseguenze di quelle nozze neppure allietate dalla nascita di figliuoli. Si cercò di escludere la connivenza di Eleonora; ma non il turbamento della pace domestica '. La notizia delle contese provocate dalla mene di Oiannettino è confermata da Domenico de Rugale detto Mingino, staffiere del Conte e dimorante nel palazzo di Vialata. Dice che c’era inimicizia secreta fra .Gian Luigi e Oiannettino perchè costui « Iohannis Aloysii uxoris erat captus amore, et quando Iohannes visitabat dictam mulierem, cum ea Iohannes Aloysius valde conquerebatur3». A questa inimicizia, secondo Pietro da Val di Taro, famiglio di Gian Luigi il vecchio, aveano contribuito altre cagioni, come aveva saputo dagli altri servitori in tanti anni di servizio del Conte. « Processit partim quando triremes comitis adduxerunt setas Mexanam ». Questa questione delle sete vien riferita anche dal teste Minuerio così : « Haec inimicitia habuit ortum quia Iohannes Aloysius cum triremibus suis sumpserat onus vehendi serica ex insula Siciliae, quod admodum aegre tulit dictus Iannettinus 1 ». Il servitore di Val 1 Interrogatori cit. Busta Paesi, 333. 2 Nelle osservazioni al deposto si nota : Si ibat palam ad domum sororii, potius arguit amicitiam, nec talis presumptio est capienda de muliere honestissima ac de viro probo >. 1 Arch. di St. in Genova, Busti Paesi 333. Varese. 4 Interrogatori cit. fil. 433. Gerolamo Fieschi portò da Messina sulle sue triremi le sete dei mercanti genovesi che Giannettino era solito condurre con le sue. L’avversità, quindi, dipendeva da concorrenza. DONNE E CASTELLI DI LUNIGIANA 205 di Taro aggiunge : « Item a quibusdam verbis quae adversus ipsum comitem Iohannettinus alloquutus est1 ». Accenna poi, con molta riserva, all’amore di Oiannettino per Eleonora : « Item ex rebus amoris quae pro meliori tacentur ». Esplicito, invece, è Bartolomeo de Mancaleotti, altro testimonio, il quale afferma che Gian Luigi odiava Giannettino, oltre che per altre cause, perchè « horis quibus Iohannes Aloysius non erat domi accedebat ad Eleonoram uxorem, cum qua amorem faciebat ». Qui non è più la riguardosa discrezione di Taddeo de Platone, non la timorosa riserva di Piero da Val di Taro: è l’esplicita denunzia di una colpevole corrispondenza : — cum qua amorem faciebat2 —. Il Belgrano che, per primo, diede notizia di questa accusa pubblicando V allegazione che si riferisce agli interrogatori fatti nella causa di Scipione Fieschi, pur riconoscendo che Scipione armeggiava per stringere la congiura del’ 47 in una vendetta privata contro Giannettino, (cosa che il vecchio Principe D’Oria avea cercato di escludere fin dal 1547, pochi giorni dopo la congiura), mentre la Repubblica di Genova e i suoi litis consorti volevano complicarla, dandole il carattere, com’ebbe infatti, di un’offesa a Cesare e ai ministri cesarei, connivente la Francia, il Papa e Casa Farnese ; ammette senz’altro la colpa di Eleonora, scrivendo : «L’allegazione ne rivela una circostanza ignota o malamente adombrata e pure di momento grandissimo ; vogliam dire i colpevoli amori di Eleonora, moglie di Fieschi, con Giannettino ‘ ». E all’opinione del Belgrano aderiva lo Sforza che, con riferimento al Belgrano, scriveva : « Eleonora fu moglie infedele di Gio. Luigi ; ed i suoi colpevoli amori ' Le parole sarebbero state un millantarsi dei D’Oria che * unus schiffus mearum triremium capiet illas quattuor triremes comitis Iohan-nis Aloysii . Interr. dei Minuerio. a Op. cit. Busta Paesi. 333. ' Interrogatori ed allegazioni spettanti alla causa promossa da Ssci pione Fieschi per la rivandicazio/ic dei feudi paterni; pubb. da L. F. belgrano in Atti della Soc. Lig. di St. patria vol. vin pp. 595 e segg. 206 con Oiannettino D’Oria forse non furono l’ultima tra le cagioni che spinsero il Fieschi in quella congiura in cui lasciò così miseramente la vita 1 ». Le testimonianze esplicite che abbiamo pubblicato dagli originali degli interrogatori per quanto circondate da riguardose riserve, sono assai gravi, nè vale a dirimere l’accusa di colpabilità la spiegazione che l’estensore dell’allegazione cerca dare al riassunto del deposto di Domenico de Rugale « quod zelotipia uxoris cum frequentatione Iohannet-tini odium illius accendit ». Spiegazione che sa di curialesco : « Zelotipia non est verisimilis, quare si timebat uxori, poterat providere rei suae ordinando uxori ne Iohannettinum admitteret intra aedes in quibus residebat, et cum nihil inhonestum commissum presupponatur a testibus, non erat accessus Iohannettini tanti momenti ut propter ea deberet Iohannes Aloysius illum tam execrabili odio prosequi. Et dato quod esset simultas reciproca inter illos, ut inquit orator Figueroa ex mutuis illorum querimoniis, non tanta fuit ut fuerit causa tanti facinoris2». Alla spiegazione si deve contrapporre che nel 1567, venti anni dopo la congiura fie-schina, quei deposti che pubblicammo erano sufficientemente espliciti, particolarmente se si vuol tener conto del riserbo che doveva imporre ai testi prima la deferenza verso Scipione e la Famiglia Fieschi, poi il più particolare riguardo dovuto a una gentildonna come Eleonora, che sposata, in seconde nozze a Chiappino Vitelli, era circondata di molto rispetto e munita della sicura protezione del fratello Alberico Cybo, Signore di Massa3. 1 Nota n. 39 alle Cronache di Massa cit. pp. 258 e segg. 8 Interrogatori e Allegazioni cit. pp. 358 e segg. 3 Le parole coi} cui, nel Libro di Ricordi, pag.152, Alberico accompagna la notizia della sua morte, che avvenne nel 1594, parrebbero quasi rivelare l’intenzione di eliminare ogni voce men che riguardosa, sopravvivente alle vicende del passato. DONNE E CASTELLI DI LUNIGIANA 207 * * * Vedemmo che anche Giulio Cybo, fratello di Eleonora, non era in cordialità di rapporti col cognato cui rimproverava di maltrattar la sorella. Marcantonio Manetti ce ne spiega così la cagione : « lo tengo per certo che fra il Sig. Giulio e Casa Fiesca fosse mala inteligenza, e specialmente perchè il Sig. Giulio haveva tolta per moglie la sorella del Sig. Giannettino (Peretta D’Oria, sposata sugli ultimi del 1546), con speranza che egli l’havesse da mantenere nello Stato di Massa, atteso la grandezza del detto Giannettino ; e poi vedutoselo tore, hebbe buona cagione di andare, subito odita la nova di detto caso, a Genova con le sue gente in favore di Casa Doria e contra Casa Fiesca1 ». E Simone Ceccopieri conferma : « So che il Sig. Giulio portava odio a Casa Fiesca perchè i detti Fiesco avevano ammazzato il Signore Giannettino... perchè so che il Sig. Giulio portava grande affettione al detto Sig. Giannettino per averli dato aiuto ad impadronirsi dello Stato di Massa.... ; e so che Casa Fiesca portava odio al Sig. Giulio perchè andò per torgli Pontremoli ' ». Ma nel primo tempo della convivenza di Eleonora col marito Giulio, fu in comunione di rapporti col cognato. Infatti allorché nella primavera del 1543, pochi mesi dopo le nozze d’ Eleonora, Carlo V per la nuova guerra ne’ Paesi Bassi e in Germania deliberò di recarsi, personalmente, sul teatro della guerra, i due giovani cognati, Fieschi e Cybo, s’imbarcarono sulle galere di Andrea D’Oria e andarono a Barcellona a rilevare l’imperatore, accompagnandolo fino a Genova, dove arrivò il 25 maggio 1543. Di questo viaggio dava notizia il cardinale Innocenzo al Duca di Firenze per spiegargli la venuta di Giulio da Roma a Genova : « Ha- 1 Interrogatori riguardanti G. Cybo fatti a Carrara nel 1567 nella causa promossa da Scipione Fieschi. Cronache di Massa cit. pag. 242. * Interrogatori cit. pag. 146. 208 LUIGI STAFFETTI vendo in questa sua andata a Genova con sua sorella et cugnato, il quale vole andare in Barzalona a compaginar S. M. in qua, disegnato andar ancora lui con il Signor Principe1». Buoni rapporti, dunque, anche coi D’Oria. E nella breve dimora di Carlo V a Genova, durata fino al 2 di quel giugno, Innocenzo Cybo ch’era venuto ad inchinare, come arcivescovo della città, l’imperatore, pur affrontando il mal volere del Papa2, Giulio fu affidato a S. M. che Io condusse, come suo gentiluomo della bocca, insieme con la Corte, in Germania dove rimase fino al cader del successivo 1544. In quel tempo il D’Oria, unitamente a Giannettino suo nipote, attaccava le galere francesi che minacciavano Nizza, le vinceva, catturandone quattro e mettendo le altre in fuga *. Il Cybo avea dunque ogni ragione di mantenersi nella deferenza verso il D’Oria e gli altri fedeli di Cesare, come Don Ferrante Gonzaga, che, di Germania, lo portò seco in Inghilterra, mentre Cesare l’onorava del grado di Ciambellano. * * * Di Gian Luigi, in quel tempo, sono cordialissimi i rapporti col Cardinale, zio per parte della moglie. Il 9 d’agosto gli scriveva : Rever.mo et Ill.mo Mons. Signor mio osservandissimo. Hebbi quella di V. S. R.ma del 30 del passato in risposta di quanto le haveva scritto della cosa di Mons. di Todi; della quale causa hieri ebbi da Roma risposta dal mio agente. Quale mi dice che havendo di nuovo datto la lettera a esso Mons. et fattogli intendere il bisogno, et che quando Sua Signoria volessi essere Giulio Cybo citpag. 41 nota 1. 2 staffetti II Cardinale Innocenzo Cybo; Firenze, La Monnier, 1894; pag. 236. 3 Cir. la sua corrispondenza curiosa, di Germania, in staffetti, Carlo V a Spira nel 1544, \n Arch. stor. ital. Ser. v, toni X anno 1892. 4 neri Achille: Andrea D' Oria e la Corte di Mantova. Giornale ligustico in-iv a 1898. _donne e castelli di l uni ni a na 209 accomodata di tempo havendo io preso questi denari a cambio, se volessi pagare l’interesse se ne potrebbe valere: anzi m! Hieronimo Spinola le ha offerto per dui mesi di accomodarlo senza interesse, et ha risposto volerne più, dicendo che V. S. Rev.ma è solita di aspettarla tre o quattro mesi dopo il tempo: et finalmente va protrahendo il pagamento, come V. S. Rev.ma \edrà pei la lettera del mio agente, del quale le ne mando copia quivi inclusa. Però supplico V. S. Rev.ma che si degni prendergli quella provvisione che le parrà acciò che non habbi causa a ogni termine di pagamento essere a questi meriti. Di novo: l’armata Turchesca e Regia (Barbarossa unito in un pia alle ama coi CristianissimoJ giunse domenica sera a Vil-lafianca, e si tiene che vogli attendere a l’espugnation di Nizza; e si può dubitare della terra ma non già del castello, per quanto s’intende : (alia liberazione della fortezza cooperò Andrea D’Oria) pure 11011 si sa ancora il certo se non della giunta in Vilhafranca. Altro 11011 c’ è di nuovo. A V. S. Rev.ma la Signora mia madre, la Lionora et io basciamo la mano. Da Genova, li 9 d’agosto del 1543. Di V. S. 111.ma Servitor Gioaii Luise Fiesco 1 Di questi buoni rapporti cercò valersi Giuseppe Mala-spina, marchese di Fosdinovo, che coi parenti e consorti, Iacopo del Castel dell Aquila e Iacopo di Licciana, avean lite e causa con il Senato di Milano per i loro feudi imperiali. Giuseppe scriveva, il 17 Luglio del 1543, al card. Cybo per interporre i suoi buoni uffici presso il Fieschi. Quando il Sig. Giovanni de’ Medici (delle Bande Nere) aveva preso Olivola e altri castelli, il viceré Lannoy, di Napoli, luogo-tenente di S. M. in Italia, avea mandato commissari imperiali a restituirli. Ora poiché di ciò avea rogato gli atti Ser Galeazzo Belmesseri di Pontremoli, il Marchese si raccomandava a Innocenzo perchè intercedesse presso Gian Luigi ’ R. Arch. di Stato in Massa, Carteggio Originale dei Cybo, lettere la card. Innocenzo, ad annum. 210 LUIGI STAFFETTI affinchè facesse ricercar tali scritture1. Tra zio e nipote continuano le relazioni epistolari. 11 5 febbraio 1544 il Fieschi scrive al cardinal Cybo da Genova che dal Reverendo Pi-nello sarà ragguagliato della cosa di S. Fruttuoso, per cui farà ciò che sarà di bisogno. Aspetta di Fiandra il privilegio cesareo che avea richiesto a Giulio (Cybo, tuttora in Corte), con lettere spedite a Iacopo Pallavicino Basadone : ma per essere Giulio in Inghilterra non gli erano state consegnate. Poiché Don Ferrante è tornato, domanda notizie di Giulio. Termina coi saluti consueti della madre e di Leonora2. Quattro giorni appresso gli scrive ancora la seguente, autografa : Revei-mo et Ill.mo Sig. mio Osser.mo. Per la lettera di V. S. Rev.ma et per relaciane di Messer Ambrogio (Calvo, maestro di casa d’ Innocenzo) ho veduto il suo buono animo che non mi è stato nuovo, del che, quanto posso, 10 ringracio e se ne avrà occasione suplico V. S. Rev.ma che disponga di me come di servitore e figliuolo'. Io desidero spedire questa pratica, però li prego a mandar la procura per poterlo fare. Poi la venuta di Messer Ambrogio mi è ocorso de potere valersi de buona parte de la pensione de monsignor deTodi e ne ho scritto al Sig. vescovo di Volturara, (Gerolamo da Vecchi-ano maggiordomo del Cardinale) e lui qui presente latore gli ne parlerà, e serà tanto più cauto questo negocio : e V. S. Rev.ma sia certa che io non mancherò del debito mio. Ho avuto caro sapere nuova del Signor Giulio, che sino a qui non haveva inteso 11 suo ritorno. Io in breve anderò a Pontremoli, dove potrò più comodamente farli reverentia (il card, stava in Lunigiana) e così 4 Arch. di Massa, lett. cit. del cardinal Cybo. 2 Arch. di Massa, ibidem. Il 5 febbr. 1544 in una lettera di mano dell’agente Gauna sottoscritta da Giulio e diretta, da Spira, al Cardinale, si legge: «Domandai al Granbella (Mons. di Granvelle) lo privilegio del consenso de S. M. per il conte de Fiesco, per assicuramento della dotte della Signora Lionora. S. Ex. m’ha detto eh’è stato spedito et mandato ». staffetti : Carlo V a Spira nel 1544. Da documenti contemporanei : in Arch. stor. italiano Ser. v tom. x. DONNE E CASTELLI DI LUNIGIANA 211 la Leonora; la quale, con la Signora mia madre ed io, si reco-manda e li baciamo le mani. Nostro Signore Iddio felice la conservi. Da Genova, li 9 di febraro del xxxxiin. Di V. S. Rev.ma Servitore Gioan Luise Fiesco 1 * * * In quei giorni giungevano notizie dei successi imperiali in Germania : ma c’ era tensione assai grave fra Paolo ni e Carlo v. L’Imperatore alle proposte di pace col Cristianissimo avanzate dal Papa non prestava fede, pensando non si trattasse che di parole senza aspettativa di buon successo. Dichiarava pertanto al cardinal Farnese essere impossibile la pace fintanto che la Francia possedesse un palmo di terra italiana 2. Il 14 aprile, a turbar la gioia degli imperiali, sopravveniva la sconfitta toccata a Ceresole per opera dei Francesi. Profittò dell’occasione Piero Strozzi, che risolse far massa di gente alla Mirandola per minacciare la Lombardia ,:s. Andrea D’Oria si adoperò a rifornir l’esercito spagnuolo con genti trasportate da Napoli, di Sicilia e di Toscana. Si preoccupò anche Ricciarda pe’ suoi stati temendo un colpo di mano de’ Francesi o de’ loro aderenti ne’ suoi paesi di Massa. Ed ecco Gian Luigi Fieschi offrirsi ad aiutare la suocera. Scriveva al cardinale : Rev.mo et Ill.mo Signor Sig. mio Osservandolo. Non bisognava che V. S. Rev.ma anticipasse tanto il tempo in dirmi che s’accadesse il bisogno di qualche numero de fanti per la difensione del Stato della III. Signora Marchesa, mia suocera, se ne potria valere, potendosi persuadere, anzi essere ’■ Cart. cit. del card. Cybo - ad ann. 2 pastor, Storia dei papi dalla fine del Med. Evo tr. Mercati, v, 472. 3 STAFFETTi : Un episodio delia vita di Piero Strozzi, in Arch. stor. i'tal. Ser. v, tom. xv, anno 1895. 2/2 LUIGI STAFFETTI certissimo che non solamente agiutarei con fanti, ma io in persona con tutte le mie forze sarò sempre prestissimo a venire a beneficio et honor delle cose di Sua Signoria. E perchè mi ricerca di qual numero si potria prevalere, dico che quantunque 10 avessi comesso che per tutte le mie terre fosse inhibito a ciascuno sotto gran pena di non uscir fuora del paese senza expressa licentia, intendo però che molti giovani inconsiderati, che non hanno da perder, sono andati a toccar denari ove la fortuna gli ha guidati, contra li quali al tempo suo si procederà al castigo. E questo non ostante, V. S. Rev.ma, se occorrerà il caso, potria presupponersi di valersi di 300 fanti ; e direi di maggior numero: ma se si facesse adunatione d’arme in quel paese, conviene molto ch’io stia con l’occhio aperto, et che tenga fornito il Borgo e specialmente Pontremoli, perchè da diversi canti et da persone signalate sono avvertito che da coloro che sono nominati da V. S. Rev.ma1 si faceva di tentare d’impadronirsi della terra di Pontremoli2 per congregare la massa della fanteria ; oltre che a beneffizio di Sua Maestà convien servar quel passo per essere dell'importanza che sa V. S. Rev.ma. Tuttavolta se alla giornata intenderò cosa di momento, ne darò notizia a V. S. Rev.ma la quale medesimamente potrà fare il simile meco. Fin qui non vanno a torno se non parole e pratiche ; ma forma di danari non si vede : sono bene intratenuti diversi capitani con speranza di valersi de Popre loro, e se dovrà farsi cosa alcuna presto ne resteremo chiariti. L’Ill.mo Sig. Marchese del Vasto3 era venuto d’Asti in Alessandria, et hoggi o domani S. E. dovea partire per Pavia ove farà residenza qualche giorni, per provedere ove farà il bisogno, havendo lasciato in Asti il Signor Principe di Salerno con Cesare da Napoli e due millia fanti ; in Alessandria medesimamente lascerà buon presidio: a Casale resta il Signor Principe di Solmona con la cavalleria. Carignano persevera alla devotione di Sua Maestà e le fanterie hanno da vivere per tutto 11 mese di maggio, benché pensi che debba soccombere4 pur 1 Sono da intendere lo Strozzi e il conte di S. Secondo, come diremo fra breve. 3 Feudo dei Fieschi. 3 Governatore di Milano. 4 La resa di Carignano seguì di poco più d’ un mese la rotta di Ceresole. DONNE E CASTELLI DI L UNI GIANA 213 tra questo mezzo porta impedimento e da gran disturbo a’ Francesi per tenerli gran parte occupati al suo assedio: nondimeno una parte faceva disegno di camparsi a Clieri, et a quest’hora vi possono essere a torno: nel qual luogo si trova il Vistarino con mille fanti, oltre tre compagnie mandate ultimamente dal Sig. Marchese (del Vasto), le quali se saranno potute entrare, come si spera, quella terra starà sicura, nè potrà esser sforzata da nemici. Questa mattina è partito de qui il Sig. Oiannettino (l’emulo D’Oria) con diece galee per rivedere il paese et a qualche altro meglior disegno se succederà. V. S. Rev.ma havrà inteso dal-l’Ill.mo Sig. Loienzo, (Cybo) mio suocero, la mia indispositione per una postema accumulata sopra il ginocchio sinistro, et benché otto di questi phisici et cirugici sperassero che si potesse risolvere, pure vedendo io che non seguiva quel meglioramento ch’io desiderava, ho fatto venire da Parma un Maestro Angnolo phisico et cirugico sofficiente, il quale, havendo ben consultato et vintilato il caso con questi nostri medici et cirugici, hanno fatto aprire avanti hieri detta postema, dalla quale non è già uscito tanta putrefattone come si stimava. Tuttavolta io ne sento buon miglioramento e ne spero presta liberatione, che così piaccia a Dio. Resta baciar le mani a V. S. Rev.ma et così fa la Leonora, la quale, la Dio mercè, sta sana. Da Genova li xxim d’Aprile del xliiii. Di V. S. 111.ma Nipote e Servitore Qio. Luise Fiesco 1 Che le preoccupazioni del Fieschi su Pontremoli fossero giustificate appare da quanto riferiva Messer Cristiano Pagni al duca di Firenze, scrivendogli, il 23 di quell’aprile 1544, da Alessandria: «Per avvisi al Marchese (del Vasto) dalla Mirandola, rilevasi che Piero Strozi era là ; e dicevasi che, fra due giorni, darebbero danari. Il Conte (Pier Maria Rossi) stava in San Secondo e aveva fatto provvigione di 1 Arch. di Stato in Massa, Carteggio del card. Cybo. La lettera è diretta a Carrara. 214 LUIGI STAFFETTI molte farine, il che dava segno che voleva condurre le sue genti per quelle sue terre di Fornovo alla volta della riviera di Genova per imbarcarle alla Spezia 1 ». Ma questi minacciosi apparecchi, oltre Gian Luigi e Ricciarda, preoccupavano particolarmente Cosimo 1 de’ Medici che per timore del suo giurato nemico, lo Strozzi, preparava danari ed uomini per attraversarne i disegni. Al Medici, proprio in quei giorni, si rivolgeva, come a Signore di Bagnone in Lunigiana il Fieschi con questa lettera: Ill.mo et Ecc.mo Signor mio osservandissimo, Mi rendo certo che V. E. avrà in memoria che, sendo l’anno passato qui in Genova, la supplicai che, quando occorresse vacare il governo di Bagnone et pertinentie, si degnasse farmene gratia, assicurandola che oltre quel che se mi convenisse far per tal carico, sendo io servitore et creatura sua, Ella non poteva sperare non diminutione ma augumento di servigio. Hora havendo inteso eh’ el Signor Pietro Francesco Noceto, il quale tiene tal governo da V. E., è di sorte gravato che gli resta poca speranza di vita, perciò m* è parso raccordarlo a V. E. et supplicarla che-me ne facci gratia, che oltre Γ infinito obbligo ch’io le ne terrò, Ella si potrà sempre in ogni suo servigio valere d’ogni cosa mia. Da Genova, a dì xim di Maggio del xLlIU. Di V. 111.ma Ecc.za Humile Servitore Gioan Luise Fiesco2 Il disegno d’aver il governo di Bagnone, antemurale della Lunigiana toscana, avrebbe rafforzato ii dominio del Fieschi nell’alta valle della Magra. * * * Proprio tre giorni dopo, l’emulo di Gian Luigi, quel Giannettino che. s’era partito da Genova con 10 galee per 1 staffetti : Un episodio della Vita di Piero Strozzi, cit. pp. 3-4 nota 2. * R. Arch. di Stato in Firenze, Mediceo, fil. 365 bis. DONNE E CASTELLI DI LUN1GIANA_215 rifornire di genti l’esercito spagnolo, dava questi curiosi ragguagli al duca di Firenze sulle preoccupanti vicende di que’ tempi : III.ino et Eccell.mo Sig. mio Osserv.mo Quando io veni per levar li fanti del Sig. Martio (Colonna), non manchai di solicitar che venisseno anchora con essi quelli del Sig. Giuliano (Cesarini) et de quelli del Conte Brunoro : perhò non li fu rimedio, non siando ancora presti ; et non mancai di scrivere al Comissario di V. E. che li sollicitassi et che a ogni modo io saria di ritorno qui lioggi, come sono statto, et con più galere per puoterli levar tutti. Et tanto più mi è caro esser qui, quanto V. E. mi commanda usi diligentia ; et li prometto che dal canto mio non mancherà, tanto più stando le cose in li termini che sono. Mi son partito la mezza notte da Genova con mal tempo, et arrivato qui in questo ponto ; et hier sera venero lettere 'del Signor Marchese (del Vasto) di Milano, di xvi a xxi bora, et avisavano come la gente della Mirandola havieno passata Cremona et venuti a Pecighitone ' per voler passar P Adda, et per l’ostaculo li ha fatto lo castello ,ηοη I’ hanno possuta passar, et cercavano di passarla. Il Signor Marchese che si ritrova in Milano con forsi ottocento Spagnoli, attendeva alle provisioni necessarie. Li doa mila fanti di V. E. erano ali xvi a Voghera; sarano statti in tempo di andar così a Milano come a Pavia. Li altri del Signor Martio andarono hieri da otto miglia, et così caminerano tuttavia et si spera che, con la buona diligentia del Signor Marchese et li denari che continuamente se li provedeno, che a tutto si rimediarà. Di Nizza s’hanno lettere dal Capitano Cristofan di xvi. Dicono come a li xim le armatte turchesche et francese erano statte viste alla velia sopra Testa di Cane, che è uno loco più a levante miglia xxx dalle Isole, et che per li venti contrarii eran ritornati in dietro alle isole. In Antibo erano ’ Pizzighettone. 2 [6______LUIGI STAFFETTI da cinque compagnie di fanti, perhò tutte di paesani, da una in fuor d’Italiani, et che tuttavia li veniva di quella gentaglia et dicevano per imbarcarsi con l’armatta. Non si doverà molto tardare d’intendere dove ferirà questa borascha. Credo bene che dì tutto V. E. sarà raguagliata dal Signor Principe mio Signore o da Monsignor de Negro 1 che ha questa cura ; perhò non ho voluto manchare di avisarne V. E. possendo questa essere prima. Et così, per non fastidirla, non li dirò altro, salvo che la supplico mi tenghi per servitor et mi commandi, perchè la mi trovarà sempre pronto in servirla. Et cosi prego Nostro Signore la 111.ma persona di V. E. guardi et prosperi. Da Lerici, li xvin di Maggio del xLilll. [autografo] Mi ritrovo qui cum le galere che sono hore XVIII : nipur è comparso uno fante. Non manco dal canto mio di far quello posso, et especterò tanto quanto mi sera concesso. Il Signor mio scrive a V. E. quello la vederà ; et perchè è cosa che toca al marchese di Fosdinovo, (Giuseppe Malaspina, suo cognato, perche marito di Luisa, sorella di Giannettino) tutto quello V. E. farà per lei io li ne resterò obligato come seryitor che li sono. Et così li bacio le mani. Di V. E. Afecionato Servitor Zauetin D’ Oria 2 Fatta massa di genti alla Mirandola Piero Strozzi disegnava muovere verso la Lombardia per unirsi ai Francesi condotti dal duca d’ Enghien. Scartato il proposito di passar 1’ Appennino e, per la vai di Magra, scendere alla Spezia per imbarcarsi sulla flotta francese, s’incamminò verso Milano e passata F Adda presso Cremona s’avanzò fin presso le mura di questa città. 11 D’Oria, oltre i provvedimenti per mare, con mandar Giannettino su le galere a Lerici, dominando la Spezia, fece occupare il castello d’Altare con l’intendimento di guardar i passi verso Genova e Savona. E 1 L’ abate Di Negro era agente di Cosimo i a Genova. a R. Arch. di Stato di Firenze, Mediceo, fil. 363 bis. DONNE E CASTELLI DI LUNIOIANA 217 10 Strozzi, costretto a ritirarsi dalla linea dell’Adda, fu sconfitto il 4 di giugno di quell’anno 1544 a Serravalle Scrivia1. Allo Strozzi riuscì scampare l’estremo fato preparatogli da un emissario del Duca Cosimo e porsi al sicuro a Che-rasco. Ma non si dette per vinto e, poco dopo, tornò alla Mirandola, passò poi a Roma, aiutato dai Francesi raccozzò una nuova banda, finché risalì in Piemonte effettuando definitivamente la sua congiunzione con le genti di Francia nell’agosto di quell’anno. Per compire l’impresa avea disegnato varcare la Scrivia: ina poiché la stessa via tenuta in t primavera gli era stata fatale e gli avevano impedito la via di Piacenza, risolse risalir verso le sorgenti di quel fiume e passarlo presso Busalla. S’ avviò, quindi per Borgotaro, seguitò verso Santo Stefeno d’Aveto e puntò con l’avanguardia su Torriglia. Ma ecco opporglisi il castello di Mon-toggio presidiato e difeso da Gian Luigi Fieschi in persona. 11 quale risolutamente contrastò il passo allo Strozzi, costretto ad abbandonare l’impresa e a far marciare la fanteria alla volta del Bisagno e minacciato da 700 Spagnoli eli’erano venuti sulle galere di Spagna e non ebbero a passar la Polcevera, mutar cammino per non essere un’altra volta sbaragliato. Che se Gian Luigi non potè ributtarlo definitivamente, avvenne, com’egli se ne scusava con il cardinal Cybo, perchè « mai non si udì con maggior diligenza passar un esercito come ha fatto questo, et per paese ove mai non passò gente di ordinanza : et s’io havessi havuto l’aviso a tal hora che almeno havessi potuto giongere a San Stefano prima che loro, senza alcun dubbio io gli vietava il passar, come ho fatto a Montoio, perchè mi sarei valuto de i miei di Pontremoli, Valditaro, Varese et altri luoghi et harei havuto tre o quattro mila huomini alli passi ; però il non essere stato avvertito a tempo e V inaudita diligenza del Strozzi ha causato che non s’è potuto far maggior servigio a Sua Maestà ». ’ Le vicende di quella giornata son narrate nella lettera di Cristiano Pagni al Duca di Firenze, scritta da Voghera il 5 di giugno e da me pubblicata nel cit. Episodio della Vita di Piero Strozzi, pp. 6-8. 218 LUI Gì STAFFETTI Così nel 1544 il Fieschi ci apparisce seguace delle parti di Spagna e alleato del duca di Firenze per servir l’imperatore proprio da quel castello di Montoggio che, di li a tre anni, dovea vedere, stretto d’assedio dalle genti dello stesso Cosimo de’ Medici, 1’ ultima fortuna di Casa Fieschi partigiana di Francia, dopo la sciagurata morte di Gian Luigi nella congiura del 1547.1 * * * In quell’anno tornò dalla Corte imperiale Giulio Cybo, che sperava ottener dalla madre la diretta partecipazione al governo di Massa, rifacendosi così delle strettezze in che era stato tenuto fino a quei giorni. ' Ma come si fu accorto che Ricciarda aveva tutt’ altri disegni, cercò di procacciarsi fortuna presso i D’Oria e si piegò alle nozze con Peretta, nipote d’ Andrea e sorella di Giannettino. Questo matrimonio non piacque neanche a Gian Luigi Fieschi, come sappiamo dal cardinale Cybo, che avvisava Ricciarda « come il Conte del Fiesco non aveva inteso volentieri il parentado di Giulio, perchè voleva che i Cybo servissero alla grandezza sua e fossero suoi cognati ». ‘ Ma la pratica fu condotta a compimento e, poco dopo l’accordo, il giovane Signore s’impadroniva di Massa con l’aiuto anche di Giannettino D’Oria che dato fondo con 22 galere alla spiaggia del Balico, sbarcava alla marina massese alcune artiglierie per il futuro cognato. 1 Temendo che la marchesa Ricciarda, per ricuperar la terra, creasse un subbuglio nelle cose d’Italia, Don Ferrante 1 Lettera scritta da Gian Luigi Fiesco al cardinal Cybo, a Carrara, il 7 d’agosto 1544, da Genova. È nel cit. Episodio della vita di P. S. pp. 15-17. * E’ da vedersi al proposito il carteggio suo col Cardinale zio in fine al Giulio Cybo cit. pp. 256. 3 Libro di Ricordi de} Cybo, cit. pag. 347. 4 Giulio Cybo, cit. pp. 118. DONNE E CASTELLI DI LUNIGIANA 219 Gonzaga intervenne per sedare la sommossa, che per il concorso del duca di Firenze in favore Giulio e l’invocato aiuto di quel di Ferrara per sua madre, faceva pensare a un maggior turbamento. E ordinò al giovane marchese di Massa di depositare lo Stato di cui s’era impadronito nelle mani d’ un fiduciario. Egli condusse a termine la pratica del matrimonio con la sorella di Giannettino, sicuro ormai, in tal guisa, dell’appoggio dei D’Oria. E ne scrisse, oltre che alla madre, che sapeva avversa, anche a Gian Luigi Fieschi che pur vedemmo contrario: « Per far mio debito n’aviso a V. S. et a lei ne chiego consentimento et licentia, come cugnato et Signor che la tengo di me ».1 Ma e Ricciarda e il Fieschi vedevano di mal occhio quelle nozze. Del resto neanche il parentado coi D’Oria poteva rimuovere Don Ferrante dal primitivo proposito: « Dal Signor Giannettino - scrive Giulio al duca di Firenze - ho havuto hora un corriere con che n’avisa il Sig. Principe esser stato ricerco dal Signor [Don Ferrante] di novo sovra il mio deposito : onde m’ esortano, quanto più presto sia possibile, andarne a Genova per concluder l’altra pratica ».'"' Due giorni dopo, il 3 dicembre 1546, avvisava il Duca: « Fra due giorni mi partirò per Genova per ispedir quello che ΓΕ. V. sa Anche al duca di Firenze non piaceva punto l’autorità che il D’Oria andava acquistando sul giovane Cybo. 11 quale, compiuto il matrimonio con Peretta D’Oria, sul volger di quel dicembre la condusse a Fosdinovo presso la sorella Luisa D’Oria, sposa del marchese Giuseppe Malaspina. E mentre s’accorgeva d’aver contrari lo zio e il duca di Firenze nella faccenda del mancato deposito di Massa, gli arrivava, improvvisa, la notizia del moto di Genova del 2 di gennaio 1547. (continua) 1 Giulio Cybo cit. pp. 131. Il Marchese di Massa aH’Ill.mo Signor Conte di Fiesco Cugnato et Signor suo osservandissimo. Da Carrara, 14 ottobre 1546. ‘ Giulio Cybo cit. Lettera al Duca Cosimo, del 1 dicembre 1546, dal Castel di Massa. La successiva, del 3 dicembre, è scritta da Carrara. * Giulio Cybo cit. pag. 157. NUOVE RICERCHE INTORNO ALLA MARCA DELLA LIGURIA ORIENTALE III. Le origini e il compito storico della marca. Con la spedizione adalbertina del 1016 erasi esaurita la funzione militare della marca genovese in poco più che mezzo secolo di vita ; la sua storia seguente, abbiamo veduto, è di rapida decadenza, finché, tramontata con lo stato di cui era Porgano militare, politico, giurisdizionale, essa perde la sua territorialità e sopravvive soltanto come un elemento reazionario fra le nuove forze che governano il paese. Per intenderne il compito storico abbiamo dovuto dunque fissare i limiti di tempo della sua reale vitalità ; rimane da definire la sua precisa consistenza territoriale; dopo di che saranno facili e brevi le nostre conclusioni. Si fa spesso e comunemente confusione fra marca della Liguria orientale e marca obertenga. Il conte Oberto di Luni, quando fu investito della nuova carica, conservava in Toscana ampie tenute legate originariamente a titoli ducali e marchionali aviti 1 ; il. lui del pari s’ erano versate (o si versarono nei .suoi primi discendenti) cospicue eredità principesche, d’ origine supponide ed ayme-riciana, nell’ Italia Settentrionale2; il comitato palatino tenuto con Berengario e con gli Ottoni * contribuì ad 1 A prescindere dalla questione genealogica, sia che il retaggio oberbengo toscano venisse dagli antichi duchi-marchesi della Tuscia, sia da un ramo supponide. 2 Cfr. MALAGUZZ1-VALERI, / Supponidi, - Note di Storia signorile italiana dei secoli IX e X, Modena 1894: baudi Di vesme, op. cit. 201-2. 3 Dipi, dei re Berengario il e Adalberto, 23 giugno 955 (ed. SCHIA-parelli, Boll. Ist. St. It. xxi, doc. 8); Oberto riebbe l’ufficio palatino da Ottone i e lo tenne sino alla morte; non credo però che gli succedesse per breve tempo il figlio Adalberto, come si vorrebbe rilevare dal placito milanese del 30 luglio 872 nel quale figura Adalber-tus marchio comes palati » (Μ. H. P. Cod. dipi Lang. n. 737), ma che LA MARCA DELLA LIGURIA ORIENTALE 221 estendere i possedimenti e i poteri della sua casa : e infine, nel figlio Oberto II e nei due rami da lui discesi venne poi la marca di Langobardia1. Non è tuttavia che in alcun momento questo complesso di possedimenti e di dominazioni abbia formato una circoscrizione territoriale definita, cioè una marca nel vero senso, e neppure un tutto sotto unità personale di governo. Questa così detta marca obertenga e la ligure orientale sono realmente due entità giuridiche distinte e due nature diverse ; P una è propriamente un corpo di ragioni ereditarie, a titoli di proprietà e di beneficio, che si concreta e si scinde in particolari dominazioni feudali con il diramare della famiglia e col progresso del nuovo diritto feudale, P altro è, e rimane fino al suo tramonto politico, un istituto dello stato, una vera prefettura militare marittima. I confini della marca ligure orientale sono stati rettificati e ridotti, secondo moderni studi, al territorio dei comitati di Luni, Genova, Tortona, forse di Bobbio. Questo confine è in massima accettabile salvo una più esatta determinazione del territorio. II Bobbiese, nel quale s’accentrò, corrPè noto, il dominio temporale della celebre abazia di S. Colombano, appare inscindibilmente unito con altra parte del territorio contiguo, appenninico e rivierasco, diviso nei due comitati di Lavagna e di Torresana (Borgotaro)2. Ciò risulta da un complesso di circostanze che sarebbe difficile spiegare se non con ap- questa notizia riguardi Oberto stesso, il quale infatti ricompare con il medesimo titolo il 23 agosto seguente in atto di Bobbio non sospetto (Cod. dipi, del Mori, di S. Colombano di Bobbio, in FISI, 53, Vol. i, doc. Οχνιιλ Il comitato palatino passò ad altra famiglia con Giselberto n conte di Bergamo (cfr. oabotto, I marchesi Obertenghi, 9-10;ficker, Forschurigen, i, 314 sgg.). 1 Marchesi e conti del comitato milanese appaiono Ugo figlio di Oberto (n) nel 1021, Alberto-Azzo (i) fratello del precedente e progenitore degli Estensi nel 1045 (docc. già citati). 2 11 comitato di Lavagna è documentato nel 1011 con Ugo conte * filius b. in. Theudici qui fuit comes [Lavaniae] >; cfr. baudi di vesme op. cit. 204-205; i confini del comitato, comprendente le tre pievi di 222__UBALDO 'fORMENTINI posita trattazione: insomma, dallo stesso ordinamento amministrativo del dominio abbaziale, dai rapporti dei conti di Lavagna e di Torresana con il predio monastico, ed insieme dai rapporti vicendevoli di queste due case *. Ora, Bobbio, Lavagna, Torresana, non sono da considerare veri comitati, cioè Lavagna, Sestri e Varese sono descritti nel tardo diploma di Federico i del 1158 (ed. federici, Della famiglia Fiesca, 98). Il comitato di Torresana appare nel diploma di Ermengarda e Angelberta alla chiesa di Piacenza dell’890 (campi, St. eccl. i 472); la tradizione che ne rivendica il titolo alla famiglia valtarese dei Platoni sembrami attendibile (contro: RAMERi, Borgotaro, Spezia, Zappa, 1923). Il comitato di Bobbio sarebbe, secondo la critica più recente, istituzione federiciana a favore del vescovo di Bobbio, falsi tutti i documenti anteriori, da quello di Carlo Magno in poi, che provano la contea abbaziale (buzzi, ad. Cod. dipi B. in, 141 sgg.); ciò non toglie, però che le pretese monastiche non potessero riferirsi all* esistenza di un vero comitato, anche se non legalmente concesso all’abate. In complesso potrebbe nel nostro caso essere applicabile la tesi del Niese, nella nota recensione all’opera del Mayer, nel senso di ritenere che i comitati minori in questione siano riusciti dalla suddivisione d’ un antico comitato longobardo-franco. Sulla questione in generale cfr. da ultimo, besta, Nuove vedute sul d. pubbl. it. nel Ai. Evo, in Rivista Italiana di Se. giur. li, 91 ; vaccari, La territorialità come base dell' ordinamento giuridico del contado, in «Bollettino pavese della S. p. di S. P. » xx, 218 sgg.; l’affermazione particolare del V. che il comitato di Lavagna sia fra quelli che derivarono il titolo dalla dignità personale del signore, senza tuttavia costituire circoscrizioni territoriali a carattere stabile, sembrami contradetta dal citato diploma federiciano; d’altronde il comitato di Lavagna non risulta aver fatto parte originariamente dal comitato genovese, il quale raggiungeva a levante dapprima appena il confine di Rovereto in quel di Chiavari (belgrano, in ASL, il, 2, p. 693) e solo nel 1163 in seguito all’espansione vescovile, appare esteso a Framura (doc. in BSSS xxix, n. 52) comprendendo implicitamente il territorio del comitato lavagnino. 1 Le corti abbaziali oltrapenniniche di Carice (Bedonia) e Torresana (Borgotaro) entrambe nel comitato di Torresana avevano propaggini nella Marittima (cfr. buzzi, in Cod. dipi. Bob. Ili, 77 sgg.); dei conti di Lavagna appaiono libellari e beneficiari* in queste corti, sulle quali insistono parimente i Platoni. I rapporti agnatizi fra le due case potrebbero essere dimostrati attraverso i comuni vincoli di sangue con gli Obertenghi, affermati per i Lavagna dal Baudi, per i Platoni sospettati in base al consorzio dei signori di Val d’Ena, ramo platonide, con i LA MARCA DELLA LIGURIA ORIENTALE 223 circoscrizioni amministrative d’origine romana, e per la pochezza del territorio, e per mancare ogni corrispondenza con municipi e diocesi1; piuttosto parrebbero frammenti d’una sola più antica circonscrizione. Comunque, avendosi in tutto il territorio riguardato la prova più sicura del dominio degli Ober-tenghi sia diretto che mediato attraverso la subordinazione delle particolari signorie2, senz’altro diremo, precisando i confini anzidetti, che la marca ligure-orientale comprendeva i comitati maggiori di Luni, Genova, Tortona ed i minori di Lavagna, Bobbio e Torresana. — Che questa marca, insieme con l’aleramica e con quella di Torino, aventi eguale fronte nel golfo ligure, sia stata · una creazione dell’ Impero intesa sovratutto alla lotta contro i Saraceni non occorre ridire. L’istituzione appartiene a Berengario II, coiti’ è cronologicamente dimostrato dalla circostanza che Oberto di Luni, conte nel 945, assunse il maggior titolo nel 951 : tuttavia il periodo della vera vitalità della marca coincide con il governo degli Ottoni, della cui politica fu espressione e strumento vigoroso. Malaspina, sciolto con atto del 1174 (cfr. desimoni, op. cit. 127-28; rameri, op. cit. 13); questi rapporti potrebbero anche essere dimostrati per altra via, attraverso gli Oldoberti di Pontremoli, legati insieme con le signorie valtaresi e con i Lavagna. 1 1 vescovati di Bobbio e quello di Brugnato (il secondo legato al comitato lavagnino senza però corrispondenza di territorio) sono tarde istituzioni (1014 e 1133). Quanto alla preesistenza di res publicae romane in Tigullia e in Bobium, gli argomenti del gabotto (BSSS, xxii, 255 sgg.) non mi sembrano probanti. 8 Placito di Gragio del 972 tenuto da Oberto I, che in beneficio habere videtur dal mon. di Bobbio la villa stessa di Gragio ; beneficia que Aubert marchio de abbata dedit » in carta del sec. x (Cod dipi B. I, xcvii, cvn); feudi malaspiniani in Val Trebbia e nel Valtarese in diploma di Federico lai Malaspina del 1164 cit.; peri Lavagna numerosi e noti documenti. ‘ Docc. 13 aprile 945 (tiraboschi, Nonantola, il, n. 87) a 23 genn. 951 (id. Meni, modenesi, i, n. 100); la data è certificata, per confronto, dall’analoga circostanza che Arduino il Glabro capo della nuova marca torinese è chiamato comes nel 954, marchio ne’ 914. (Doc. in gabotto Le più antiche carte dell*Arch. cap. di Asti} BSSS, xvm, 122, 172). UBALDO FORMENTINI Nello scorcio del secolo ix, forse precisamente nell’anno SS9, gli Arabi della Spagna avevano approdato alla costa di Provenza prendendo piede a Frassineto; da questo centro, che possiamo considerare, piuttosto che una semplice colonia, una vera testa di ponte, invasero periodicamente l’interno del paese, specialmente la regione alpina fino alla valle del Reno, traboccarono in vai padana, scendendo fin sopra i dorsi deH’Appennino ligure. Dalle testimonianze contemporanee e dalle loro rielaborazioni tradizionali e leggendarie questi invasori apparirebbero schiere vaganti di incendiari e di predoni; ma è pur fermo il ricordo di loro stabili residenze nel territorio, specialmente sui valichi alpini dal Colle di Tenda al Sempione, in vai d’Aosta, nell’alta valle della Doria Riparia e della Cenischia, nelle regioni dell’alto Pesio, del Tanaro, della Bormida, della Scrivia, con centro a Serravalle *. Dal tutto sembra rilevarsi che i Saraceni non solamente sottomettessero il territorio invaso a periodici saccheggi, ma facessero una vera politica d’occupazione, entrando talvolta in relazioni diplomatiche con le forze locali e con lo stato. Contemporaneamente il lido ligure era aperto alle loro offese marittime, partenti, non tanto dal centro di Frassineto, quanto direttamente dall’ Africa e dalle stazioni della Sardegna e della Corsica anteriormente occupate. Non occorre ricordare il sacco di Genova del 9362 e infiniti altri episodi attestati specialmente dalla traslazione di sacre reliquie dalla spiaggia all’interno. La prima metà del secolo x è nell’Italia Occidentale il periodo della massima potenza saracenica che si manifesta in Val padana e nella Marittima con la spedizione in Acqui, con le incursioni nell’Astigiano, nel Tortonese e nell’Apennino ligure, con le rovine di numerosi castelli, chiese, abbazie, con la depopu'azione della 1 Fonti, critica e racconto delle gesta saraceniche in Italia, in patrucco, / Saraceni nelle Alpi occidentali e specialmente in Piemonte, BSSS xxii, 3°. * Fonti arabe in amari, Biblioteca arabo-sicula, 186 sgg. fonti cri-tiane : liudprandi, Antapodosis, MGH, Script, ih, iv, 5; letteratura e critica in PATRUCCO, op. cit. 415 sgg. LA MARCA DELLA LIGURIA ORIENTALE 225 diocesi d’Alba ecc., con Γ incontrasto dominio del mare: poiché, dice un cronista arabo, i popoli cristiani si limitavano a trafficare nelle parti orientali ed occidentali del Mediterraneo, sulle coste, « nè osavano trapassare quei paraggi oltre i quali avveniva sempre che le annate dei Mussulmani li sbranassero come il leone la sua preda ' ». La spedizione guidata da re Ugo, con 1’ aiuto della flotta bizantina, nel 942, contro Frassineto era stata inefficace, nonostante la sconfitta navale degli Arabi ; è noto che Ugo, venuto in timore d’ un attacco del marchese Berengario dalla Svezia fece pace e alleanza coi Saraceni e confidò loro la guardia dei passi alpini. Così la loro presenza in Italia era stata in certo modo legalizzata. Il territorio assegnato alle nuove marche istituite circa il 950 fu dunque una vera zona di guerra terrestre e marittima divisa in triplice settore; territorio separato per una parte dalla marca di Toscana, per altra parte dalla marca d’Italia'*, le quali, per esperienza semisecolare, avevano manifestato la loro impotenza a presidiare il paese e ad organizzare la difesa. Ciascuna nuova marca ebbe una fronte terrestre ed una fronte marittima (la ligure orientale a Luni e a Genova, l’occidentale a Savona e ad Albenga, la torinese a Ventimiglia) non solo a scopo di difesa costiera ma, data la strana situazione del nemico annidato nel cuore del territorio, per precludere a questo le retrovie del mare; vuol dire che le stazioni saraceniche dell’Italia occidentale non erano, come alcuno crede, isolate o in relazione soltanto con il centro di Frassineto attraverso i dominati valichi alpini, ma corrispondevano con basi navali sulla stessa costa ligure. Alla marca di Liguria orientale fu assegnata la fronte terrestre dell’Appennino fra Genova e Tortona, una delle più salde e più pericolose stazioni saraceniche. Secondo le leg- 1 In amari, op. cit. 187. * Rimasta, con minor circoscrizione, nei limiti della marca che prese poi il nome d’Ivrea, anch’essa in funzione limitanea contro i Saraceni annidati nelle Alpi nord-occidentali. 226 __UBALDO FORMENT!NI________________ gende riferite nel Chronicon ymaginis mundi di frate Giacomo d’Acqui *, ivi proprio era il centro della dominazione saracenica dell’ Italia Occidentale, con capitale nel luogo dell’antica Libarna presso l’odierna Serravalle ; in ogni modo la presenza degli Arabi in questa regione è storicamente attestata da una prolungata serie d’incursioni e di rovine-nel territorio circostante. Se per l’azione su questa fronte la marca doveva provvedere principalmente con 1’organizzazione militare del comitato tortonese, doveva assembrare e coordinare le forze navali superstiti di Limi e di Genova per fronteggiare le periodiche incursioni dall’ Africa, dalla Spagna, e particolarmente dalle isole. Ma il criterio con il quale la marca fu costituita rivela implicito un altro più importante e conclusivo compito affidatole : quello di riportare la marca al suo vero limite di potenza nelle acque tirreniche; cioè la riconquista delle isole. Bisogna rilevare in primo luogo, a questo proposito, che il capo della nuova prefettura é precisamente il conte di Luni e che l’aggregazione di questo comitato alla marca ligure rappresenta una modificazione essenziale dell’ordinamento della vecchia marca toscana. Ricordiamo che Luni, non toccata dalle prime invasioni longobardiche, rimase unita con la Marittima sotto il dominio bizantino, nel cui ordinamento era legato a Luni stessa, strategicamente e fors’anche amministrativamente, il governo della Corsica. Nel 636 dopo la campagna ligure di Rotari, - salvo Luni città e la strada di Monte Bardone che rimasero neutralizzate come base e corridoio bizantino dal Tirreno all’Adriatico2 - il territorio lunese fu annesso 5 MHP, Script, hi; gabotto, Les légendes carolingiennes dans le Chr. y. ni. de fr.J. d’Aequi in « Revue des langues romanes Montpellier, 1894, s. IV, t. Hi; e successivamente: Per la Storia di Tortona nell* Età del Comune, xcvi-l, 52 sgg. 2 Cfr. il mio scritto : Istituti popolazioni e classi della Spezia medievale e moderna, La Spezia, Tip. Modena 1925, pp. 6-7. LA MARCA DELLA LIGURIA ORIENTALE 227 al ducato di Lucca e quando, forse sotto Luitprando, anche i vincoli di Luni con l’impero d’Oriente s’infransero, la città portò come propria pertinenza al regno longobardico il dominio della Corsica. Questa è la genesi, io penso, del titolo di difensori della Corsica che vediamo unito poi con il titolo di marchesi della Tuscia nel periodo carolingio. Il ducato longobardico di Lucca sopravisse nel primo ordinamento carolingio probabilmente, com’ era, limitato ai quattro comitati di Lucca, Pistoia, Pisa, Luni. La Liguria romana ingrandita ad occidente dal territorio delle archidiocesi di Aix e di Embrun- avrebbe formato, secondo un’opinione molto contrastata del Gabotto, il ducato Litora Maris'·'··, per certo fu una pars regni nella quale s’ esercitò occasionalmente l’autorità d’un messo o d’un conte delegato al comando marittimo; ebbe cioè, come il ducato toscano, funzione di marca contro i Saraceni : basta ricordare la missione di Ercambaldo nell’801 « ad classem parandam », la spedizione di Pipino dell’806 contro i Saraceni invasori della Corsica, nella quale perì Ademaro conte di Genova mentre, del pari, l’apprestamento del ducato toscano alla guerra navale è documentato dalle spedizioni di Bonifacio 11 « ad-sumpto secum fratre Berehario et aliis quibusdam comitibus ' V. numerosi documenti di possesso dei duchi Longobardi di Lucca in Lunigiana registrati da o. sforza, Bibliografia storica della città di Limi, Torino 1910. * Per la genesi di questa unione v. barelli, Il primo conte conosciuto dalla regione saluzzese, BSSS, x, 2. 8 Contro la teoria del gabotto, / ducati delFItalia carolingia, Bsbs, xiv, 313 sgg. Contro la negata divisione ecc. ibid. xvn, 23 sgg. accolta dal Bandi, Barelli, Patrucco ecc., v. pivano, Contro Γasserita divisione del Regno Italico in cinque grandi ducati nell1epoca carolingia, nella Riv. It. di Se. giuridiche l, 281-301; - // Comitato di Parma e la Marca lombardo-emiliana in Archivio Storico per le provincie parmensi , N. S. xxii (1922), sulla traccia anche del Hofmeister e di Ernst Mayer. Che però all’inizio del regno carolingio e fino alla seconda metà del secolo ix la Liguria fosse separata dalla Toscana risulta da un editto di Ludovico II dell’866, di cui dirò oltre. 4 Cfr. poli, op. cit. 158 sgg. UBALDO FORMENTINI de Tuscia» in Africa e nella Corsica nelF828 Sulla partecipazione di Luni a questa attività navale non è da dubitare. A quel tempo Luni era con Pisa il porto del ducato, quello a cui miravano le ambizioni di Lucca, per quanto si può argomentare dalla leggenda del Volto Santo che giusto a Luni fa approdare la miracolosa reliquia sugli inizi del regno carolingio2: al quale periodo deve corrispondere 1’ organizzazione della base navale di Porto Venere sostituita allo scalo aperto e indifendibile della città, giacché, come abbiamo innanzi notato, le prima notizia di quell* approdo è dell’801. In seguito, con la marca toscana furono uniti i Litoro maris\ provvedimento che per certo ebbe di mira P unificazione dei comando della difesa marittima. La data si suol fissare intorno al tempo nel quale Adalberto di Toscana appare fregiato del titolo di « marcensis et tutor corsicanae insulae 3 » cioè intorno all’846; ma nè l’uno nè l’altro titolo fanno prova d’ una estensione de* suoi poteri militari, giacché il carattere di marca limitanea era già impresso in origine nella circoscrizione toscana e il titolo di difensore della Corsica era stato portato anche dal padre- D’altra parte v* è una prova sicura che Tuscia e Litora maris erano ancora divisi dopo la data anzidetta ; un editto di Ludovico II dell’ 866 nel quale, deputandosi i collettori per una spedizione contro i Saraceni, si disegnano le circoscrizioni d’Italia, e il litus italicum fa parte a sé, mentre il gruppo dei comitati di Lucca, Pistoia, Pisa, Luni, disegna ancora chiaramente la struttura del primitivo ducato della Tuscia '· Si noti da ultimo che i documenti dai quali si desume positivamente l’estensione della marca toscana in Liguria ed in 1 Ibid. p. 162 segg.; AMARI, Storia dei Mussulmani in Sicilia 1,278, * Cfr. volpe, Lunigiana medievale, 12, e il mio scritto: / Vescovi di Luni nel periodo carolingio, OSL, XIII, 87. 3 Vita di Sergio I, in Liber Pont. ed. Duchesne, il, 99; cfr. DESI-MONI, op. cit. 193; hofmeister op. cit. 333. 4 Script, re rum langobard. saec. VI e IX, I, 99-101. LA MARCA DELLA LIGURIA ORIENTALE_229 Provenza non sono riferibili a date anteriori alla predetta1. Vuol dire che la creazione del grande stato toscano appartiene alla seconda metà del secolo ix. Che F istituzione, dal punto di vista militare, sia rimasta inefficace lo dimostrano i fatti già narrati, cioè lo sbarco di Frassineto circa F889 con la conseguente invasione della parte occidentale del territorio della marca e la dominazione saracenica dell 'Alto Tirreno. Quando dunque alla metà del secolo x fu creata la nuova marca della Liguria orientale, il suo primo marchese ereditava, con il titolo di difensore della Corsica, venutogli per ragioni ereditarie o perchè annesso al governo del comitato lunese, l’arduo compito militare che la grande marca toscana non aveva assolto. La storia che ha registrato tutti i misfatti e le miserie degli epigoni obertenghi ha lasciato nell’ombra le alte gesta dei primi marchesi del mare; e non dice che essi adempierono gloriosamente il compito loro. Della lotta ch’essi guidarono strenuamente per la liberazione d’Italia dai Saraceni non abbiamo racconto; gli storici del comune, che li conobbero soltanto come nemici, li spogliarono anche di questa gloria. Tuttavia il nome dei discendenti d’Oberto affiora negli episodi capitali della riscossa. Nell’attacco generale dato a presidi saracenici del Piemonte e della Provenza circa gli anni 984-852 un marchese Oberto, unito con il marchese Aleramo, figura fra i liberatori dell’ Appennino ligure; potrebbe trattarsi di Oberto II, terzogenito del primo marchese di Liguria Orientale, ma non è improbabile che 1’ eroe sia il giovane Oberto del ramo primogenito, il padre del con- 1 Lettera di papa Giovanni vili al re provenzale Bosone (eletto nell’879) perchè rispetti il governo di Adalberto in alcuni comitati di Provenza (Ep. 164;JAFFè Reg. 3234); diploma dell’imp. Carlo il Calvo dell’ 875, dove si accenna a possessi del m. Adalberto nel comitato ligure-piemontese d’Auriate (pasqui, Docc. p. la storia d’Arezzo, I, n. 42). * Data stabilita dal POUPARDiN, Le Royaume de Provence sous les Carolingiens, 273 sgg. * Cfr. PATRUCCO, op. cit. 430 sgg.; oabotto. Per la storia di Tortona, 61. 230 quistatore della Corsica Adalberto II, con il quale la marca ligure orientale giunge al segno prefisso. Dal tutto scaturiscono, sembrami, conclusioni di non lieve importanza. Le città, che a mezzo il secolo x erano alla mercè delle flotte saracene, non ritrovarono miracolosamente in loro stesse le forze spiegate lungo il secolo xi; se i fatti allegati a questo studio sono veri, essi le ricevettero restaurate e disciplinate dalla marca; la marina militare dei comuni non è creazione di privati armatori ma dello Stato. La riscossa contro i Saraceni produsse, non solo il rifiorimento demografico ed agricolo delle plaghe da quelli invase e depopulate, ma cagionò l’afflusso delle popolazioni sulla costa, il formarsi di nuovi centri all’ infuori delle vecchie città e stazioni romane, senza il qual fatto l’espansione territoriale di Pisa e di Genova, la « compagna » esterna, la stessa grande politica coloniale delle due repubbliche non sarebbero state. Il rifiorimento della vita e della cultura monastica sulla fine del x e nell’ xi secolo, che è in realtà sotto l’aspetto economico un processo di localizzazione d’industrie e di differenziamento di classi, non fu solo conseguenza indiretta dell’ opera militare dei marchesi 1 ma anche in gran parte sollecitudine e cura politica loro ; nella Liguria Orientale tutti i grandi monasteri del tempo sono istituzioni obertenghe. Dalla metà del secolo x alla metà circa del seguente la marca domina dunque in Liguria tutte le forze politiche, economiche e sociali ; la sua storia è la storia del tempo ; e lo Stato transita in essa dalle antiche forme alle nuove, allorché s’istituisce dialetticamente dal suo sfacelo il processo del comune. UBALDO FORMENTINI 1 PATRUCCO, Op. Cit. 43 Sgg. DUE EPISODII PRERIVOLUZIONARI! IN OVADA 1797. È risaputo, che la Rivoluzione varcò le frontiere della Francia per invadere tutti gli altri Stati, prima col mezzo degli scritti' poi delle armi francesi ; e che queste, al loro sopraggiungere in Italia, per parlare solo di questa, vi trovarono i risultati di una battaglia già vinta e la temperie preparata in guisa, che poco ci volle a rovesciare i Governi e ogni ordine costituito e a dare veste ad un rivolgimento già effettuato in mezzo a non piccola parte delle classi più elevate. Gentiluomini e borghesi - intesa questa parola nel senso moderno, cioè di non nobili - tornati in patria dopo avere viaggiato in Francia; i quali per vezzo di imitazione o di novità, per convinzione o per interesse, avevano afferrato le nuove idee, spesso senza rendersi ragione del significato recondito e degli ultimi fini di esse nelle intenzioni della setta, cui molti di essi eransi ascritti ; forestieri, che venivano presso di noi; emissarii della sètta stessa ; speculatori; tutti costoro erano stati altrettanti tramiti, pei quali con lenta ma sicura efficacia quelle idee si erano fatte larga strada nella Penisola, sopratutto mediante l’importazione di quelle diverse specie di pubblicazioni - prima fra esse P Enciclopedia -, le quali se avevano mutato l’aspetto morale prima, quello politico poi, della stessa Francia, non potevano non apportare le stesse conseguenze altrove. Quelle pubblicazioni avevano continuato, duranti parecchi anni, a passare i monti e il mare, di nascosto, chiuse in casse, il cui vero contenuto era assai diversamente dichiarato, nonché in mille altri modi ; e, una volta introdotte, erano state distribuite man mano, quando clandestinamente e quando da librai talora sì audaci di fronte alla censura statale, da fare poco mistero della loro propaganda e del loro commercio. Gli è che, anche a parte debolezze di Governi, pur tra membri 232 AMBROGIO PESCE di questi ve rTeran di tocchi da quelle idee. Anche senza andare al movimento così detto riformatore settecentesco in Italia, per cui il terreno era già preparato, certo è che la colluvie di stampe e di individui venuti di Francia avevano sviluppato e accelerato, sia pure in modo meno violento, quell’ agitazione, che, accresciutasi dopo la scoppio della Rivoluzione in quel regno, attendeva le circostanze specifiche opportune, per tradursi in atto anche presso di noi. Lo svolgersi, infatti, di ora in ora, di mutamenti gravi e inaspettati, andava destando maggiore eccitamento ed impulso nei partigiani del nuovo ordine di cose anche all’estero, dove si venne allora senza più alla libertà delle manifestazioni, che in certi luoghi non ebbe quasi più limite. La rivoluzione intellettuale e morale fattasi prima nei salotti, passava, da questi, direttamente in piazza, a istruzione e commovimento delle turbe : dal campo delle idee, che da principio avevano esercitato sopra i signori un’attrattiva di natura in parte filosofica, si passava a quello rappresentativo assai più pratico, molto influente sulla plebe e preparatorio di prossima ed effettiva esecuzione. Le Autorità e le persone più chiaroveggenti si preoccupavano di quelle novità, tanto più pericolose avuto riguardo ai modi e alle circostanze del loro s/olgersi; ma se le misure avevano approdato a poco per l’avanti, di fronte alle astuzie e alla pertinacia di propagandisti occulti e palesi, talora anche protetti da ufficiali pubblici, che favorivano persino essi stessi l’introduzione dei libri sovversivi, ormai divenivano inutili. Lo Stato Genovese non andò naturalmente immune1; 1 L’attività esercitata in Genova, anche da parte di chi meno avrebbe dovuto farlo - come il Faipoult - in questo senso, è notissima. La Repubblica, inoltre, era da lungo tempo legata alla Francia e ne subiva le idee. Vi erano bensì coloro, i quali avrebbero voluto rendersi indi-pendenti da quella nazione; ma ve n’erano altri, che agivano in senso opposto sì da ridurre lo Stato Genovese all’asservimento. Cfr. ad es.il mio scritto: L'apertura delle relazioni diplomatiche tra la Repubblica di Genova e Vitupero di Russia (1782), in Riv. Lig* di Scienze. lett. ed arti ; Genova 1915, pp. 26, 27 dell’estratto. DUE EPISODI PRERIVOLUZIONARI IN OVADA 233 e anche qui le manifestazioni contrarie all’ordine costituito si compievano non meno aperte e significanti nelle terre del Dominio di quel che si facessero in Genova, ad onta della sorveglianza anche là esercitata dai rappresentanti del Governo. Ma essi potevano fare poco o nulla, come poco o nulla poteva il Senato coi processi, che, dietro le relazioni ricevute, andava ordinando. Dello stato delle cose nel 1797 specialmente nelle terre liguri, dove il rivolgimento poteva dirsi bell’ e compiuto, così da non attendere se non che vi s’imprimesse un carattere ufficiale con apporvi un nome, sono prova certi episodi!, di cui esponiamo due esempi. Essi si svolsero nel carnevale di quell’anno in un centro fra i maggiori dell’Oltregiogo ligure ; Ovada. A rivoluzione avvenuta in Genova, poco di più si sarebbe potuto fare. Occorre premettere come nella società assai scelta e piuttosto numerosa che colà fioriva, si fosse formata in quel tempo, una distinzione profonda rispetto alle idee. Vi era il gruppo, più ristretto, composto delle famiglie più antiche, e primeggianti per chiarezza di sangue ; le quali, fedeli alle tradizioni avite, e alle continuate parentele aristocratiche al di fuori, nè aderirono prima alle nuove dottrine, nè si adattarono poi al nuovo ordine di cose ; vi era il gruppo più numeroso delle altre, fra cui qualcuna pur abbastanza chiara, che si erano invece lasciate attrarre dalla larga opera di propaganda esercitata da taluna fra esse : nessuna delle prime figura nella vita pubblica durante il periodo rivoluzionario, mentre delle seconde ricorre sempre il nome, con osservabile inversione per molte di esse, di quanto accadeva per P avanti. A chi ha raccolto pazientemente notizie su carte fami-gliari e su tradizioni ricevute da parte di persone, che, giovani, conobbero vecchi taluni di coloro i quali erano stati in gioventù ottimi seminatori delle massime francesi, non è difficile mettere assieme i fatti e riferirne quel tanto che a poco più di un secolo di distanza è opportuno dire. Il cenno, mentre giova come commento intorno a certi nomi 234_AMBROGIO PESCE____ registrati nelle carte qui sotto, è pure opportuno perchè non si restringe a ricordi locali : si tratta specialmente di due casati, Dania e Rossi, dal primo dei quali è uscito un Vescovo di Albenga, già canonico della nostra Cattedrale, noto assai per lo zelo specialissimo con cui resse la sua diocesi, ma anche per un deplorevolissimo momento di debolezza, che lo indusse ad accedere alle pretese gallicane del Bonaparte, il quale lo creò barone dell’ Impero nell’agosto del 1809, debolezza onde fece poi ampia e lodevole ammenda1. Dall’altro dei suddetti casati ebbe la Repubblica Ligure un Ministro di Polizia. Due personaggi, come si vede, assai noti nella storia del tempo. Le cose che seguono rispecchiano, del resto, una situazione ed episodii comuni a più parti del Genovesato. 1 Dania, se forse non antichi, avevano assunto ben presto, venuti da Sestri Ponente', una cospicua civiltà, mettendosi pur a contatto con le migliori famiglie, non solamente in Ovada, ma fuori altresì. 11 commercio li aveva arricchiti, e un d’essi, recatosi in Francia, si era assimilato quelle dottrine, che poi aveva portato nella sua terra, introducendovi pure, clandestinamente, libri e opuscoli, quivi ricevuti, sempre di nascosto, da un’altra famiglia cospicua che li teneva poi in casa, e, all’ uopo, li faceva conoscere a parenti ed amici. È però interessante osservare che da un discendente di quest’ ultima pervenne in prestito a mie mani un’ opera di parecchi volumi, assai 1 II Semeria, Secoli cristiani della Liguria, 1843, pp. 425 segg., si estende a parlare di tiitto ciò, quantunque forse in modo un po’ blando, ma con deplorazione beninteso del suo mancamento. Quanto alla nomina di Mons. Dania a barone dell’impero, v. ad es. RÉVÉREND, Armorial du Premier Empire, Titres, Majorais et Armoires co ne Jdes par Napoléon /., Paris 1895, II, p. 6. Nacque il 13 sett. 1744 a Voltri. 2 Dal mio archivio famigliare, sez. Maineri. Ivi era anche un incartamento con^molte notizie sul periodo'rivoluzionario, copie mss. di decreti, di lettere, di manifesti, di giornali ecc.; e, quantunque ne sia andata perduta una parte, non è poco interessante. Esso è ora stalo (Ja me passato alla Biblioteca Universitaria di Genova. DUE EPISODI PRERÌVOLUZIONARI IN OVADA_235 « nota, scritta in senso tutt’ affatto opposto a quello propugnato dagli scritti suddetti : quella Storia del Giacobinismo scritta dal Baruel, ben presto divenuta una rarità per opera della sètta che troppo interesse aveva a toglierla dal commercio. Parente strettissimo di quel personaggio di casa Dania, esercitante insieme con altri un’azione multiforme ed efficace in quel senso, fu, oltre il Vescovo ricordato, il colonnello Andrea (che si identifica, credo, coll’ Andrea nominato qui sotto) il quale prese parte alla guerra per l’indipendenza della Grecia. I Rossi non furono da meno dei Dania nella stessa azione. Antichi assai, e molto bene imparentati ', avevano ereditato in Ovada un grosso patrimonio e un bel palazzo cinquecentesco dalla nobile famiglia dei Maineri2, che vi aveva accumulato molte opere d’arte. Alcuni quadri di illustri autori italiani, e mobili di gran pregio ancora vi rimangono ; ma la più parte di quelle opere ed oggetti di valore uscirono da quel palazzo e furono portate a Napoli nella prima metà del secolo scorso dal predetto già ministro Giovanni Nepomuceno Rossi, recatosi a vivere colà con certi banchieri svizzeri. Avrò forse occasione di. riparlare di questo personaggio in altro scritto, a proposito di un’altro curioso episodio svoltosi a rivoluzione proclamata, che diè luogo ad una singolare corrispondenza tra il Rossi ministro di Polizia in Genova e Γ Amministrazione comunale ovadese 4 Provenienti anch’essi da Sestri Ponente, ma assai prima dei Dania, sembra appartenessero ad una linea prossima a quella ascritta al Libro d’Oro di Genova, che diede un Doge alla Repubblica nel 1535. Comunque, nobili, ricchi di beni di fortuna, e congiunti con famiglie cospicue, dal sec. xvii in poi condussero in Ovada vita signorile. ’ Nal testamento di Giorgio Maineri, in data 25 Maggio 1568 per atti del notaro Costa de Costa di Gavi, (Arch. di Stato in Genova) col quale il testatore lega in fedecommesso molti beni in Ovada, risulta che il palazzo di cui si parla era allora in costruzione, ond’egli destinava una somma per terminarlo, e lo lasciava al suo secondogenito. 3 Si trova nelFArchivio comunale di Ovada. lo avevo dato un primo e sommario ordine al detto archivio, ma tutto fu nuovamente ammonticchiato in una specie di soffitta, parecchi anni fa, per mancanza di spazio; 236 ANBROGIO PESCE In quel palazzo, sul mobiglio del quale i nuovi proprietarii, come discendenti di una Maineri, avevano rispettato la corona scolpita, che ancora vi è, si teneva nel tempo di cui è discorso, un club rivoluzionario, che non impediva ai Rossi di condurre vita signorile e di serbare rapporti con famiglie di alto affare e di diverso sentire, nominatamente coi prossimi agnati di coloro dai quali avevano ricevuto la cospicua eredità e che, rimasti inaccessibili alle recenti importazioni francesi, dovevan vedere una delle case avite servire di focolare a massime cui eran contrarii \ Oli è che in Italia il giacobinismo fu assai più levigato che in Francia; per molti signori poi - qui mi riferisco ai Rossi - costituiva quasi un lusso, una cosa di moda. Entrate in quel palazzo, e, dopo essere passati per sale e sale, che portano ancora traccie dell’antico splendore, giunti all'ultimo piano, troverete una stanza, chiamata tuttavia la scuoletta. Là si radunavano i fanciulli della famiglia per ascoltare gli insegnamenti dei loro maestri : là, non v’ha dubbio, imparò i primi rudimenti del sapere, diversi da quelli professati poi, Giovanni Nepomuceno Rossi, con gli altri ragazzi della famiglia stessa. In casa Rossi dunque, si teneva un club, elegante e fiorente, sorvegliato dal Governo, e che, avvenuti i mutamenti politici, doveva appunto fornire un ministro alla nuova Repubblica. E qui vediamo qual parte avesse un altro dei Rossi (morto molti anni dopo insano di mente e sotto la tutela dell’ex-ministro) nell’episodio accaduto nel 1797, la cui descrizione rimarrà più efficace e compiuta, se lasciata puramente alla penna di chi espose ufficialmente e senza fron- ed ora non sarebbe possibile uno studio di quelle carte. Alcuni documenti risalgono al secolo xv; dal xvi in poi sono molti e non senza interesse: atti civili e criminali della curia, atti del Comune, documenti notarili ecc. 1 Quando poi nel 1805 le cose avevano mutato di aspetto, e non si parlava neanche più di repubblica democratica e di altre simili cose, Benedetto Maineri, il capo della famiglia, acconsentì a lasciarsi nominare maiue di Ovada. DUE EPISODI PRERIVOLUZIONARI IN OVADA_237 zoli un fatto, che ben dovevasi far noto al Senato colla massima precisione. A noi non occorreranno commenti. Scrive l’ultimo Capitano di Ovada, Francesco Saivago i. Ser.mi Signori Ieri da varii Particolari benestanti di questo Borgo fu fatta una festa di ballo in questo pubblico Teatro con accesso a Mascari, i partecipi della quale furono fra gli altri Francesco Prasca di Gabbrielle ~, Andrea Dania di Francesco, e Pier Francesco Rossi di Gio. Battista; e siccome avevo presentito che potessero farsi da alcuni innovazioni e distintivi allusivi alla nazione Francese, ed esternare con tripudio i loro animi parziali a tale nazione, massime nella corrente circostanza della presa di MantovaCosì non ho mancato con la maggior efficaccia d’in-sinuare, ed anche ingiùngere a Gioseppe Prasca, e detto Andrea Dania, come quelli comparsi da me per ottenere il debito permesso di fare una tale festa, di astenersi da simili innovazioni, segnali, o altro, tanto personali, come pubblici, avendole ad un tempo intimato, ed ordinato in nome di VV. SS. Ser.me, che in caso d’inosservanza non puotrò a meno il tutto riferire a VV. SS. Ser.me, Servendole, che avevano di già apparecchiata un (sic) statua di detto publico Teatro di cartone, e questa fissata in mezzo al Palchettone del Teatro anzidetto, e quindi ornata la Platea come un festone a tre colori sott’ il volto : quale statua, e festone, almeno per li due colori fu a mio ordine levato (sic) : Non le tacerò anche, come li 8 corrente a mezzogiorno furono sentiti in molti siti, e piazze di questo luogo molti colpi di schioppo, spargendo voce, che fossero segnali di allegrezza per la successiva festa di S. Appolonia, ma in realtà erano Segnali di Gioja de partitanti Francesi il Capo de quali detto Francesco Prasca, mentre per simile festa non si fecero per l’ad-dietro sbarri di sort’ alcuna. Non ostanti donque tali miei ordini, 1 Archivio di Stato in Genova, Div. Collegi, fil. 395. 8 Altra fra le cospicue famiglie del luogo. a L’8 sett. 1796 Napoleone aveva bensì vinto il Wurmser a Bas-sano ; ma non era riuscito a impedirgli di entrare in Mantova. Anche ad Arcole e Rivoli egli aveva vinto non senza aver corso gravi pericoli : fu la resa di Mantova, otienuta dai francesi il 2 febbraio 1797, l’imprea che fece trionfare il Bonaparte, con gran gioia dei rivoluzionari d’Italia· 238 AMBROGIO PESCE detto Pier Francesco Rossi si presentò al ballo con berretto di seta rigata in testa con Cucarda Francese, e detto Francesco Prasca con berrettino a tre colori da Hiacoben (sic), e per maggiormente esternare il suo animo ebbe P arditezza, in spretum de miej ordini, durante il ballo di montare sul palco teatrale, e ripresa la detta statua portarla in vista della piazza del ballo sodetto, con porvi il detto berrettino in testa, saltelando ivi in segno d’allegria; e come rileveranno anche dalla giurata relazione del mio soldato d’ordinanza, che per magior giustiffica-zione dell’esposto Le compiego: Signori Ser.mi. in tale circostanza, se fossi stato munito di sufficiente braccio di giustizia sarei indilatamente passato ad ordinare l’arresto di detti spreza-tori de miej ordini, ciò non pertanto stimo di mio preciso in-carrico il tutto rapportare à VV. SS. Ser.me per quelle determinazioni, cha apprenderanno necessarie, Servendole, che in appresso stimerej ben fatto di non più permettere simili feste di ballo a riparo di ulteriori inconvenienti, conoscendo tropo chiaro il disprezzo di quelli ordini, che sono tropo necessarii a contenerli ne’ limiti del dovere ; ed in attenzione de Sovrani Loro scritti passo col più profondo ossequio a protestai mi. Di VV. SS. Ser.me Ovada 13 febb. 1797 : Umilissimo Servitore Francesco Saivago Capitano A questa lettera è allegato il rapporto del « soldato d’ Ordinanza ». Manco a dirlo lettera e rapporto si corrispondono : quella è fatta su questo, e rispecchiano indubbiamente la realtà. Nel rapporto del soldato, Pietro Grosso, noto che parlando dell’atto del « Signor Francesso Prasca figlio del Signor Gabriele » dice che quando egli volle impedirglielo, questi « se ne rideva saltelando, ed allora io me ne andai, e di tutto ne diedi parte » ecc. ; povera e solita confessione d’impotenza, cui eran costretti e capitani e soldati, specialmente nei paesi e città del Dominio. Riguardo al festone tricolore, dice che dietro P ordine del Capitano ne furono levati due, e fu lasciato il rosso con un fiocco bianco e rosso. Ma quale magra soddisfazione anche qui ! due episodi PRERIVOLUZIONARI IN OVADA 239 Il Governo, dietro tali referti, emanò l’ordine seguente : 1797, 14 Febraro Letta al Ser.mo Senato. Proposto di lodare, e gradire lo zelo di detto MM. Capitano, e di significarli di aver lor SS. Ser.me per questo Carnevale proibite le Feste di Ballo al detto Teatro, e d’incaricare lo stesso a formare un processo verbale riguardante il fatto accorso dallo stesso raportato e trasmetterlo quindi a lor SS. Ser.me e di rimettere la detta lettera all’Ecc.ma Gionta de Confini per tutto ciò che stimasse di rifferire. ecc. Chi credesse che il processo ordinato dal Governo avesse intimorito i « Hiacobeti » ovadesi, s’ingannerebbe a partito e mostrerebbe di mal conoscere i tempi e la situazione. Il Senato aveva proibito il ballo: ed essi obbedirono, ma trovarono un altro modo per fare peggio di prima. Non passano quindici giorni, ed ecco una nuova lettera del Capitano che informa di quanto segue: Ser.mi Signori Al seguito di quanto rassegnai a VV. SS. Ser.ma con mia de 15 (sic) cadente relativamente alle rimostranze occorse in questo Pubblico Teatro dalle persone marcatele, e per quali ebbi da VV. SS. Ser.me il venerato incarico di realizarne 1’ occorso con verbale rapporto; Perciò dalle più accertate informazioni assontemi, non fo che riportarmi al già espostole tale essendo la verità. Non devo ora tacere altr’occorso fatto relativo sempre alle dimostrazioni de’ quali sopra, ma in una maniera publica, e palese. Li giorni di Mercoledì, e Sabbato ora scorsi furono fatte per il luogo i soliti sfoghi Carnevaleschi, nel primo si vide in trionfo in giro un carro tirato da Bovi con Padiglione di verde alloro e simili erbaggi, pieno di Mascheri, fra quali alcuni con Cuccarda Francese, ed altri a Cavallo con divisa francese avanti il Carro anzidetto, nel secondo che è il più rimarchevole si vidde una Cassa guarnita di verde alloro, e simili fatta a Padiglione, portata da quattro Mascheri con formale divisa francese ; sopra detta Cassa un Giovinotto vestito di bianco con Cimiero in testa fatto a casco, avente in una mano la palma e nelPaltra l’albero della libertà col berrettino a tre colori sopra di esso formante la statua in conformità del Stemma presente francese. 2 40 AMBROGIO PESCE Passarono e ripassarono sotto il Palazzo di mia ressidenza, come trionfatori, dirò così, della da me vietatale esternazione; Due altri vestiti di nero nanti la Cassa predicando, e legendo scritti di gioia relativi alle vittorie francesi, fra quali un sonetto sulla Libertà francese cantando e tripudiando. Non fo pertanto per ora, che riportare ad VV. SS. Ser.me l’occorrente, riservandomi in seguito realizare le persone formanti il spetacolo anzidetto per quindi il tutto rassegnarlo sinceramente ad VV. SS. Ser.me ed intanto ho l’onore di protestarmi con profondissimo rispetto. Di VV. SS. Ser.me Ovada a 27 feb. 1797 umilissimo Servitore Francesco Saivago Cap.no Il Governo volle che questa volta, oltre che il Capitano, si occupassero della faccenda anche gli Inquisitori di Stato. Ma, a farla breve, non se ne cavò un risultato pratico ; e pochi mesi dopo in Genova stessa avvenivano quei fatti che gettarono a terra la vecchia Repubblica, istituendo un regime, cui presero parte rappresentanti di tutto il Dominio, e tra essi coloro i quali nelle diverse parti di questo avevano favorito P avvento del nuovo stato di cose. AMBROGIO PESCE RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Graziella Taccetta - Gabriello Chiabrera e la sua produzione epica, Catania, Tip. La Rinascente, 1921, pp. i-iv, 304. La signorina T. ha creduto opportuno di studiare storicamente ed esteticamente la produzione epica del Chiabrera, con lo scopo di « dimostrare se e perchè, in tal genere, egli si sia distinto per meriti artistici » ; in altri termini di esprimere un giudizio più fondato dopo tanti « pregiudizialmente » sfavorevoli. Il tema era tutt’altro che facile e incoraggiante; ma l’autrice l’ha affrontato con virile stoicismo, esaminando tutti i poemi chiabrereschi, salvo la Firenze e il Foresto-, e, se non ha potuto, in sostanza, modificare l’opinione tradizionale, ha proceduto a diligenti analisi qualitative. Premesso che il Chiabrera, di temperamento lirico, non poteva creare l’elemento eroico, in cui è da vedere la « cosciente esaltazione delle potenze interiori », essa si fa anzitutto a narrare la storia esterna e ad esporre Γ argomento delln Gotiade e dell’ Amedeide ; indi considera qnesti poemi in relazione con le poetiche del tempo, specialmente con quella del Tasso, e delinea così la loro fisionomia generale. A suo dire, il Chiabrera trattò egregiamente e colorì di tenue sentimentalità i frequentissimi episodi, ma non seppe conferire all’insieme la dovuta unità. I personaggi principali, quelli di parata, sono falliti ; meno infelici appaiono i secondari, dai quali esula ogni teorica astrazione. Con lo stesso metodo (argomento “e storia, caratteri estetici generali, figure particolari) la Taccetta passa poi a esaminare il Ruggero, stucchevole allegoria morale risultante da una « vera contaminazione dell’epopea classica con la romanzesca » 1’ Erminia, ricalcata sulla omonima eroina del Tasso; e l’Alcina prigioniera, dipinta non più come la seduttrice ariostesca, ma come « un’appassionatissima amante che ama anche chi l’ha tradita ». Infine tocca dell’aspetto religioso, nazionale e morale dei poemi, per conchiudere che la religiosità non determina alcun carattere eroico, che l’elemento nazionale è scarso e che l’intento morale è soltanto ispirato al pudore delle scuole gesuitiche. 242 FRANCESCO LUIGI MANUCCI Come dicevamo, questo lavoro non manca certo di pregi intrinseci ; sopratutto di osservazioni personali ed acute. Ma l’autrice ci si palesa un po’ inesperta. La materia è mal digesta, inorganica, stridente; è più materia per un libro che materia di un libro. L’idea, accennata dal De Sanctis, che il mondo chiabreresco è il mondo della Controriforma, falso, convenzionale e ipocrituccio, vlen ripresa fuggevolmente e quasi esternamente nella chiusa : laddove avrebbe potuto e, a parer nostro, dovuto presiedere anche alle analisi estetiche, le quali, condotte per sè stesse, senza alcun filo conduttore, finiscono per essere con-tradittorie ed esagerate. La Taccetta alle volte prende troppo sul serio fatti e figure (tra queste le donné amanti e guerriere), che non erano nel cuore del poeta, tutto inteso, per sua stessa dichiarazione, a imitare e a imitare; e spesso anche s’indugia a ritrarre non so quale spiritualità allorché si tratta di puri rifacimenti non dichiarati ma facilmente riconoscibili. « Ho... dimostrato (essa scrive, con singolare e candida persuasione) quanta umanità sentimentale palpiti nei personaggi creati con libero slancio di ispirazione, quanta poesia di amore e di sogno, quanta emotività elegiaca negli episodi lirici ». Ma un’indagine più profonda deU’anima del Chiabrera, di quest’uomo che cantava cose grandi eccelse e poi cinicamente ne rideva nelle lettere, che confessava di comporre poemi solo per aver donativi dai principi, che non amava il contenuto ma le forme dell’arte, avrebbe dimostrato invece che ispirazione, poesia cVamore e di sogno, emotività elegiaca sono, almeno rigu.irdo alla produzione epica, parole vane; avrebbe cioè dimostrato che i critici non si sono male apposti nè mal s’appongono tenendo quella produzione in nessuno o in pochissimo conto. FRANCESCO LUIGI MANUCCI RASSEGNA j BIBLIOGRAFICA 243 Ubaldo Formentini, Questioni ci}archeologia lunense con un frammento inedito di U. Mazzini. Estratto dalle Memorie della Società Lunigianese « G. Capellini », Anno IV, pp. 91-21. La Spezia Tip. Moderna, 1923. Scavi e Monumenti romani del Golfo della Spezia nelle opere edite e inedite cli U. Mazzini, la Spezia, Tip. Moderna 1924, pp. 41. In questi due studi Ubaldo Formentini raccoglie alcuni scritti inediti di U. Mazzini intorno alla questione di Luni preromana e degli avanzi archeologici romani del Golfo della Spezia. Inoltre, essendo rimasto incompiuto lo studio sopra Luni etrusca, il Formentini lo completa ed enuncia alcune ipotesi. Ci dilunghiamo nell’esame di questi argomenti per lo speciale interesse che presentano, pur accontentandoci, per ora, piuttosto di segnalarli che di esaminarli criticamente e in maniera esauriente. Il gruppo di note di archeologia romana relative al Golfo della Spezia contiene anzitutto un principio di studio sulla toponomastica romana nel Golfo. Tale studio ha evidentemente lo scopo di ricercare, attraverso il ricordo dei fondi romani rimasto nella toponomostica locale, i confini dell’antica Colonia romana. Ê notevole a questo proposito una nuova ipotesi sull’origine del nome della Spezia che il Mazzini fa derivare da un nome romano Aspetius. Lo studio non è che un buon inizio e a noi sembrerebbe arrischiato o almeno prematuro, dato lo stato degli studi di toponomastica regionale, volerne cavare qualche risultato definitivo. Molto opportuna invece, a parer noslro, è la raccolta dei frammenti editi e inediti riguardanti gli avanzi romani del Golfo: abbiamo così un gruppo ben ordinato di note illustrative intorno al poco materiale romano raccolto nel nostro Museo Civico e intorno a quanto è venuto in luce, nei vari scavi eseguiti nel Golfo in differenti occasioni, al Fezzano, al Muggiano, al Vari-gnano ecc- Questi avanzi sono di un interesse storico rilevantissimo; costituiscono le prove luminose dell’importanza militare del Golfo come base navale al tempo di Roma. Più importante è l’altro studio. Si può dire che fino ad oggi, eccettuato qualche dubbio in questi ultimi tempi, nessuno avesse messo seriamente in discussione l’esistenza di Luni etrusca e preromana. Il Mazzini nega apertamente tale esistenza. Gli' argomenti numismatici eh’ egli avanza per negare la pretesa zecca di Luna sono indiscutibili e pacifici ormai. Qelli archeo- 244 logici son basati su un equivoco chiarito in seguito dal For-mentini. Quanto alle prove storiche, il M. si basava su una critica ingegnosa di Livio per dimostrare che questo scrittore allude sempre al Portus Lunae e non a Luni città. Ora, non ammettendo l’esistenza di una Luni etrusca, il Golfo della Spezia non avrebbe preso il nome di Portus Lunae dalla città di Luni, ma anzi sarebbe stato il porto presistente a dare il nome alla città. Lo scritto è troncato sull’inizio, però va riconosciuto al M. il merito eli aver per primo messo in dubbio in modo esplicito l’esistenza della Luni etrusca additata dalla tradizione, e di averne tentata, con argomenti non trascurabili, la dimostrasene. Il F. riprende il lavoro a questo punto accogliendo le vedute del M. e anzitutto rettificandole per quel che riguarda i frammenti fittili scoperti a Luni nel secolo scorso. Con piacere vediamo riesaminate e tenute nell’altissimo conto che mediano queste insigni scolture che erano state trascurate dagli scrittori regionali. Il Milani prima e poi il Galli le hanno indiscutibilmente rivendicate all’arte etrusca. Tuttavia queste testimonianze non sembrano al F. tali da infirmar la tesi del Mazzini ; e i frontoni lunesi sarebbero da considerare opere di arte toscana erette in Luni da coloni romani, che non testimoniereb-bero per sè sole uno stanziamento etrusco, DalPesame delle necropoli liguri in relazione al recentissimo sfudio del Mazzini sulla necropoli Apuana del Baccatoio il F. crede di poter riportare la conquista etrusca molto più indietro del VI e V sec. a. C. e di poter far risalire 1’ invasione degli Apuani fino al 3° periodo dell’ Epoca del Ferro. Storicamente poi, mentre Luni sarebbe sorta per la necessità militare dei Romani di difendere lo sbocco della Magra dai Liguri-Apuani, l’occupazione del Portus Lunae da parte dei Romani sarebbe stata determinata dalle stesse ragioni politico-militari per le quali essi occuparono il Porto Pisano, l’occupazione del quale il F. crede di poter far risalire alle prime imprese navali contro la Corsica e la Sardegna. Tanto l’esame delle cause economico-politiche della guerra li gureche quello delle cause militari delle prime imprese navali romane son condotti in forma originale e suggestiva, e in genere le conclusioni di questo studio sono tali che portano a considerare con più larghe vedute il problema della politica lunense. Tuttavia, pur riconoscendo molte buone ragioni con cui RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 245. questa serie di ipotesi ci è presentata, confessiamo che non riusciamo tanto facilmente a convincerci dell’inesistenza di Luni peromana, L’ a. stesso, in una nota, non esclude la possibilità di un centro ligure anteriore, e le ragioni militali della deduzione della Colonia romana sono senza dubbio le determinanti della fondazione della Colonia ma non escludono, ci sembra, resistenza di un presistente centro abitato, mentre non sapremmo nascondere qualche riserva davanti all’ardita critica di Livio del Mazzini. N Quanto agli argomenti del F. per riportare ad epoca remota la dominazione etrusca, essi sono tutt’altro che trascurabili e ben significativo appare l’accenno di Strabone alP ormeterion lunese, mentre non stonerebbe affatto con Livio, che realmente sembra accennare a un tempo remoto nella nota frase « ... Etruscorum antequam Ligurum füferat ». Tale ipotesi potrebbe sempre sussistere anche se non si vorrà negare un’ influenza etrusca, rinnovatasi in epoca più recente, che ha la sua testimonianza nelle fonti in quello stretto rapporto in cui il Lunense si trova col Pisano (che il F. del resto vede assai bene) come pure negli avanzi di statue etrusche che P archeologia ci ha fortunatamente salvati. Se quest’ultima ipotesi del F. fosse vera noi verremmo a riportare l’invasione etrusca ad un periodo assai vicino a quello in cui si crede che vivesse il popolo delle così dette statue - menhirs ; e non è da dimenticare che un frammento è stato ritrovato anche nel piano di Luni, e che l’iscrizione che si vede incisa su una di esse è stata da qualcuno creduta etrusca. Come si vede tutte queste nuove ipotesi aprono un campo vasto e fecondo di discussioni. La serietà delPindagine e la reale conoscenza dell’argomento dell’A. rendono questi studi un contributo importante alla più antica storia del territorio lu-nense. Alla quale non mancherebbe di portare aiuto una più completa conoscenza del materiale archeologico del Museo Fabbricotti di Carrara; ed è da augurare che qualcuno ne faccia presta un’esauriente illustrazione. In ultimo il F. ritorna sull’antica questione del Portas Latiae che da un pò sembrava sopita. Gliene offre il destro uu noto studio del Pareti, ingegnoso ma non convincente, per quanto sia magistralmente condotto, e che era rimasto fin qui senza risposta. Le obbiezioni del F. sono nel complesso accet- 246 CESARE MAGNI tabili; ed è impossibile voler negare che il Golfo della Spezia abbia avuto importanza militare come base navale per i Romani; sopra tutto l’archeologia ce ne dà prove sicure. Cosi pure la la descrizione di Strabone è sempre un argomento a cui non è stata tolta, per ora, la forza probatoria che ha sempre avuto. C. MAGNI. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 247 PIERO BARONCELLi, Nuove ricerche nella città di Li bar ria, estr. dalle Notizie degli Scavi., 1922, fase. 10, 11. e 12. (Liguria: Serravalle Scrivia). Albintitnilinm, estr. dai Monumenti Antichi pubblicati per cura della R. Accademia Nazionale dei Lincei, ‘Vol. xxix. 1923. « La Sopraintenza delle Antichità per il Piemonte procedette in questi anni alla esplorazione sistematica dei ruderi di Libarna, uno dei nobilia oppida di Plinio il Vecchio come splendore della « Liguria » durante l’Alto Impero. Come in generale le coloniae, gli oppida, i fora, durante la romanizzazione della Cisalpina, anche Libarna forse fu uno dei luoghi più importanti di una via strategica, la Postumia, allo sbocco della Val di Scrivia, nel breve passo difeso dalle strette di Arquata e di Serravalle. Libarna divenne centro di vasto territorio, ma sopravvenuti i Barbari, sparve al pari di altre città della Cisalpina: se ne dimenticò fin il nome ». Piero Baroncelli, direttore del R. Museo d’antichità in Torino, illustra i risultati di quell’esplorazione su le Notizie degli Scavi, corredando la sua pregevolissima monografia di due piante e della riproduzione di due pavimenti a mosaico, ora rinvenuti. Dopo l’esplorazione del 1911 (v. Notizie, 1914, p. 113) « s’iniziò e si condusse quasi completamente a termine lo sterro dell’anfiteatro », costruzione non dissimile da quelle già note, ma, al contrario di queste, racchiusa in altra costruzione monumentale, probabilmente a-dorna in ogni sua parte salvo forse ad oriente sull’orlo del terrazzo della Scrivia. 1 muri dell’anfiteatro sono di pietrame con le facce a vista rivestite di regolari ordini di ciottoli spaccati. A determinati livelli sono rinforzati da doppi strati di lateres continui per tutto l’anfiteatro. La fronte era forse dappertutto semplicemente variata con leggera sporgenza a modo di lesene, interrotti a determinanti livelli dai doppi strati di laterizi. Lo stato di rovina delle costruzioni non ha permesso di stabilire, come d’altronde accade nella parte occidentale dell’Italia, il tipo di casa privata. Pochi i ritrovamenti; nessun sepolcreto e-splorato; nessun oggetto od epigrafe cristiana. Con tutto ciò, l’esplorazione della Sovraiutendenza e la monografia del B. che l’illustra sono un notevolissimo contributo all’archeologia e alla storia della Cisalpina. 248 Μ. N. CONTI La seconda monografia è un’ampia esatta rassegna di quanto sopravvive della romana Albintiniiliuni. Con 1’ aiuto delle precedenti Notizie e degli studj d^l Rossi sui Liguri Intennelii, i B. esamina quanto apparve dai recenti lavori di esplorazione, cui, purtroppo, si opposero in molte parti ostacoli di varia natura. Alcunevolte i ritrovamenti e le notizie furon troppo monchi per una buona conoscenza dell’ edificio, o della costruzione, ma ne è in compenso veramente ben fatta e particolarmente precisa la descrizione del B. Avanzi, per ora di strade, di acquedotti, forse di terme. In queste ultime fu ritrovato un mosaico che, secondo il B., rappresenta « dal lato artistico il più notevole ritrovamento di tutta la zona archeologica di Albititiiniliutn ». Il monumento più importante finora venuto in luce è invece il teatro, ora in buona parte dissepolto: esso è fra i piccoli teatri romani, ma assai conservato. Nella estesa zona dei sepolcri gli scavi furono limitati: e il B., al solito, ne dà nna completa descrizione, corredandola di mohi disegni e riproduzioni. La parte più vasta della monografia riguarda poi la suppellettile funeraria, e tutto quanto, prima e dopo gli scavi, venne in luce ad Albintirnilium: anfore, lucerne fittili, vasi di terra sigillata vi sono con somma precisione descritti ed illustrati. Anche questa monografia, insomma, è lavoro veramente degno del nome del suo Autore. Μ. N. CONTI SPIGOLATURE E NOTIZIE Nei giorni 26-28 ottobre si adunò in Genova il xm Congresso della Società Nazionale per la Storia del Risorgimento italiano. Numerosi i convenuti. Dopo la seduta iniziale, tenutasi nella sala maggiore del Municipio, fu inaugurata, a Palazzo Rosso, la Mostra del Risorgimento Ligure, ricchissima di documenti e cimeli sopratutto mazziniani, mameliani e garibaldini (vedine ora la descrizione in A. Codignola La Mostra del Risorgimento Ligure a Palazzo Rosso, Le nuove fonti del Risorgimento in Liguria, nel bollettino municipale: Il Comune di Genova, N. 10 ottobre 1925). S’intrapresero quindi i lavori del Congresso, durante i quali vennero fatte importanti comunicazioni su argomenti liguri. 11 Prof. Nurra, Bibliotecario della Universitaria di Genova, riferì intorno all’archivio Littardi-Sauli contenente più di m Ile autografi e documenti, che vanno dalla rivoluzione francese a tutto il Risorgimento, e notificò la scoperta della continuazione della Storia di Gerolamo Serra, conservata in due fascicoli e riguardante gli avvenimenti occorsi dagli ultimi anni del secolo XVI11 sino all’anno 1314. Ersilio Michel trattò di Un vice-console toscano a Genova, propagandista della « Giovine Italia » (Anton Felice Scribanis) il cui nome è più volte rammentato nell’ epistolario del Mazzini, ma non mai figura nei libri di storia, nè in riviste o giornali. Valendosi specialmeute di lettere c documenti dell’Archivio di Stato di Firenze, il relatore tessè la figura del patriota genovese e ne ricordò le fortunose vicende da quando s’ inscrisse alla « Giovine Italia » fino all’anno della morte, 1838. « È morto (scriveva il Mazzini alla madre, il 4 luglio da Londra)... un genovese... Scribanis ; frequentava negli ultimi tempi del suo soggiorno a Genova il gabinetto di Gravier; uscì negli affari del 1833... Viveva in provincia e piuttosto male, benché avesse, credo, un impieguccio commerciale... Poveri esuli! Ad uno ad uno son mietuti! ». Il congresso si chiuse con visite al Museo Navale e allo Scoglio di Quarto; e a tutti i congressisti furono distribuiti in omaggio i volumi preparati per la circostanza dal Comitato ordinatore; e cioè : La Liguria nel Risorgimento, Notizie e documenti a cura di F. L. Mannucci. P. Nurra, V. Vitale, C. Boriiate, A. Del Pin, G. Gonni, E. Rinaldi, U. Monti, O. Grosso, E. Pandiani ; Museo del Risorgimento del Municipio di Genova, Catalogo compilato da A. Neri, Seconda Parte ; G. Gonni, Nel Centenario della spedizione navale di Tripoli, con prefazione di G. Monleone: nonché il vol. Il degli Atti della società ligure di St. Pat., Serie del Risorgimento, comprendente la prima parte dell’ opera di Arturo 250 F. L. MANUCCI Codignola: I fratelli Ruffini, Lettere di Giovanni e Agostino Raffini alla madre dall'esilio francese e svizzero, con introduzione e note (1833-1835); e il catalogo delle pubblicazioni relative al Risor gira, ital. (Biblioteca Brignole Sale De-Ferrari) compilato da Leopoldo Valle. All’ esito felicissimo della bella manifestazione culturale ocntribuì Γ illuminato interessamento dei due supremi magistrati cittadini: il Commissario del Comune di Genova, Onorevole Ing. Comm. Broccardi, e il Vice-commissario, Onorevole Dott. Ferruccio Lantini. Su Gli ultimi giorni di Angelo Usiglio, patriota modenese, vissuto e morto nella fede predicata dal Mazzini, dà ragguagli importanti Giovanni Canevazzi nel fase, in, anno XII, della Rassegna stor. del Risorgimento, p. 7()2 e sgg. ; riferisce fra l’altro, di su informazioni di Valerio Pistrucci ad Emilio Usiglio, fratello dell’Estinto, che questi lasciò « un portafoglio veramente prezioso poiché recava una bella miniatura eseguita intorno al 1840 da Scipione Pistrucci, riprc-ducente impressionabilmente smunto ed emaciato Giuseppe Mazzini». La Rivista d'Italia, voi. xxvni, fase. IV, 15 aprile 1925, p. 476 e sgg. reca un art. di P. Gorrini, intitolato' Giuseppe Mazzini e la corporazione mazziniana di Brescia, corredato di interessanti notizie. Ersilio Michel nella Rassegna stor. del Risorgimento (anno xii, luglio-sett. 1925, fase, in, p. 687 e sgg.) dà notizia di carte e manoscritti dell’Archivio di Stato di Lucca, fra i quali figurano lettere autografe di Nino Bixio, del Mazzini, di Giorgio Pallavicini ; e una memoria del giureconsulto Renato Le Grand sul quesito: se un membro del Governo della Repubblica Ligure possa in causa privata esercitare la professione d’avvocato». . Il N. 11 (Nov. 1925) dell* Italia e popolo, Rivista di educazione mazziniana contiene due articoli d’interesse storico : Goffredo Ma-meli nell1 epistolario mazziniano e in altri documenti, di F. Ernesto Morando (in continuazione); e Mazzini cittadino svizzero (ree. al libro di Angelo Monti su La cittadinanza svizzera a Giuseppe Mazzini) di A. Saiucci. SPIGOLATURE E NOTIZIE 251 Nicola Ferorelli, cercando La vera origine del tricolore nazionale (Rassegna stor. del Risorgimento, Anno xii, fase, in, 1925, p. 654), crede di trovarla nella « nuova coccarda francese bianca, rossa e verde » introdotta nel 1789 in Parigi e portata già nell’agosto dell’anno medesimo a Genova ; ma Vittorio Fiorini, in una nota apposta all’articolo del Ferorelli, osserva giustamente che «non basta la menzione sporadica in qualche documento dei tre nostri colori... per vedervi l’origine del nostro Tricolore come elemento significativo di nazionalità.... Ciò che occorre è dimostrare che fra quella menzioae e l’atto che nel Tricolors riconosce e sanziona politicamente il significato nazionale, esiste una continuità di circostanze che ne attesta il razionale svolgimento storico ». Paul Mattel*, nel suo recente voi. Cavour et V Unité italienne, 1848-56 (Parigi, P. Alcan, 1925) afferma che dopo il 1853 l’influsso mazziniano era in Italia decadente. Lo smentisce con prove A. Luzio, in una recens, pubbl. nella Riv. stor. ital., Nuova Serie, m, fase, i-ni; genn.-apr., 1925, p. 125. In una memoria di Albano Sorbelli su U apostolo dello rivoluzione italiana del 183T Antonio Lugli, presentata il 29 genn. 1923 alla Classe di scienze morali della R. Accademia di Scienze dell’istituto di Bologna e pubbl. nelle Memorie della stessa Accademia (Bologna, Stab. Poligr. Riuniti, 1924), si accenna alla corrispondenza del Lugli con i fretei 1 i Ruffini. Su La carte prétendue de Christophe Colomb, ritorna nella Revue des questions historiques, aprile 19?5, Albert Isuard. Ma è da credere che anche il Signor De La Roncière sia oggi convinto del suo errore. E. Sestan, esponendo il risultato di alcune sue Ricerche intorno ai primi podestà toscani (Archivio stor. ital., anno lxxxii, 1924, disp. IV, 25 ott. 1925, pp. 205 e 235), fa utili raffronti con gli antichi podestà di Genova. 252 F. L. MANUCCI ^ Nella Cronistoria del Borgo di San Sebastiano Cnrone compilata da P. Giani (Riv. di stor., arte, archeol. per la Prov. di Alessandria, vol. ix, ser. iv, luglio-sett. 1925, pp. 189 e sgg.) si accenna alla politica praticata di secolo in secolo dalla Repubbl. ligure con le terre soggette. In Novaria (vi, 1-4, genn.-apr. 1923) G. Bustico tratta di Un corrispondente genovese di Carlo Negroni : Domenico Buffa. Da un articolo di P. Girolla (La biblioteca di Francesco Gonzaga secondo Vinventario del 1407', in Atti e Memorie della Reale Accademia Virgiliana di Mantova, N. 1, voi. xiv-xvi, 1923, p. 57 e sgg.) risulta che nella bibl. del Gonzaga esistevano codd. contenenti una Cronica de Ianua, con Y incipit: Evangelica eruditione instruimur ». Negli Atti della Società Savonese di Storia patriaf voi. vili 1925, trovansi i seguenti studi: F. BRUNO, Savona e la Repubblica democratica ligure; E. ΒΑΖΖΑΝΟ, La sede vescovile di Savona e i Vescovi della Diocesi; F. NOBERASCO, Gli scrittori della città di Savona, P. I. sec. xiv-xvii. F. L. M. INDICE DEL VOL. I. F. L. MANNUCCi: Achille Neri . u. formentini : Nuove ricerche intorno alla Marca della Liguria Orientale - Cap. i. / Marchesi Liguri e la conquista della Corsica anna dal pin : Damaso Pareto - Un capitolo del romanticismo mazziniano . u. formentini: Nuove ricerche ecc. Cap. n. Il Consorzio dei Marchesi e la crisi della Marca p. Ferrari: Giuseppe Zambeccari c. cimati : Barbazzano del Golfo della Spezia f. l. MANNUCCi: Rime inedite o rare di Gabriello Chiabrera....... L. staffetta Donne e Castelli di Lunigiana - iv. La moglie di Gian Luigi Fieschi . , u. formentini : Nuove ricerche intorno alla Marca della Liguria Orientale. Cap. hi. Le origini ed il compito storico della Marca A. pesce : Uue episodi prerivoluzionari in Ovada ’797 VARIETÀ: Giordano Bruno a Genova e in Liguria (santino caramella)..... Un lunigianese Prefetto Apostolico in Etiopia e martire della fede (p. ferrari) Indicazioni di notizie e documenti su A. D’Oria e Genova tra il 1534 e il 1549 (vito vitale) Degli epigrammi di Gian Carlo Di Negro Pag. 5 » 12 » 38 » 69 » 90 » 117 » 125 » 189 » 220 » 231 » 48 » 51 » 142 » 147 NOTE D’ARCHEOLOGIA E DI PREISTORIA - Pag. La diffusione dei Liguri orientali secondo ricerche toponomastiche e antropologiche (u. formentini) .......» 51 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA: onorato pastine Lei repubblica di Genova e le Gazzette - Vita ed attività giornalistica (sec. xvn - xvm - (f. l. mannucci).......» 62 dante e la Liguria : Studì e ricerche (v. vitale) » 149 Carlo bornate: Vinsurrezione di Genova nel marzo 1821 (ernesta Bertelli) . . . » 154 cesare imperiale di sant’angelo: Annali genovesi di Caffaro e dei suoi continuatori dal MCCXXV al MCCL. cesare imperiale di sant’angelo: Genova e le sue relazioni con Federico u. di Svezia (vito vitale) . ......» 163 franco RiDELLA : La vita e i tempi di Cesare Gabella (vito vitale) . . . . . » 173 Graziella taccetta : Gabriello Chiabrera e la sua produzione epica (P. l. mannucci) . . * 241 Ubaldo formentini: Questioni d’archeologia lunense con un frammento inedito di U. Mazzini. Scavi e monumenti romani del Golfo della Spezia nelle opere edite ed inedite di U. Mazzini (c. magni)......» 243 Pietro baron celli : Nuove ricerche nella città Libarna - Albintimilium (m. n. conti) . . * 247 SPIGOLATURE E NOTIZIE: . . . 179-18 - 249-252 Direttore Responsabile UBALDO formentini Edito dallo Stab. Tipografico Ditta C Cavanna - Pontremoli