Conto Corrente postale a tariffa intiera NUOVA SERIE - ANNO VI# GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA fondato da ACHILLE NERI e UBALDO MAZZINI NUOVA SERIE diretta da Arturo Oodignola e Ubaldo Kormentini 1950 Direzione e Amministrazione GENOVA, Palazzo Rosso, Via Garibaldi, 16 LE IMPOSTE SUL COMMERCIO* GENOVESE DURANTE LA GESTIONE DEL BANCO DI S. GIORGIO (Continuazione) Il comune chiamò carati del mare, in un tempo che non sapremmo precisare, ma che dovrebbe riportarsi alla prima metà del secolo deci-moterzo, la sua quota di partecipazione alle tasse stabilite nel jus vice-cGmitatus. La voce carato dev’essere stata presa dalla pratica della zecca, e forse, meglio, dal sistema ponderale dei Genovesi. Un carato corrispondeva a quattro grani e ad una trentaseiesima parte dell’oncia e cioè, col ragguaglio col sistema metrico, a mgr. 18,330. Questo, però, ci dice ben poco, perchè il carato se aveva un valore fìsso rispetto al peso, e rispetto al fino della monetazione in oro e in argento, non ebbe più tale valore e tale fissità, quando si impiegò il suo nome per indicare una parte frazionaria di una proprietà su navi o su rendite. La nave si divideva in tante frazioni quante erano le quote di costituzione del capitale impiegato a costruirla e ad allestirla. Una quota di comproprietà era un carato. A volte il carato si chiamò locus. Gli atti notarili dell’archivio di Stato di Genova accennano costantemente a comproprietari di navi, senza precisare il valore singolo delle parti; il notaio Lanfranco, sotto la data del 1180 registra l’atto di vendita di tre quartieri di una nave per novanta lire genovesi (1). La maona di Chio si forma, nel 1371, su di trentotto carati, che, nel 1398, aumentano a quarantino (2). Ma, (1) A. S. G. Sezione Notai; not. Lanfranco, vol. I, fol. 89. Citiamo, come esempio di pratica comune nei porti mediterranei, Blancard, Doc. inédits sur le comm. de Marseille au m. a. Marseille, 184. I, Vendita del sesto di una nave per 175 lire e 15 soldi di coronati; pag. 14; vendita di un quarto del buzzo nuovo per L. 345. 8. pag. 172; debiti verso Bernardo di Manduce, medietas unius navis, pag. 229; 1I? vendita di metà di una nave per L. 225, pag. 15; vendita di metà di una saettia. per lire 4.14. pag. 66. Documenti analoghi per Barcellona in Capmany, Memor, hist. sobre la marina, etc. Bare. 1779; e Bofarull. Coleccion de doc. inéditos. 1854 e segg. Uno dei tanti casi di frazionatura della proprietà delle navi, in Genova, A. S. G. not. G. Di Pegli, II, Bartholomens Reginus fatetur habuisse in acomenda a Sicolao cornile de Castello loca undecim que domii\a comitissa mater eius habet in navi nova que dicitur Leopardus et que navis est de locis septuaginta . (2) Λ. S. G. Diversorum, vol. 501. fol. 36 v. 2 Raffaele di Tucci trattandosi di rendite o di prodotti completamente liquidi, carato si usa per riferirsi ad una quota: carata malepage, sono le condanne sulle lettere di cambio protestate (1). Si chiamarono caratata anche le parcelle del catasto. Il comune, lungo il quattrocento, aveva ventiquattro carati del mare (2). Per questi venti carati imponeva una tassa di 5.8.4 per ogni cento lire di reale valore di tutte le merci in entrata e in uscita, tanto per mare che per terra, in Genova e distretto. Esamineremo più in là le eccezioni per le nazionalità e per le merci. Nello stesso periodo ad essi fu aggiunto un introito di mezzo per cento, e cioè di dieci soldi per ogni cento lire (3). In circostanze storiche ed economiche di cui non possiamo dare un riferimento preciso, per difetto di indicazioni nelle fonti o addirittura per assenza di fonti — e questa riserva accompagna quasi tutta la nostra esposizione — i carati del mare ebbero un altro aumento di un denaro per lira sul valore delle merci (4). Un assestamento graduale dei carati, ha inizio col 1313, quando si interessò la gabella della colonia di Pera ai provventi di quella di Genova: si impose alla prima una tassa di dieci iperperi per ogni cento sulla valuta delle mercanzie, divisa in dodici carati, di cui dieci erano introitati dalla gabella di Genova sia importate che esportate, per gli scali greci, dal Mar Nero e da Genova, e due rimanevano pro servietis (6). Una deliberazione del doge Anto-niotto Adorno e del Consiglio degli Anziani in data 1° febraio 1418, ricorda una modificazione apportata a questi dodici carati, nel 1343, i cui termini ci sfuggono (6), e, nello stesso tempo, accenna all’aumento della caratura fino a quattordici. Contemporaneamente fu deliberata una tassa di venti iperperi per ogni cento iperperi di carico per tutte le navi che recavano merci negli scali del Mar Nero, e questo incasso fu (1) A S. G. Membr. 22, Institutio Gabellarum Veterum, fol. 1. « Venditio introitus (2) A. S. G. Diversorum, vol. 502, fol. 71 v. liaratorum expedicamenti fit in hunc modum, videlicet quod illi qui emerint dictum in-trodum passini per se et collectores suos colligere de omnibus et siingulis piercibus quocunque nomine censeantur extrahendis de Janua vel districtu portandis ad pelagus per mare vel per terram libras quinque soldos octo et denarios quatuor pro auolibet centenario librarum valimenti ipsarum. Et tantundem de mercibus et rebus apportandis adducendis vel mittendis de pelago Januam vel districtum per mare vel per terram sixe exoneraverint in terram sive dei ligno in ligno sive non ». (3) A. S. G. Inst. cit. fol. 38: « Venditio introitus medii pro centenario... ab omnibus et singulis personis que solvunt et solvere teneantur dicto introitui Karatorunb maris ». (4) A. S. G. Inst. cit. fol. 70: « Venditio introitus unius denarii pro libra... de omnibus mercibus de quibus vel pro quibus solvatur vel solutum fuisset consulibus Ka-ratorum maris ». (5) A. S. G. Inst. cit. fol. 224; Non si identifica meglio. (6) A. S. G. Inst. cit. fol. 192 e segg. tutto il testo è un rimaneneggiamento della tariffa antica combinato con la parte spettante al Comune. Le Imposte sul Commercio Genovese durante la Gestione, ecc. 3 diviso in dieci carati, di cui otto a Genova, e due a Pera (1). Sono cosi ventiquattro i carati che presero il nome da Pera. Distrutta la colonia, i carati, naturalmente, rimasero: e, nel contratto di cessione dei carati al Banco di S·. Giorgio, i carati, senz’altra distinzione, si chiamavano già comprensivamente, carati del mare ed erano sessanta (2). b) Pedaggi, — Persistettero, fino a tutto il quattrocento, il pedaggio di Voltaggio e quello di Gavi, che comandavano l’aspra e lunga strada della Polcevera verso gli sbocchi della Lombardia. Abbiamo visto che l’uno e l’altro sono di origine signoriale e che il comune entrava nella riscossione di esso come compartecipe. Nell’uno e nell’altro la compartecipazione è regolata da una tariffa che ci è stata conservata negli appalti, o vendite, e che si allontana di poco da quella adottata dagli aventi causa dai visconti. Per il pedaggio di Voltaggio, si pagava (3): Per ogni salma da 18 rubbi, 16 denari. Per un carico inferiore ad una salma, oppure, anche se superiore ai 18 rubbi, purché, però, caricato su di una sola bestia, 16 denari; questa tariffa per le merci avviate in Lombardia da Genova o a Genova dalla Lombardia. Per quelle che erano destinate oltre monti o in Francia, per carichi da 18 a 20 rubbi, sedici denari; lo stesso per le merci provenienti da ol-iremonti o dalla Francia. Vedremo in seguito le immunità parziali, per gli uomini e le cose; ora è sufficiente notare che godevano l’esenzione completa le merci di produzione locale di Alba, trasportate a Genova via Savona, e quelle che partivano da Genova ed erano consumate in Alba. Erano esenti gli abitanti di Gavi, Parodi, Capriata e Voltaggio, come quelli del Borgo di Guglielmo Spinola (4), di Ronco, Favignano e Caranzio. 11 comune appose alla tariffa primitiva dei visconti, che restò invariabile, la sua quota di partecipazione in questo pedaggio (5). (1) A. S. G. Inst. cit. fol. 30. (2) A S. G. Membr. voi. 1170 fol. 2 segg. (3) Ìbidem, « Item debent a civibus Janue sive a Januensibus predicium pedagimn Ultabii de saumis sive carÿiis quas deferunt vel mittunt in Lombardiam vel Fran-ciam seu ultra montes et tantum plus quantum accipitur a foritaneis hominibus pro porta et ripa vicecomitum de saumis sive cartfis quas ipsi foritanei mittunt’ vel deferunt extra Januam per mare vel per terram <>. (4) Cfr. Sieveking, cit. pag. 32 e segg. (5) A. S. G. Inst. cit. fol. 145: Et fit divisio predicti pedagii Vultabii videlicet ex denariis XVI qui colliguntur occasione ipsius pedagii torsellis vel saumis vel car-giis ab hominibus qui non sunt cives Janue et habitatores in confinia snpradicta tat hunc modum scilicet quod medietas est communis Janue et alia medietas preter denarios tres et dimidium quos commune in qualibet libra, quorundum hominum Janue Item est Communis totum hoc quod accipitur a civibus et habitantibus tamen modo a Roboreto usque Gestam ef a jugo usque mare et qui introitus appellantur pontorum scilicet quod isti cive,* solvunt et lotum hoc quod accipitur de ponderatura de sautiu» 4 Raffaele di Tucci Ma da esso non erano esclusi i genovesi: la tariffa era valida per essi e per le loro merci, che, se erano importate nelle terre viscontili, pagavano in ragione di sedici denari la salma, ancorché fossero consumate colà, senza avviarsi per oltremonti (1). Vi è poi un elenco di derrate, spezierie e mercanzie, la cui importazione nell’interno non poteva muoversi che dal porto di Genova, ed era stabilito il pagamento in questo rapporto (2). Una salma di pepe, legno di bresile, incenso, indaco, zenzero, lacca, gomma, fustagni, pelli di volpe, bardinella, cannella, mastice, seta, coralli, code di volpi e di tutte le altre spezie, diciotto denari; una salma di bambagia, allume, cera, pelli di coniglio, datteri zucchero, cuoiami, regolizia, panni di lana, armature, corazze, galla, sciroppi, tredici denari e mezzo; merci meno costose, quattro denari. Ecco, ora, come fu sistemata la divisione del provento dal pedaggio Voltaggio fra i visconti e il comune: dei sedici denari che erano imposti su ogni salma, il comune prendeva la metà più tre denari e mezzo che si pagavano a parte, il resto ai visconti, tutto quello che si percepiva dai cittadini genovesi e dagli abitanti del contado, da Rovereto (di Gavi), a Gesta, e dal giogo fino al mare, e cioè, sedici denari per soma, si spartiva a metà fra visconti e comune, al quale toccavano pure i diritti dei ;sei denari di pesatura, pagati in più, come i tre denari di cui sopra (3). La tariffa sul pedaggio di Gavi e la ripartizione del prodotto di esso ira visconti e comune, si legga in appendice, perchè crediamo interessante riprodurla testualmente (4). Il Comune crea un pedaggio suo proprio lungo il secolo decimo-quinto, che riguarda più precisamente il transito delle merci da e per la Lombardia con Savona (5). E cioè: azai’ii similiter denarios sex ultra predictos denarios XVI est communis Janue ceteri denarii qui colliguntur pro pedagio Vultabii dividantur eodem modo inter commune et quosdam nobiles Janue ». Una quota, appartenente ad una di queste famiglie, passò all’antico monastero di Sant’Andrea della Porta. Il 20 dicembre 1221 Sibilla, del fu Rolando Picco, vende a Sibilla, abbatessa del monastero, il diritto di percepire un denaro per lira sul pedaggio di Voltaggio per centodieci lire genovesi ». Ego Sibilla filia quondam Rollandi Picii vendo cedo trado tibi Sivilie abbatisse monasterii Sancti Andree de Porta... ius recipiendi denarium unum sive introitum pro denario uno in libra in parte mea juris pedagii Vultabii quod habeo in introitibus et pro introitibus recipiendis pedagii Vultabii quam venditionem facio precio librarum centum decem Janue etc. ». A,. S. G. Sez. Segr. Registro Mon. S. Andrea della Porta, Menbr» LXX, fol. 1. (1) Cfr. Appendice, etc. (2) A. S. G. Inst. fol. 207. (3) Cfr. Appendice. (4) A. S. G. Inst., cit. fol. 192. (o) A. S. G. Inst.. cit. fol. 29. Le Imposte sul Commercio Genovese durante la Gestione, ecc. 5 Per ogni salma o sarcina di gualdi e di qualunque altra merce, non eccedente il valore di diciotto lire genovesi, soldi sette; Per ogni salma di qualunque merce, oltre quelle specificate, che non superassero il valore di dieci lire genovesi, soldi quattro. Si eccettuavano il grano, il vino e le vettovaglie, per cui non si pagava nulla, e salve le convenzioni con Savona (1). Il pedaggio si limitava alle sole mercanzie provenienti dalla Lombardia e destinate ad essa purché il movimento fosse avvenuto fra Savona e le tre podesterie di Genova e la Lombardia e viceversa. Se invece si fosse trattato di solo ti ansito per muoverle o avviarle a Genova, non si pagava il pedaggio. c) Ripa grossa. Il Comune partecipava al diritto viscontile di ripa in una misura che non ci è dato di sorprendere. Questo diritto di ripa, neirordinamento feudale, non stava a significare solo una ricognizione di protezione da parte dei forestieri che approdavano per via di mare. Era, invece, una vera tassa sul commercio, perchè si riversava sulle merci che approdavano dal di fuori ed erano vendute sulla stessa riva. Non bisogna dimenticare che lo stesso Comune, come abbiamo visto, fonda i suoi mercati poco lontano dai moli del porto. Il documento che riportiamo in appendice « De introita ripe prò vicecomitatus » parla con estrema chiarezza. Ammesso il principio che gli uomini dell’epi-scopato genovese sono esenti dal pagamento di dazi, quest» colpiscono gli uomini abitanti fuori dell’episcopato non in quanto sono persone, ma in quanto approdano con merci e ripartono con merci: quando il testo sembra accennare a persone, si riferisce, invece alla nave. Sicché: Quelli di Savona, di Noli e della contea, per le merci che portavano o sbarcavano, a persona, due denari; Quelli di Albenga, Ventimiglia, Nizza, sei denari; Quelli di Grasse, tredici e mezzo; Quelli che abitavano dal Var0 al Rodano, tredici denari e mezzo, sempre nelle stesse condizioni ed a persona, escluso il comandante della nave, tredici e mezzo; per l’esportazione, non si pagava più in ragione di persona, ma secondo la tariffa delle mercanzie. Quelli di Provenza, tredici danari; per l’esportazione, secondo la tariffa delle merci, e Grasse era immune dal pagamento dei diritti di pesatura. Quelli che abitavano oltre Rodano, un soldo e mezzo per l’importazione; secondo la tariffa per l’esportazione; eccettuati dal diritto di peso gli abitanti di Narbona. Quelli di Provenza pagavano pure per l’approdo della nave una quota pari a quella che pagava una persona. Gli abitanti dell’episcopato di Luni, quattro denari; I lucchesi per importazioni ed esportazioni fra Genova e Lucca, un (1) Riportate tutte a stampa, Savona, 1503; a cominciare da quella del 1251. 6 Raffaele di Tucci soldo e mezzo: se avessero proseguito con le merci per la Provenza, secondo a tariffa delle merci; I pisani, tredici soldi e mezzo per ogni approdo, ed a persona, eccettuato il capitano della nave; I toscani dei paesi interni, per le merci secondo la tariffa: i toscani dei paesi marittimi, a persona, tredici denari e mezzo; I romani e gli altri del distretto di Roma, quaranta denari e mezzo a testa; I gaetani, ventisette, da Gaeta in giù, quaranta denari e mezzo. II criterio distributivo della tassa, come non è determinato in confronto alle persone, ma dalla grandezza della nave e dal numero dell’equipaggio e dalle mercanzie, non ubbidisce neppure ad un rapporto fra maggiori o minori distanze: esso segue convenzioni poliaiche e commerciali, o il movimento delle merci, secondo i bisogni del traffico, del-l’approwigionamento o la concorrenza. Più complicato è stabilire il nesso che univa la Genova viscontile con i paesi rivieraschi per quanto attiene agli scambi. E’ certo che la tassa è minima, anche perchè la frequenza delle reazioni doveva fornire un compenso. Gaeta, che è più ad est di Roma, ha un livello di imposizione più mite; e questo ci deve ammonire che non si pagava in proporzione diretta della distanza. Le navi gaetane potevano portare a Genova le granaglie della ricca pianura di Vaile del Garigliano, assai prima che i genovesi le traessero dalla Sicilia. Sulla ripa, poi, si svolgeva un commercio minuto locale, di cui abbiamo traccia nel decreto preso ai consoli del comune nel 1159, i'I quale vieta di percepire tasse dalle rivenditrici di pane sulla riva del mare « quod in ripa maris a revenditricibus panis nullum pedaticinn colligatur » (1). Evidentemente, sulla riva si vendeva pane, biscotto, vino, salumi, cordame e attrezzi, per le provviste di bordo. Ecco, dunque, da qua. li elementi, è formato il dazio della ripa grossa, organizzazione perfettamente commerciale. Il comune impone, per suo conto, un aumento sui diritti globali di ripa grossa, ragguagliato a sei denari, di cui metà a benefìcio delle compere di San Giorgio, l’altra metà per la compra del capitolo (2). Questo avvenne fra il 1323 e il 1330 (3). I sei denari erano raccolti per ogni lira di valore sulle merci, di qualunque genere, che erano comprate, vendute permutate in Genova e nel distretto, da Capocorvo a Monaco a mare, e, per mare fino a tre miglia lontano dalle coste. Prima indicazione delle acque territoriali. Sicché non riguarda solo il commercio interno, ma (1) Lib. IurI, pag. 206. (2) A. S. G. Inst., cit. fol. 75. (3) Cfr. Sieveking, cit., I, pag. 107 per l’istituzione dei protectores comperarum capituli, che è del 1323. Le Imposte sul Commercio Genovese durante la Gestione, ecc. 7 quello di importazione e di esportazione, perchè opera ugualmente sulle merci oggetto di negozii giuridici quando rappresentavano ancora il carico di una nave. La tassa si pagava su di una sola vendita e non sulle successive. d) La ripa minuta è veramente una tassa che colpiva il trasferimento, a qualunque titolo convenzionale, del passaggio di proprietà sui beni immobiliari. Ma i genovesi consideravano come un bene immobile anche le navi, e la tassa sulla vendita delle navi era calcolata nei proventi della ripaminuta: gli accessori e l’armamento delle navi entravano anch’essi; ed ecco perchè, non per simmetria con la ripagrossa, ma pel suo contenuto e per la sua provenienza dai diritti viscontili, consideriamo qui la ripaminuta. Nella tariffa dei visconti stesa nella nostra appendice, troviamo precisamente « In primis de unoquoque ligno de mari et de anchoris que venduntur aut comperantur a capite montis usque Palodium debent vice-comites habere ventenum ». Il comune invece, percepisce due denari per lira, che è infinita mente meno della ventesima parte, ma tanto dal venditore come dall’acquirente, in totale quattro denari (1) . Ora, se la ventesima parte toccava ai visconti, armatori, come espressione di una misura protezionista nel senso che al pagamento di essa erano tenuti solo i forestieri, e non i genovesi, cosicché si veniva ad impedire per questi l’acquisto di navi straniere, nella tariffa del Comune questo indirizzo è assente, perchè l’imposta si applica senza riguardo di nazionalità. La ripaminuta, nell’ordinamento finanziario comunale, acquista poi un carattere di tassa sugli affari, perchè considera anche i trasferimenti fitti-zii di proprietà su stabili e su navi, particolarmente il mutuo con ipoteca, mascherato sotto la vendita con patto di riscatto. e) Tessuti. Abbiamo visto che il Comune applicò una tassa per ogni kilma di lino importato, sempre indipendentemente dalla tariffa generale dei visconti. Bisogna notare che questo diritto sul lino fu quasi monopolizzato dal Comune. Il lino era importato quasi esclusivamente dalla Lombardia: passava, dunque, dalla strada di Gavi, ed era quindi sottoposto ai pedaggi. Ma per la nuova istituzione, passasse o no per la Val Polcevera, si fermasse in un punto qualunque del Distretto, da Corvo a Monaco e dal giogo al mare, incorreva nella tassa di dodici denari, o di un soldo, per ogni torta, pari a dodici rubbi. Pel lino proveniente dal mare era obbligatorio lo sbarco sui due ponti di mezzo nel porto, cioè su quelli che erano del comune e non delle famiglie consociate, sotto (1) A. S. tì. Inst. fol. 118: « Venditio introitus ripe minutaEt codem modo col-ligi possit et debat de quibuscunque vasis navigabilibus que vendentur in civitate Janue vel districtu existentibus salvo quod diminui debeat de dictis vasis quarta pars pro •cordi, s art iis, armis et apparatibus ipsorum. 8 Raffaele di Tucci pena di due soldi per torta (1). La tassa colpiva il lino lombardo, el-questa volta, non ci troviamo di fronte ad un’azione protezionista: in Liguria non si produceva lino; merce del genere proveniente dalla Fiandra e dalla Francia, pagava una gabella assai più pesante, come vedremo. Qui si tratta semplicemente di una risorsa tributaria su di un articolo di lusso ma che, in una città ricchissima, trovava diffusione sempre più grande. La statistica dà quasi una media di millecinquecento lire di appalto annuo per questo introito, per gli anni di cui alle nostre tabelle: quasi trentamila torte l’anno. E si badi che la tassa riguarda l’importazione soltanto, mentre non accenna ad una uguale pressione per l’esportazione, come, di regola, avviene per le altre merci. Anche i fustagni venivano di Lombardia e il comune li colpì con una gabella, due soldi e mezzo denaro per ogni pezza (2). Ma in Genova, per quanto non estesa, trovavano una fabbricazione locale, perchè il fustagno, come si sa, era di uso popolano assai largo. La produzione genovese e l’importazione dall’esterno servivano, oltre che ai bisogni del posto, alla esportazione su altri scali, nell’Italia meridianole, in Sicilia ed anche in Provenza ed in Ispagna. Ad un tratto questa imposizione speciale fu soppressa: ignoriamo se, come era solito avvenire nella consuetudine gabellaria della Serenissima, non fu appaltata e riscossa in un quinquennio, ciò che importava automaticamente l’estinzione di una tassa, oppure fu abolita volontariamente per agevolare Io smercio di un articolo popolare. Dopo il quattrocento non si trova più traccia di essa (3). Una intonazione nettamente fiscale sembra rivelare, invece, l’imposta sulla importazione dei tessuti di lana. Vi è la creazione di un introito di sei denari per lira sul prezzo effettivo di qualunque panno di lana o di mezza lana, portato per mare o per terra, in Genova e nelle grandi centri di produzione e di apparecchio delTindustria laniera. Ge-riviere, da Corvo a Monaco, dalla Lombardia o dalla Toscana (4), i (1) A. S. G. Inst. cit. fol. 18. « Venditio introitus lini fit in hunc modum videlicet quod ille qui dictum introitum emerit debet habere de qualibet torta lini lombardi soldum unum pro torta que torta sit de rubis duodecim ». Et si quis exoneraverit vel exonerari fecerit lium delatum per mare Januam a capite farii usque Albarium ni\si ad aliquem cx duobus pontibus medianis qui sunt in portu Janue amittat de qualibei* torta solidos duos etc. ». (2) A. S. G. Inst. cit. fol. 31 v. « Venditio introitus denariorum sex de qualibel et dum videlicet quod ille qui dictum introitum emerit possi per se... colligere a 'quacunque persona que deferri feceri in civitate Janue, burgis et suburbiis ac tribus po-testatiis per mare vel terram soldos duos et denarium medium pro qualibet petia fu-staneorum ». (3) A. S. G. Venditiones gabellarum, Membr. 108. (4) A. S. G. Inst. fol. 72 v. « Venditio introitus denariorum sex de qualibet et pro qualibet libra justi precii seu valimenti omnium quorumcunque pannorum laneorum vel de media lana delatorum per mare vel per terram in Janua seu ripariis a Corvo usque Monachum et a jugo usque mare de Lombardia vel Tuscia ». Le Imposte sul Commercio Genovese durante la Gestione, ecc. 9 nova ebbe anch’essa, ed assai presto, forse nello stesso secolo decimo-terzo, un’organizzazione dell’arte della lana: artefici raccolti in corpo-razioni e un rione dove risiedevano, detto anche oggi Borgo Lanajuoli. Ma, certamente, l’importanza dell’industria è data assai meno dalla tessitura che dalla lavatura, cardatura e filatura della lana grezza, impor-lata dalle zone montuose retrostanti, dai dintorni di AJbenga, dalla Sardegna, dalla Sicilia, dalla Barbaria, dall’Oriente e sopratutto dalla Spagna. La lana filata ripartiva, poi, per Firenze e specialmente per Milano e per Bergamo. Grandi opifìci di tessitura sorsero in Genova ed a Ronco, àuspici gli Spinola e i Centurione, nel secolo decimosettimo. Con ciò non possiamo negare, naturalmente, l’esistenza di una lavorazione di tessuti di lana, in Genova, in ogni tempo: qualche volta, per sostenerla, il Senato intervenne con misure radicali di protezionismo (1) ; del resto, caduto subito, appunto perchè non poteva reggere alla concorrenza dei panni stranieri neppure nel gusto degli abitanti. Per l’introito sui tessuti di lana lombardi e toscani furono abolite tutte le franchigie particolari. Più specialmente sui panni di lana lombardi fu applicata, a complemento, la nuova imposizione di un denaro per lira, da pagarsi all’atto della importazione od a quello della vendita, all’ingrosso o al minuto, in città e nel dominio. Giacché poi a Genova si conosceva bene che il panno lombardesco era un tipo di tessuto fabbricato anche fuori di Bergamo, 1 ordinanza avvertiva che la tassa doveva essere corrisposta per i panni di lanna e mezza lana di tipo lombardesco, dovunque fossero stati fabbricati (2). Giambattista Centurione, per mezzo di due tecnici, Mortola e Facchini, impiantò, dal 1668, due grandi fabbriche per la tessitura di panni e pannine di quella finezza e perfezione che si esitano nel levante e non mai praticate in Genova (3) . Un primo passo verso la fabbrica di tessuti fini; il secondo fu compiuto da Napoleone Spinola e da suo figlio Stefano, nel loro feudo di Ronco, nonostante le vivacissime proteste dei consoli dell’arte della lana, con l’istituzione di « una nuova fabbrica di panni e saie di Bergamo » avvertendo che « il lavorerò che (1) Cfr. Canale, cit. vol. I, passim. I documenti di cui ci serviamo in questo punto, A. S. G. Sala 50, voi. 174-184, Arti. Un decreto dogale del 1529 proibiva di fare uso, per abiti, di stoffe che non fossero fabbricate a Genova, sotto gravi pene, ma non proibiva affatto l’imoprtazione e il transito dei tessuti di lana: A. S. G. Sala 50, Arti, voi. 170: « Magnifici Domini Duodecim Reformatores etc. decreverunt et decerne-rnnt ut prohibeatur et prohibitum esse intelligatur ne in presenti civitate Genue ac districtu ac in toto dominio genuensi possint aliqua panna conduci neque aliis vestiri pannis laneis cuiusvis sortis fuerint nisi pannis Janue instructis ». (2) A. S. G. Inst. cit. fol. 78 v. « Venditio introitus unius denarii pro qualibet libra pannorum lombardiscorum... possit habere de omnibus et singulis pannis lan-neis vel mediis lanei facfis vel fiendis in aliqua parte Italie ». (3) A. S. G. Sala 50, Arti, vol. 170 cfr. Di Tucci, Relazioni commerciali fra Genova e il levante dalla caduta di Chio al 1720, Boll. La Grande Genova, novembre 1929. -, 10 Raffaele di Tucci s’introduce non è a memoria dei viventi mai stato nel dominio, e si deve esercitar tutto per mezzo di persone forestiere». Capo della fabbrica era Pietro Martinello, bandito dal milanese, come parecchi dei suoi compaesani bergamaschi, operai in essa; ma questo non aveva alcuna importanza; vi erano pure «gran numero di operai veneti» ed operai francesi ed olandesi (1). Con lo stesso criterio fiscale si spiega una imposta addizionale di otto soldi per salma di tre cantari, sulla importazione dei gualdi (2). Una tassa che, come quella sulle cavalcature e sulle perle, aveva, in origine un carattere suntuario, e si trasformò, poi, in una imposta sulla esportazione, è quella sui velluti e sui panni di seta, filettati ed ornati o no con oro ed argento. Lungo il secolo decimoquarto e il decimoquinto, chiunque portava abiti di seta o di velluto, pagava una imposta di quattro denari: col grandioso sviluppo che assunse sempre più l’arte della seta e del velluto, in Genova, a causa sopratutto della esportazione, la tassa, considerata anche qui ton occhio fiscale, diventò un peso di un denaro per lira sul valore di ogni pezza, di qualsiasi genere, di velluto e di seta, per Genova e dominio (3). Non si poteva togliere dal telaio se prima non se ne fosse fatta la denunzia; e per questa gabella cessavano le concessioni di franchigia e i privilegi. Connessa con questa industria era la filatura dell’oro e dell’argento, che penetrava come un elemento di lussuosa decorazione e di suggestivo abbellimento nei tessuti di seta, c specialmente nel velluto. Allora anche la filatura fu sottoposta ad una tassa, di natura fiscale anch’essa, di quattro denari per lira del valore dell’oro e dell’argento filato che fosse fabbricato, venduto o donato in Genova e dominio (4). L’importazione del legname, specialmente di quello destinato alle costruzioni navali fu sottoposta a dazio. Si conosce bene il grado che assunse in Genova l’ingegneria navale e come fu sempre florida ed attiva la vita dei cantieri genovesi: la tassa non colpiva neppure la Repubbli- (1) A. S. G. Sala 50, Arti, voi. 170. (2) A. S. G. Inst. fol. 131 v. « Venditio introitus gualdorum... pro qualibet sauma gualdorum quod deferetur per mare vel per terram... soldos octo januorum et que sauma intelligatur esse de cantariis tribus ». (3) A. S. G. Inst. dt. fol, 121 v. « Venditio introitus denarii unius pro Ifl ra ve-lutorum et pannorum de septa tam laboratorum cum auro vel argento quam sine qirt flent laborabuntur et construentur in Janua et districtu nuper impositi loco imroitus denariorum quatuor pro libra... qui solebat esse super portantibus vestun de ραηικλ sirico ». Per l’industria del velluto e la seta genovese e ligure, cfr. Leggi dell’aj'ie della seta in Genova, Genova, Franchetti. (4) A. S. G. Inst. cit. fol. 77, v. « Venditio introitus auri et argenti filati rl folii auri et aragenhi ac cendatorum qui et quod laboratnur construuntur vel fabricantur+ in Janua vel districtu... denarios quatuor per libram justi precii et valimenti ipsorum ». Il lavoro era eseguito quasi esclusivamente dalle donne, riunite in albergo; cfr. Statuto dell*Albergo delle Filatrici ecc. Ms. in Bibl. Civ. Genova. Le Imposte sul Commercio Genovese durante la Gestione, ecc. 11 ca, perchè non si ebbe che per una sola volta una marineria di Stato, ina i costruttori e gli armatori. Siccome la tassa parlava genericamente di legno, fu inclusa in essa anche il legname da ardere. Cosi si ebbe una distinzione nella qualità del legname ed una diversità della distribuzione dell’imposta. Il legno sottile, per avviare il fuoco, i rottami e le schegge, venduti a fascina (fasciculi lignorum sclapatarum sive buscarum) pagavano un denaro per ogni soldo di costo. Il legname da costruzione, che si vendeva a cantari, con pesatura sui ponti del porto, due denari a cantaro (1). Dalla tassa era esente il legno portato a mulo dai legnaiuoli per essere venduto direttamente in città e quello che si trasportava dalla campagna dai proprietarii per uso di casa (2). L’imposta, pertanto, anch’essa di tipo fiscale, si convergeva quasi totalmente sull’importazione del legname proprio alla costruzione delle navi. Il Comune aveva statizzato l’importazione del ferro (devetum vena ferri) meno per garantire il lavoro alle rinomate fabbriche d’armi genovesi e la provvista di ferro necessaria per la costruzione e pe gli accessorii delle navi, che per ricavarne un profitto. Il monopolio non ebbe una magistratura speciale: fu amministrato quasi sempre dall’ufficium monete. Ma il divieto dell’introduzione del ferro, specialmente per quelle famiglie che avevano interessi prima nelle miniere sarde, poi, special-mente in quelle dell’Elba, doveva produrre numerose contravvenzioni: c, giacché il Comune si era limitato ad imporre un’ammenda uguale all’importo del valore del ferro portato a Genova, i privati portavano ugualmente il ferro e pagavano la tassa quando erano scoperti, confondendo l’ammenda con la tassa. Anche il Comune, davanti al ripetersi delle contravvenzioni, cadde nella stessa confusione: appaltava metodicamente, come tutte le gabelle fìsse, il prodotto dell’ammenda sull’importazione clandestina del ferro, col patto che il collettore di essa dovesse ritenerne metà per sè e darne l’altra metà al Comune o all’officio della moneta (8). Il 7 novembre 1427 la riscossione di questo diritto fu (1) A. S. G. cit. fol. 116. a Venditio introitus seu cabelle lignorum... Pro omni quantitate lignorum grossorum ciusmodi vendantur presentialiter seu vendi consue-, veruni super pontes ad pondus cantariorum denarios duos pro singulo cantario. (2) Ibidem : « Pro somis vero seu leziis lignorum selapatorurn que per vilicos seu v(Licas seu aliquas quascumque personas apportabuntur infra dictam civitatem ad causam tamen vendendi dictus introitus non solvatur. Et similiter de lignaminifrus veteribus, vitibus, et paaciis que ruribus per aliquos cives Janue et habitatores seii eius nuncias et famulos in dictam civitatem adducentur introitus non solvatur ». (3) A. S. G. Inst. cit. fol. 174 v. « Venditio deveti vene ferri fit in hunc modum cidelicet quod emptor et collector dicti deveti et pene Cmposite ex dicto deveto habeat et percepire et colligere possit a quacumque persona corpore collegio et universitaten tam januenstum quam forensium et seu conventionato seu conventionatis omnen quantitatem vene ferri que conductum factum et proclamatum adduceretur de aliqua mundi parte tam per mare quam per terram ad civitatem Janue vel ad quecumque loca districtus Janue... seu valimenti totius dicte vene ». 12 Raffaele di Tucci dato in appalto, tamqnam plus offerenti, a Gaspero de Vivaldis, per sei-centosessanta lire genovesi all’anno, e per tre anni (1). Un decreto del cardinale Giacomo Isolani, governatore delia Repubblica per Filippo Maria Visconti, duca di Milano, in data del 5 ottobre 1437, imponeva ai contravventori del divieto di importazione del ferro la confìsca del ferro e una multa di venticinque soldi per cantaro: questo, pro bono civitatis (2). Qui anticipiamo qualche aspetto delle vedute generali che esporremo in sèguito circa le innovazioni portate dal Banco di S. Giorgio nell’organizzazione delle gabelle, quando esse passarono sotto la sua gestione. Il sistema di appaltare le penali prodotte dal divieto di importare ferro, fu seguito dalla Repubblica anche dopo il decreto cardinalizio. I Protettori di S·. Giorgio, il 16 agosto 1548, valendosi della facoltà concessa nel contratto del 23 dicembre 1439, d’accordo con i Procuratori della Serenissima, riformarono il monopolio del ferro (3). Non si poteva sbarcare il ferro non lavorato o lavorato in verghe, barre, chiodi, àncore o comunque, senza avvertire, nelle ventiquattro ore dall’arrivo in porto ο alle porte della città, il collettore del diritto, sotto pena della confisca del ferro e di due fiorini a cantaro (4). R. di Tuccu ( Continue). (1) Ibidem, fol. 176 v. (2) Ibidem, fol. 174. (3) A. S. G. Ms. n. 176, fol. 357 e segg.; e Alti Segreti; S. Giorgio, Contratti, anni 1548-50. (4) Ibidem. La fortuna del teatro francese in Genova nel 1700 Tra la maestà e il candore dei suoi marmi, con signorile grazia adagiata sui monti che le fanno corona, ricca di sorriso, cullata in eterno dalla canzone del mare, Genova settecentesca appariva, come quella d’oggi, avvolta di fulgida bellezza. Come allora, anche oggi, « La Su. perba » destava stupore e ammirazione per la sua magnificenza regale, mista alla grazia del suo sorriso; e, per quanto la Genova d’oggi abbia acquistato nuove meraviglie di civile decoro, forse quella settecentesca doveva superarla per quell’originale, pittorico colorito, che ora le manca. Da una parte era Albaro bellissima, tutta gemmata di palazzi regali, « dedalo delizioso di crosette, di viali, di' giardini, sdraiata dal colle fresco e fùlgido alla scogliera selvaggia e odorosa, sul mare azzurrino... ))f (1) dall’altra spiccava Sampierdarena che, all’opposto di quella d’oggi, rivaleggiava con Albaro per i suoi bellissimi e sontuosi edifìci e per le sue attrattive poetiche dovute alle bellezze idilliche dei suoi dintorni meravigliosi, dei giardini pieni di suoni e di colori. E a Genova accorsero, specialmente nel sec. XVIII, numerosi avventurieri, visitatori, stranieri, ch’essa accolse col più bello dei suoi sorrisi, non turbandosi, nè tralasciando per un solo attimo il ritmo affannoso e perenne del suo lavoro febbrile. Poiché Genova, come oggi, allora e sempre, non conobbe i! riposo, la calma, la serena e perfetta opulenza, ma fu sempre nervosa e dinamica, anche quando non ancora aveva inteso « l’ansito del motore e i febbrili sussulti della Borsa ». Ma a tutta prima, Genova, nel ’700, doveva apparire una città di divertimenti, di spensieratezza, poiché il lavoro costante e tenace dei suoi figli più umili, era dissimulato dall’allegra dissipazione di una nobiltà ricca, gaudente, che costituiva la parte dominante dello Stato e che degli avi antichi, anziché la gloria e il valore, conservava soltanto il nome. Questa nobiltà frivola e leggera di ben altre cose si occupava che del prosperare economico, morale, politico della repubblica. Le uniche sue preoccupazioni eran quelle di frequentare gli eleganti salotti, ove con (1> Amedeo Pescio - Settecento Genovese - Pag. 112. 14 Giannina Gnecco grazia studiata si cinguettava l’idioma gallico, ormai divenuto in quegli ambienti lingua comune; eran quelle di accompagnare leggiadre donnine a far gita sui colli o sul mare, quelle di osservare la moda, di frequentare le feste, di riposare mollemente nei soggiorni deliziosi delle proprie ville. Una gran parte della società genovese, la più attiva e intraprendente, era composta dalla borghesia che, avendo aperta la via del commercio e delle industrie, si era venuta man mano formando ed elevando. Questa classe si era indubbiamente resa benemerita alla nazione, per aver saputo rimediare in parte alla rovinosa decadenza commerciale, e per aver dato quei pochi uomini d’ingegno, i quali, colla loro capacità ed intelligenza, riuscirono in quel tempo a dar luce di gloria al nome genovese. E tra questi gloriosi nomi è quello di un poeta: C. I. Frugoni, quello di un celebre linguista: il Lagomarsino, di astronomi e giureconsulti^ come il Guerra e il Corvetto. Ma « più che nella nobiltà, più che nella borghesia, scrive il Pan-diani, lo spirito e l’energia della stiipe, si mantennero vigorosi nella plebe », la quale, non più interamente rozza ed inetta, come lo era stata nel ’600, aveva acquistato coscienza di forza, ardore di lotta, specialmente dopo la radiosa rivoluzione del 1746, da cui trasse nuova vitalità, giovinezza e ardore. E il formarsi in questo popolo di quella coscienza e di quel sentimento nazionale ci deve sembrare tanto più meraviglioso se pensiamo alla vita gretta e limitata che conducevano i Genovesi di allora, i quali avevano saputo adattarsi alle condizioni dei tempi, contenti del poco guadagno e amanti del quiete vivere. I numerosi visitatori stranieri, che Genova ospitò nel sec. XVIII, furono in masima parte francesi, a cominciare da Carlo De Brosses, presidente del Parlamento di Digione, e via via al Lalande, al Chevrier, al Goudar, al Richelieu, al Rousseau. Ma da tutti costoro che Genova accolse con simpatia e con entusiasmo, non fu ricompensata quanto meritava: alcuni di essi, immemori, lasciarono per lei scritti mordaci, invidiosi, pungenti. Sarebbe interessante raccogliere in una sintesi ordinata le diverse impressioni e considerazioni che furono scritte dai numerosi visitatori stranieri, riguardo alla « Superba ». Ciò che più li colpisce è la mancanza ch’essi riscontrano nella città di un’applicazione seria ed entusiasta alle lettere e alle arti. Nelle loro considerazioni fanno quindi risaltare come Genova, immersa unicamente nella febbre dei traffici e nel fiorire dell’industria, non possegga menti capaci di produrre opere di qualche pregio, onde lasciare una prova dell’attività artistica e letteraria genovese di quel secolo. E vediamo infatti come il De Brosses scriva con una sottile punta La Fortuna del Teatro Francese in Genova nel 1700 15 di ironia: « Per farla da saccenti, andiamo in cerca di uomini dotti: nulla. Non è questo il paese; i « mercanti » non trovano gusto in simili quisquilie. E infatti di lettere non conoscono che la lettura di lettere... di cambi, delle quali fanno il più grande commercio dell’universo...». Un denigratore del popolo e dell’ambiente genovese di quell’epoca fu Francesco Antonio Chevrier, il quale « vide Genova cogli occhi dell’arroganza e dei nostri cari alleati d’oltre Alpe, durante la guerra coll’Austria! » Di Genova invece è entusiasta, per quanto non dica molto bene dei Genovesi, il presidente Carlo Margherita Giovanni Battista Mercier, il quale, riferendosi alla Superba scrive: « Je suis ébloui, étourdi, ravi, je ne sais ce que je suis ». Ospiti francesi di Genova settecentesca furono ancora il Richelieu, il Lalande, il Sain-Germain, il duca di Beaufleurs Carlo Luigi Augusto Fouquet, duca di Belle-Isle e maresciallo di Francia, il Semouville, ambasciatore francesi a Genova. E a tutti questi dovremmo aggiungere i numerosi visitatori italiani come l’Alfìeri, il Goldoni, il Baretti, il Casanova e altri, tutti accorsi ad ammirare il marmoreo splendore della « Superba » e a goderne la carezza amica, il sorriso franco, sincero e grande. Ma all’affermazione fatta dal De Brosses ed a quella non meno offen. siva del signor G. G. Vou Archenhafler, capitano al servizio della Prussia. il quale, giunto a Genova verso la fine del ’700, afferma che « non è un’offesa domandare ad un Genovese se capisce l’italiano » mi sembra opportuno far osservare che si potrebbe dimostrare con fatti e prove alla mano, che, se Genova non si dedicò soverchiamente alle lettere e alle arti, pure in essa non mancarono, sia in questo periodo di tempo che in altri precedenti, coloro che sognarono ideali di bellezza artistica e di perfezione letteraria, coloro che ricercarono, tradussero, scrissero, lavorarono con mente illuminata e con spirito commosso. Poiché tra quella nobiltà corrotta e frivola a cui precedentemente accennai, tra la borghesia trafficante e « palancala », v’erano tuttavia nobilissime eccezioni di vivaci indegni, di menti aperte alle nuove idee, alle nuove correnti diffuse dai filosofi di Inghilterra e di Francia; menti ed ingegni che combattevano la meschinità e la bassezza dei loro contemporanei, « la cieca idolatria dei privilegi antiquati, la scarsa fiducia nelle virtù della plebe ». A tutti questi intrusi e malevoli, che sparlarono di Genova e dei suoi abitanti, si potrebbero citare numerosi nomi di letterati, di poeti e di artisti, tra cui quella graziosissima pletora di Arcadi, i quali, imitando il maestro loro, Carlo Innocenzo Frugoni, composero versi ohe 16 Giannina Gnecco certamente non hanno eccessivo valore artistico, ma che sono pur sempre lodevoli tentativi degni di ammirazione. E tra questi ricordo Paolo Antonio Dì Negro, il Figaro, il Pastorino, il Casaregis, il De Franchi, e altri compositori di rime gentili, scritte per esaltare le bellezze del loro suolo, pieno di seduzione e di incanto. Altri eletti ingegni si distinsero nelle scienze, nelle arti, nella filosofìa, nelPastronomia, quali Paris Saivago, Ambrogio Multedo, Agostino Lomellino, il metereologo Franzoni, e persino la signora Clelia Durazzo Grimaldi, esimia cultrice di studi botanici. Proprio a Genova il marchese Giacomo Filippo Durazzo radunava in casa sua, a nobilissimo cenacolo, uomini illustri e dotti, per formare un’accademia letterario-artistica, proponendosi audacemente « di ridestare il pensiero ». E’ interessante inoltre far rilevare come la fondazione delFUniversità Genovese risalga al sec. XVIII e precisamente all’an-no 1773. Da quanto si è detto si può concludere che questa parte di secolo così infamata e compianta non è stata « il monumento dell’ignoranza, dell’inerzia, dell’oscurantismo tenace » come qualcuno erroneamente afferma; giacché, malgrado la fiacchezza predominante, e l’indolenza propria del secolo, si elevarono scintille di vita, ardori di fede, nobilissimi entusiasmi, che soli bastano a cancellare e a distruggere ogni mal fondato pregiudizio, ogni maligno apprezzamento sulla vita intellettuale genovese del sec. XVIII. E poi (mi si permetta la parentesi) se la magagna di un secolo, se l’incoscienza e la corruzione di una classe patrizia, se la decadenza generale di un dato periodo, giustificata da condizioni storiche particolari, avevano circondato Genova settecentesca di così spregevole giudizio, di cosi mordaci apprezzamenti, tutto questo non vale affatto a pregiudicare ciò che fu la vita, l’idealità, il sogno grandioso di un popolo. E questo popolo di lavoratori instancabili, di forti spiriti pazienti, ma capaci di diventare ribelli quando la coscienza del servaggio odioso lo richieda, questo popolo sublime nei tumulti, instancabile nei traffici, tenace nelle imprese, non solamente avido di guadagno, non solamente preoccupato e chiuso nelle speculazioni e nei traffici, come fu ed è sempre tacciato, seppe però brillare più volte, e con bagliori possenti della luce sublime che illumina i più grandi ideali. Non il lavoro febbrile delle sue officine, non il traffico dei suoi porti, non le occupazioni più umili eran quelle che limitavano la linea indistinta del suo orizzonte. Il secolo XVIII, così vilipeso, schernito, così pieno di errori, di colpe, di debolezze, ha in sè l’esempio più bello dell’ebbrezza di un popolo che sogna la libertà e la ottiene col sangue. E da un fanciullo, anch’esso figlio di popolo, di quel popolo misero che, ignorato e paziente, vive nell’ombra oscura dei vicoli, nella miseria La Fortuna del Teatro Francese in Genova nel 1700 17 dei suoi cenci, parte la scintilla provocatrice, lanciata col fulgore di un sorriso, con l’eroismo di un gesto. « Che â l’inse? ». E il sasso passò fischiando, mentre un popolo raccolto,, fremente di sdegno, smanioso di luce liberatrice, si ribellava per volontà sua, per sogno suo, per eroismo, suo, con una pioggia' di sassi, sotto un grigio cielo di dicembre. Perchè Genova fu grande sempre, anche nei periodi più dolorosi della sua storia; l’anima della sua gente orgogliosa non si fossilizzò nel ritmo immutabile del lavoro, nel dinamismo pedestre, di una vita priva di idealità e di sogno. Chiusa la parentesi, ritorniamo alle nostre considerazioni sulla produzione artistica letteraria genovese del sec. XVIII. Questa produzione doveva necessariamente seguire una corrente preponderante, e modellarsi alle sue esigenze e ai suoi gusti. E la corrente che a Genova nel sec. XVIII, massimamente prevalse fu quella che giungeva e s’imponeva dalla vicina Francia. La moda francese si insinuava in ogni manifestazione, in ogni usanza, nei teatri come nelle mode, nelle tendenze artistiche come nell’arte culinaria, (ricordiamo che in quel tempo s’introdusse in Genova la moda del pane piccolo alla francese), nei capricci, nelle pose, nei desideri, nelle aspirazioni, in ogni cosa. Già accennammo come il gallico idioma fosse usato dalla nobiltà genovese a preferenza dell’italiano nostro. Il cinguettio scherzoso nei salotti eleganti era deliziosamente gallico, così come l’ardore e il ritmo delle danze, l’entusiasmo dei giochi, la foggia degli abiti, le puntine delle scarpette, il sorriso delle piccole bocche...; e tutto si faceva con una certa posa ingenua, bambina, civettuola, con una certa indifferenza ostentata che degenerava naturalmente nel ridicolo. I ’uso poi ormai diffusissimo del cicisbeismo, vergognosa piaga sociale, indice di maggior corruzione e decadenza, si deve pure all’imper-versare sfrenato dei licenziosi costumi francesi. I volumi del P. Levati sulle « Vite dei Dcgi » offrono una preziosa raccolta di documenti, i quali ci permettono di affermare che la moda francese era a Genova diffusa in ogni cosa, anche la più trascurabile e insignificante. « Già da alcuni anni — egli scrive — anche in Genova, dalla vicina e corrotta Francia, si era diffuso gradatamente il mal costume sotto la parvenza di gentilezza e di educazione; basti l’accennare alla turpe usanza del cicisbeato. Ora questo non si accontentava solo delle sale, dei teatri, delle veglie, ma invadeva anche le chiese...». Francese era persino l’uso dei paggi e degli staffieri; servi che si 18 Giannina Gnecco facevano venire da Parigi per prestare servizio alle nobili famiglie. Francesi erano quei giovani in livrea che, sostituendo i « bravi » diffusi precedentemente in Italia durante il periodo di preponderanza spagnola, accompagnavano i nobili alle passeggiate, alle visite, alle feste, « Alla boria spagnuola — scrive il Levati — era succeduta la galanteria francese ». La Superba, attratta dunque dallo splendore fosforescente che emanava da Parigi, si vestiva alla francese, cucinava alla francese, sorrideva, parlava, gestiva alla francese, leggeva libri francesi, frequentava il teatro francese. Bastava che un Francese venisse da Parigi e aprisse una sala di conversazione, perchè ad essa accorressero numerosi i frequentatori genovesi, per imbeversi dei suoi costumi, dei suoi atteggiamenti e persino dei suoi pensieri. Ala non soltanto le esteriori manifestazioni della vita genovese erano imbevute di gallicismo; anche intellettualmente Genova volle imitare la vicina Francia, modellandosi alle sue teorie, ai suoi pensieri, alla sua letteratura. Osserva infatti il P. Levati come Genova, svestendosi a poco a poco del vecchio modo di pensare e di agire, si rivestisse alla moderna, orientandosi tutta verso la Francia, per slanciarsi di gran galoppo alle idee nuove che in essa prendevano vita. Andava man mano affievolendosi lo spirito religioso, e dilagava invece una \Tergognosa licenza di costumi e di libertà di pensiero. I libri francesi andavano a ruba, ed erano letti con vivo interesse, giacché « l’uno era più appetitoso dell’altro ». E per quanto il governo della Serenissima cercasse di impedire la vendita di questi libri, pure essi comparivano dappertutto,, invadevano le case e gli spiritii Naturalmente questo influsso francese doveva farsi sentire anche nel teatro genovese, il quale infatti, in quest’epoca, nulla, o quasi nulla offrì di originale, di proprio: molto attinse dal qì fuori, e specialmente dalla Francia, pur mantenendo qualche imitazione ed usanza spagnola. Del resto le condizioni del teatro genovese, nel ’700 non sono altro che le condizioni dei teatro di tutta quanta l’Italia nella prima metà del secolo: esso mancava di una anteriore, robusta tradizione drammatica a cui riferirsi e informarsi. II Voltaire, col suo ghigno beffardo, diceva: « I bei teatri sono d’Italia, ma i bei drammi sono francesi ». E aveva ragione. Non si componeva, non iùì dava vita; si racimolava, si traduceva, si raffazzonava più o meno freddamente, con maggiore o minore contributo personale, a seconda della capacità spirituale ed intellettuale dei traduttori e degli imitatori. E così a Genova come in tutta l’Italia, il teatro ha non solo colorito francese, ma è francese pure nella forma, nell’esteriorità materiale in quanto che non si imita soltanto, ma si recitano drammi, commedie francesi, in lingua francese e da artisti francesi. A Genova quest’influsso gallico doveva manifestarsi più che in ogni La Fortuna del Teatro Francese in Genova nel 1700 19 altra città d’Italia per molteplici ragioni, oltre a quelle comuni a tutta la penisola, quali la mancanza di una tradizione drammatica, la scarsezza di menti capaci di una produzione individuale, di un contributo caratteristico e non servile, la gallomania invadente più o meno in tutta l’Italia, il fascino che il teatro francese (il quale nel sec. XVII già aveva raggiunto l’apogeo della sua gloria) doveva necessariamente esercitare sugli spiriti tutti. Inoltre, se l’Italia mancava di una vera tradizione drammatica, malgrado i tentativi più o meno gloriosi che precedettero il settecento, il tea_ tro genovese nei secoli anteriori al XVIII nulla poteva vantare degno di nota. E se in tutta l’Italia mancarono menti capaci di creazione robusta, per quella impotenza e mollezza caratteristica della prima metà del secolo, a Genova specialmente, questa mancanza doveva sentirsi più profonda e inevitabile; a Genova, dove la febbre del lavoro, dell’industria e dei commerci pervadeva gli spiriti in modo particolare e caratteristico, febbre incessante, lodevole, la quale però non permetteva alla maggior parte della popolazione di dedicarsi ad occupazioni che non fossero materiate di praticità o di immediato interesse. Sarà inutile quindi ripetere che la mancanza di ogni contributo letterario e particolarmente drammatico in Genova è la conseguenza ineluttabile della trascuratezza in cui erano lasciate le lettere e le arti. Non vi è quindi alcuna produzione caratteristica, alcuna mente capace di portare un contributo nuovo, originale, spontaneo, modellato al colorito regionale, all’ambiente paesano che si sarebbe così felicemente prestato ad una produzione comica di forza irresistibile. Ma Genova non ha tempo; segue con attività il traffico dei suoi scali, il rigoglio del suo commercio e rifugge dalla serenità riposante, dagli « spregiati ozi letterari ». E quei pochi che tentano, non hanno tutti capacità intellettuale sufficiente per colorire la loro produzione di vita e di colore proprio. Per tutte queste ragioni a cui aggiungiamo quella non meno importante della vicinanza di Genova alla Francia, colla quale aveva frequenti comunicazioni, il teatro genovese doveva necessariamente sentire Fin-flusso della produzione drammatica francese. Prima però di studiare in modo particolare le vicende di questo teatro noi sec. XVITI, torniamo un po’ indietro, per ricostruirne le sorti precedenti il 1700. Nell’età medioevale ai Genovesi non mancarono rappresentazioni religiose: figure, vangeli, misteri, esempi; coltivate con ardore e con entusiasmo in tutta Italia durante il Medio Evo. Il più antico dei commediografi genovesi fu il Del Carretto, che, secondo l’affermazione dello 20 Giannina Gnecco Zilioìi, scrisse nel 1449 circa, una tragedia, « Sofonista » e lina commedia, « II tempio d’Amore ». In quest’epoca però, i teatri e gli spettacoli serbavano un carattere quasi privato, « onde goderne e procurarseli era dato in specie ai prediletti della fortuna ». Ma già nel 1567 si costituiva in Genova una « societas simul recitandi comoedias ». Tra le compagnie teatrali famose a quell’epoca, notiamo quella diretta da Francesco Andreini, salita in gran fama in Italia ed in Francia, la quale recitò pure a Savona alla presenza di Gabriello Chiabrera. Ma questi trattenimenti, anziché da comici di professione, venivano in massima parte apprestati da gentiluomini, ordinati in Accademie, ά i quali dell’arte di recitare facevan loro diletto ». Una di queste Accademie, quella degli « Annuvolati », recitò in Genova nel carnevale del 1642 « Il fazzoletto », commedia del genovese Francesco Maria Marini, nel palazzo Reale, sotto il Doge Gio Agostino De Mari. col. 647. (12) Genova, cit., col. 708: nè far fuoco in vie pubbliche. (13) Casale, cit., col. 1010: non possono comprar pesci, se non tanti per 10 soldi pavesi al giorno, pena 10 soldi pavesi, (14) Savona, Statuti del 1345, f. 28 a — Genova, cit., col. 506: devono anche tepere l’occorrente per ferrare i cavalli, 34 M. Vicino Paoanoni scono una mercede diurna e notturna; devono tenere misure giuste e legali segnate col marco del Comune, per misurare l’avena agli animali; non possono fare pane da dare agli ospiti, senza licenza del gabellotto dei forni; devono di notte o di giorno aprire la porta alle persone e sei-virle a dovere, sotto pena da 10 a 100 soldi. Gli ufficiali c gli accompagnatori del Podestà hanno alloggio gratuito. Arte dei Macellai (1) . I macellai giurano (2) di vendere a seconda dello Statuto di lor arte, di non alterare i prezzi di vendita (3). Non possono vendere un genere di carne per un altro (4) , nè vendere carne troppo fresca (5) ; le bestie devonsi macellare nei propri macel- li, dai padroni stessi (6), pena soldi 4 per ogni vacca o bue, e pena 20 soldi per altri animali macellati in altro luogo. Devono inoltre vendere tutti i giorni, eccetto il venerdì carne sana e buona, specie per gli ammalati (7). E’ prescritta scrupolosa pulizia nel macello, e vietato di conservar visceri, sangue o altro degli animali uccisi, pena cinque soldi (8). (1) Savona, Statuti del 1404, f. 99 a e 100 a. (2) Savona, Statuti deL 1345, f. 32 a: pagano una cauzione di 100 soldi genovesi — Levanto, cit., f. 88: pagano al Comune una tassa che varia secondo la qualità della bestia uccisa. (3) Savona, Statuti del 1345, f. 32 a — Nizzas cit., col. 71 e 7G — Albisola, cit., b. VI, 27, cap. 35, pag. 70 — Chieri, cit., cap. CXTJII, p. 47 — Villafranca, cit., cup. 68, pag. 99 — Casale, cit., col. 1017 — Ivrea, cit., col. 1146. (4) Cosio, Mendatica, Montegrosso, cit., pag. 68 — Levanto cit., Γ. 20 Celle, Albisola, Varazze, dit., f. 11 a: il prezzo è un soldo alla libbra; chi contravviene paga cinque soldi genovesi di multa in moneta savonese; f. 19 b: e devono avere· giuste bi-lancie, pena cinque soldi genovesi in moneta savonese — Albisola, cit., b VI, 27 cap. 35. pag. 70 — Casale, cit., col. 1013: e dà la taiiiTa dei prezzi. (5) Savona, Statuti del 1345, f. 32 a — Finale, cit., p. 28«, cap 69 — Finaro, cit., * pag. 152 — Levanto, cit., fi*. 19, 20 — Nizza, cit., sol. 76, 79 e cnl- 196 — Alba Pompeia, cit. col. 37 — Genova, cit., colt 709, 710 r 711 — Albisola, cit., b. XI, 27, cap. 35, pag. 70 — Villafranca, cit., p. 97, cap 60 e 64 — Chieri, cit., cap. CXLIII, pag. 17 Ivrea, cit., col. 1146 — Moncalieri, cit., col. 1393 — Torino, cit., col. 678, 679: ni* vendere fuori del proprio macello. (6) Genova, cit., col. 582: non devono portar fuori del macello la carne da vendersi — idem, cit., col. 709: nò « macellarii dent carnes minoris ponderis ■ — Casale, cit., col. 1016. (7) Levanto, cit., f. 20 — Nizza, cit., col. 19 — Casale, cit., col. 1016 — Moncalieri, cil , col. 1393. (8) Savona, Statuti del 1345, f. 32 b — Nizza, cit., col. 71 — Finaro, cit., pag. 153, 154 — Cosio, Mendolico, Montegrosso, cit. pag. 68 — Levanto, cM., f. 20 — Nizza, cit., col. 197: idem a Finale — Finale, cit., cap. 53, p. 283: non gonfiar carni — Celle, cit., f. 8 b: chi vende carne infetta è punito in soldi sei genovesi in moneta Savonese — Albisola, cit., b. VI, 27, cap. 35, pag. 70 — Villafranca, cit., cap. 61, 69, pag. 98: come a Finale — Chieri, cit., cap. CXLIV, pag. 17 — Casale, cit.. col. 1016: — a Villafranca — Torino, dit., col. 678-679: = Villafranca — Moncalieri, cit., col. 1393: come a Villafranca — Casale, cit., col. 1014: — Ivrea, cit., col. 1146; — a Villafranca. Statuta Saone nel 1404-1405 I Ministrali del Comune investigano che tutto ciò sia osservato dai macellai (1). Arte dei Pellipari (2). I pellipari (3) giurano di lavorare e custodire ogni sorta di pelli a dovere (4). Tanto i maestri che i discepoli non devono scaricare immondizie in vie pubbliche non « furare », sbattere, stendere ogni sorta di pelli; pena venti soldi (5). Tre Tarezatori, un pelliparo, alternativamente, durano in carica un anno e hanno il compito di taresare a dovere le pelli col salario di un soldo e sei denari per ogni cento pelli. Arte dei Pignattari (6). I figuli, i pignattari giurano di far bene le pignatte e altro e di venderle al giusto prezzo (7). Non possono tenere fornace dentro le mura della Citta, pena lire 25 e la distruzione della fornace. Arte dei Pescatori (8). I padroni di reti, i pescatori (9), i venditori di pesci giurano (10) di obbedire allo statuto, pagano al Comune una tassa da venticinque a quaranta lire (11). I pesci devono essere portati alla pescheria, e venduti quindi dal compratore e dalla Gabella (1) Savona, Statuti del 13-15, f. 32 b — Albisola, 1). VI, 27, cap. 35, pag. 70 — Levanto, cit., f. 20 — Nizzat cit., ooL 202 — Finale, cit., cap. 69, pag. 69: devono appendere a chiodi fuor della bottega le pelli degli animali uccisi — Moncalieri, cit., col. 1494 — Chieri, cit.5 pag. 48, cap. 1147: e neanche buttare visceri e sangue nella via o nella piazza, pena due soldi — Torino, cit., col, 678: i macellai non devono buttar carni piitride ed altro nelle vie pubbliche — idem, cit., col. 680: non si deve tenere nel macello sangue e visceri degli animali. (2) Savona, Statuti del 1345 f. 32 b — Levanto, cit., f. 20 — Genova, cit., col. 709: i rettori dell’arte sorvegliano i macellai per le misure e per la carne — Ivrea, cit., col. 1147: tre Sapienti sorvegliano i macellai, le loro misure, i pesi, i prezzi di vendita, già da essi imposti. (3j Savona, Statuti del 1404, f. 100 b. (4) Albenga, cit., pag. 106: non possono formare degli statuti tra loro; se ne hanno fatti sono cancellati e tenuti in nessun valore. (5j Albenga, cit., pag. 106. (6) Albenga, cit., pag. 108 — Genova, cit., col. 600 — Villafranca, cit., cap 261, pag. 146 — Torino, cit., col. 700 — li iella, cit., pag. 356, n. 135 — Casale, cit-3 col. 1033. (7) Savona, Statuti del 1404, 1'. 1001 b. (8\ Savona, Statuti del 1345, f. 32 a: dà i prezzi dei vari recipienti — Levanto, cit., ίΤ. 124, 127 — Casale, c.it, col. 119 — Ivrea, cit., col. 1255. (9) Savona. Statuti del 1404, f. 102 a. (10) Levanto, cit., f. 19: i pescatori non possono pescare di notte dal mese di luglio sino a ottobre. (11) Savona, Statuti del 1345, f. 33 a — Albenga, cit., pag. Ili — Chieri, cit., cap. CGXVII, pag. 69 — Moncalieri. col. 1398: non possono portar pesci fuor di Moncalieri, nò venderli ad un estraneo che li vada a rivendere a sua volta fuori Monca-calieri, pena la multa di 20 soldi e la perdita della merce. I 36 M. Vicino Paoanonî a seconda della qualità (1) ; si può importare in città, ma lo si deve vendere sulla piazza della pescheria (2) al prezzo stabilito dal gabellotto; se si vuole rivendere per proprio conto per la Città, deve pagare una gabella al gabellotto (3). Nessuno può tenere una « coceria » di pesci fuori Città o in altri luoghi, pena lire 10 e la licenza di esercizio .fuori città (4). Arte dei Mugnai (5) . I molendinari conducenti il mulino sia in città che in distretto, giurano (6) di macinare bene il granone, non (1) Savona, cit., del 1345, f. 33 b — Levatilo, cit., IV. 18, 19 — Albengaf cit., pag. 112 — Diano, cit., cap 129, pag. 117 — Finaro, c.t., p. 150 — Finale, cit., cap. 08, pagg. 2S5, 280: i pesci devonsi portare al Borgo — Villafranca, cit., cap. 71, 74, p. 9·9 — Moncalieri, cit., col. 1398 — Casale, cit., col. 1009, il pesce e la selvaggina devesi vendere sulla piazza — idem, cit.. col. 082: sono puniti i pescatori o rivenditori di pesci, che li vendano o li comprano per rivenderli e li esportano da Torino Invece che portarli alla pescheria — Torino, c»t., col. 083: sono puniti i pescatori torinesi che comprano pesci dagli estranei oppure li fanno vendere da estranei — Torino, cit., col. 684: non si può esportare i pesci da Torino se prima non sono « distratos » nella pescheria del Comune. (2) Levanto, cit., 1Γ. 18, 19 — Finaro, cit., pag. 155 — Diano, cit., lib. IV, cap. 9 — Nizza, cit., col. 197 — Nizza, cit., col. 198: devesi portare il pesce alla villa superiore come di solito, e venderlo, pena 10 soldi chi non lo abbia portato; tanto per i nizzardi, quanto per gli estranei — Albenga, pag. 112 — Celle, Albisola, Varazze, cit., f. 6 b : i pescatori di Celle devono vendere il pesce a chiunque di Celle e sono obbligati a vendere la quarta parte di ogni « assallae » dei pesci presi, e anche più, secondo l’arbitrio dei Minestrali — Chierit cit.s pag. 70, cap. CCXYII e CCXV111. (3) Levanto, IT. 18, 19: deve rivenderli al prezzo stabilito dal gabelotto — Diano, cap. 129, pag. 118 — Albisola, cit.^ VI, 27, cap. XXVIII, pag. 32: i pescatori di Albisola devono vendere il pesce a chiunque e il prezzo è di due denari alla libbra lino a 8, pena 10 soldi genovesi a chi chiede di più — Celle, Varazze, Albisola, cit., f. 0 b: il prezzo deve essere di un denaro in monetù Savonese, per ogni libbra, per pesci di infima qualità, i migliori si vendono a 3 denari per libbra, fino a sei nei giorni di carne, mentre nei giorni di quaresima il prezzo aumenta. Chi contravveniene è punito in soldi 5 di multa. Se i pescatori di Celle vogliono vendere la retata di pesci in grosso, mentre qualcuno ne vuole una parte, sono obbligati a vendergliela lo stesso. I pesci devono essere venduti solo quando sono tratti in terra, pena 3 lire ogni volta che fanno altrimenti — Torino, cit., col. 681: sono puniti i venditori di pesci se alterano i prezzi stabiliti. (4) Spotorno, cit., n. 22, f. 5 m. i Ministrali sorvegliano i pescatori, acciocché il pesce pescato in Spotorno venga venduto nel Comune stesso e al prezzo stabilito — Noli, cit., f. 14 b: i Ministrali sorvegliano che i pescivendoli portino .1 pesci In pescheria, e li vendano secondo lo statuto, pena da 10 a sessanta soldi. Nessun pescatore può essere eletto Ministrale — Celle, cit., f. 8 a : chi osa mettere le inani su di una rete tratta fuori dal nuire è multato di 5 soldi Savonesi. (5) Savona, cit., del 1404, f. 102 b, 103 b. (6) Savona, cii.t del 1345, f. 35 a — Nizza, cit., col. 70 — Albenga, cit., png. 88 — Carpasio, cit., f. VI, 27, cap. II. pag. 456 — Celle, Varazze, Albisola, cit., f. 28 b. Statuta Saone nel 1404-1405 37 rubarne (1) e consumarlo a dovere (2) . Il giuramento è prescritto, pena 20 soldi. Devono prendere il grano dalla casa del proprietario, portarlo al mulino, pesarlo prima e dopo macinato (3) , quindi riportarlo a casa del padrone (4). Devono tenere i sacchi di grano e di farina su dei tavolati (5), alti un palmo da terra lunghi e larghi otto palmi, pena da 10 a 100 soldi. Per ovviare a frodi sono prescritte misure della capacità di otto rotoli di farina, pena dieci soldi se non le usano e cento soldi se non sono giuste (6). Due buoni uomini ne investigano l’operato (7) e non devono partecipare in nulla con i mugnai, nè esserlo loro stessi. Per l’arginamento e la disciplina delle acque dal mulino di Lava-gnola (8) al Distretto di Savona gli Anziani nominano annualmente 4 (1) Carpasioj cit., pag. 223, cap. 19, 20, 21 — Diano, cit., pagg. 108, 109, cap, 113 — Aizza, cit., col. 70 — Albenga, cit., paggi 87, 88: circa il prezzo di macinatura — Cosio, Mendalieu, Montegrosso, pag. 88: il mugnaio non deve macinare il grano contro la volontà del padrone, pena 8 soldi genovesi — Albisola, pag. 45 b: il prezzo di molatura ò La quarta parte del frumento macinato — Celle, Varazze, Albisola, f. 28 h: chi tiene mulino deve prendere per la macinatura la ventiquattresima parte dei frumento macinato, chi ne prende di più è punito con 10 soldi genovesi in moneta savonese — Nizza, cit., coi. 70 — Villafranca, cit., cap. 18, pag. 91 — Ivrea, cit., col. 1135 — Moncalieri, cit., col. 1383 — Casale, cit., col. 1057: devesi macinare il primo grano che è portato al mulino — Iiiella, cit., p. 380, n. 257: circa il prezzo di molatura — Chieri, cit., pag. 92, cap. CCXCV, pag. 92: uguale a Biplla — Torino, cit., col. 551, (574: percepiscono la quattordicesima parte di un sestario per ogni macinatura. (2) Albenga, cit., pag. 89: non mescolare alla farina della arena o pietre o altro — Diano, cit., cap. 115, pag. 109: se ,i mugnai mescolano della calce alla farina soli punici in 10 soldi; se la mescolanza è fatta da chi trasporta la farina a casa del padrone, è fustigato — Genova, cit., col. 723, 721 — Cosio, Mendalica, Montegrosso, cit., col. 1135. (3) Albenga, cit., pag. 87 — Levanto, cit., f. 29 — Nizza, cit., col. 70 — Diano, cit. '•ap. 113, pag. 109: i mugnai pesano la farina prima di riportarla al padrone, allineile non possa rubarne, e se il portatore lo la viene punito in soldi 10, se non può pagare è fustigato Genova, cit., col. 723, 721 — Cosio, Mendalica, Montegrosso, cit., pag. 07. (4) Genova, cit., f. 35 b. del 1345; vi sono portatori di grano che giurano di non defraudare il grano « la farina che portano al inuLino o a casa del padrone — Genova, cit., col. 724: · Infra que tempora molendinarii reportente grano recepto farinam ad domine » — Albenga, cit., pag. 88 — Nizza, cit., col. 71. (5) Savona, cit., del 13^5, f. 35 a — binale, cit., cap. 70, pag. 280 — Celle, cit., f. 28 b — Villafranca, cit., cap. 50-51, pag. 95. (6) Savona, cit., del 1345, f. 35 a — Finale, cit., cap 70, pag. 28G — Levatilo, cit., f. 29 — Albisola, cit., b. VI, 27, cap. II, pag. 45: i mugnai che hanno mulini nel tei ritorio di Albisola devono usare giuste misure e bilance pena dieci soldi genovesi di multa — Ivrea, cit. col. 1135. (7) Levanto, cit.. f. 8 b — Albenga, cit., pagg. 40, 90: 4 gli « stanciatores ». sorvegliano i mugnai — Casale, cit., col. 1058: î mugnai sono sorvegliati dai propri Consoli della riva del Po — Torino, cit., col. 074: il massaro dei mugnai sorveglia il loro operato con facoltà di punire e percuotere i colpevoli — Moncalieri, col. 1382: quattro custodi sorvegliano I mugnai. (g) Savona, cit., del 1404, f. 140 b — Savona, cit., del 1345, f. 36 a. 38 |M. Vicino Paganonî Ufficiali con ampia balia di esaminare le terre in detta località, e deviare le acque a seconda dei mulini stabilendone le relative tasse a seconda della quantità di acqua. Costoro si 'servono del provento delle tasse, per pagare gli uomini addetti ai lavori, la rimanenza è devoluta al Comune. Gli Ufficiali rimangono in carica dal giugno al settembre. Arte dei Fornai (1) ·. I fornai di ambo i sessi giurano di fare e di cuocere bene il pane, i biscotti ed altro (2) ; devono far portare il pane cotto alle singole case, disposto su tavole, e per ogni mina di pane o di frumento percepiscono 4 soldi (3). Chi ne altera il prezzo (4)} e lo lac-cia cuocere in giorni festivi, viene colpito con multa da 5 a 20 soldi. 1 fornai che sono anche venditori al minuto devono esporne una parte in vetrina (5) ; il pane deve essere fatto con acqua pulita, presa dal pozzo situato in piazza Erbe; in abbondanza e quello rimasto in giornata, deve esser esposto in vetrina. Prescritto il peso (6) imposto dallo Statuto dell’arte, pena soldi cinque e se malcotto o malfatto (7) , pena da 10 a 100 soldi. 11 fornaio non può comprare più di due mine di grano da oltre Giovo, pena un fiorino per ogni mina di più comprata (8). Arte dei Barbieri (9). I barbitonsori giurano di esercitare con buo- (1) Savona, cit., (lei 1345, f. 103, 1), 104 b. (2) Savona, cit., del 1345, 1‘. 30 1) — Diano, cit., cap. XXIV, p. 53 — Albenga, cit. pag. 109 — Cai'pasio, cit. cap. XXVI, pag. 224: chi porta pane al forno per farlo cuocere, in presenza di un testimonio deve enumerare i pani da cuocersi, affinchè gli vengano poi tutti restituiti — Levanto, cit., ff. 21, 22 — Nizza, cit., col. 70, 71 — Finale, cit., cap. 71, pagg. 151, 152 — Spotorno, cit., n. 22. f. 3 a: sui panettieri vegliano i Minestrali — Torino, cit., col. 075 — Villafranca, cit., pagg. 95, 96,*cap. 53, 54, 55 — Casale, cit., col. 1059 — Ivrea, cit., col. 1037. (3) Savona, cit., deL 1345, f. 30 b: percepiscono otto denari al quartino di pane che mandano alle case ma senza altro compenso — Genova, cit., col. 617; idem, col. 700: percepiscono sei denari per ogni miina di pan cotto — Torino, cit., col. 675: percepiscono sei denari viennesi — Ivreea, cit, col. 1137: sette imperiali per ogni sestario di frumento — Moncalieri, cit., col. 1385: percepiscono un « secusio » per ogni sestario di pane — Chieri, cit., cap. CCXV1V, pag. 924, due denari per sestario. (4) Diano, cit., cap. XXIV, p. 53: son puniti. (5) Chieri, cit., pag. 80: non si può esportare il pane, v. cap. CCXL. (6) Levanto, cit., pag. 21 — Nizza, cit., col. 198: e pena 10 soldi — Diano, cit., cap. XXIII, pag. 297 — Ivrea, cit., col. 1137 e (7) Casale, cit., col. 867: pena due denari —Ivrea, cit., col. 1137. (8) Diano, cit., cap. XXIV, pag. 53: i fornai possono far legna nei boschi di Diano ma non disboscare in luoghi chiusi. Non devono tenere legna dinanzi al forno della piazza di Colla ò nei pressi, pena 5 soldi di multa. L·’ stabilito che tanto il forno di Colla che quello di Mercato devono essere sempre nel Comune, vendere per il Comune e dal Comune essere posseduti. I Rasperiii sporaintendono alla manutenzione dei forni e sorvegliano l’operato dei fornai — Diano, cit., cap. XXXIV, pag. 298: tre giurati nominati dai Consoli o dai Gastaldi vegliano sui fornai — Diano, cit., cap. XXXV, pag. 298: il panettiere non deve vendere il pane se prima non sia visitato e pesato dai tre giurati, pena 20 soldi. (9) Savona, cit., del 1404, f. 105 a. Statuta Saone nel 1404-1405 39 lia fede la loro arte (1), di non lavorare in giorni festivi (2). Obbligatoria la denuncia al Magistrato del Comune di chi « medendum requisitus fuerit vulneratus », pena venti soldi (3). Arte dei Dasteri (4) . I Basteri giurano di esercitare la loro arte a dovere; non possono tenere « basta » in via pubblica, se non distante quattro palmi dalla loro bottega o casa pena cinque soldi. Arte dei Mulioni (5). I Mulioni, gli asinari c altri addetti a traspor. tar merci con carri, giurano di trasportare e conservare bene le merci sia vino, sia calce, sia mattoni (6), ecc.; non commettere nessun furto su di esse '(7) pena cinque soldi. I Mulioni (8) devon rispettare i termini del contratto che viene redatto d’accordo con l’imprenditore pena il doppio della mercede che percepiscono nei giorni in cui il lavoro deve esser fatto, decorrendo, la multa dal giorno in cui il carrettiere abbandona il lavoro, oltre ad una multa di venti soldi. Lo stesso impegno contratto durante il periodo delle vendemmie, se non è osservato, è punito con pena di 40 soldi ed al pagamento del danno recato al padrone di esso. Arte dei Bastaxij (9) . I « bastaxy » giurano di trasportare sulle spalle bene le merci e non defraudare e trasportarle a qualsiasi prezzo (10) , pena cinque soldi in caso di rifiuto. Per il trasporto di mine di frumento dal naviglio alla piazza, percepiscono trenta soldi, e più a seconda della distanza: per ogni cento file di cacio, pezze sei o otto per fila, portata dalla nave al magazzeno di 10 pezze di panno, 15 soldi. I Consoli devono al sabato far pulire la piazza Colombo, sotto una pena loro inflitta dai Ministrali. Arte degli Untori (li). Gli untori giurano di ungere e confezionare i corami con coscienza (12), non possono esercitar Parte in città, ma (1) Savonacit., del 1345, f. 10 b — Moncalieri, cit., col. 1255: il barbiere percepisce un pavese so tosa in casa propria, se va dal cliente, un imperiale. (2) Savona., cit., del 1345, f. 40 b: pena 10 soldi genovesi. (3) Questa frase fa pensare che i chirurgi sono uniti con i barbieri, sebbene nulla dica il titolo della rubrica. (4) Savona, cit., del 1404, Γ. 105 b. (5) Savona., cit., del 1404, f. 105 b. (6) Savona, cit., del 1345, f. 33 b. e dà un prezzo di ogni carrata che varia a seconda della merce caricata. (7) Savona, cit., del 1345, f. 33 b. (8) Savona, cit., del 1345, f. 33 b: non devono far legna nel bosco di Savona, per conto di altri; ma nei boschi di Cantagalletto. ecc. (9) Savona., cit., del 1404, f. 100 a, b. (10) Levanto, cït,, ff. 44, 45: idem e quando ci sono più navigli da scaricare il Magistrato dei lavoratori li divide a seconda della quantità di merce. Il lavoratore non può rifiutarsi al lavoro, altrimenti è cacciato dal Connine per 4 mesi. Se in detto tempo è tornato nel Comune, è preso e fustigato — Ivrea, cit., col. 11525 (11) Savona, cit., del 1404, ff. 107, 108. (12) Finaro, cit., pag. 141 — Genova, cit., col. 713: « ne unctores coram ina ungant de salacio vel raschiaturis ». 40 M. Vicino Paoanoni fuori le mura (1) , pena lire cinquanta. Vietato tenere appesi a pertiche e a fìnetre vestiti, pena venti soldi; nò stendere pelli sulla via pubblica (2), pena predetta; non possono mescolare pelli buone a cattive; i Consoli devono all’uopo vigilare. Non possono inoltre adoperare impunemente qualsiasi coria: devono adoperare coria spagnuola o altra coria grossa del peso di trentadue cantari per ogni cento corami da tingere e la devono sciogliere in « murta » (3), dopo averla tenuta per nove mesi continui prima di adoperarla (4) ; è obbligo denunziare ai Consoli il giorno in cui detta coria è messa nell* « affaxto » (5)* pena soldi 20. Ogni pelle cacciata nella concia, deve starvi tre mesi, prima di lavorarla, pena cinque soldi; è permesso fabbricare una conceria soltanto fuori delle mura e i calzolai devono tagliare bene i corami per le calzature. Il cattivo corame eventualmente acquistato deve essere denunziato pena lire cinque. Le multe devono essere pagate entro otto giorni; se i Consoli peccano di negligenza nel punire sono a loro volta puniti con cinque lire. Arte dei Calderai (6). I Calderai (7) separati dai ferrai, formano una corporazione a parte con propri Consoli e Ufficiali. Giurano al Podestà o ai Notai di non adoperare vasi guasti nè di comprar per sè o per altri oggetti dell’arte loro di provenienza sospetta, pena venti soldi 8). Possono lavorare il rame purché esso sia buono e non viziato, nè «. magagnato » (9) ; possono lavorare il ferro, ossia far manichi, martelli e simili utensili, per proprio conto, purché il ferro sia buono. Chi si iscrive deve pagare ai Massari dell’arte all’atto dell’iscrizione 40 soldi: possono quindi liberamente vendere, cambiare, barattare la loro merce per la città ed il distretto. Un calderaio, pattuite le condizioni con un maestro, 11011 può lasciare il lavoro se prima non ha finito il tempo stabilito dell’accordo, pena 40 soldi. Tutti i maestri calderai pagano, annualmente, ai Massari, soldi 4 ed ogni lavoratore o « famulus » che lavora a giornata o a mese paga invece due soldi. (1) Torino, cit., col. 700. (2) Albenga, pag. 107. (3) Albenga, cit., pag. 107, per 10 mesi. (4) Albenga, cit., pag. 107: gli stanciatori devono denunziare a un cancelliere del Comune, il giorno in cui la coria è messa nell’asfalto, cosi quando la tolgono, pena 5 soldi per gli untori se ciò non denunziano agli stanciatori. (5) Albenga, cit., pag. 107: provvedono gli stanciatori. (6) Savona, cit., del 1404, iT. 125, 126 b. (7) Albenga, cit,, pag. 38, devono lavorare fuori delle mura. (8) Savona, cit., del 1345, f. 29 b. (9) Genova, cit., col. 712: « ne quis vendat rami refoc^tum prò novo et ne ferrum cum ramo vendantur simul » — Genova, cit., col. 712: « quod de pairolio vetere non fia ramairolium » — Albenga, cit., pag. 380, non vendere vasi di ran*e viziato, Statuta Saone del 1404-1405 41 Non si può stagnare vasi di rame con stagno guasto (1), pena dieci soldi; si deve festeggiare il giorno di S·. Blaxy, loro patrono e andare alla messa quel giorno e a vespro, pena 10 soldi. Le trasgressioni agli statuti son punite con 10 soldi e se un calderaio muore tutti gli altri devono accompagnarlo fino alla sepoltura, sotto pena di soldi dieci. E’ obbligo partecipare alla messa la seconda domenica di ogni mese, pena due denari. Per ottenere il cartario nell’arte l’aspirante calderaio deve compiere un tirocinio di quattro anni; e nessun artigiano prima d’aver compiuto vent anni può di nascosto o apertamente comprar merci attinenti all’arte da schiavi (2) o da servi di cittadini, senza espressa licenza del padrone, pena 20 soldi. I Consoli hanno il compito di amministrare con giustizia (3) ed equità col salario di 20 soldi. Arte dei Bombaciai (4). Chi tiene bottega di bombaciaro o cande-laro (5), dai 14 anni in su giura al Podestà di esercitare bene la sua c.rte con buono e nuovo stoppino, sotto pena lire 3. I ceri portano il sigillo dell arte e pesano sei oncie. Il Console tiene un « taratore » che va due volte al mese a investigare se il lavoro è ben eseguito e se i brandoni sono ben fatti e marcati; i colpevoli sono puniti con 60 soldi, e se i brandoni non sono marcati, deve segnarli lui stesso, sotto pena di cinque lire. Chi non osserva gli statuti è punito con due fiorini ed ai candelari è inoltre vietato di comprare cera che non «sia mercantile, pena lire cinque. I brandoni e ceri per i funerali non devono eccedere il peso di 25 libbre, eccetto nei giorni festivi. Chi non appartenendo all’arte tenga bottega di candelaio, deve ugualmente conformarsi alle regole dell’arte (6), pena lire cinque per ogni cero mal fatto. II cotone da impiegarsi nei ceri deve essere indigeno e venduto dai copertonieri: i candelari non possono mescere cotone buono al cattivo, pena lire cinque. Non si può esportare sego da Savona (7), pena lire dieci per ogni cantarlo di sego, nè impattarlo, ossia farne dei pani, pena lire venticinque (8). (1) Genova, cit., col. 712. (2) Genova, cit., col. 713: « ne a sclavis vel rumentaris ramum vel aliud metallum ematur ». (3) Genova, cit., col.. 713: i rettori dell’arte sorvegliano che i loro ordini siano eseguiti. (4) Savona, Statuti del 1404, f. 138-139. (5) Chieri, cit., pag. 98, cap. CCCVIII, pag. 98: non si deve far liquefare sego in Chieri, nè nelle vicinanze. (6) Nizza, cit., col. 203: pena da 10 a 60 soldi per ogni cero mal fatto — Chieri, cit., col. CCCXXV pag. 105: non si deve vendere candele che non siano fatte con buona cero o con buon sego. (7) Savona, Statuti del 1404, f. 137. (8) Forse è proibito spedire e impattare il sego, perchè serve a far le candele. 42 M. Vicino Paganoni Del modo e delVordine per regolare gli Artefici del Comune Savo* nese (1). Nell’Ottobre del 1438 viene deliberato dagli Anziani di nominare ogni quinquennio sei esperti cittadini scelti in numero di due fra i nobili, i mercanti e gli artigiani per correggere, accrescere, diminuire lo statuto degli artefici. Il lavoro di questi esperti deve essere controllato da Magistrati, il compito dei quali si limita ad approvarli dopo essersi sincerati che nulla è stato deliberato in contrasto con gli Statuti stessi. Costoro son coadiuvati da un Notaio che redige verbale di ogni correzione fatta agli statuti delle arti e per tal lavoro viene retribuito dai Consoli delle singole arti; prestano anche loro il giuramento e durano in carica due mesi, nel qual tempo devono esaurire il loro compito. M. Vicino Paganoni (1) Savona, Statuti del 1404. iT. 60 b, 61% aggiunta del 1428. POETI LIRICI E CIVILI in Genova nei primi del 1ÔOO La Battaglia di Novi del 15 Agosto 1799 e la morte del Generale Jou-bert, oltre a compromettere seriamente la sorte delle armi francesi in Italia ad affievolire le speranze dei Genovesi che vivevano fidenti nella loro difesa, arrecano grande confusione e turbamento in tutte le classi sociali. Un notevole numero di emigrati politici che giunge in Genova? sia per trovare sicuro rifugio, sia per aspettare l’occasione propizia a passare le Alpi, rende sempre più assillante e doloroso il problema dei viveri. Già il popolo vede di mal occhio la folla dei forestieri che diminuisce le scarse provvigioni e il malcontento si diffonde ànche contro gli stessi militari, quando un provvedimento, emanato il 4 Ottobre dal Gene* rale in Capo Francese, dispone « che debbano tra due giorni sortire da Genova tutti quei militari francesi, o impiegati dell’armata, che non sono obbligati a soggiornarvi dalla natura delle loro funzioni... (1) ». Il Ceroni in forma allegorica opportunamente cantava: « Gli augei diversi di color, di forme, E non men di pensar che di sembianze, Al Ligustico lido in varie torme Scendeano tra i timori e le speranze; E qui, stagione ai voti lor conforme Aspettavano, intesi a tresche, a danze, Lor disastri piangendo, e loro imprese Alle beltà dell’ospite paese ». (2). Fra gli emigrati vi erano Vincenzo Monti e sua moglie: Teresa Pikler, il Gianni, il Casti^ il Foscolo, il Gasparinetti, il Ceroni che presero parte all’assedio. Ma la maggioranza di essi non tarderà molto a ricalcare la via dell’esilio, per timore di cadere nelle mani austriache e per obbedienza al decreto del 4 ottobre. Alcuni convennero a Chambery, dove s’era trasferito il Direttorio della Cisalpina; altri a Marsiglia, a Grasse, a Grenoble; molti presero la (1) L. T. Belgrano _ Imbreviature di G. Scriba, Genova, Sordomuti, 1882, pag. 247 (2) Papagalletto, stanza 4, pubblicato In Appendice delle Imbreviature cit. 44 Nora Cozzolino via di Parigi, come il Monti. Il Gianni si trovava però già a Parigi dal novembre, e aveva dedicato « a Bonaparte l’italico, il canto militare della vendetta » scritto in seguito al colpo di Stato del 18 brumaio (9 ottobre) (1). La lirica ebbe diffusione perchè fu pubblicata nella « Gazzetta Nazionale Ligure » del 9 novembre ’99. Certamente il Foscolo, che era tornato a Genova, ne fu incitato a ripubblicare la sua « Oda a Bonaparte Liberatore », di due anni prima, preponendovi quella fatidica lettera che fu detta « un modello di libertà patriottica con romana dignità (2). Egli pur senza offrire « versi di lode » rinnova la sua fede politica per il « Grande » e gli dà il « consiglio », esortandolo di non mettersi per la china sdrucciolevole del dispotismo. Se l’ardito scrittore non ottenne che il Bonaparte volgesse la mente all’attuazione dei suoi disegni (3) pure, tanto l’Ode che la lette-a accompagnatrice sono importanti per conoscere il pensiero politico del Foscolo; nè di minor valore è il precedente discorso sull’Italia, dedicato prima al Moreau e poi allo Championnet, e stampato il 9 ottobre 99, non appena quest’ultimo fu chiamato a succedere al Joubert. Gli animi dei genovesi si volgevano allora fidenti al nuovo generale sul quale pareano convergere le speranze di tutti gli italiani. La voce animatrice del Foscolo giunge quindi opportuna. - Propugnando l’indipendenza degli italiani e la loro unificazione in una grande Repubblica, il poeta additava nella Liguria il centro intorno a cui si sarebbero raggruppate le sparse membra della Penisola. « La Francia, non può sperare salute senza l’Italia; e voi quindi siete nella necessità di vincere o di perire... accogliete i repubblicani liguri che dimandano le armi, dichiarando, com’è pure di assoluta necessità la indipendenza d’Italia, convertite la Liguria in un dipartimento italiano... la Liguria diverrà un campo ed il popolo tutto un esercito » e concludeva « di mano in mano che liberate i paesi? dichiarateli dipartimenti della Repubblica Italiana...» (4). Pur non essendo del tutto nuove queste idee del Foscolo, perchè (1) Gazzetta Nazionale, 16-11-1799, Pag. 185-187. (2) Pecchio, Vita di Ugo Foscolo; Milano 1851 pag. 49. - Ode e lettera uscirono dalla tipografia del Frugoni - Ved. Gazzetta Nazionale 30-11-1799, pag. 202. (3) Napoleone invogliatosi di conoscere l’ardito scrittore, incaricò il suo Segretario Bourienne di procurargliene informazioni; come vedesi per un biglietto di costui a Vincenzo Dandolo. - Corio. Rivelazioni storiche intorno ad Ugo Foscolo, Milano, Carrara, 1875; Pag. 34. (4) Ugo Foscolo - Discorso sull’Italia - Genova Ajino VII. Senza indicazione tipografica : in fronte reca l’epigrafe tolta da’ suoi « Discorsi inediti sulla rivoluzione d’Italia » : « verissimo e giustissimo è tutto quello che assicura la libertà e la utilità della Patria ». (Foscolo - Prose politiche, Firenze, Le Monnier, 185C, pag. 31 e segg). La « Gazzetta Nazionale » del 12-10, annunciando la comparsa di questo discorso, lo segnala come esempio di uno stile e di un pensare vibrato e profondo ». (Pag. 152). Poeti Lirici e Civili in Genova nei primi del 1800 sostenute e caldeggiate già da parecchi altri italiani e sopratutto geno-vesi (1)? eé>li se ne fece caldo banditore; e se lo Championne}; non era uomo d’accettare l’invito dell’animoso poeta, lo tenne però, d’nJlora in poi, con sè nelle vicende della guerra e gli dimostrò affetto e simpatia. Ma, purtroppo, dopo la sconfìtta di Genola, nella riviera occidentale del vicino Piemonte, il Generale, ritiratosi a Nizza, vi moriva, il 10 gennaio dell’anno successivo, di febbre epidemica (2). Con lui a Nizza era anche il Foscolo, forse per ragioni di ufficio, e ertà venivano proclamati ovunque a viso aperto e quanto più erano stati conculcati quei diritti imprescindibili di tutti i popoli, tanto più era violenta la riscossa. Il suo rancore di plebeo più volte offeso nell’amor proprio, si lifoga contro gli aristocratici della sua città, in un nuovo poemetto intitolato « Verona ». E’ naturale che egli, così acceso delle nuove idee, prendesse viva parte aile rapide vicende che nel ’98 e ’99 ridussero a mal partito le sorti francesi e liberali in Italia; ormai le speranze sue e quelle di tutti si volgevano al Bonaparte, che sbarcava inaspettato a Fréjus l’8 Ottobre » ’99 e il 9 novembre faceva il colpo di Stato. Verso la fine di quello stesso anno gli dedicava un ode, rivolgendogli queste parole: « Terror de’ regi, te del Mauro lido Reduce chiama in duri ceppi stretta Italia, e messo di speranza il grido Chiede vendetta. (1) G. Mazzoni - « Un commilitone di Ugo Foscolo » in Atti del R. Istituto Veneto, 1892, Vol. I, Pag. 321. (2) Qualche notizia su questo poeta patriotta si trova nelle postille vergate dal .figlio Riccardo sopra un esemplare delle poesie del Foscolo (Cfr. Francesco Trevisani: Riccardo Ceroni e alcune sue postille inedite, Verona Tip. G. Annichini, 1894, pag. 19 e segg., opuscolo posteriore alla monografìa del Mazzoni). (3) « Contro gli aristocratici per ambizione » poemetto libero del cittadino G. Ceroni, recitato nella Sala di Pubblica Istruzione il 23 settembre 1797 - Verona. 58 Nora Cozzolino Piomba dall’Alpi nel fulmineo lampo, In cui t’involve l’immortal tua gloria, Mostrati, e mira con sè fida in campo Scender vittoria. D’Adige e Trebbia sulle rive ingombre, Per tradimento d’ossa insanguinate Te dei francesi chiaman Tonte e l’ombre Invendicate ». e poi continua l’esortazione all’eroe perchè rinnovi le sue vittorie e liberi la Lombardia, Roma e Venezia, e « Una, indivisa coll’antico orgoglio, Italia getti la straniera soma E vegga per te sorti in Campidoglio I dì di Roma » (1). Bellissime parole che esprimono tutto un programma di azione; il De Castro, riferendo questa strofa, chiama il Ceroni « il più virile cantore di quei tempi » (2). In Genova pubblicò « il Papagalletto », che la Gazzetta Nazionale così annunciava: « Questa spiritosa ed elegante produzione poetica contiene un corso di storia naturale sulla qualità e sul carattere di una gì an parte delle belle di Genova: esse vi sono rappresentate sotto diverse specie di uccelli, l’allegoria rende vario oltremodo e piacevole l’argomento già abbastanza interessante da per sè stesso. Gli amatori della buona poesia e del bel sesso della Liguria, che non sono in piccolo numero, leggeranno con avidità e con trasporto questo delicato lavoro di uno dei migliori poeti italiani » (3). Questo poemetto fu forse ispirato al Ceroni da una festa patriottica, avvenuta il 14 ottobre *99 per celebrare l’arrivo del Buonaparte, in una villa a Cornigliano. Vi parteciparono molte d (1). Le descrizioni che il Petracchi ci fa delle dame genovesi ci lasciano dubbiosi sia sulla loro bellezza che sulla bellezza dei suoi versi. Egli (1) Gazzetta Nazionale 14 dicembre 1799 - pag. 218. Poeti Lirici e Civili in Genova nei primi del 1800 65 certo non cercò molta varietà d’aggettivi e di parole. Sono ventuno di numero le dame genovesi; ma basta leggere la descrizione di una per a-verne più che a sufficienza; le « nere luci » « la bruna capigliera » « il labbro tumido » e il « seno alabastrino » sono le prerogative di tutte. Alcune volte comprende con un solo aggettivo più parti del corpo: « Nero crin, nere luci^ e nero ciglio; Le braccia, il collo, il piede rotondetto Bocca, unghia e gote d’un gentil vermiglio: Tumido il vago labbro, il fianco, il petto! ». Gli bastano dunque pochi versi per tratteggiare una donna,, qualche volta però vi si intrattiene di più, quasi studiando amorosamente il soggetto, come per la Pallavicini e per la Viani Cesena, a cui ho già accennalo parlando del Foscolo. Non saprei però se siano più fortunate quelle alle quali ha dedicato-pochi versi o quelle descritte con meticolosa cura. Mi pare che ne escana malconcie le une e le altre... Certo, se il libretto fu tanto conosciuto e venduto come lascia supporre l’articolo della Gazzetta, non si può dire sia stato conservato con altrettanta cura, perchè credo che non ne esista più in Genova, se non una copia nella Biblioteca Universitaria. Il Petracchi sembra un Arcade che canti estasiato dinanzi alle candide bellezze delle pastorelle, e se fosse vissuto una cinquantina di anni prima, forse avrebbe avuto modo di esprimere la sua arte in tempi e luoghi più propizi. E’ in ogni modo uno strano tipo di verseggiatore, vissuto in contrasto con i suoi tempi; se tutti gli altri poeti su cui mi sono intrattenuta hanno tuonalo morte ai tiranni, si sono lanciati contro i governi aristocratici ed hanno propugnato libertà ed indipendenza, egli non ha cercato nell’argomento politico e nel fine morale e patriottico la fama alle sue poesie; ha bensì vissuto come un puro poeta del Settecento dedicandosi tulio alla esaltazione della bellezza femminile. Va appaiato con il contemporaneo Jacopo Vittorelli che, assistendo impassibile alla caduta della Repubblica di San Marco, cantò beatamente, fra le fronde di una tardiva Arcadia, le sue Anacreontiche a Irene e a Dori. La poesia estemporanea ebbe in questo periodo non pochi cultori girovaghi; molti dei quali furono chiamati e benignamente ospitati in Genova. Il più noto è « l’emulo di Vincenzo Monti » Francesco Gianni, che già si era portato anni innanzi nella Superba, mietendo facili allori per le sue prove quasi funambolesche. I più cospicui patrizi genovesi se lo contendevano per ospitarlo nelle loro magnifiche ville. Non si può dire altrettanto del Governo, che, mal prevenuto contro di lui, lo teneva d’occhio. Da un documento d’ufficio ci viene presentalo come: « uomo di bassa estrazione, che da principio Nora Cozzolino faceva l’arte del guardinfantaro, e che poi applicatosi allo studio prese l’abito di abate e riuscì nella poetica ed improvvisatore, quantunque mordace e maledico » (1). Fu accolto ed ospitato dal magnifico Gian Carlo Di Negro (2) che, come dice uno dei raccoglitori dei suoi versi nell’introduzione « ... lo vide, lo ascoltò, lo trattenne, e gli dichiarò quell’amicizia, che dichiarò un giorno Scipione ad Ennio, Pollione a Virgilio, Mecenate ad Ora-zio...» (3). Cominciarono in questo tempo a rendersi frequenti le poetiche adunanze negli aviti palazzi di alcuni patrizi genovesi e non poche furono le gare durante le quali fu opposto al Gianni il Duca Gasparo Nollo, nato a Roma, ma da lungo tempo in Genova. Egli già aveva riportato allori alFAccademia dei Forti, e sembrava fosse l’unico che potesse misurarsi col valente improvvisatore romano; Gian Carlo Di Negro lo ricorda nella sua « autobiografìa » in pochi e brutti versi improvvisati anch’essi: « Era in fama quel figlio caro a Apollo Nell’improvviso dire il Duca Nollo L’ascoltai, ma benché di lauro degno Non mi lasciò di meraviglia segno » (4). Meraviglia ed ammirazione suscitò invece il Gianni nel benemerito patrizio, che più tardi in una delle sue odi liriche ne esaltò i meliti ricordando i poetici ritrovi di Sestri, dove l’improvvisatore romano, ospite dell’Avv. Cambiaso, raccoglieva frenetici applausi « ... Fu allor che apparve al tuo degno soggiorno Qual astro nuovo in cielo Gianni, primo nel voi di fantasia Cui del signor di Deio La sacra aura vocal spirava intorno, E ne sorgea l’incanto DeH’improvvisa insolita armonia Invidiata tanto Talché parea a noi fatto ritorno L’avventuroso secolo segnato In auree cifre per la man del Fato » (5). (1) L. T. Belgrano - Imb revia tore op. cit. pag 138. (2) Non solo Gian Carlo Di Negro, ma anche suo zio Andrea lo accolse in casa sua e per ottenergli le « Bullette di tolleranza » necessarie a chi volesse fermarsi a Genova, lo accolse precettore dei suoi nipoti fra i quali Gian Carlo di Negro. Cfr. F. L MannüCCI F. Gianni e la sua patria poetica in Riv. Ligure, 1908. Introduzl Pag. 11. (3) Versi estemporanei di F. Gianni, raccolti da alcuni suoi amici - Tomo I, Genova 1794, pag. 11. (4) Gian Carlo di Negro - Vita scritta da esso, Genova. Sordomuti - 1851, pag. 32. (5) « Odi liriche di Gian Carlo Di Negro » - Patrizio Genovese, « Alla memoria di alcuni suoi concittadini » - Genova. Ponthenier 1828, pag. 1» e segg. Poeti Lirici e Civili in Genova nei primi del 1800 67 Il Gianni ebbe in Genova un periodo di grande notorietà ed esercitò un vero dispotismo poetico: nelle sale dove era invitato, escludeva tutti quelli che non gli piacevano, adducendo la scusa di non poter poetare con dinnanzi visi antipatici o in malevole atteggiamento (1). Infatti al cominciar del suoi versi nessuno osava « trar fiato », « bocca aprire » e « batter occhio »; « tosto però che dispiegando egli ne andava la tela vaghissima del suo canto, e li sempre ameni e fiammeggianti concetti suoi, parca che quel medesimo di lui fuoco s’apprendesse alle anime tutte le più delicate, onde a molti negli atteggiamenti della persona e del volto, vivamente si scorgeva dipinta la sorpresa, la compassione, l’orrore, la dolcezza, che a mano a mano ispiravansi » (2). Tra coloro che frequentavano queste poetiche riunioni si segnalava Faustino Gugliuffì; egli insieme col Gianni si fece notare per ìa valentia e l’abilità con la quale improvvisava versi latini; l’Hazard a questo proposito dice: « Le plus étonant de tous est Gagliuffi. Dans les réunions ou les arcades lisent de doctes poésies latines au milieu des poésies legères italiennes, et dissertent avec érudition sur tel passage des bons auteurs qui paraît obscurs il se fait remarquer par son habilité. Quand un improvisateur ou une improvisatrice, Gianni ou Amarilli Etrusce composent devant lui des vers italiens, il en improvise à son tour la tradution latine » (3). L’antico sarto romano raggiunse in Genova, come in quasi· tutte le città che andava visitando, quella fama, che fu forse, più immediata e larga che non solida e duratura. Nell’800 dopo una breve sosta a Genova si recò a Parigi, dove fu nominato poeta imperiale. Ritornò tuttavia nella metropoli Ligure sui primi del 1810, e vi tenne, per dieci giorni, una continua accademia recitando, per un’illustre dama, che l’ospitava, il poemetto « Dei saluti del Mattino e della Sera » raccolto più tardi, nel 1811, con altri suoi canti estemporanei dal prof. Francesco Bocci in bel volume (4). Nel 1803 giungeva a Genova anche la famosa improvvisatrice Teresa Bandettini, c teneva parecchie accademie in casa del Marchese Giustiniani e del Governatore francese Saliceti. Le sue prove inframezzavano i canti della virtuosa Grassi ni, che allora primeggiava come soprano assoluta (5). (1) Cfr. F. L. Mnnnuccl - F. Gianni c la sua pairia poetica, cit. (2) G. Balla Gandolfl - « Dei saluti del Mallino e della Sera » e d'altri canti improvvisali dal sig. Francesco Gianni, nell’ultima sua dimora fatla in Genova - Genova, j8]l - Slamperia della Marina Imperiale e della Gazzetta - Piazza Nuova, Introduzione (3) P. Hazard - Op. cit. pag. 133 - Cfr. per il Gianni: A. Vitagliano - Storia della poesia estemporanea nella lelt. Italiana dalle origini ai giorni nostri - Roma E. Loe-scìier. Tip. ΪΛ Speranza, 100Γ». - I.. Yicchi - Vincenzo Monti, le lettere e la politica in Italia dal 1781 al 1830 - Faenza 1883. (4) Ved. « Gazzella di Genova > 1811 il. 57. (5) Ved. ■ Gazzetta di Genova 1811 n.n. 37, 38, 10. Nora Cozzolino Seguirono poi di anno in anno altri noti improvvisatori; nel 1812 troviamo notizia delle Serate tenute in casa Giustiniani, dove pare si favorissero molto questa specie di istrioni, da G. Battista Armanno, veneziano, il quale, secondo i resoconti della Gazzetta (1812 n. 94) fu applau-ditissimo per una « nuova maniera di improvvisare senza canto, privandosi del comodo delle pause e di altri vantaggi che presenta l’illusione della musica ». L’anno appresso, ecco il « celebre improvvisatore » Iacopo Baldinotti, toscano, levato alle stelle per avere un figliolo di tredici anni, che, « seguendo le tracce paterne, improvvisava con una giustezza di verso e di condotta poetica veramente mirabile per sì tenera età » (1). Nel 1814 un tal Casti, nipote dell’autore degli « Animali parlanti », è acclamato nel Teatro in Campetto e nella Sala Maggiore della R. Università. (2). D’allora gli improvvisatori non si contano più. Sopravvennero Michele Clappiè di Torino, Leopoldo Fidanza, il famoso Tommaso Sgricci (tanto lodato dal Giordani), il toscano Riché, Gaspare Leoneti, Giovanni Longhi e mille altri. La moda imperversava ancor tanto nel 1828 che il Mazzini, in un articolo intitolato « Poesia estemporanea » e pubblicato nell’ ): ì|ì La « Revue de la Corse » del Novembre-Dicembre 1929, pubblica un interessante documento contenente Une protestation contre le Fonctionnairisme corse au XVIII siècle. All’annuncio dei primi moti rivoluzionari del 1789, varie notabilità corse propongono l’istituzione di una commissione permanente di difesa e la creazione della milizia nazionale in ogni città. :·: ì·: :·: Da un manoscritto inedito sulla Corsica, conservato dalla Biblioteca Universitaria di Genova è tratta una pagina riflettente Le Budget de la Corse sous la domination génoise à la fin du XVIe siècle, che viene pubblicata nella « Revue de la Corse » del Novembre-Dicembre 1929. Hî -i* ;i: Un altro imiportante contributo agli studi sulla Corsica dà, con la consueta ricca messe di notizie inedite, Ersilio Michel nell’ « Archivio Storico di Corsica », del Gennaio-Dicembre 1929 rievocando le Vicende dei Corsi che seguirono G. Murat al Pizzo (1815-1817). ❖ ❖ ❖ χ' Vittorio Adami pubblica nell’ « Archivio Storico di Corsica » del Gennaio-Dicembre 1929, il terzo e ultimo capitolo dello studio La Corsica sotto i Duchi di Milano. È studiato, su nuovi documenti, il periodo che dal 1477 giunge al 1483, e cioè al ritorno dell’isola all’Ufficio di San Giorgio. Importanti notizie sui rapporti fra l’Italia e la Corsica dà Domenico Spadoni, col consueto sagace senso storico, in « Archivio Storico di Corsica » del Gennaio-Dicembre 1929, trattando dell’IsoLA inizatrice del risveglio italico. Leopoldo Pagani, usufruendo di una ricca messe di documenti inediti conservati nel R.° Archivio di Stato di Tòrino, studia i rapporti sardo-corsi dal 1815 al 1860, rilevando che essi non furono de’ più cordiali « e subirono continue alternative di pace, turbati assai di frequente, se non da vera guerra, da ben più temibile guerriglia diplomatico-commerciale ». S4 Spigolature e Notizie ------4L___ L interessante studio è stato pubblicato nell’ « Archivio Storico di Corsica » del Gennaio-Dicembre 1929 col titolo II Consolato di S. M. il Re di Sardegna in Corsica. Ersilio Michel dà un ampio ed esatto resoconto de I manoscritti della Biblioteca Nazionale di Parici relativi alla Storia di Corsica, néll’ « Archivio Storico-di Corsica » del Gennaio-Dicembre 1929. ❖ ❖ ❖ R. C. recensendo in « Archivio Storico Italiano » (anno LXXXYI, dispensa la) l’opera di A. Codignola La vita e gli scritti di Goffredo Mameli, afferma che l’A. ha scritto « dei capitoli molto interessanti di storia genovese e piemontese in uno dei momenti culminanti del nostro Risorgimento ». Le Historié di C. Colombo di Rinaldo Caddeo sono esaminate da Temistocle Celotti in un articolo comparso su il « Lavoro » del 1° Gennaio 1930. ❖ ❖ ❖ In « Nuovo Cittadino » del 2 Gennaio 1930 Artemisia Zimei tratteggia « Una sublime FIGURA cinquecentesca Genovese », Virginia Bracelli-Centurione. Umberto V. Cavassa in « Lavoro » del 3 Gennaio 1930 fa una rassegna di poeti vernacoli genovesi, col titolo « Siamo o non siamo? » (cioè, noi, poeti). « Il Lavoro » del 4 Gennaio 1930 pubblica dal volume « Nietzsche en Italie » una pagina di Guy de Pourtales, col titolo « Nietzsche a Genova ». Orlando Danese in « Il Popolo d’Italia » del 4 Gennaio 1930 riafferma che « Cristoforo Colombo era di Genova » sulla fede d’una nota marginale ad un Codice antico degli Annali del Giustiniani e del Codice Roselly de Lorgues contenente un autografo di Colombo che si dice nato a Genova. « Il Lavoro » del 5 Gennaio 1930 col titolo « I tre Re Magi di passaggio a Genova » ricorda l’approdo a Genova delle reliquie dei tre Magi avviate a Milano dove le portarono i Crociati milanesi da Costantinopoli per essere custodite nella chiesa di S. Eustorgio. « La Chiesa di S. Vincenzo de’ Paoli » a Genova è illustrata da Lazzaro De Simoni in « Nuovo Cittadino » del 5 Gennaio 1930 . « Il Secolo XIX » dell’8 Gennaio 1930 ha un articolo anonimo su « Luca Cam-biaso », il Correggio genovese. Amedeo Pescio in « Secolo XIX » del 7 Gennaio 1930 scrive dei rapporti tra Genova e le Fiandre, col titolo « Il Ricordo Fiammingo ». I « Geno\esi nel Belgio » sono ricordati da Vito Vitale nel « Giornale di Genova » del 7 Gennaio 1930. Vi sono esaminati particolarmente gli scambi artistici tra i due (paesi (favoriti dalle reciproche relazioni commerciali) e cioè l’influenza del Rinascimento nostro sull arte fiamminga e, viceversa, la derivazione dell’industria arazziera genovese da quella delle Fiandre durante il sec. XVI. Spigolature e Notizie 85 ❖ ❖ * « Bar », ricorda in « Lavoro » del 7 Gennaio 1930, tra le poche famiglie che fondarono Montevideo, quella d’un genovese. Lo scritto ha per titolo: « I Genovesi in America - La prima famiglia che fondò Montevideo ». ÿ ÿ ^ Giambattista Cuneo è studiato da Davide Bertone in « Eco della Riviera » di Sanremo dell’8 Gennaio 1930. Il B. completa le notizie date sul Cuneo nell’articolo del 25 settembre 1929, già da noi segnalato. ❖ ❖ ❖ Un importante studio su La Chine ancienne et l’antiquité Méditerranéenne pubblica Herbert Wild in « Revue Bleue » del Gennaio 1930. I rapporti commerciali fra il Mediterraneo e la Cina risalgono, secondo l’autore, a circa due secoli avanti Cristo, mandando i Cinesi la seta ai Mediterranei, e questi l’uva ai Cinesi. ÿ ^ ^ Di « Ceccardo » (Ceccardi-Roccatagliata) scrive Ettore Cozzoni in «A Compagna » del Gennaio 1930. ÿ î;î :·: In « Il Natale e la Mostra del Presepe » G. Roggero-Monti illustra nella « A Compagna » del Gennaio 1930 i più caratteristici tipi del Presepe genovese. i'fi :·: :·: Marino Merello offre in « A Compagna » del Gennaio 1930 « Una pagina di storia ligure del 1792 ». Si tratta della resistenza di Oneglia alla occupazione democratica franco-ligure e della sua fedeltà alla Casa di Savoia. ÿ $ $ In « Giornale di Genova » del 1° Febbraio 1930 « Michelius » scrive su « L’Abbazia di S. Andrea al Castello Raggio » presso Cornigliano-Ligure. ÿ ÿ $ « Il Poeta dialettale di Alassio », Ettore Morteo, è ricordato in « Corriere Mercantile » dell’1-2 Febbraio 1930. ^ ^ In « Bellezze ignorate della Liguria - Tesori artistici a Finalborgo » il « Lavoro » del 2 Febbraio 1930 descrive particolarmente una Cappella bramantesca che è un gioiello del Rinascimento. ÿ ÿ $ In « Nuovo Cittadino » del 2 Febbraio 1930 Lazzaro De Simotii illustra « La Chiesa della Madonnetta », edificio ricco di ricordi storici sul colle di Carbonara. ÿ ÿ ÿ Col titolo « Genova o Quinto? » M. Righetti indirizza, in « Nuovo Cittadino » del 4 Febbraio 1930, una Lettera aperta ai Membri della Commissione Colombiana nella quale si prospetta la tesi della nascita di Colombo a Quinto del Mare. ÿ ÿ ÿ Alca scrive in « Giornale di Genova » del 5 Febbraio 1930 su « Il nolo d’un viaggio imperiale». Navi genovesi condussero la figlia di Guglielmo VII Sire di Monferrato allo sposo Andronico Paleologo. Importanti concessioni fatte alla Repubblica in Oriente pagarono il nolo. $ ÿ $ Intitolando il suo scritto: «El Libro de cosas de Espana », Amedeo Pescio fa in « Secolo XIX » del 5 Febbraio 1930 una briosa recensione d’un volume d’egual Spigolature e Notizie titolo recentemente pubblicato a Barcellona dove si riafferma la lesi di Colombo spagnolo, lamentando che detto libro sia usato come testo di lettura per la lingua spagnola in una scuola di Genova. $ ÿ $ Ars^ ha^ in « Lavoro » del 5 Febbraio 1930 uno scritto dal titolo « Oggi, festa di Sant Aga... » dove usi e costumi proprii dell’antico luogo forese di S. Fruttuoso (annesso a Genova nel 1874) sono ricordati in occasione della ricorrenza della festa patronale del luogo, ch’era S. Agata. ❖ ❖ ❖ « ClNQUANT ANNI DELLA SEZIONE LlGURE DEL CLUB ALPINO ITALIANO )) SOIIO passati in rapida rassegna Ha j. g. in « Corriere Mercantile » del 5-6 Febbraio 1930. ìj: ÿ Col titolo « I Cappuccini Genovesi » è tracciato in « Nuovo Cittadino » del 6 Febbraio 1930 da a ll Giullare del Signore », un rapido quadro dell’attività del- 1 Ordine Cappuccino in Genova e Liguria. ❖ ❖ ❖ « Alca », continuando in « Giornale di Genova » la sua rassegna storica « Foglio di Calendario », ricorda nel numero del 6 Febbraio 1930 « Una pausa tra due assedii ». La pausa è segnata precisamente dal 6 Febbraio 1319. I due assedi sono quelli che Genova sopportò prima da Marco Visconti, poi dai Doria collegati agli Spinola. ❖ ❖ ❖ « Intorno al documento assereto » scrive un anonimo in « Corriere Mercantile » dell’11-12 Febbraio 1930 a proposito d’un breve scritto recente di Camillo Manfroni. ❖ * * τη. b. in « Lavoro » del 12 Febbraio 1930 ricorda nella ricorrenza del centenario della di lui nascita !* Col titolo « Il Cincinnato di Caprera » Antonio Monti scrive in « Corriere della Sera » del 26 Gennaio 1930 sulla dignitosa povertà in cui visse e morì Garibaldi nell’isola solitaria. Ars in un articolo sul « Caffè » pubblicato in « Lavoro » del 25 Gennaio 1930 ricorda l’introduzione a Genova dell’aromatica bevanda levantina nel sec. XVII. ❖ ❖ ❖ Luoghi e tipi caratteristici della Liguria che scompare ricorda ed illustra « Il Lavoro » del 25 Gennaio 1930 col titolo « Potrà essere almeno salvato il ricordo DEI COSTUMI E DEL DIALETTO DEI NOSTRI PADRI ? ». ί* « Il Lavoro » del 25 Gennaio 1930 riassume una Conferenza tenuta da A. Cere al « \ittorino da Feltre » sul Doge Paolo de Novi « Il Doge tenzòu » (Il Doge tintore). v :·: ÿ Alca nel « Giornale di Genova » del 28 Gennaio 1930 rievoca « Il Doge di N. S. del Monte ». Si tratta di Raffaele Adorno cui si deve la costruzione nella forma attuale del Santuario Mariano presso S. Fruttuoso. Hi $ In « Zena ai tempi del Barbarossa » il « Lavoro » del 30 Gennaio 1930 pubblica il riassunto d’una conferenza tenuta da Vito Vitale all’Università Popolare genovese. Spigolature e Notizie ❖ ❖ ❖ In uno scritto «La colpa è di Corvetto», Vito Vitale riprende in esame, nel « Giornale di Genova » del 30 Gennaio 1930, con la sua consueta sagacità, il quesito se sia stato davvero redatto il famoso indirizzo da Luigi Corvetto, Roma· gnosi, Delfino, Rossi, Salii e Cuoco, per oÌTrire a Napoleone nel 1894 la corona d’Italia. Il V., con dati inconfutabili, dimostra l’infondatezza storica del fatto. ❖ ❖ ❖ Nel Bollettino Municipale «Genova» di Gennaio 1930 Raffaele Di Tacci continua il suo studio su « Le relazioni commerciali fra Genova e il Levante ». ❖ ❖ # Alca, in « Giornale di Genova » del 31 Gennaio 1930 ha uno scritto col titolo « Il sale di Hyères ». V’è illustrata la convenzione tra la Repubblica genovese e Hyères, liberata dai pirati ad opera di Simone Camilla genovese, per la concessione di sabine a principio del secolo XIII. ❖ ❖ ❖ Antonio Costa illustra con documenti d’archivio Un anno tormentato dalla peste 1450, nel fascicolo del Gennaio 1930 de « Il Padre Santo ». :·; :j: ÿ La permanenza di « Enrichetta Renan a Genova » è rievocata da S. in « Lavoro » del 19 Febbraio 1930. ❖ ❖ ❖ M. L. in « Giornale di Genova » del 19 Febbraio 1930 illustra l’opera d’un poeta vernacolo alassino, Ettore Marteo, nella « Poesia Ligure ». ❖ îJî ÿ Umberto Zuccardi Merli in «I viaggi di Innocenzo IV e i suoi rapporti con Federico II » illustra nel « Corriere Mercantile » del 19-20 Febbraio 1930 un lato dell’attività politica di Papa Fieschi. ÿ :j: >)ì In « Corriere Mercantile » del 22-23 Febbraio 1930 è ampiamente recensito da j. g. col titolo « La storia economica delle guerre del Risorgimento », un recente volume di Riccardo Ba^hi. Interessante per noi, specialmente la parte che riguarda il finanziamento che ad esse venne da Genova. $ ^ $ P. Graziani recensisce ampiamente un recente volume pubblicato nella « Cul-lana storica de A. Muvra » (Aiaccio, 1930) contenente un’importante raccolta d’articoli pubblicati nel giornale di Monaco « Le Courrier » sul La Conqueste de la Corse. La recensione è stata pubblicata ne « La Nouvelle Corse » e riprodotta da A. Muvra » del 23 Febbraio 1930. :j: ή: >]: Il « Marzocco » del 23 Febbraio 1930 segnala, ampiamente riassumendolo, l’articolo di Renato Piattoli pubblicato nell’ultiino fascicolo di questo giornale. i|C î{i ϊ*ϊ « Il Lavoro » del 27 Febbraio 1930 ha un articolo di P. S. dal titolo: « Ambrosio Spinola (1571-1630) ». 90 Spigolature e Notizie ❖ ❖ * Oreste Ferdinando Tencajoli, traccia brevemente le vicende storiche-artistiche della Chiesa di San Carlo in Bastia, fondata il 19 Giugno 1612. Nella stessa città fu aperto fin dal 1601 un collegio destinalo all’istruzione della gioventù, da due patrizi genovesi, Tommaso Raggio e Antonio Garbarino. Lo scritto è apparso ne «11 Telegrafo» di Livorno del 27 Febbraio 1930. ÿ :·: « La saggia famiglia guelfa » è il titolo d’una rievocazione storica di lotte tra guelfi e ghibellini in Genova nel 1335, fatta da Alca in « Giornale di Genova » del 28 Febbraio 1930. ❖ ❖ $ L’Almanacco Popolare di Corsica per l’anno 1930, edito in Oletta, contiene il seguente interessante sommario: «Proverbi Agricoli; Metereologia Popolare; Profezia sopr’a Corsica; Altre Profezie; Garibaldi e la Corsica; Mazzini e la Corsica; Geografia della Corsica; L’eroe di Corsica (Pasquale Paoli) » e numerose poesie dialettali. « Tyrrhenia » nel fascicolo Gennaio-Febbraio 1930 segnala l’opera ripubblicandone qualche scritto. ❖ ❖ $ v Di «Emanuele Cavallo», eroico marinaio genovese del secolo XVI e delle sue gesta ardite, scrive Giuseppe Rizzo in « A Compagna » del Febbraio 1930. ^ ÿ « La Grippe a Genova nel 1833 » offre a Stephanus Doctor l’occasione per uno ecritto in « A Compagna » del Febbraio 1930. ❖ ❖ ❖ Cino Calcaprina parla di « Antonio Discovolo », un pittore che senz’essere genovese il lustrò soprattutto luoghi e paesaggi liguri, in « A Compagna » del Febbraio 1930. % ❖ ''fi G. Roggero-Monti scrive su « Filigrane e filigranisti liguri » in « A Compagna » del Febbraio 1930. ❖ ❖ ❖ « Le Opere e i Giorni » nel fascicolo di Febbraio 1930 reca alcune pagine tratte dal recente libro del Wassermann su « Cristoforo Colombo ». ❖ ❖ # Nel numero di Febbraio 1930 del Bollettino Comunale « Genova », Orlando Grosso dà conto dei lavori di restauro de « Il Palazzo di Andrea Doria a San Matteo ». % % ^ Nello stesso fascicolo, uno scritto di Alessandro Lattes illustra « Tre lapidi genovesi rimesse in luce » traendole da un magazzino della R. Università di Genova e dove è ricordato « Pietro da Luni », cittadino genovese e vicario imperiale a Genova. s£s sgs sge In « Nuovo Cittadino » del 2 Marzo 1930, Lazzaro De Simoni scrive intorno a « La Chiesa di Sant’Anna », uno dei più vetusti tempii carmelitani in Liguria. ÿ $ ÿ O. D. illustra ne « L’Opinione » di Spezia del 4 Marzo 1930 Un Precursore, e cioè la figura del Generale Domenico Chiodo. Spigolature e Notizie 9i In « Corriere Mercantile » del 5-6 Marzo 1930 è data notizia d’un documento scoperto dall’Ulloa nell’Arcliivio di Simancas riguardante l’origine spagnola di C. Colombo. Lo scritto anonimo ha iper titolo: « Colombiana ». ❖ * * Nella « A Muvra» del 9 Marzo 1930 Giacinto Yvia-Croce traccia un breve profilo di un giurista e storico corso della prima metà del sec. XIX: Ghiuvan Carlu Grecorj. ìj: * * M. Rigillo si sofferma ad illustrare l’ispirazione religiosa delle poesie di Goffredo Mameli, in un articolo edito da « La Nuova Scuola Italiana » di Firenze del 9 Marzo 1930, dal titolo La fede di Mameli. $ >!-* ❖ Vito Vitale porla un notevole contributo alla storia delle origini napoleoniche illustrando vari documenti tratti dal Regio Archivio di Stato di Genova, che riguardano Un Bonaparte in Corsica nel secolo XIII. Lo studio pubblicato nel-1’ « Archmo Storico di Corsica » del Gennaio-Dicembre 1929, viene segnalato e riassunto nei Marginalia de « Il Marzocco » (16 Marzo 1930). ÿ ÿ ÿ « Il Santuario della Misericordia a Savona » è illustrato da « Tugnola » in « Giornale di Genova » del 18 Marzo 1930. ❖ ❖ ❖ Le Historié della vita e dei fatti di Cristoforo Colombo per D. Fernando Colombo edite dal Caddeo sono recensite da /. /. nel « Corriere della Sera » del 19 Marzo 1930. ❖ ❖ ❖ Alca in « Giornale di Genova » del 19 Marzo 1930 ricorda col titolo « La torre venduta » vicende e glorie della Famiglia degli Embriaci. ❖ ❖ & Oreste Ferdinando T enea joli illustra nel « Il Telegrafo » di Livorno del 20 Marzo 1930 l’origine ed i tesori storici ed artistici delia Chiesa della Concezione in Bastia. In « Giornale di Genova » del 21 Marzo 1930 Vito Vitale col titolo: « La storia si ripete » scrive una pagina interessante sui rapporti tra Genova e Catalogna nel XII secolo. ❖ ❖ ❖ Uno scritto anonimo in « Corriere Mercantile » del 21-22 Marzo 1930 rievoca due figure di « Quaresimalisti a Genova »: Andrea Ghetti da Volterra, agostiniano, nel sec. XVI e il Padre Ugo Bassi barnabita, nel 1839. î;î ÏJÎ »*» In « Giornale di Genova » del 23 Marzo 1930 « Alca » ricorda il Cardinale Agapito Colonna « L’Ambasciatore di Urbano VI » a Genova nel Marzo 1930. îjî îjî ï;î In « Lavoro » del 22 Marzo 1930 « Lux » passa in rassegna « I Musei » della Grande Genova, recentemente curati e riordinati da Orlando Grosso. 92 Spigolature e Notizie Costanzo Carbone ricorda in « A Compagna » del Marzo 1930 « Un Poeta che se n’è andato: Luigi Tram aloni ». ❖ îjî i'fi In « A Campagna » (fascicolo di Marzo 1930) Antonio Cappellini illustra il Santuario d’Oregina ricco di patrie memorie in uno scritto dal titolo « Nostra Signora di Loreto ». f aresinus ha in « A Compagna » del Marzo 1930 uno scritto su « I capi del Popolo nella Pieve di Barcagli ». A firma P. /. C. e col titolo: «Una pagina di Storia Patria» l’Annuario-Strenna dell’istituto Vittorino da Feltre pel 1930 reca uno studio sui rapporti tra l’Arcivescovo di Genova e il Governatore Des Geneys durante i moti del 1821. ÿ $ ÿ Il bel fascicolo dell’« Annuario » del R. Istituto Tecnico Vittorio Emanuele III di Genova-Sanipierdarena per l’anno 1928-29, or ora uscito, ha due scritti particolarmente interessanti le cose liguri: uno di Giuseppe Andriani che delinea «La Liguria nei suoi aspetti fisico ed etnico », l’altro di Bice Nannei che nega la storicità dell’impresa di « Mecollo Lercaro ». APPUNTI PER UNA BIBLIOGRAFIA MAZZINIANA Studi e appunti su G* Mazzini pubblicati all’estero* Suzanne Gugenheim, Les Romantiques Français jugés par Ioseph Mazzini, in « Revue de Littérature comparée », Paris, Champion, 1930. La Direzione dell ottima rivista francese dedica un fascicolo a « Le Romantisme après 1830 », in cui viene pubblicato lo studio della'G. Il lavoio dà meno di quel che il titolo promette, poiché ΓΑ. non considera il romanticismo se non come un’espressione puramente letteraria (nonostante le sue affermaz’oni contrarie). Riesce non persuasivo nè concludente il raffronto che vien fatto fra la De Staël, il Chau-teaubriand, l’Hugo, il Lamartine ed il Mazzini, soprattutto perchè non è approfondito il problema del reciproco influsso tra i grandi romantici francesi e la forte individualità morale ed intellettuale dell'Apostolo italiano. Il problema e pero intravvisto e il tentativo di risolverlo è tale da essere segnalato ai cultori degli studi mazziniani. Silvio Becchia, Dall'Italia, in « Patria degli Italiani », Buenos Ayres, 30 Gennaio 1930. II B. si sofferma ad illustrare il ben noto contrasto fra il Mazzini ed il Cattaneo avvenuto nell’Aprile del *48 sulla opportunità dell’interrvento francese nella prima guerra dell’indipendenza. Silvio Becchia, Una lettera di Abramo Lincoln, in « Patria degli Italiani », Buenos Ayres, 24 Febbraio 1930. Il B. illustra l’importanza storica — con riferimenti alla politica europea di oggi _ di una lettera scritta da Abramo Lincoln a Macedonio Melloni nel 1853, tradotta dal Mazzini. — — Innocenzo Cappa inaugura la cattedra mazziniana, in « Italia », Chicago, 28 Febbraio 1930. Breve resoconto della conferenza su « La vera grandezza di Mazzini », che il Senatore Cappa, inaugurando un corso di studi mazziniani, tenne a Napoli il 26 Gennaio 1930. Silvio Becchia, Echi del dissenso fra Garibaldi e Mazzini, in « Patria degli Italiani », Buenos Ayres, 1 Marzo 1930. 11 B. attraverso le ultime pubblicazioni ben note sull’argomento, si sofferma ad illustrare la causa del dissenso che divise i due grandi Fattori dell’Unltà, e crede di rintracciarla neH’amor proprio offeso di Garibaldi, per la mancata comprensione che il M. ebbe del suo valore strategico a Roma nel 1849. --, La morte di Giuseppe Mazzini, in « Voce del Popolo », Detroit (Michigan), 7 Marzo 1930. Breve nota commemorativa del Mazzini nel 58' anniversario della morte. Bibliografia Mazziniana P. A. F., Giuseppe Mazzini, in « Voce del Popolo Italiano », Cleveland, Ohio, 9 Marzo 1930. * Breve commemorazione del Grande: « Marx basava i suoi principi evolutivi sulla violenza, Mazzini sull’educazione. Principio e base dell’educazione pose il DOVERE, ragione unica di vita, fonte di civiltà, avente di mira non uomini più ricchi, ma uomini migliori. Giuseppe Mazzini prese da Cristo e da Francesco d* Assisi, da Platone e da Savonarola, ed a lui, noi suoi lontani ed umili discepoli, c’inchiniamo riverenti il 10 Marzo ». --, Lo spirito di Giuseppe Mazzini, in « Italia », S. Francisco di California, 10 Marzo 1930. Breve commemorazione del 58' anniversario della morte di Mazzini. --, L'Annuale della morte di Giuseppe Mazzini è commemorato a Genova, in « Corriere d’America », New-York, Il Marzo 1930. Si dà notizia della commemorazione del 58* anniversario della morte dell’Apostolo tenuta a Genova il 10 Marzo. · Pippo da San Cataldo, Il Padre dell’Unità Italiana. Giuseppe Mazzini, in « Interprete », New-York, Marzo 1930. Strenua esaltazione degli ideali mazziniani di fronte ai detrattori della sua opera. « Ricordino gli Italiani — conclude 1*A. — che qualsiasi evento politico non autorizza a segregare nel dimenticatoio Giuseppe Mazzini, che a dispetto di tutto l’ammuffito clericalismo, trionfa, conquista, riforma! 11 suo motto: a Dio e Popolo», «Pensiero ed Azione» risuona ancora come una tromba di riscossa ». Opere e studi su G· Mazzini pubblicati in Italia. G. Gambarin, Il Mazzini, il Manin e la difesa di Venezia, in « Archivio Veneto », Venezia. 1929. Importante contributo alla conoscenza dei rapporti che intercorsero fra il giovine Mazzini ed il Tommaseo, sia per i documenti inediti che il G. pubblica — fra cui varie lettere del Mazzini dal 1830 al 1850 — sia per la ricchezza di notizie originali che l’A. dà del Manin, del Tommaseo, del Korzeniowski, del Pincherle e del Reatelli. Lo studio è stato segnalato da A. C. nel o Giornale di Genova» dell* 11 Gennaio 1930, nel quale, di proposito, si tratta dei rapporti che intercorsero ha Mazzini e Tommaseo. Luisa Gasparini, Giulietta Pezzi, (Spigolature dal suo Archivio) in « La Lombardia nel Risorgimento Italiano » Milano, fase. 17°, Gennaio 1930. La G. studia i rapporti fra la Pezzi ed U Mazzini dal *48 al '70, corredando l’importante contributo con la pubblicazione di varie lettere inedite del Mazzini alla patriota lombarda. Fulvio Cantoni, Lettere inedite di Mazzini del nostro Museo del Risorgimento, in « Carlino della Sera », Bologna, 5 Febbraio 1930. 11 valoroso Direttore del Museo del Risorgimento di Bologna pubblica due importanti lettere inedite del Mazzini, una del 25 Agosto 1834 alla Craufurd e l’altra al Saffi del 26 Set- 95 tembre 1871 ; la prima pochi mesi dopo la fallita invasione della Savoia, la seconda per delegare Saffi a rappresentarlo al Congresso operaio di Roma. Sobrio e preciso è il commento del Cantoni. La lettera al Saffi è stata ripubblicata da « Camicia Rossa », di Roma del 15 Febbraio e l’articolo integralmente riprodotto ancora nel « Corriere Mercantile » di Genova del 20 Febbraio. Cesare Tevenè, A proposito di un prestito a Giuseppe Mazzini, in « Telegrafo », Livorno, 15 Febbraio 1930. Il T., sulla scorta delle lettere dal Mazzini al Mayer, dimostra essere stato l’illustre pedago-gista a concedere nel 1838 al Mazzini un prestito di 4000 franchi, e non Pietro Bastogi. come fu sospettato fino ad ora. Giovanni Canevazzi, Una lettera obliata del Triumviro, in « Corriere Padano », Ferrara, 28 Febbraio 1930. Preceduta da un sagace, acuto e serrato commento, il chiaro storico modenese pubblica una lettera del M. ad ignoto del 16 Aprile 1849. Il C. identifica il destinatario in Carlo Mayr, Preside per la Repubblica di Ferrara in quei gloriosi momenti. La lettera del M. è fra le più importanti scritte dall’Apostolo mentre era Triumviro: è un accorato appello alla concordia degli animi in momenti in cui il demone della discordia sembrava dominare su tutto; è una mirabile pagina di fede che ancor oggi risentiamo viva e vibrante, come la dovettero sentire i ferraresi sui quali la parola del M. sortì un magico effetto. Roberto Mirabelli, Mazzini ed il riscatto del Mezzogiorno per l’Unità della Patria, in « Vita Italiana », Roma, Febbraio 1930. 11 M. riprende in esame l’opera del Mazzini, di Garibaldi e Cavour nella ormai üexata quaestio della annessione del Mezzogiorno, dopo l’impresa dei Mille dimostrando la parte preponderante che vi ebbe il grande Genovese insieme a Garibaldi. Non risparmia invece giudizi assai aspri sull’azione svolta dal Cavour. Rinaldo Caddeo, Una dama triestina del Risorgimento contrabbandiera di giornali mazziniani, in « Piccolo », Trieste, 29 Marzo 1930. Il C., che sta pteparando una Storia della Tipografia di Capolago, presenta una primizia del suo studio illustrando la figura di Carolina Follcner in Baratelli, seguace di Mazzini. Una messe considerevole di documenti inediti arricchisce l’importante studio su un personaggio fin ad ora poco noto. Antonio Monti, La spedizione dei fratelli Bandiera, in « Corriere d~lla Sera », Milano, 31 Marzo 1930. Lo storico lombardo porta un notevole contributo alla storia dell’eroico tentativo, illustrandolo fra l’altro, con una importante lettera inedita di Mazzini a Giovanni Ciani del 29 Settembre 1845. Spadoni Giovanni, Ancora del misterioso « Cerq. » di una lettera del Mazzini. in « Le Marche nel Risorgimento Italiano », Macerata, Marzo 1930. A proposito del mazziniano « Cerq. ·>, non meglio identificato, lo Spadoni in una breve nota dimostra esser egli Torello Cerquetti di Montecosaro, che a lui a Bastia invia una lette- 96 Bibliografia Mazziniana ra il La Cecilia il 6 Luglio 1850, « nella quale appunto dimorava nel Febbraio 1852 il Cerq della lettera del Mazzini a Nicola Fabrizi ». E questo lo Spadoni scrive in risposta ad alcuni dubbi sollevati su questa identificazione dal Menghini e dal Michel. Giovanni Spadoni, il carteggio politico di Giacomo Ricci con lettere inedite di Mazzini, Gioberti e Rosmini, in « Le Marche nel Risorgimento Italiano », Macerata, Marzo 1930. Lo S. pubblica una importante lettera inedita del M. a Giacomo Ricci del Marzo-Aprile 1835, riferentesi alla traduzione dell’operetta del Mickiewicz, Livre du pèlerin Polonais. Ribadisce in essa — scrivendo ad un avversario politico — i suoi concetti sulla missione della Polonia, della Germania e dell’Italia, e conclude in tal modo: « Se inviandomi il manoscritto vorrete darmi nuove di voi e dell’ottimo Pepoli mi fate cosa grata, abbracciatelo per me e ditegli, che siccome egli ha diviso la credenza che ci dipingeva un tem po come scamiciati, avidi di tuffare il braccio nel sangue e divoratori di bambini allo spie do, così spero ei non creda ancora — benché in Parigi — nemici mortali d’Italia, congiurati alla rovina dei buoni e investiti di pieni poteri da Metternich ». Alla lettera lo Spadoni fa seguire un importante ed esauriente commento. Alice Galimberti, Luci Mazziniane nel Sindacalismo Nazionale, Roma, Pensiero ed Azione, 1930. L’A., ben nota per l’ottimo studio sullo Swinburne, dedica quest’opera aH’illustrazione dell’importanza che vien data nella dottrina mazziniana al problema sociale. Lo studio ricco di riferimenti storici, conclude con l’affermazione che il M. è « il vero e proprio precursore del Sindacalismo attuale che è eminentemente nazionale nello spirito e nelle forme ». G. Mazzini, 1 doveri delVUomo, con introduzione e note di Francesco Landogna, Livorno, Giusti, 1930. E’ una nuova accurata edizione del prezioso gioiello mazziniano, con numerose note illustrative del pensiero e dei fatti cui si allude nel testo. Una ricca bibliografia completa il valore della pregevole pubblicazione. Articoli vari in Riviste e Giornali, L. Salvini, Salata Francesco, Un precursore : Carlo De Franceschi, in « Bibliografia Fascista », Roma, 15 Dicembre 1929. Breve segnalazione del discorso pronunciato dal Salata il 23 Giugno 1929 a Pisino, inaugurando un busto di Carlo de Franceschi, un mazziniano fra i più ardenti pionieri dell’italianità deiristria. --, Una lettera inedita di Giuseppe Mazzini, in « Bibliografia fascista », Roma, 31 -Dicembre 1929. È segnalata la lettera pubblicata da Mario Batiistini nel fase. Ili (1929) di questo Giornale. Guido Bustico, Regaldi e Kossuth, in « Il Solco Fascista », Reggio Emilia, 31 Dicembre 1929. Il B. rintraccia nel volume del Katsner, più volte da noi segnalato, quanto si riferisce ai rapporti interceduti fra il novarese Giuseppe Regaldi ed il Kossuth. 97 Regaldi si avvicinò alle idee del grande ungherese, quando egli si distaccò dal Mazzini, anzi, secondo il B. fu lui che « riaffermò una volta di più nel Kossuth la convinzione che avvenire d Italia stava nel costituzionalismo piemontese e non nelle idee rivoluzionarie del Mazzini ». —, Ï diruti della verità e della storia, in « Fede e Ragione », Fiesole, 31 Dicembre 1929. Risposta polemica alla nota del «Corriere Padano» dell’8 dicembre 1929, tratta dall’ « Augustea », del 31 Novembre, già da noi segnalata. Si riconferma, fra l’altro, che « il Mazzini fu sempre repubblicano, e per abbattere la monarchia avrebbe chiesto aiuto anche dallo straniero... ». Antonio Bruers, Vindice dei libri proibiti, in « Gerarchia », Milano, Dicembre 1929-30. Il B. esamina i criteri cui se ispirata la recente ristampa dei libri proibiti dalla Chiesa Cattolica e dopo una succinta ma precisa disanima delle incongruenze che in essa si rintracciano, afferma: ««Chiara, adunque, la necessità che la stessa gerarchia intervenga a giudicare e classificare i libri, e tale sarebbe la funzione dell’indice. Ma l’indice non contiene che una minimissima parte dei libri vietati, e, appunto per questo, la lettura di esso non solo non è sufficiente, ma in taluni casi può essere pericolosa. Cito qualche esempio: Giuseppe Ferrari è citato, non è citato Giuseppe Mazzini. Nessuno deve concludere da ciò che Mazzini sia un autore canonico. Di Emanuele Kant è segnalata una sola opera ; guai a dedurre da ciò che altre opere del fondatore della filosofia moderna siano approvate, e leggibili senza permesso. Gli idealisti Fichte, Schelling e Hegel sono eterodossi, ma il loro nome non appare nell’indice. Forse ciò avviene perchè la loro eterodossia è evidente e notissima? E allora perchè è conservato nell’indice Voltaire, la cui eresia è molto più nota di quella di Mazzini o di Hegel?». E conclude: «Se il buon senso non dovesse qualche volta piegarsi al senso comune, Πη-dice dovrebbe registrare tutti i libri, in maggiore o minore misura, non conformi alla dottrina e alla piassi della Chiesa. Un simile censimento conterrebbe, anzi che le poche migliaia di libri citate dall'indice, due terzi almeno dello scibile moderno, specialmente filosofico e letterario; e offrirebbe, a chi ne avesse bisogno, un’idea più concreta della posizione della Chiesa di fronte al mondo che è fuori della Chiesa e del problemi che questa posizione lascia aperti, e inesorabilmente rinnova, per l’una o per l’altro; col processo, che ne deriva, delle reciproche reazioni, delle mutue influenze >.. Cesare Botto Micca, Garibaldini e Mazziniani di F. E. Morando, in « Pensiero », Bergamo, 10 Gennaio 1930. Breve recensione dello studio del Morando già segnalato. Luigi Raya, Una lettera inedita di A. Saffi sui due Mazzini, in « Piccolo della Sera », Trieste, 1° Gennaio 1930. Importanti notizie sul Mazzini dà A. Saffi in questa lettera inedita diretta il 14 Giugno 1879 a certo Signor Besonfigli, che aveva identificato nell’Apostolo un suo omonimo Andiea Luigi Mazzini, toscano, sul quale il Rava dà copiose notizie. Alma Adelias, La vita di Mazzini narrata ai giovani fascisti da Armando Lodolini, in « Giornale dell’isola », Catania, 4 Gennaio 1930. Breve recensione del volume del Lodolini cui s’è già accennato. 98 Bibliografia Mazziniana Alfredo Testa, Per un Monumento, in « Grido d’Italia », Genova, 5 Gennaio 1930. Prendendo lo spunto dalle .recenti polemiche avvenute per l’erezione a Roma del monumento a Garibaldi, l’A. scrive: «Non è assurdo che a Roma, ove esistono monumenti a Vittorio Emanuele, a Garibaldi e a Cavour, non debba esistere un monumento all Apostolo del-l’Unità Italiana, al Triumviro del'a Repubblica Romana, a Colui che, considerandola il Tempio dell’Umanità; spese tutta la vita per fare, da essa e per essa, 1 Italia iniziatrice di una terza missione civile fra le genti ». Alberto Lumbroso, Un mazziniano genovese obliato: Giuseppe Martini, in «Gazzetta del Popolo », Torino, 6 Gennaio 1930. Acuta rievocazione, ricca di notizie, dello storico ligure Giuseppe Martini, che il L. deplora, e con ragione, che non sia tenuto nella considerazione che merita dagli storici del Risorgimento. — —, Luigi Zacchi, Poesie e vita di Osvaldo Zocchi, scritta dal figlio Luigi, in « Tribuna », Roma, 8 Gennaio 1930. È segnalato questo studio sullo Z. ch’ebbe rapporti d’amicizia con molti uomini illustri del suo tempo, fra i quali rintracciamo anche Giuseppe Mazzini. Arnaldo Cervesato, Un amica di Mazzini: Malvida di Meysenbug, in « Regime Fascista », Cremona, 11 Gennaio 1930. Il C. rievoca i rapporti di simpatia intercorsi fra il M. e l’autrice dei « Ricordi di un’idealista », senza apportare alcun nuovo contributo ad essi. L’articolo è stato ripubblicato dalla « Gazzetta » di Messina del 15 Gennaio e dal « Popolo di Brescia », del 17 Gennaio 1930. p. d., Una nuova vita di Mazzini, in « Poipolo d’Italia », Milano, 12 Gennaio 1930. E’ preso in esame dall’A. il voi. già segnalato del Lodolini. Afferma il recensore nella sua conclusione: «Oggi, in questo libro, vediamo chiaro che senza la religione del Dovere, rivelazione divina ed eroica, pratica ed umana, non vi sarebbe vera vita fascista tutta intesa e protesa, nelle imprese come neH’umiltà quotidiana del costume, a superare nell’azione oltre che nelle parole, con onestà, con sincerità, col sacrificio, l’angustia dell’or-dinaria e volgare realtà. Porre in luce questo profondo rapporto è lo scopo che si ripromette il libro del Lodolini il quale ha saputo raggiungere nel modo più degno il proprio intento ». Eugenio di Carlo, I « Cacciatori del Faro », in « Gazzetta », Messina, 15 Gennaio 1930. E’ recensito lo studio del Casanova sul Fabrizi già segnalato, dal quale mette sopprattutto in rilievo l’importanza delle notizie riguardanti l’opera svolta da F. nella Sicilia orientale, opera fino ad ora poco nota. --, Colpa nostra, in « Augustea », Roma, 15 Gennaio 1930. Risposta polemica a « Fede e Ragione », che replicando all’articolo « Libellisti all’opera » del 30 Novembre 1929, già da noi segnalato, dichiara che si rivolge « al Corriere Padano e ai giornali che l’hanno copiato ». In essa, dopo aver rivendicato la priorità della pubblicazione da parte della rivista romana, si soggiunge: «Quanto alle cose opposte da «Fede e Ragione », rileviamo semplicemente che se la critica storica ha dei diritti ben chiari. Bibliografia Mazziniana 99 essa non deve servire alla diffamazione. E ripetiamo che non è lecito prender pretesto dagli errori mazziniani per gettare il fango sulla vita privata di Giuseppe Mazzini, cui 1 amor di Patria potè far velo. E’ sempre meglio aver velato lo sguardo da un tale amore che non dai vapori miasmatici del livore. Gli scrittori cattolici di « Fede e Ragione » dovrebbero pur sapere che verità storica non è sinonimo di « sputacchiamento dei cadaveri ». d., (( Onorare il bene », in « Osservatore Romano », Roma, 23 Gennaio 1930. Il giornale del Vaticano commenta in tal modo una conferenza tenuta a Milano il 20 Gennaio da Innocenzo Cappa su «Mazzini e Cattaneo come critici letterari»: « Chi non ricorda Innocenzo Cappa oratore vertiginoso della repubblica e dell’anticlericalismo delle vecchie democrazie? Adesso è un altro. Adesso, lo dice lui stesso con la sottile ironia del suo carattere, è Senatore del Regno; adesso, e lo dice con una ritrosia commossa che merita ogni rispetto, si avvicina a Dio. Leggetelo: « Mazziniano ed ottimista fui quando fanciullo scopersi in Giuseppe Mazzini la possibilità di credere in Dio. e mazziniano moralmente ridivento ora che alla certezza di Dio mi sto riavviando (non rida) con molto travaglio e con un’infinita dolcezza, benché percosso dalla conoscenza di tutte le mie miserie ». La strada gira molto lontano; ma anche la luce di Dio arriva ai più lontani e impensati orizzonti ; e noi ci auguriamo che questa attrazione verso la' Divinità conduca Innocenzo Cappa all unico vero Dio, che non è quello nebuloso e raziocinante di Mazzini, ma quello che forse egli apprese dalle semplici labbra materne. Intanto il sen. Cappa compie un’opera buona, che gli può davvero meritare questa grazia divina. Egli ha avuto occasione di fare quella confessione nel ribattere sulla Sera all’assurda prosopopea letteraria di Marco Ramperti, il quale osava sostenere che un artista, soltanto perchè artista, è sempre innocente e innocentissimo, anche se pervertito nel costume, ladro od omicida. No, replicava il Cappa, l’artista deve « onorare il bene » e « non servire il male » e l’arte non può assolvere dai delitti, altrimenti che cosa penserebbe il popolino? — « Eccoli costoro — penserebbe — che hanno peccato ! Adoperano l’autorità dei grandi per giustificare sè stessi ! » E questa volta si potrebbe dir proprio: giudizio di popolo, giudizio di Dio! ». Dedalo, Giulia Calame-Modena, in « Messaggero », Roma, 17 Gennaio 1930. Breve profilo della ben nota seguace del Mazzini. L’a. si sofferma ad illustrare l’opera di pietà da lei svolta negli ospedali di Roma durante l’eroica difesa di Roma del 1849. --· La prolusione del Sen. Cappa all9inaugurazione della Cattedra Mazziniana, in « Roma », Napoli, 27 Gennaio 1930. Succinto resoconto della conferenza tenuta a Napoli dal Cappa il 26 gennaio su « La vera grandezza di Giuseppe Mazz.ni ». Il C. concluse il suo discorso con queste parole : « Sono anch’io un operaio, siete tutti degli operai: il prete sull’altare, il sacerdote che prega, il soldato che si batte in trincea, il chimico sul suo cristallo, l’astronomo con gli occhi nel cielo, l’eloquente che suscita entusiasmo e difende il diritto, il musicista che attraversa i confini e canta il sorriso ed il pianto della umanità ! Operaio se semino, operaio se raccolgo, operaio se prego, operaio se studio, operaio se amo, operaio se soffro, operaio se muoio ! Ma colui che ama l’Italia non muore: la bara è una culla e la morte una trasformazione! Mazzini è risorto perchè la sua grandezza è questa: apostolo della fede in Dio, nella Patria e nella umanità ! ». P. Pantaleo, / Libri, in « Regime Fascista », Cremona. 31 Gennaio 1930. Esame critico della Vita del Mazzini del Lodolini. Il P., dopo aver messo in rilievo lo scopo divulgativo dell’opera, che non ha permesso all’a. di illustrare « tutti gli aspetti della Bibliografia Mazziniana vita del grande Genovese», conclude: «L’essenziale è che i giovani sappiano chi è Mazzini e sentano il desiderio, dalle pagine di Lodolini, di assurgere ad una più profonda conoscenza di Lui. Egli è una di quelle figure gigantesche della Storia che più si conoscono più si amano, e più se ne intuisce la eccezionale importanza e maggiormente si valuta la funzione, in ordine ai tempi ed alle cose, che esse hanno esercitato e tuttora ese:citano, figure che tempo e avvenimenti non scalfiscono menomamente, ma elevano sempre più in alto sul piedestallo della storia umana e della riconoscenza del genere umano. Va dunque data lode allo scrittore che colla Vita di Mazzini richiama i giovani a ritemprare nel suo esempio la loro fede e le loro eneigie, se realmente vogliono consacrarsi alla Patria». Raffaele Cotugno, Giuseppe Massari a Parigi (1838-1847), in « Iapigia », Bari, Gennaio 1930. Il C. pubblica una parte di una sua biografia sul Massari, che promette d'imminente pubblicazione. Interessa in queste pagine l’esame ch’egli fa dei rapporti ideali intercorsi fra gli emigrati italiani in Parigi e soprattutto perchè chiarisce l’attegg amento assunto di fronte alla filosofìa del Lammenais dal Gioberti, dal Mazzini e dal Mamiami « avverso a repubblicani e Mazzmolatri ». Luigi Volpicelli, Mazzini c Kossuth, in « Leonardo », Milano, Gennaio 1930. Breve recensione del voi. del Kastner più volte segnalato. Alberta Sacchi, Gabriele Rosa nel Risorgimento Italiano, in « Brescia », Brescia, Gennaio 1930. Breve nota biografica, ricca di notizie, sul noto mazziniano R., uno fra i primi e più entusiasti seguaci lombardi dell’Apostolo genovese. Eusebio, L'Arco e la Clava, in « La Torre », Roma, Gennaio 1930. La nuova rivista romana interviene, in questo suo primo numero, nella polemica, da noi segnalata fra « Fede e Ragione » e il « Corriere Pagano », difendendo la tesi sostenuta dal giornale toscano. ·< £ proprio ad una certa sinistra ideologia politica confondere, pour cause, elementi che vanno ben distinti — scrive Eusebio —. I meriti patriottici sono una cosa e, se si vuole, una bella cosa; ma ciò che è dottrina, e difesa di dottrina, sono un’altra cosa a cui la prima non può costituire nessuna cauzione. Nel nostro caso, tutto quel che l’Italia deve ai fattori del Risorgimento, non può far sì che il giudizio sia meno severo nei riguardi delle ideologie cui spesso si associò, ideologie sospette quanto mai, infette di massoneria, di umanitarismo protestantico, di demagogia antimonarchica e repubblicana, di una pseudoreligiosità degradata a mistica del « popolo ». ' E ciò è bene che sia detto con chiare parole, perchè oggi non manca chi giuoca appunto al « mito » del « Risorgimento italiano », e pretendendo che il fascismo ne continui la « tradizione », tenta di valorizzarlo, altrimenti che per i suoi semplici meriti politici, riesumando nella persona di un Mazzini, di un Gioberti o di qualcun altro pensatore di secondo ordine, preso molto più dal « profano » che dal « sacro », dottrine quanto mai antitradizionali e anti-imperiali ». Luigi Bonghi, Una dimenticala (Emilia Ferretti-Viola « Emma ») in « La Lombardia nel Risorgimento Italiano », Milano, Gennaio 1930. Il B. rievoca la figura della Ferretti-Viola, pubblicando una lettera a lei diretta dal Mazzini il 30 settembre 1861. Bibliografia Mazziniana ιοί Ernesta Baldini, Anna Poma, eroina di Belfiore, in « Il Solco Fascista », Reggio Emilia, 4 Febbraio 1930. £ rievocata la figura eroica della madre di Carlo Poma che fu, come il figlio, una seguace del Mazzini. --, Giuseppe Mazzini nella conferenza del Dott. Bcduschi, in « Piccolo » di Trieste, 4 Febbraio 1930. Ampio riassunto della conferenza del dott. Mazzini Beduschi, tenuta a Trieste il 3 febbraio 1930. L oratore si è indugiato soprattutto ad illustrare oltre il pensatore l’uomo e la sua religiosità. La conclusione, cui giunge il B., è la seguente: «Ciò che resta del pensiero di Mazzini è I insegnamento e il riconoscimento dell’assoluta sovranità di Dio, il concetto etico del dovere, il concetto della Nazione, la missione storica della Terza Italia ». --, L’opera dei CC. RR. in Piemonte nei moti del 1834, in « Il Giornale del Carabiniere », Roma, 9 Febbraio 1930. S illustra 1 opera svolta da vari carabinieri che indussero il Ramorino a disertare il tentativo mazziniano d’invasione della Savoia nel 1834. — —? Prezioso documento scoperto da un giornalista, in « Giornale del Popolo », Lecce, 9 Febbraio 1930. Si dà notizia della scoperta fatta da Nicola Vacca nell’Archivio di Stato di Napoli dell’incartamento del processo della Giovine Italia svoltosi a Taranto nel 1837, incartamento che si considerava smarrito. Arnaldo Ceryesapo, Repubblica Romana.* 10 Febbraio 1849, in « Regime Fascista », II Febbraio 1930. La proclamazione della Repubblica Romana — secondo il C. — non « si svolge precisamente sotto dirette « influenze mazziniane », perchè in tal giorno ΓApostolo non si trovava a Roma, bensì a Livorno!». Tralasciamo di segnalare altre consimili affermazioni che si rintracciano nell’articolo. L’articolo è ripubblicato anche dalla rivista « Costruire » di Roma del febbraio. Francesco Bernardini, La romanzesca vita di Gustavo Modena, in « Popolo di Roma », Roma, 12 Febbraio 1930. Nel 69" anniversario della morte del grande attore veneto, il B; rievoca l’opera patriottica del fervente mazziniano. Vincenzo Ricca, Domenico Longo, in « Giornale dell’isola », Catania, 21 Febbraio 1930. £ illustrata la figura di uno scienziato e patriota catanese che fu tra i seguaci del Mazzini. P. G., Scipione Pistrucci (Un insigne artista e patriotta dimenticato), in « Corriere Adriatico », 21 e 22 Febbraio 1930. L’a. pubblica importanti note biografiche scritte dalla figlia del fedelissimo compagno di G. Mazzini. Francesco Landocna, La lotta di classe nel pensiero Mazziniano, in « Adriatico », Pescara, 23 Febbraio 1930. Il L. ripubblica una pagina della sua introduzione alla nuova edizione dei Doveri dell’Uomo. da noi segnalato, in cui si sofferma ad illustrare il motivo fondamentale dell’operetta. L’articolo è ripubblicato anche dalla rivista « Costruire » di Roma del febbraio. 102 Bibliografia Mazziniana l. g., La falsa firma di Mazzini, in « L’Ambrosiano », Milano, 26 Febbraio 1930* Si rievoca una delle tante losche figure di spie e di agenti provocatori, che pullularono durante il glorioso periodo del Risorgimento, quella di Pietro Perego, che fu recentemente illustrata anche dal Solitro. Il P. tradì la causa e gli amici presentando nel 1850 a Piolti de Bianchi un documento apocrifo di Mazzini e rilevando, nei suoi famigerati « Misteri », gelosi segreti, che per poco non riuscirono fatali a non pochi mazziniani alla vigilia dei casi del 1853. --, L’Università Mazziniana, in « Fedo Nuova », Roma, Febbraio 1929. Si rievocano la figura del mazziniano Felice Albani, fondatore dell’Università Mazziniana sorta nel 1922 a Roma e le vicende di tale Istituto. Si propone che gli amici che fecero sorgere l’istituzione la quale « ha vissuto di vita attiva e degna per circa quattro anni »,. assolvano il debito di onorare convenientemente il suo fondatore, col procurare i mezzi finanziari perchè l’Università mazziniana possa riprendere i suoi corsi. — —9 / romantici francesi nella critica di Giuseppe Mazzini in « Marzocco », Firenze, 2 Marzo 1930. Breve riassunto dello studio di Suzanne Gugenheim pubblicato su la « Revue de Littérature comparée », su cui ci siamo già soffermati. C. T., L’Educatore, in « Regime Fascista », Cremona, 5 Marzo 1930. Risposta polemica a\YAvvenire d’Italia, che non « concorda perfettamente nella valutazione del cristianesimo data dalla., quale prassi di vita consacrata al bene morale », come fu quella del Mazzini. Dopo aver messo in rilievo l’importanza della dottrina religiosa del M., la nota conclude: « Nella dottrina del Mazzini vi è qualche cosa che il tempo non logora. « Alla complessiva, sfolgorante purezza della dottrina mazziniana — noia il Luzio — l’anima italiana potrà sempre attingere vitale nutrimento di fede e di idealità ». Un Uomo — mi insegna sempre VAvvenire — tanto più riesce a conquistare gli animi, quanto più rifulge di splendida armonia la vita in lui, e quanto più gli uomini possono attingere in lui, nel suo esempio e nella sua vita, le necessarie energie morali per credere, lottarer sperare, e quanto maggiormente la sua Vita è una dedizione di sè a benefìcio di tutti. Mazzini fu quest’Uomo. « Ha voluto vivere, ed ha sofferto per tutti. Ha vissuto ed ha sofferto ancora per noi. Perciò noi sentiamo di poterci avvicinare sempre a lui — anche se ormai abbiamo opinioni del tutto diverse dalle sue — come a fratello, come a padre, sicuri di trovare in lui un eccitatore ed un consolatore: eccitatore nelle ore di stanchezza, consolatore nelle ore di sconforto ». L'Uomo che « ha accettato questo duro dolore, perchè ha avuto una grande, eroica visione del mondo, della storia, della vita, perchè pensava, lavorando e soffrendo, di contribuire con la sua pena individuale ad una grande opera di equità universale », è, resta, sarà /'Educatore, sia pur che dietro a Lui, nel secoli, vi sia il prototipo, di cui Mazzini è la più splendida immagine ! ». p. p., Meditando sui libri e sulla vita, in « Regime Fascista », Cremona, 7 Marzo 1930. Il P. esamina brevemente il volume del Saiucci « Amori mazziniani », dichiarando che non ha « nessuna difficoltà ad accogliere le conclusioni a cui è arrivato Γ Autore (e cioè ch’ebbe un figlio dalla Sidoli) », conclusioni che non d:minuiscono affatto la sovrana grandezza morale del Grande Italiano ». Bibliografia Mazziniana 103 Su tali conseguenze delle « conclusioni » son tutti d’accordo, ma sulla questione del figlio che il M. ebbe, non pochi sono ancora gli studiosi mazziniani che nutrono qualche dubbio. Leonida Ammaturo, I Genitori di Giuseppe Mazzini, in « Grido d’Italia », Genova, 9 Marzo 1930. Parallelo non felice fra la madre ed il padre del M. Per voler esaltare la seconda, si crede opportuno dichiarare fra l’altro che il dottor Giacomo fu <* uomo di commercio e professionista astuto... » ! Arnaldo Cervesato, Ricordando Mazzini, in « Regime Fascista », Cremona, 9 Marzo 1930. Nella ricorrenza della morte dell Apostolo, il C. si sofferma ad illustrare l’importanza della concezione fìlosofico-religiosa del Mazzini, concludendo: « Un giorno, certo, si vedrà come tutto egli domini, il vitale pensiero contemporaneo, e come non solo siano suoi prima che d’altri e il senso « dell’intuizione » del Bergson e la , dottrina della « sopravvivenza » del Myers, ma anche il « misticismo » del Maeterlink e il « senso della vita » di Tolstoi. È la necessità di ancorare il centro della coscienza, la vita di una disciplina morale ciò che il Mazzini chiamava « legge della vita ». Primato grande e « nostro ». A. Barb., La Casa ove morì Giuseppe Mazzini, in « Lavoro », Genova. 9 Marzo 1930. Si illustrano le vicende della Casa Mazzini di Pisa e si rievocano le cerimonie del funerale del Grande. A. C., Mazzini e Tommaseo, in «Giornale di Genova», Genova, 11 Gennaio 1930. L a. coglie 1 opportunità che si presenta con la pubblicazione dei nuovi documenti da parte del Gambarin nell « Archivio Veneto », già segnalata, per riprendere in esame i rapporti intercorsi fra il dalmata ed il Mazzini. Alberto Lumbroso, Mazzini e il Sindacalismo - A proposito di una Prefazione dell9On. Arrigo Solmi, in «Giornale di Genova», Genova, 11 Marzo 1930. Recensendo 1 opera di Alice Galimberti, già segnalata, il L. si sofferma ad illustrare l’importanza della prefazione al volume, dettata da Arrigo Solmi. Ernesto Morando, Giuseppe Mazzini nella letteratura fascista, in « Corriere Mercantile », Genova, 11 Marzo 1930. Acuta disamina delle recenti polemiche sull’interpretazione della dottrina mazziniana da noi segnalate in questi Appunti. Mario Bettinotti, Gli ultimi giorni di Mazzini, in « Lavoro », Genova, 12 Marzo 1930. Il B. completa le notizie date da A. Barb. sugli ultimi giorni di Mazzini in Pisa, pubblicando interessanti e curiose notizie avute da V. R. Tonissi, che le ebbe dai vecchi genitori pisani. 104 Bibliografia Mazziniana Luigi Papa, Giuseppe Mazzini da Dante a Saffi e Bovio, in « Giornale di Genova », 14 Marzo 1930. In un audace raffronto il P. riavvicina la formula Pensiero ed Azione mazziniana a quella che si rintraccia nel De Monarchia dantesca; Giovanni Bovio è ricordato come seguace del M. per aver pubblicamente dichiarato «il suo allontanamento dalla Setta Verde». L’articolo è stato ripubblicato nel « Grido d’Italia » di Genova del 23 marzo e da « L Opinione » di Spezia del 31 marzo 1930. G., Mazziniani e Garibaldini nell'ultimo periodo del Risorgimento, in « Mattino », 15 Marzo 1930. Breve recensione del volume del Morando più volte segnalato. F. Ernesto Morando, Luci Mazziniane nel sindacalismo nazionale, in « Messaggero », Roma, 22 Marzo 1930. Ampia recensione del vol. cit. di A. Galimberti. --, Giornalissimo, in « Popolo d’Italia », Milano, 22 Marzo 1930. Breve recensione dello studio di Suzanne Gugenheim sopra «Les romantiques français jugés par I. Mazzlni », già da noi segnalato. Paolo Pantaleo, La resurrezione d’Italia nel concetto di Giuseppe Mazzini, in « Regime Fascista », Cremona, 28 Marzo 1930. In un acuto saggio il P. esalta l’importanza fondamentale che ebbe 1 azione mazziniana per la restaurazione della forza morale e della rinnovazione della coscienza italiana, base fondamentale della nostra resurrezione. Direttore responsabile UBALDO FoRMENTINI INDUSTRIE POLIGRAFICHE NAVA — BERGAMO — MILANO — GENOVA GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA COMITATO DI REDAZIONE: GIUSEPPE PESSAGNO, PIETRO NURRA, VITO A. VITALE La pubblicazione esce sotto gli auspici del Municipio e della Regia Università di Genova, e del Municipio della Spezia DIREZIONE E AMMINISTRAZIONE: Gç-enoVa, Palazzo Rosso, Via Q ariialài, 18 CONDIZIONI D'ABBONAMENTO : II Giornale si pubblica a Genova, in fascicoli trimestrali. Ogni fascicolo contiene scritti originali, recensioni, spigolature, notizie ed appunti per una bibliografia mazziniana, ABBONAMENTO ANNUO per Γ Italia Lire 30 ~ per Γ Estero Lire 60 Un fascicolo separato Lire 7 .óO ~ Doppio Lire ló Conto corrente con la posta ANNO VI - 1530 Fascicolo II - Aprile-Giugno GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA \ fondato da ACHILLE NERI e UBALDO MAZZINI ì Pubblicazione Trimestrale NUOVA SERIE diretta da Arturo Codignola e Ubaldo Formentini XfXBTlï ' ir! μ 'TI* Direzione e Amministrazione GENOVA, Palazzo Rosso, Via Garibaldi, 10 A λ W —— SOMMARIO — [ A. Bassi, Le Refezioni tra il Ducato di Savoia e la Repubblica di Genova ai tempi di Emanuele Filiberto —- M. Celle, Classicismo di oggi e di ieri: Genova e la Liguria ne! quattrocento umanistico — R. di Tucci, Le imposte sul commercio genovese durante la gestione de! Banco di S. Giorgio — VARIETA’: V. Vitale, Come si procurava un ufficio nel secolo XIII - F. Noberasco, I nomi di donna in Savona al * finire del secolo XII - Le onoranze a Luigi G. B. Pandiani — RASSEGNA BIBLIOGRAFICA : R. Quazza, Emanuele Filiberto di Savoia e Guglielmo Gonzaga (Carlo Bornate) - R. Quazza, Margherita di Savoia (Carlo Bornate) - C. Bornafe, Una missione segreta di Bernardo Tasso ( Vito Vitale) - Gino Masi, La struttura sociale delle fazioni politiche fiorentine ai tempi di Dante (Vito Vitale) — SPIGOLATURE E NOTIZIE - APPUNTI PER UNA BIBLIOGRAFIA MAZZINIANA. t LE RELAZIONI TRA IL DUCATO DI SAVOIA E LA REPUBBLICA DI GENOVA AI TEMPI DI EMANUELE FILIBERTO Emanuel Filiberto e la sua opera. Relazioni con Genova. — Figura della Storia nostra affascinante fra Faltre tutte è quella di Emanuel Filiberto: tale da invitare a dedicarvi anni di pazienti ricerche studiosi, quali il Promis, il Ricotti, il Carutti, il Claret ta, fra i « classici », nel secolo scorso: quali una pleade di moderni, come iili Caviglia, il! Maravigna, il Brancaccio e i miei compagni di giovinezza e di studi: Armando Tallone, Carlo Patrucco, e il più competente forse fra tutti, Arturo Segre, mancato ancor vigoroso durante il centenario, e da cui appunto, per l’opera .vasta già dataci, tanto ancora attendevamo. Ultimo fra gli ultimi storici deli Duca potrei venire io, che nella giovinezza lontana ho consacrato a questo splendido personaggio della storia vari anni di indagini coscienziose: dapprima all’Archivio di Stato di Torino, poi a questo di Genova, ricavandone un vasto mate· rftalle inedito; e completando le ricerche con spogli di pubblicazioni e dii mss di Biblioteche e Archivi municipali o privati: specialmente le Biblioteche del Re e del Duca di Genova, a Torino. Non credo che alcuno piangerà sulla calamità patria delle mie mancate pubblicazioni, che avrà abbastanza ragione di affliggersi per quello che parcamente g»li concessi: nè mi chiederà le ragioni del mio silenzio, che sono parecchie e dolorose. Ma poiché tento dare un fugacissimo cenno de’ risultati ottenuti, mi si permetta (a scanso di illusioni) ch’io dica subito che non par-i lerò qui di Emanuel Filiberto sotto i suoi aspetti più gloriosi o ap-riscenti. 11 mio è Emanuel Filiberto visto in casa sua, ne’ suoi Stati, prima e dopo aver rappresentata la sua grande parte nella storia del mondo Ira Canio V suo zio e Francesco I suo cugino primo, più tarldi tra Filippo li suo primo cugino pure, divenuto poi suo nipote, ed Enrico lì, cugino in secondo grado, trasformatosi in cognato. Fra tutti questi parenti prossimi egli imparò prestissimo a destreggiarsi, mentre riceveva e ricambiava le più calde effusioni d’affetto e si raccomandava a Dio e alla Vergine, che lo proteggessero dalle loro ca- $0 106 Adolfo Bassi rezze. Giovinetto sceglie una divisa che dice chiaro l’animo suo: un braccio nu-do, che nel pugno stringe una spada sguainata, e sotto SI motto: « Spoliatis arma supersunt ». Dopo Cateau Cambrésis l’altro suo molto « Pugnando resfituk rem » dice una mela fortemente voluta e raggiunta. Ma dopo allora Emanuel Filiberto diventa... come dire?... nelle proporzioni dovute e senza la minima irriverenza, anzi con nostra ammirazione infinita, una buona massaia che, rientrata !in casa sua dopo un saccheggio furioso, ritrovandola ipiena di orrori e sconcezze, squallida e nuda, le porte sgangherate e le finestre infrante, i muri sgretolati, ma ancora covo di ladruncoli notturni, caccia via costoro a colpi di scopa, ripone porte, finestre e spranghe, e comincia l’opera di pulizia e di restauro, rifacendola in pochi anni ricca e più splendida di quanto fosse mai stata ai tempi del maggior lustro degli avi. Ma questo lavoro non ilo si compie attraverso ad imprese eroiche: cosicché Emanuel Filiberto — restauratore dei (propri Stali, riordinatore delle finanze, creatore di un esercito nazionale e d’una flotta; che esclude a poco a poco spagnuoli e francesi dalle fortezze (piemontesi ; che custodisce i suoi confini, e che vigile difende i suoi diritti, pronte le armi, ma sempre evitando di usarle, preferendo la calma e sagace discussione, sostenuto dalla fede d’essere giusto, — arrischia di non apparire più un eroe. Non è più la virtù dei momenti di ebbrezza tragica, che erompe in un gesto di gloria: ma è la virtù di tutta una vita di propositi arditi e lentamente, silenziosamente, tenacemente realizzati. E tale virtù modesta è la più difficile a mettere in atto e, a raccontarla, meno interessante. È di questa virtù ch'io vorrei dire, mostrandone l'estrinsecazione in qualche lato, durante le relazioni del Duca con Genova. 11 ritrovar-ne le tracce ne* documenti è un pochino più difficile, che il ricercare la classica mammoletta nel bosco, anzi nella fitta schiera di filze cha s‘addensa nel nostro Archivio di S. Giorgio. Quivi, anni fa, a me pareva di dipanare la storia, mentre sfacevo i nodi di quelle filze a volte intatti da secoli. E leggevo, selezionavo, trascrivevo lettere a migliaia: lettere al Senato, minute di risposte dettate da esso ai cancellieri della Repubblica, relazioni di cerimoniali: tutta una caterva di corrispondenza dal 1504 al 1580: notizie trasmesse da podestà ili tutti i paesi delle Riviere, da capitani e castellani, da feudatari, da nocchieri e capitani di mare: notizie dalle Colonie, dalla Corsica, da tutti gli Stati Italiani ed Europei. E a poco a poco venni in domestichezza con tutti i grandi del tempo: conobbi a prima vista le firme di guerrieri famosi e di princìpi, di re e di imperatori, (spesso misteriosi geroglifici) e vissi a fianco di Andrea D’Oria e di Carlo II di Savoia, (palpando le carte che ne serbavano il tocco, e senza tremare ressi i fogli, che avevano già retti le mani gottose di Carlo V Imperatore o le femminee dita di Francesco I. Le Relazioni tra il Ducato di Savoia e la Repubblica, ecc. 107 Ma i mi eli cari amici furono Emanuel Filiberto, Margherita di Valois, la sua degna consorte, e il1 piccolo Carlo Emanuele; mentre m’Iispìirò sempre repulsione Filippo!! di Spagna, che (come il padre) firmava orgogliosamente: « Yo el rey ». Ore di scoperte mute e inebrianti, che compensavano diinghe giornate di lavoro infruttuoso, e che rievoco ora col desiderio di trasfondere nei lettori, la mia gioia di allora, ...e col timore non infondato di ottenere lo scopo opposto. ¥ ¥ ¥ Emanuel Filiberto, principe di Piemonte, a Genova nel 1537. -Sua lettera, del 1540 al Senato. - A Genova nel 1541 con Carlo V. - L’attentato del 1544 a Nizza contro di lui, fallito. La pace di Crépy. - Emanuel Filiberto nelle Fiandre. Nel 1551 torna in Italia, sbarcando a Genova. — Ricordi, non relazioni politiche, legano la fanciullezza triste di Emanuel Filiberto alla Genova di Andrea D’Oria. Qui egli capitò novenne, ospite povero ed oscuro. Divenuto principe ereditario, fra ili doilbre suo e dei suoi per Ha morte del fratello Luligi alla lontana corte di Carlo V, aveva veduto i suoi stati futuri funestati dalFSnvasdone degli eserciti del re di Francia, suo zio; era fuggito a Vercelli co’ genitori spauriti; aveva attraversato fra mille pericoli le sue terre saccheggiate. Già Principe di Piemonte: ma di quale Piemonte, ridotto a minimi termini! L’Aostano, Ivrea, Vercelli: lassù fedeli sudditi: qui devoti, ma scossi dallDe sventure. Più giù, Asti e Cuneo, resistenti nell’inferno dell’invasione. E di là delle Alpiy Nizza, perla del! ducato e rifugio sicuro. Quivi sii recarono, da Genova ;per mare, i Savoia in quel tristissimo 1537: ma anche in quell’asilo, nuovi e più terribili dolori attendevano il principino. Qui la beüllissima Beatrice di Portogallo, Ha madre amorosa del piccolo Emanuele, che aveva sostenuto la fiducia e SI coraggio del marito, il buon Carlo II, ed era stata indomabile contro la sorte avversa nella fuga dai suoi stati, moriva nel dare alla luce una creatura formatasi e cresciuta fra tanti spasimi, e che si spegneva con M. Ma morendo essa, nel gennaio 1538, lasciava ad Emanuel Filiberto la eredità più preziosa: un carattere energico, una volontà inflessibile, una fede in Dio e nel destino più forte d’ogni avversità. EdS il fanciullo — che sentiva come uno spasimo la mancanza delle madre* da cui sino allora non s’era mai staccato un momento, in una intimità di vita e di affetto che aveva fatto dei due nn solo essere — ora, col lutto negli abiti e nell’anima, soffocava iül suo dolore per prepararsi alla sua missione: e sugli spalti del castello di Nizza, fortificava nella ginnastica le membra, che aveva avute deboli e gracili da natura, e s’addestrava alle armi, per poi scendere nelfe sale ove l’attendevano & maestri, l’AUardet e Ü Provana, i quali gli dovevano dare una coltura degna di un principe. lOS iMa egli intanto accumulava dalla vita esperienze dirette, osservando i Grandi che lo circondavano. A Nizza conobbe Carlo V e Francesco I, suoi stretti congiunti, ma suoi spogliatori entrambi: e conobbe Papa Paolo III Farnese, venuto colà per accordarli, e vide i convegni deJŒa tregua e le partite di caccia ad Aigues Mortes, che sanzionavano allegramente lo strazio deli Piemonte. Ma il fanciullo aveva avuto allora il suo primo trionfo, nella dimostrazione d’affetto dei Nizzardi, che s’erano opposti all’entrata nell Castello di qualunque di quei Grandi e vii avevano invece tenuto chiuso ili principino, in affettuosa e gelosa sorveglianza, salvando sia la città dal cadere nelle mani dell Imperatore che la ambiva, sia il fanciullo dall’essere loro sottratto, e con lui l’unica speranza del Ducato. Intanto Francescol continuò ad occupare Savoia e Piemonte, e Carlo di Savoia fu costretto ad accordarsi all’imperatore e a vivere in miseria colla moglie e coi figli. Il primo documento scritto e da me trovato, che mostra relazioni tra Emanuel Filiberto e Genova, è assai antico: quando il principe non avea che dodici anni. L’importanza di esso non è grande: una raccomandazione per un suo suddito nizzardo, il capitano Agostino Scal-lier, creditore di Francesco Lomellino. Ma fa pensare e commuove: poiché il fanciullo si mostra esperto di ciò che sia povertà : cc esso capitano — dice — non è potente per litigare col prefato Lomellino, quale in spesa lo vorria confondere ; acciò gli sii administrata breve giustitia, ho pensato scrivere questa a V.e Se et pregarle vuogliano ordenar chel sii sodisfatto come vuole ragione e sommariamente, e senza litigio... E mi faranno iti ciò V.e S.e singulare piacere; offerendomi a quelle e per gli suoi, al simile e maggiore. E Signor Iddio le conservi prospere. Da Nizza, alli 20 di settembre 1540. D. V. S. buon amico. Em. Philibert de Savoye » (*). Scritto, in italiano, ai governatori della repubblica. Con ingenuità autorevolezza e gentilezza. Due doti queste ultime che resteranno e si svilupperanno in lui per tutta la vita. Con orgoglio. Lo mostra la firma un po disuguale, ma diritta e alta; il suggellilo suo: lo stemma colla corona di Principe, e le iniziali E. P. a fianco. Nel fanciullo dodicenne si rifilette il carattere della madre, inobliabilmente viva nel cuore del figlio: imperiosa e regale, orgogliosa ed energica, quanto il marito era debole: audace nei progetti, quanto esitante il Duca: costretta a vivere fra strettezze e miserie, avendo un cuore magnanimo. Emanuele Filiberto, ne raccolse in eredità l’animo fiero e il desiderio di gloria. Nel 1541 si raccolse a Genova la flotta, che doveva andare NB. - Le indicazioni di manoscritti, in tutte le note, si riferiscono a\V Archivio di Staio, ài Genova. (1) Lettere Principi, Savoia (N. G. 2791). Le Relazioni tra il Ducato di Savoia e la Repubblica, ecc. 10Q conilo Algeri a distruggere la potenza di Kaireddin Barbarossa, il terribile capo dei pirati barbareschi, i quali colle loro fulminee incursioni seminavano il terrore e la desolazione sulle coste d’Italia e di Spagna. A dir il vero, il vecchio Andrea D’Oria non vedeva bene nel futuro, per varie buone ragioni: ma Carlo V Ho calmava bonariamente. « Ventidue anni (Γimpero per me, settaivtacinque di vita per l Eccellenza Vostra, debbono bastare ad entrambi per morire contenti » — gli diceva; e ipoco mancò che... il volo si avverasse e che entrambi perissero nella santa impresa andata a male. Non so se sarebbero morti contenti, perchè sarebbe un’ipotesi in più in un campo di supposizioni: ma questo è certo, che scamparono entrambi, e malcontenti. È in questa occasione che Emanuel Filiberto, il quale aveva allora tredici anni, e da sei era Principe di Piemonte, ritornò a Genova turrita e dal Palazzo di l· assolo contemplò la flotta di sessanta galere, adunata per l’impresa. Alla vista di quella selva di alberi, infiammato di zelo religioso e guerriero, sognò il martirio o la vittoria contro gli infedeli in quella spedizione, che pareva dovesse segnare la fine della /potenza del Barbarossa, e gettatosi improvvisamente ai piedi dello zio imperatore, lo supplicò di condurlo con se contro Algeri, dinanzi al padre stupì Lo, atterrito e lusingato. Lo zio lo calmò sorridendo e, forse indovinando in lui qualcosa dell’uomo futuro, concepì per lui quelFaffetto, che doveva presto aprire al giovinetto la via della gloria. L’anno seguente, la tregua tra Francia e Spagna è rotta: divampa la guerra -in Provenza e in Piemonte. Nizza si difende eroicamente; Cuneo sostiene un mirabile assedio. Storia bella e nota. Noi apriamo soltanto una lettera ingiallita, che da Casale, il 9 agosto 1543, spediva a Venezia un ambasciatore, per apprendere un episodio dimenticato e che ci riempie di commozione. cc Per lettere di Genoa di 6 si è inteso il Principe di Piemonte, qucil è ivi eia alcuni j)ochi dì, havendo preso per ispediente di non star a Nizza, esser avvisato d un trattato (c/ie s’era ordinato per un Msgr di Scros, persona principale di Savoia, qual tiene molti castelli) di ammazzare esso Principe nell"uscir di Nizza; per il che erano alatami tristi imboscati nella via ove si pensava chel dovesse andare, et designavano in quel rumore sollevar la città et darla in mano a Francesi, quali si pensa che con questo disegno siano venuti con ΓArmata; ma per buona sorte il Principe non uscì per quella porta che solca, ove costoro erano ascosti nelle macchie ; et per conseguente no?i fece la via che pensavano, di modo che la cosa non gli è riuscita. Di questo el detto Principe havea inteso qualche cosa; hora per lettera gli è confirmato co ’Z nome de molti compiici ». Egli adunque, obbedendo al Duca, riparò a Genova, ove non si stancava di supplicare, ahimè invano, la Signoria che mandasse soccorsi alla città assediata, e donde spronava il padre a salvar Nizza, 110 Adolfo Bassi « base salda per di ricupero finale della vostra terra », senza più oltre^ curarsi del perìcolo da lui corso. Che sarebbe accaduto se l'assassinio fosse stato eseguito?... Certo la storia del Piemonte e d*Italia avrebbe avuta tutt’altra vicenda. Ma Giovanni Grimaldi, signore d’Ascros, Todone e Cadenet, che aveva ordito l’infame delitto, ebbe pronto castigo dal Cielo, che Tanno dopo morì in Piemonte, alla battaglia di Ceresole. Nel 1544 s’ebbe la pace di Crépy, in cui Francesco I prometteva rendere gli stati sabaudi allo zio al! momento delle nozze del Duca d’Orleans, suo figlio, con una principessa d’Asburso. La morte del Duellino l'asciò il povero Carlo II ancora senza stato. Eppure, per le sue mire misteriose, la Provvidenza apre la via della fortuna ad Emanuel Filiberto adesso, quando (più tristi sembrano le sorti della sua famiglia. Appena egli ha raggiunto i 17 anni, l’imperatore (che ad una sua nuova supplica di condurla seco alla guerra, aveva risposto, nel 43, con un secondo rifiuto) gli concede finalmente di andare nellb Fiandre, nel 1545. In quegli anni che precedono la ripresa della guerra di predominio franco-spagnuolo, Emanuel Filiberto si addestra alle armi e al governo nelle Fiandre inquiete, sai'endo di grado in grado, da piccoli comandi di cavalleria alle più alte cariche; pur sempre travagliato dalla scarsezza del denaro, dalla necessità di far debiti, dalle difficoltà di porvi riparo: specialmente-quando è costretto a seguire la Corte. Nel 1551, finita la dieta d’Augusta, ottiene di seguire l’infante Filippo in Italia e in Spagna: e da Milano corre a "Vercelli a riabbracciare il padre, per riunirsi a Filippo a Genova. E con lui va a Barcellona, ove per la sua avvedutezza tutti sfuggono ad un abile colpo, tentato dal Priore di Capua, Leone Strozzi, al servizio di Francia, contro loro, che ancora ignoravano della rottura della pace. Di lì con gli sposi re di Boemia, tutti ritornano in Italia. In una curiosa lettera da Albenga del 7 luglio 1551, del Podestà Lorenzo Fornari, è descritto l’arrivo e le accoglienze fatte a’ Reali ed al seguito sono ritratte al vivo. Nella corsia della capitana, Andrea D Oria riceve il Podestà a sedere; i Re di Boemia, stentando a dir qualche parola italiana, ringraziano con profusione di sorrisi: l’infante Filippo tace e « come [benché] travagliato dai- mare, entrò nella camera et stette a vedere tutto [i regali], cosa per cosa et essendovi fra l’altre una corba di bellissime pere camogline, se la fece iporgere e ne prese, per quanto mi hanno detto quelli che erano alla scala ». « Venne poi in terra l'eccellentissimo Principe di Savoia a spasso, ed io con buona compagnia il visitai e invitai, e non volendo Sua Eccellenza fermarsi, l'accompagnai un pezzo sin che volle partirsi ». (1) Nel 1552, di nuovo passa per Genova Emanuele Filiberto al se- (1) Lettere al Senato, 'filza 34) lettera N. 466. Le Relazioni tra il Ducato di Savoia e la Repubblica, ecc. ili guito di F*ilip;po : -poi per Innsbruch si reca nelle Fiandre, nominato al comando della cavalleria fiamminga, dopo una breve campagna militare in Piemonte, in cui si persuase subito che, malgrado*5 alcuni buoni successi da lui ottenuti, non era possibile salvare lo Stato infelice. iPer altra via egli sarebbe giunto alla méta. ❖ $ Emanuel Filiberto Duca di Savoia nel 1553. Sue lettere alla Repubblica di Genova nel 1555, per la difesa di Nizza. Una questione PER LA GABELLA DEL SALE DI NlZZA, NEL 1556, E IL <( NUOVO STILE » DEL Duca. - San Quintino e minacce su Nizza: il Duca chiede aiuti a Genova. — iLa Aia per ottenere di ridar pace e libertà al Piemonte ■era che cessassero le lotte tra Francia e Spagna, tra i cui antagonismi il Piemonte rappresentava una pedina del gioco. Poiché era fatale parteggiare per uno de’ due avversari, Emanuel Filiberto si tenne a Spagna, a cui già tanti interessi lo legavano: penserebbe poi a non cadere sotto il giogo di essa. E mentre egli si dedicava tutto al trionfo di Spagna, rivelando tali qualità da esser scelto dall imperatore all comando supremo -delle sue forze, di povero Duca di Savoia Carlo II moriva il 16 agosto 53 a Λ ercelld. Il nuovo Duca, die tardi apprese la notizia, non poteva lasciare 1 esercito per rientrare solo nel Piemonte invaso dai francesi e saccheggiato dagli « amici » spagnuofld del Gonzaga. Inv iò Andrea Provana di OLeynì, che fece una magnifica opera di propaganda, di collegamento, di preparazione fra i sudditi angariata e sgomenti. Emanuel Filiberto ottenne da Carlo V che fosse revocato dal comando in Piemonte il Gonzaga, un malvagio, per sostituirlo col Figueroa, che si rivelò un inetto; e poi col Duca d’Alba, un astuto malfido. Ma non v'era rimedio. Alle notizie degli orrori della guerra, si aggiungevano queflle della carestia che devastava dì Ducato. E la difficoltà di raccogliere grani da importare e di ottenere prestiti dai creditori diffidenti e molesti del Duca: e il timore che Nizza, agognata dalla Francia, subisse nuovamente l’urto di turchi e francesi; e 1 ansia di non poter aver denari con cui pasare le milizie -che erano alla difesa della diletta Nizza, le quali da due mesi non ri-ce\ c\ ano più il soldo, torturavano Emanueil Filiberto, che decise fare una breve vi»ita ai suoi Stati, o meglio alla pìccola parte che ne restava, per rincorare i suoi sudditi, per ottenere grani dalla Spagna, per provvedere alla loro difesa. Una sua lettera del 27 Marzo 1555 da Nizza chiede ai Governatori di Genova il transito per le loro terre di « certa quantità di grani per i bisogni de’ miei popoli____, mediante il solito pagamento de li soliti diritti » 0); e chiede e ottiene il famoso architetto militare Giovan Maria Olciati, che perfezioni le difese di Nizza e di Λ ercelli (2). Ritornato a Bruxelles, dopo 1 abdicazione di Carlo Λ sollecita aiuti dal cugino, di nuovo re Filippo IL che lo amava (1) Lettere Principi, Savoia (N. G. 2791). (2) Ideiti. 112 Adolfo Bassi per quel tanto d'affetto di cui era capace il suo cuore chiuso e diffidente, e ottiene qualche soccorso e qualche prova d'interessamento. Tra queste, una in particolare va ricordata. I Genovesi che, nella decadenza dell Ducato sotto Carlo II, avevano cercato !in ogni modo di insidiare la gabella del sale di Nizza, offerirono allora al maresciallo di Brissac che comandava in Piemonte, di fornirglielo a vantaggio del Banco di S. Giorgio, malgrado le proteste dell collaterale del Senato, Ottaviano Cacherano d’Osasco, appoggiate tiepidamente dal Figueroa. Nell’aprile 1556 inoltre, una nave della gabella di Nizza, carica di sale, sbattuta dalla tempesta sulle coste della riviera di Ponente, fu condotta a Genova, saccheggiata e confiscata colla minaccia, inoltre, di darla alile fiamme. 'Emanuel Filiberto, a quella notizia, scrive da Bruxelles il 27 aprile ’56 una vibrata protesta ai Governatori, chiedendo soddisfazione dei danni e minacciando altrimenti rappresaglie cc a tutto transito, a Dio piacendo ». « Havendo io, — scrive amaramente, — all’essempio de li 111.mi Sig.ri miei Avi, sempre ben vicinato con cotesta 111.ma Sig.ria, lasciando e permettendo li iloro sudditi usare ogni commercio in utile e beneficio loro ne li Stati miei con tutto favore e rispetto... non saria buona la corrispondenza, quando le Sig.rie V.re Ill.me tendessero a’ danni miei, mentre mi veggono sofferire molti altri impeti della nemica fortuna ». Ma riprende altero: cc Pertanto, ancor che mi sia dato aperto un campo di sentirmi, e ch’io mi trovi di mezzi assai di ristorarmi d’ogni danno, che mi sia fatto e sia per farsi, nondimeno, desiderando io proceder molto più giustificatamente ne le attioni mie di quello che altri procede verso di me, ho ben voluto scriver questa lettera a le S. V. Ill.me, esortandole a voler amorevolmente restituire e far restituire la nave predetta col sale e (far) restauro al mio Gabel-liero de li danni e interesse patiti per questa causa, astenendo da mo’ inaliti di dare a me e a li miei ogni indebita molestia ». Rincalzava in quella occasione Filippo II gli argomenti del cugino, con lettera 31 maggio ’56, da Bruxelles (1), piena dii melate paroile, invitandoli a cedere. Non solo: ma la Signoria iperchè cc es en perjuizio de la Gabella que alli tiene el Ill.mo Duque de Saboya nue-stro muy caro primo... que no le se haga novetad en la possession que hasta aqui ha tenido de proveer desde Niça de sai a lor estados y ti erras dell flPìiamonte: affectuosamente os rogamos que dandole entera fee y creencia en lo que sobrestos particulares os dixere [l’ambasciatore Figueroa], vengais en elio de manera que el duque quede tan sati-sfecho, corno ilo requiere la razon, y lo merece Ha qualidad de su persona y la buena amistad que tiene con essa Republica ». Ma la Signoria, impressionata dal linguaggio ducale a cui da lun- (1) Lettere Principi, Spagna, 1473-1698 (Marzo 17 - 2793). Le Relazioni tra il Ducato di Savoia e la Repubblica, ecc. 113 ghissimi anni non era ipiiù abituata, e dallb insistenze reali, provvide: tanto che l’agente dell Duca in Genova, al Banchiere Bernardo Spinola, gli scriveva di 4 Luglio: « Per l’Ill.nia S. V. fu operato sì col magnifico Ufficio del 'Salle -di S. Georgio9 che si sono rievocati li loro ministri, i quali in Piemonte tractavano a tottal ruina della Soa Gabella di Nizza, la quale neil'l’avvenir non più è per correr simil pericolo, nè Vostra Altezza simil fastidio ». (1) Per dii più, dando in aippalto al genovese Giorgio Malopera la Gabella del Piemonte per 9000 scudi annui, il Duca otteneva una anticipazione di 20.000 scudi, con cui liberò dalle marni dei creditori le gioie della corona e provvide alle difese di Nizza. Il 10 agosto 1557 Emanuel Filiberto trionfa a S. Quintino, e se ne sentono subito i benefici effetti nel suo cresciuto prestigio. E col prestigio cresce ili rischio: poiché Enrico II, per vendicare in qualche modo S. Quintino, minaccia Nizza e Villafranca: e Tarmata turca a lui congiunta promette rinnovare le prodezze del 1543. Grande ansia del governatore della città, Stefano Doria, e del difensore del Castellilo di Nizza, il conte di Frossasco, ali quali le fortificazioni appaiono insufficienti : grande terrore per tutta ila Riviera d*i sbarelli dei barbareschi, o di attacchi della flotta turca. Ma per fortuna di Genova, Solimano II non mostra più lo stesso zelo e tenta trattative di neutralità: intanto corrono voci di prossima pace fra Spagna e Francia. Tuttavia Emanuel Filiberto, che aveva chiesto aiuti a Spagna per fortificare Villafranca, si rivolge, il 24 Luglio ’58 da Maubège ai Governatori di Genova « non tanto per mio particolar interesse, quanto per lo universale del nome cristiano » e li prega cc per la pietà di nostra religione e per quell che può toccar al proprio loro servizio sieno contente accomodarmi quel Ilo numero de pezzi d’arligliaria et quella quantità di munitioni che bonamenle potranno » assicurandoli di pronta restituzione appena cessato il pericolo, e di viva gratitudine. (2) Io non so se la Repubblica fu pronta a soccorrere: ma credo che sieno stati più pronti i negoziati della pace, che pur procedevano a passo di lumaca, e tuttavia si conclusero col trattato d!i Cateau Cam* brésis, il 13 aiprile 1559. ❖ ❖ ❖ IL λ pace di Cateau Cambrésis e le nozze del Duca. Congratulazioni della Repubblica. - I Duchi Sposi passano per Savona, per RIENTRARE IN PIEMONTE. OPERA DI RICOSTRUZIONE DEL DUCA. NECESSITÀ DI UNO SBOCCO NEL MAR LiGURE. LEGGI ASSOLUTE CUI È COSTRETTA AD OBBEDIRE LA SECOLARE POLITICA TRA GENOVA E IL (PIEMONTE. — Genova raddoppia di cortesie pel Duca. Il 22 febbraio, Andrea IPro- (1) A SEGRE: L’opera politico-militare di Andrea Provana di Leynì nello Stato Sabaudo, dal .1553 al 1559 in <« Atti della R. Accademia dei Lincei », 1898, vol. VI, parte I, pag. 61. (2) Lettere Principi Savoia (N. G. 2791). 114 vana dii Leynì lo informa che farà venire da Genova lo stesso capomastro usato iper le galere della Repubblica, come il più abile a dare il cc galubo » (la grazia, la linea) a quelle di Nizza. Con mossa di cortesia squisita, e insieme dt abile diplomazia, Emanuel Filiberto, scrive il 6 aprile da Bruxelles al Doge e ali Governatori : cc Sii come questa santissima pace, che è piaciuto a Dìi-o di stabilire tra queste due Maestà torna a beneficio pubblico della Cristianità, et in particulare al comodo di V. S. Ill.me nel modo che elle haveranno inteso dall Ambasciatore loro, et anche al mio con il matrimonio di Madama Margarita sorella del Re Chr.mo, così lio non ho voluto mancar di rallegrarmi con esse per tutti i rispetti e tanto maggiormente per ili desiderio che ho di mostrarle il buon animo mio, non solb per la buona vicinanza de gli Stati nostri, ma anco e molto jpiù per baver causa di farle servitio con più comodità che io non ho1 avuto fin qui ». (1) A volita di corriere furono spedite le congratulazioni (2), e l’ambasciatore alla corte Marc’Anlonio Sauli il 16 giugno scrive: cc AI S.r Duca di Savoia presentai la lettera delle Sig.rie V. IllLme et in nome loro mi rallegrali di nuovo con Sua Altezza de’ suoi felici successi et resi gratie della molta cortesia dellle sue lettere; il quale offitio mostrò che li fusse carissimo, et mi disse che in breve sarebbe in Italia, dove, essendo più vicino, avrebbe havuto più comodità dii servirle... Sua Altezza partì di qui hieri a sera al tardi con bellissima et ornatissima compagnia ». (3) Méta dell viaggio, Parigi e le nozze. Andava a conchiudere un contratto in cui iill compimento del matrimonio rendeva valida ogni clausola. Si volile dare un’apparenza di sentimento, dicendo che Margherita di Valiois, Duchessa di Berry, aveva simpatizzato per Emanuel Filiberto, tredicenne nel convegno di Nizza. In realtà essa era stata, bambina, fidanzata al fratello di lui, morto nel 1535: poi s’erano combinati e scombinati per lei parecchi matrimoni. Ora inaspettatamente le davano — e il fratello Enrico II in particolare ci teneva — Ole davano, ora che aveva 37 anni, un marito più giovane di lei dii cinque: bello, valente, glorioso. Ed egli accettava quella sposa, indifferentemente, invece della figlia di re Enrico, passata, come sposa a Filippo II. Ma il Duca, in compenso, veniva reintegrato ne’ suoi Stati, occupati dal ’37 dai francesi, eccettuato il marchesato di Sa-luzzo e Torino, Pinerclo, Chivasso, Chieri e Villanova d’Asti: mentre il Monferrato era assegnato al Duca di Mantova. Unica condizione, le nozze colla cugina. Tutti sanno del fatale torneo di nozze, e che nella notte fra il 9 e (il 10 luglio 1559 le nozze (1) Lettere Principi, Savoia (N. G. 3791). (2) Lettera del Serenissimo Governo di Genova all’ambasc. Sauli, in Lettere Ministri Spagna. 1539-1564 (Marzo 2° - 2411). (3) Lettere Ministri Spagna (Marzo 2° - 2411). Le Relazioni tra il Ducato di Savoia e la Repubblica, ecc. 115 furono celebrate, al caipezzaHe del re (morente : e furono nozze di lacrime. (La sposa, poche ore dopo la cerimonia, piangeva sul cadavere del fratello. La vedova di costui, Caterina De Medici, cominciava in nome del figlio Francesco II, ad esercitare Ila sua potenza. (La ragione dìi stato riprendeva il suo impero. (L’ambasciatore fiorentino, narrate le vicende -della tragica notte, ritornando alle nozze di Emanuel Filiberto conclude : « Il che è stato di molto piacere, vedendo che le cose camminano secondo erano principiate. Ed in quanto alla pace si tiene sia per essere al medesimo, che a Dio piaccia, per benefizio della cristianità ». Margherita volle seguire per qualche mese la Corte nel suo lutto, e ritiratasi a Villiers Cotterets, vi ammalò seriamente, mentre ili Duca aveva doivuto recarsi in Fiandra. Al ritorno di lui, nell’ottobre, la Duchessa si congedò dalla Corte e intraprese il viaggio verso il Berry, suo feudo, indi verso ili Piemonte, ove lo sposo l’aveva preceduta siino dal 3 novembre, iper prepararle un degno ricevimento. Nel gennaio del 1560 essa è ad Avignone, poi a Marsiglia. Il 15 si imbarca coll Duca e col seguito sulla Padrona e sulla Margherita: ili·' 25 scendono a Nizza nei loro stati. Sotto la croce di Savoia ogni triste auspicio è disperso, e la fortuna, acquistata coll merito e la costanza, non abbandona più i duci -augusti sposi. Passati a Nizza alcuni mesi, di qui il 29 agosto Emanuel Fi-liberto scrive ai Governatori della Repubblica: «Dovendo io partir di qui insieme colla Duchessa mia per andare in Piemonte, e sapendo quanto mal si convenga condur le Dame per cammini così asperi e faticosi, come son quelli di queste montagne, mi sono eletto di pigliar la Via di Savona; ma prima lio voluto significarlo a V.e Eccellenze... tuttoché io sia sicurissimo che non sarà loro discaro... ». (0 Di-fatti il 18 settembre alle ore 23 italiane giunsero a Savona i Duchi, con grande comitiva dii cavalieri e dame, su tre galere di Savoia comandate da Andrea Piovana di Leynì. Le fortezze di Castel Vecchio, di S. Giorgio, dello Scorpione salutavano con colpi di ((innumerabili bombarde », mentre il Podestà di Savona e i nobili e le dame della Città facevano loro onore. Furono ospiti di Benedetta Spinola, suocera del Leynì, nel [palazzo già della Rovere, e il 19 si recarono al Santuario (per impetrare prole, già attesa, dalla Vergine miracolosa. Il 20 l’abate Alfonso Spinola, figlio della potentissima Benedetta, li condusse per mare alila sua villa di {Legano. Intanto accorrono ii feudatari dal Piemonte a far omaggio, e un vescovo, nunzio dell Papa e gli Ambasciatori di Venezia: e il dì seguente tutti assistono ad una messa solenne nella cattedrale. Seguono dieci giorni di festino: balli in cui iill Duca anostra la sua grazia, svaghi in cui è ammirato all gioco (deltla palla e del pallamaglio. Infine partono pel Piemonte in siplen- 1 ) Lettere Principi, Savoia (N. G. 2791). 116 Adolfo Bassi dida cavalcata, dopo aver regalato a donna Benedetta, quattro collane di gran valore e un cingolo di perle. 0) La configurazione dello stato sabaudo all di qua delle Alpi, in seguito al Trattato dii Cateau Cambrésis, era oltremodo irregolare e angustiata: col dominio milanese alla Sesia, il· marchesato di Monferrato che in più punti oltrepassava le rette di Chivasso-Asti, Asti-Ceva : i feudi imperiali per tutto ll’Apennino Ligure : i domini francesi, che scendevano sin quasi a Pinerolo e che comprendevano il Marchesato di Saluzzo. I francesi però continuavano a presidiare Torino, Pinerolo, Cherasco, Villanova d’Asti, Chivasso, Savigl'iano e Perosa: solo nel 1574 Enrico III di Francia cedette queste due ultime fortezze, e Pinerolo. Gli Spagnoli che avevano scorrazzato tutto il paese, se ne ritrassero lentamente. Non è mio compito rievocare l’oipera gloriosa di ricostruzione attuata da Emanuel Filiberto ne’ suoi stati. A me tocca appena accennare in riassunto alle sue relazioni con Genova: argomento però che, a trattarne compitamente, richiederebbe (si rassicurino i lettori) vari volumi, in parte scritti, in parte soltanto in abbozzo. Ora il confine piemontese coi Marchesati di Ceva e d Ormea giungeva al feudo imperiale Finalese. Attraverso di questo era la via più breve dal Piemonte alla Liguria, mettendo capo a Savona o ad Albenga. Ili Duca poteva giungere al mare dai suoi stali solo attraverso le Alipi Marittime, dove però i feudatari, marchesi di Tenda e Dolceacqua, incerti fra Piemonte e Genova, possedevano i passi migliori, per quanto sempre assai malagevoli. Questo ci spiega perchè Emanuel Filiberto (e i suoi successori) cercavano ostinatamente di aprirsi la via al mare in Liguria: e perchè la Repubblica di Genova diffidò di essi a ragione e sempre, accrescendo i suoi timori a misura che essi aumentavano la loro potenza. Più di rado Emanuel Filiberto si recò a Genova, poiché allora gli toccava passare per le terre del Ducato di Milano, tenute da Spanna; cioè da Vercelli andava ad Alessandria sino a Novi, terra della repubblica, e pe’ i Giovi o al Turchino scendeva a Genova. Ma questa via, seguita durante le guerre delle Fiandre, fu da lui poi affatto abbandonata. Per troppe ragioni dal 1560 al ’80 nè egli desiderò recarsi a Genova, nè questa lo desiderò fra le sue mura: e sopratulto perchè l’uno sentiva crescere la sua potenza, l’altra, decadendo ne osservava con gelosia ogni progresso. Epipure non meno forti ragioni tendevano ad avvicinar ili. Il pericolo turchesco, che non scomparve neppure del tutto colla vittoria di Lepanto, li accomunò nel pericolo. La necessità di tolleranza reciproca nel timore di rappresaglie, li condusse anche ne’ momenti più difficili a conciliarsi. Le sventure comuni, come le carestie, le epidemie li unirono nella difesa. La necessità degli scambi ili rese (1) Passim, in Lettere al Senato, 1560-1561 (filza 70). Le Relazioni tra il Ducato di Savoia e la Repubblica, ecc. 117 arrendevoli a vicenda. I continui incidenti di frontiera, minuti, noiosi, intricati, cui saremo costretti ad accennare in seguito, Ii spinsero a ricorrere a -mezzi termini, a proroghe, a remissioni :in mano di arbitri. Ma quando Funo, giocando di abilità di astuzia e di forzai riusciva a shuntarla, Faltro, facendo buon viso a fortuna nemica, si rassegnava dopo le debite platoniche proteste: e poco dopo riprendevano le cortesie, le belle parole. le lusinghe, in attesa di rivincita. È questa schermaglia spezzettata in mille piccole azioni che noi dobbiamo ora tracciare sulla guida de’ documenti: mentre al di sopra Spagna, predominando manosamente sull’Italia, vede di cattivo umore le tendenze del Piemonte a far da se: e Francia, esclusa, si abbarbica affle sue usurpazioni in Piemonte e attende (o sogna) che ritorni la sua ora. Gli altri stati italiani — Genova compresa — s’adattano a sopportare al collo il giogo spagnolesco. Venezia, ancora libera, ancora potente, si difende da ogni intrusione straniera colle sue forze e colla diplomazia, mandando dovunque i suoi sagaci ambasciatori che con cento occhi d’Argo contemplano il mondo e spesso paiono dotati di profetico intuito. Esploriamo noi pure, ma nel silenzio e nell bùio dei secoli trascorsi, con un lavoro non di profezia del futuro, ma che vorrebbe essere di divinazione del passato. ÿ ÿ ÿ Relazioni varie: Le incursioni dei pirati barbareschi e la difesa comune. Le flotte dei due Stati fonti di reciproche gelosie, benché comune sostegno. - Frodi alla Gabella sui monti e per mare. Sequestri, incidenti diplomatici, soluzioni. - La caccia ai GALEOTTI: EVASIONE DI ESSI 0 ACCAPARRAMENTI LORO, E QUERELE SEGUENTI. I SERVIZI DI SCORTA PER MARE AI PRINCIPI DELLA CRISTIANITÀ. Le crocere contro il Turco. — La Pace del 1559 pose termine alla guerra, non alla pirateria. Poiché i Turchi, che avevano preso gusto a unirsi ad una parte de’ cristiani per depredarne l’altra, a pace fatta continuarono dalle coste dell’Africa a lanciarsi sulla costa Europea e, sotto la. bandiera del Profeta e proclamando l'odio agli infedeli, a saccheggiare le terre. Sbarcavano all’improvviso, di solito poco prima dell’alba. Scesi dalle loro saettie rapidissime, uccidevano i difensori, prendevano donne e fanciulli, mettevano alla catena gli uomini validi, rubavano quanto trovavano di più prezioso: e quando i terrazzani venivano alla riscossa (se pur venivano) essi erano già fuggiti sul mare. Ad Algeri, a Tunisi, si tenevano poi i mercati: li cristiani erano venduti iper remare sulle galere o. rinnegata la fede, diventavano essi stessi abili caipi, a volte, dei pirati: le donne, passavano agli harem: i fanciulli allevati in schiavitù sarebbero serviti in avvenire. •Perciò i barbareschi ravvicinavano nella comune difesa Genova e Nizza. Furono stabilite, per la costa, le guardie; combinate le fumate d’avviso appena all’orizzonte si notava una turchesca; cinti di mura i villaggi, i paesi, Ite cittadine; innalzate torri di difesa, piccole 118 Adolfo Bassi fortezze: questi aspetti guerreschi ancora ora ci stupiscono nelle quiete spiagge delllla riviera. Si distribuirono armi, ma non si potè infondere il coraggio, onde di più delle volte d difensori paralizzati dalla paura, si lasciavano sbozzare senza reagire. I governi di Savoia e di Ge-nova si scambiavano avvisi e informazioni : a primavera si sa che flottiglie di 30, 40 galere, sono in armamento ad Algeri, sono sulle mosse, vanno in Sicilia, alle Baleari, in Sardegna: (presto si spalmano le galere genovesi e nizzarde perchè battano la costa. Ahimè! Ogni tanto è una nave nostra che è presa: un brigantino, una barcaccia. A volte è il caso inverso. Navi genovesi, spaguole, piemontesi con principi, ambasciatori, cardinali, stanno alla fonda non osando affrontare il mare o fuggono in qualche porto inseguite. Una volta, persino, il 1° luglio 1568, lo stesso Duca corre rischio di essere ucciso o rapito dai pirati di Uludi Alì, improvvisamente sbarcato a Villafranca, mentre ili Duca attendeva alla pesca. Egli scampa per miracolo : una ventina de’ suoi sono uccisi, quaranta soldati e tre gentiluomini cadono nelle mani dei rapitori e sono messa al remo. (1) Di qui la necessità di aumentare la filotta di Nizza, dii qui le diffidenze di Genova. Trovo ricordi di incursione nel 1560, nel ’61, nel *63, nel ’65, nel ’74, (2) che nel sentimento del comune pericolo attutano le gelosie: ma tosto si ricomincia. Il Duca però mantiene la calma: ora affitta navi iper acquisto di grani, ora ne compera dai Genovesi stessi, ora esige la sua parte dii navi turchesche come bottino di guerra gloriosamente conquistate a Lepanto: onde Genova, saputolo, accampa altrettante pretese. Intanto ila flotta militare di Emanuel Fi-liberto si sviluppa magnificamente sotto l’accorta direzione di Andrea Provana. Ne viene anche maggiore sicurezza ai commerci, maggior rispetto alla bandiera. Fonte di continui incidenti sono le frodi alla Gabella e sui monti e sul mare. Quelle pe’ valichi alpini’, più difficili a scoprire, portano a lagnanze, a zuffe, a lunghe querelle: ne sentiremo qualche riflesso diplomatico lin seguito. Quelle per mare, se riuscivano a passarla liscia, erano lucrose pe’ frodatori e pe’ complici che trovavano all’approdo. Ma se venivano scoperte, portavano al sequestro delle navi e merci. Si metteva al remo la ciurma, si minacciavano confisca e incendi (ma non conveniva farlo per la penuria di navi de’ vari stati, dopo le lunghe guerre di predominio, specialmente dopo l’intervento turco del 1542): alla fine si riprendeva la calma: si restituiva la merce sequestrata dopo le spiegazioni ufficiali e si liberavano i forzati. Tanto si sapeva chea oggi a me, domani a te »: gli incidenti si sarebbero rinnovati ora per colpa dell’uno, ora per colpa dell’altro. (1) Vedi A. Segre, opera citata, passim. (2) Lettere al Senato, 1560 (filza 68), 1560-1561 (filza 70), 1563 (filza 74); Litterarum ad principes 1574-1575, cancelliere Leonardo Clavari (filza 72 - 1&48). Le Relazioni tra il Ducato di Savoia e la Repubblica, ecc. 119 Troivo relazioni dìi incidenti simili nell 1562, nel '67, nel ’73, nell '75 (1): ma accenno solo a’ i (più gravi: gli altri sono d’ogni anno. Ancora : la penuria dii galeotti fa sì che i Governi gareggino nell richiedere condannati di stati amici: sii attirino gli evasi, si cerchi dissimularli. Trovo piati per galeotti savonesi passati neMa flotta nizzarda, per piemontesi nella genovese. In realtà vi era gelosia fra le due flotte militari, F una comandata dal iLeynì, che da 4 galere nel 1560, a Nizza, era salita a 10 in pochi anni; l’altra, numerosa, comandata da Giovan Andrea D’Oria, colle galere inoltre di armatori privati, quali i Lomellini, i Centurioni, temeva l’emula. Emanuel Filiberto non voleva che la sua cedesse il posto ad a»lcun’altra flotta, fuorché a quelle dell Re Cattolico, del Re Cristianissimo, del Papa e del re di Portogallo : dii qui contrasti e gare per mettersi in vista, specialmente nei servizi dì scorta fatti a scopo politico, come quando gli Arciduchi Rodolfo ed Ernesto nel 1564, dopo un viaggio disastroso per la Liguria, s’imbarcano a Nizza con ogni onore: o quando l’Arciduca Carilo d’Austria si reca nell 1568 in Ispagna sulle galere del Duca, e ritorna su quelle della Repubblica. Ma sceso a Savona, l’Arciduca s’abbocca con Emanuel Filiberto, che ne ha appoggi per le questioni deli (Finale. (2) (Però ne’ pericoli comuni le flotte di Emanuel Filiberto, di Cosimo De Medici, di Genova, di Napoli e di Venezia s’univano a due, a tre, o tutte, con quelle de® Pontefice contro il turco. E questo avvenne dalla sconfitta delle Gerbe alla vittoria di Lepanto. Nè diminuiva il merito se a volte erano assoldate da Spagna, non potendo affrontare sempre le gravi spese che richiedevano le lunghe crociere. ❖ ❖ ❖ Questioni diplomatiche di confine. Per Savona e (maggiori) per Finale. Il Duca compera i feudi del Maro, di balestrino e di zucca- RELLO: ONDE DISCORDIE, DIFFIDENZE, OSTACOLI. - COMPERA DEL MARCHESATO di Oneglia NEL^3#ft: Nuovi attriti con Genova. - La eterna delle Viozene e la sùa soluzione. — Ho accennato alla questione del Finale or ora : è una delle varie e spinose questioni di confine, che irritavano soventissimo i rapporti dei due stati. In tutte vi sono in contrasto antichi diritti feudali o comunali, cui si aggiungono diritti acquisiti per uso secolare e per un incidente qualsiasi improvvisamente negati. Uno sconfinamento di greggi, una deviazione di acque fanno nascere un conflitto fra montanari: il caso viene riferito subito ai governi da pode ■stà e sindaci sovraeccitati, con versioni opposte. Accorrono armati sul luogo: da Genova a Torino si scambiano proteste, si danno o no schiarimenti, si fa a poco a poco la calma e si cercano vie di conciliazione. (1) Lettera al Senato 1528-1700 (filza I A), Lettera Principi - Ferrara e Francia (filza 2780) Litterarum registri 1572-1573 (filze 68-1848 e 69-1845) Litterarum ad Piincipes 1574-1575 (filza 72 - 1848). (2) Lettere Principi - Spagna, 1473-1698 (filza 17-2793), Lettere Ministri - Spagna, 1539-1564 {filza 2-2411), Salutationum et Cerimoniarum 1506-1602 (Reg. 1 - 461). Adolfo Bassi Ma ii! sospetto rimane sempre: che coloro che suscitarono ili putìfe- hbiano a^ito per istigazione dalll’alto, e che si preparti la via ad una usurpazione armata di diritti e di territori. E i sospetti il ipiù delle λ olte ricadevano sul Duca, cui si attribuivano mire ambiziose su terre delia Repubblica : e il Duca più -di una volta manifestò antipatia per essa. Nel 1560 tra Genova e Savona, ridotta da poco sotto la signoria ligure, ardevano rancori profondi e si sapeva che Savona avrebbe accettato volentieri la signoria di Emanuel1 Filiberto, pur di sottrarsi a Genova. Di qui le diffidenze di Genova, quando egli nel settembre passò per Savona, e l’apparente noncuranza del Duca, che vedeva quanto rischio avrebbe corso solo nei mostrare di interessarsene : cosicché (con stupore del Podestà di Savona), ostentando indifferenza, non \rolle, benché invitato, neppure visitare il castello. Va era in aria una questione più grave: quella del Finalese, cui il Duca sii supponeva (e non a torto) che ambisse sino dal trattato di Cateau Cambrésis, e più dopo, quando sorsero gravi dissapori tra Genova e 1 imperatore Ferdinando d’Austria, da cui dipendevano i feudi imperiali. Nel marzo 1561 viene assassinato Pirro del Carretto, signore di Balestrino: nel luglio G. B. Loinellino da Rivoli informa la Repubblica: «Si dice che Sua Altezza ha deliberato prender Ba-gnasco e tre altri luoghi del marchese di Fn’naro ». (1) Nel Febbraio 62 il Podestà dìi Toirano scrive: cc Mi viene rifferto che uno anesser Carlo del quondam Signor Pyrrho sia dall’Ecc.za del Duca di Savoia e che siano in stretta pratica di venderli le pretensioni che ha nelli feudi del detto quondam signor Pyrrho ». (?) Ma il signore principale, AlfonsoII del Carretto, marchese di Finale, aveva allora ottenuta la sentenza favorevole dall’imperatore contro la Repubblica: onde, montato in superbia (e che bel caratterino avesse, ce lo narrò in un suo libro il compianto Avv. Marenco, del nostro Archivio), non voleva neppure più prendere le investiture de' luoghi oltre Alpe, dipendenti dal Duca: e insieme ricusava (scrive l’Ainbasciatore di Spagna Nicolò Spinola) cc di ricever certa gravezza et augumento di sale cc che detto Duca ha imposto sopra tutto il suo stato » — onde — cc ha cc irritata in maniera sua Altezza, che movute le arimi, l’ha spogliato « di tutti quéi luoghi e castella che oltre monte possedeva ». (3) Fatta ammenda, le cose ritornano all’ordine. Ma Genova sorveglia sempre il Duca, nel 63 teme, a torto, ch’egli comperi il Balestrino e Zucca- 1 elio. Ma quando nel 15/4 gli spaguoli occupano il Finalese, più che Alifonso del Carretto se ne allarmano Emanuel Filiberto e Genova, (1) Lettere al Senato 1561 (filza 71). (2) Lettere al Senato 1562 (filza 73). Vedi pure i lavori del Claretta sull’Ordine Mauriziano, del Tallone sul Marchesato di Finale, del Marenco su Alfonso II del Carretto. In queste opere, che narrano le vicende che precedono o seguono quelle qui narrate, vi sono accenni che ci interessano. (3) Lettere Ministri Spagna (filza 2, 2411). Le Relazioni tra il Ducato di Savoia e la Repubblica, ecc. 121 uniti nel pericolo comune, ed eccitano l’imperatore a porvi sue milizie in luogo delle spagnuolie. Del resto ancora per oltre un secolo il Marchesato di Finale rimase il pomo della discordia fra li duchi di Savoia e la Repubblica. Più fortunato fu Emanuel FiJliberto nefflle sue abilii trattative (per la compra del Marchesato d’Oneglia, cedutogli da Gian Gerolamo D’Oria. Già nel: 1562 Genova aveva temuto questo colpo: quando il Conte di Tenda aveva occupato il Maro e Pietra Lata. Ma il Podestà d’Albenga Battista Spinola tranquillizzò il governo, informando: « Fin qui non s’intende che il Duca facci motivo al Cavo nè remesoio di soldati, ma che era impedito in Ha recoveratione di Turino » (proprio allora i Francesi uscivano da Torino, finalmente!). Inoltre il Podestà univa una lettera di Gian Gerolamo D’Oria che si dichiarava pronto, come figlio devoto, a servir la Repubblica. Emanuel Filiberto lasciò che si calmassero gli umori: e dieci anni dopo, mentre era in altre trattative colla contessa di Tenda, Renata di Savoia, comperò da lei, il 16 novembre ’73, per permuta le valli del Maro e di Prelà, sull’alto corso dell’impero. Intanto per una sciocca questione di cerimoniale Gian Gerolamo D’Oria decise disfarsi della Signoria. Genova, che l’agognava, mostrò disinteressarsene, per lucrare sul prezzo. Emanuel Filiberto, intuita l’occasione, manda subito l’abile Leynì e Stefano D’Oria di Dolceacqua a trattare, e ottiene il Marchesato di Oneglia per 41.000 scudi d oro, e*titoli e terre ili Piemonte, il 30 aprile 1576. Questo avveniva mentre si preparava un avvenimento più grave, l’estinzione della famiglia dei Conti di Tenda, discendenti da Renato, il Gran Bastardo di Savoia, figlio del Duca Filippo li: avvenimento che teneva in ansia Savoia e Genova. Morto nel 1566 Claudio conte di Tenda, amico di Emanuel Filiberto, suo cugino primo, gli successe il figlio Onorato, marchese di Sommariva, governatore di Provenza e fatto uccidere nel ’72, dicesi, dal Re Carlo IX, sdegnatosi perche egli non aveva partecipato in Provenza, alla famosa strage degli ugonotti nella notte di S. Bartolomeo. Gli sono eredi la sorella Renata (vedova nel 1574 di Giacomo marchese di Urfé) e lo zio Onorato, marchese di Vili ars, che subito s’accapigliano. Ed ora lasciamo che Emanuele Filiberto se la sbrighi da solo, nel partecipare con tutta grazia al Doge e ai Governatori la sua opera di bontà. È una lettera inedita, da Nizza, del 26 aprile 1576, che vai la pena d*i leggere: « iPerchè io prevedevo che dalle differenze, che vertivano tra it marchese di Villars, ammiraglio di Francia, e la Dama d’Urfé, sopra la signoria del Marro, facilmente sii sarebbe potuto in quei contorni accender fuoco, che fosse stato in pregiudizio et danno dello stato mio et di quello di Vostra Ecc.za, ini ri sol si di accomprare quella Signoria et dare soddisfattione ad ambo le parti, p»iù presto con qualche incommodo dell’interesse mio che altrimenti. Havendo dappoi pigliato Adolfo Bassi il possesso eli detta Signoria del Marro, ho (inteso le ipretenzioni che come conte del Marro, tengo nella Signoria d’Oneglia, He quali non sono piccole nè di piccolo momento. Però come amico della quiete et dell honesto, ho anche volsuto terminare amichevolmente queste differenze: sì per evitare ogni inconveniente che da esse fosse potuto nascere, come anco per mio diporto e commodo, quando mi occorra (per conservazione della mia salute) venire all’aria della marina, come già feci tenendo la quartana, a OLezze presso Savona: di che sentii non poco giovamento. Così mi sono risolto di convenire col Signor di Oneglia et accomprare quella Signoria, come ho fatto, a condizioni tali che detto Signore d’Oneglia e i suoi havranno cagione di restarne molto bene contenti et sodisfatti. 'Et perchè ni uno altro rispetto o disegno mi lian mosso a fare questi acquisti, salvo, come sopra ho detto, il· desiderio della quiete pubblica degli stati di codesta Sig.ia et miei, che tanto vi sono intricati, et la corninodità di poter pigliare talvolta qualche diporto e passatempo in quest’aria maritima, senza bavere da passare per montagne aspere come queste del contado di Nizza, overo venirmi per mare, così non ho voluto mancare di darne subbito avviso a V.a Ecc.za e S.rie, sapendo che d‘ogni mia cornino dità et sodisfazione ne sentiranno quell piacere che io ho preso e sono per bavere sempre delle sue proprie. Et poiché dalli effetti possono prima di ora bavere meglio conosciuto l’affezione et buona vo'luntà che io le porlo, non mi estenderò più oltre in ciò, salvo in profferirmele di cuore, con assicurarle della buona vicinanza che si deono promettere da me, conforme alla mutua amicizia nostra... Da Nizza alili XXVI d’Aprile MDLXXVI » (1). il/amichevole e affettuosa partecipazione del duca non poteva giungere più sgradita al Doge e ai Governatori, che però già avevano subodorato ili tiro dell· Duca: onde due giorni prima avevano già scritto al loro ambasciatore a Madrid, per fare che Filippo II creasse ostacoli, vantando diritti. Ma ben conoscendo i metodi spagnuoli sollecitano : « Nondimeno il negocio richiede maggior prestezza di quella che si possi aspettar di Spagna et ogni cosa consiste... nell’impedire che non si cammini più col duca, et che soprattutto non si vengh'i a darli il possesso del luogo, perchè ogni cosa saria molto più dificile da rimediare » (2) . Ma illi contratto, era stato già concluso a mezzo aprile in Oneglia dal Duca in persona, e stava per essere ratificato in ottima forma. Allora i Governatori scrivono a Francesco Lercaro a Milano, narrando le loro trattative fallite per la compera di Oneglia e de’ pericolosi progressi dell Duca, « prencipe tanto potente et così vicino » che viene ad acquistar « fra il Marro et Oneglia presso a quattro mil- (1) Lettere Principi, Savoia (filza N. G. 2791). (2) Per queste e per le lettere seguenti, vedi in pai-ticolare: Lettere Principi (N. G. 9271) Litterarum. 1579-1582 (filza 2825) Registrum litterarum ad Principes et Viios Illustres, 1572-1574-(filze 70-1846, 72 I 1848, 18 - 2794), Lettere Ministri Spagna (filza 2 - 2411). Le Relazioni tra il Ducato di Savoia e la Repubblica, ecc. 123 lia sudditi » e che può « disdegnare a cose di maggiore qualità »; onde lo incaricano di ricerche in Milano, da cuti era dipesa Oneglia durante il dominio Sforzesco in Liguria: e mandano proteste a Vienna, affinchè l’imperatore impedisca l’atto che attenta ai diritti di luì. Invano: Emanueil Filiberto aveva agito con abilità diplomatica perfetta ne’ contratti, in modo da non incappare in insidie cancelleresche: s’era cattivato ili marchese D’Orda col prezzo di compra alitissimo, di cui si scandalizzavano li Governatori, enormemente superiore al reddito, e con larghi favori: aveva affascinati gli Onegliesi colila gentilezza, colla liberalità, con concessioni e indulti: sino a creare (nel 1580) Oneglia città. E quando nel dicembre ’76 vi si recò col figlio, le dimostrazioni fattegli furono entusiastiche: e altrettanto avvenne nel marzo successivo. Intanto si imbastì la causa di Oneglia a Madrid, per vedere se potevasi annullare la compra: o almeno legarla con vassallaggio al re di Spagna: ma gli ambasciatori piemontesi vinsero pienamente. E Genova dovette rassegnarsi ad accettare 'il fatto compiuto, dopo una serie -di meschine rappresaglie sul naviglio onegliese col tentare sottoporlo « a nuovi e non conosciuti dazi ». Incitò anche, forse, Guido di Ventimiglia a non prestar omaggio al Duca per i suoi feudi onegliesi di Lavina, Cenova e Aurigo a lui sottoposti; poi lo sostenne apertamente, quando Emanuel Filiberto non esitò a farlo imprigionare. Ma il Duca, risposto con una lettera vibrata dell 4 maggio ’76 mostrando le sue buone ragioni contro il ribelle, dichiara che non permetterebbe alcuna intrusione ne’ fatti suoi e conclude: » la lOdEoria ci. Iscopo OaramS- ■ Qe^le an tàcite contese <àea pas&on \ al i anaro c <£ % al d .Aro-2ÌE, c 3eà poStiri acciàadi sopraTveand » ïpagg- IS7-265>- Tutte le Sìze lecere al lesale Òfiì Paòcsii GB ABateg» a Triora e Pigna, sano pie» e è t£5cò3e tSsttng-iigre ea cì» lato s£a la ra^ran·-·. eia creale 53 Tara©, Le Relazioni tra il Ducato di Savoia e la Repubblica, ecc 125 principe, e non si sentì più parlare nè nei rapporti dei podestà, nè nelle corrispondenze diplomatiche, nè gonfie, furiose insincere e vane controversie curiali, della questione delle Yiozene. ignorata dagli storici e appena accennata, e confusamente, in qualche oscuro illustratore locale. ❖ ❖ ❖ Questioni economiche-sociali fra i due Stati. Fortuna dei Genovesi alla Corte di Emanuel Filiberto. — Di troppo breve spazio dispongo, perchè io possa accennare a varie questioni economiche, come gli accordi presi d’anno in anno per il libero commercio de propri sudditi nello stato del vicino, o i provvedimenti del Duca, quando i suoi nuovi scudi d'argento nel 1573 risultarono calanti, con grave danno agli scambi. Argomento importantissimo sarebbe quello di trattare della fortuna di Genovesi di merito alla corte del Duca, sagacissimo conoscitore di nomini e inarrivabile nell arte di cattivarseli per sempre. Curioso argomento quello di scoprire nella corrispondenza officiale il frequente scambio di raccomandazioni dell uno o dell altro cittadino privato, per lo più. però, incaricati di alte missioni confidenziali alla corte amica, o di passaggio per essa. & & * Questioni religiose: La lotta contro l’eresla. Valdesi ed Ugonotti. Cattolicesimo del Duca. Lepanto. Malattie del Duca nel 1563 e nel 1574 e sacri voti del Duca. - Glacomina d’Enib Montbel (1541-1599) e la figlia Margherita. — I grandi avvenimenti dell*un paese provocano le dimostrazioni di simpatia dell’altro. Per la morte di Andrea D’Oria nel *60 il duca si conduole: Genova gode nel *62 che i francesi gli restituiscano le piazze del Piemonte: Emanuel Filiberto è spiacente che la peste minacci Genova nel '65 e nel 69: quando la rivolozione del ‘75 mette di nuovo in grande angustie le repubblica, egli si congratula se le cose paiono acquetarsi, offre i suoi buoni uffici, quando si diffondono notizie allarmanti. Ln argomento li ravvicina: il trionfo del cattolicismo e la lotta contro 1 eresia. In questo campo dovrei mettere in luce attraverso la sua corrispondenza la stupenda figura della duchessa Margherita di \alois: accennarne di passata non si può. Questo può dirsi: che essa ebbe un’azione mode-trice grandissima nella lotta contro Ugonotti e λ al desi anche nel lizzar do. anche — per quanto potè — in Liguria, non perchè allevata in ambiente ove passò qualche - «ffio di eresia. ma perchè fu dotata d animo sovranamente buono e pietoso per oimi sofferenza. Nè d’altronde il marito era uomo da lasciarsi condurre a rimorchio da chicchessia. La madre l’allevò prima per la Chiesa, poi religiosissimo. Nelle guerre delle Fiandre, in Allemagna. in Francia vide Torrore delle guerre religione, toccò con mano quale funesto germe di dissoluzione fossero negli stati 3e eresie, e si propose di estirparle dal suo. Difatti i λ al desi Adolfo Bassi ne sentirono il ferreo pugno, per breve: però, isolatisi nelle loro valli, ritrovarono il loro buon Duca. Ma fu sempre ottiimo cristiano, fervido cattolico — Lepanto lo dimostra tuttora —, sincerissimo credente. Nel 1563, dopo una caccia a# cervo egli ammala gravemente per aver fatto un bagno, mentr’era •ancora tutto accaldato. Tra le sofferenze sue e l’ansia di tutta la Corte fa voti -di recarsi a piedi da Chi eri a Savona, al Santuario famoso, allora nel suo primo fiorire. Adempie scrupolosamente di voto, rifiuta gli onori principeschi che Genova vorrebbe ad ogni costo iprodigargli, e umile va, umile torna, e la sua semplicità lo illumina più d’ogni fasto. L’na interessante corrispondenza -del duca, del -doge, delle autorità governative e religiose di Savona testimoniano la sua pietà (1). Nel 1574 egli, colto da renella (iprindipio de’ malanni che dovevano in pochi anni -distruggerne la forte fibra nel fiore dell’età) ritorna a Savona, senza fasto, con egual fede in Dio e nella Madonna, e riconfortato dall aria salubre dell mare vi rimane a lungo, quanto più può, senza mancare ai suoi doveri di principe (2). E vedemmo con quanta arte si servì di questo fatto per rendere più naturale, l’anno seguente, la compra d'Oneglia. Dante nelle serene altezze del (Purgatorio sente mormorare «. un non so che Gentucca » che gli farà piacere la città -di lei : nè offende la sua onestà il ricordarlo ne’ canti delTespiazione. Emanuel Filiberto trovò chi gli fece piacere la sua Liguria e fu una « non so chi » Spinola. Altri tenta rimuoverne attorno !i veli del silenzio. — Io ricorderò un altra dama, Giacomina. contessa d’Entre-rnont e Montbel, illustre e potentissima suddita sabauda, ma cresciuta alla corte di Francesco I, la cui vita tragica e appassionata si intreccia stranamente alla politica e agli amori del Duca, ed esce fremente dalle carte polverose d’archivio. Nata nel 1541, respira in Francia il calvinismo insinuatosi nella corte stessa. A vent’anni sposa Claudio di Blatarnay, discendente di Renato di Tenda e diventa così cugina in secondo grado di Emanuel Filiberto. Le uccidono il marito durante la seconda guerra di religione, alla battaglia di Saint Denis, nel 156 4. Rimasta vedo\a a 26 anni per la sua fede, s’infiamma più che mai per la causa ugonotta, s’innamora per fama del vecchio ammiraglio di Coligny, 1 eroe ugonotto, e proclama « arder di desiderio e d impazienza di essere la novella Marcia del novello Catone ». Lo sposa il 24 marzo 1571. La sera del 22 agosto, nella casa del Re, di cui essa è ospite, glielo riportano con un braccio spezzato d’un colpo di archibugio sparatogli addosso da un sicario. Il re Carlo I\ accorre (piangente al suo capezzale, e gli giura vendetta. La notte de*l 24. la (1) Sul viaggio e la permanenza a Savona nel 1363, vedi interessanti notizie in filza 74, Lettere al Senato. (2) Sul viaggio e la permanenza a Savona nel 1574, vedi Lettere Principi, N. G. 2791 e nelle Lettere al Senato di quell’anno. Le Relazioni tra il Ducato di Savoia e la Repubblica, ecc. 127 famosa notte di S. Bartolomeo, Coligny è la prima vittima dell’eccidio, ordinato dallo stesso re, e il suo cadavere è buttato dalla finestra. iLa contessa scampa per miracolo a ChatiMon poi a S. Andrea di Briard, ove in dicembre mette adii a luce una piccina. Intanto protegge gli Ugonotti 0 ) . Ili Duca di Savoia e forse anche più la Duchessa Margherita, l’attirano in Piemonte: il Duca per riaverla vicina, dopo aver •disapprovato le seconde nozze di lei, iperchè minacciavano far passare ad un Francese i vasti feudi di cui era signora: la Duchessa per ìa bontà che ebbe sempre per quanti le ricordavano la sua Francia ed erano infelici. Andrea Provana di Leynì raggiunge la dama sul Cenisio nel gennaio '73 e in cortese e larvata prigionia la accompagna a Cuneo, mentre avvisa il Duca. Qui noi, coi documenti inediti, possiamo riempire le illacune del romanzo. Hi 21 febbraio da Torino il Duca avverte il Senato ligure: « io mi partirò di corto per venire a Nizza con disegno d imbarcarmi a Savona : io ho voluto darne l'avviso all’Eccellenza e Signorie Vostre et pregarle come faccio con tutto il! cuore che non si muovino ad alcuna sorte di quei compimenti, che sono solite ad usarmi... si contentino di commettere al suo podestà ivi a Savona che voglia coi miei forieri provedere che io vi abbia alloggiamento per quel poco che mi occorrerà fermarmi... ». E il 25 febbraio: « Ha vendo io lasciato commissione in questa mia partenza per Nizza che la figlia del fu Conte d Entremont fosse condutta da me in detto luogo di Nizza et perciocché eila capitarà in Albenga, ne ha ben voluto avvisare l’Eccellenza e Signorie vostre con pregarle che siano contente di mandar qualche loro ufficiale che meglio le parerà in detto luogo d’Albenga, il quale habbia ordine di far dare ogni aiuto e assistenza a quello che la conduce e a lèi... ». Che avvenne nei marzo del '73 quando il Duca e la Dama si incontrarono nel Castello di Nizza? Essa era nel fulgore de' suoi 32 anni, cinta della grazia più eletta, nel fascino della più alta nobiltà francese; era bella e desiderosa di piacere, per ottenere la libertà: fors anche amò il duca bello e giorioso. L 'illusione fu breve e scambievole: ipoi la necessità di indurre lei all’abiura, e la resistenza di lei li allontanarono. Essa fu bentosto prigioniera: le fu tolta la scorta de’ quattro gentiluomini francesi che l’accompagnavano e cominciò la persecuzione per convertirla. Emanue»! Filiberto, tornato a Torino iì 30 giugno, chiede al Governo di Genova un passaporto per la contessa attraverso per le loro terre, avendo inviato il colonello Piovena, maestro di campo di cavalleria leggera, « a prender/α a Nizza e condurla (1) Vedi Gaudenzio Claretta - Giacomina d’EntTemont, Ammiraglia di Coligny ed Emanuel Filiberto Duca di Savoia - To:ino. LocatelH, 1882 » e « G. Claretta - Una figlia di Giacomina d’Entrexnont, Torina. Baglione. 1884 . Le lettere citate nel presente studio si trovano in Litterarum Registri (filza 68-1844). Vedi pure A. Segre, Emanuel Filiberto, G. B. Paravia. Torino 1928 , vol. I. pagg. 225-229 e R. Bergandoni, Carlo Emanuele I. Torino, Paravia 1926 - pagg. S4-S6 12S Adolfo Bassi •in qua... li sia dato alloggiamento e cavalli e bestie et altre cose che farà di bisogno mediante il ragionevole pagamento ». Da Genova dìi buon grado si concede tutto, il 6 luglio. Intanto tutti, cattolici e ugonotti, s!i interessano per la dama: il vescovo di Nizza che non riesce a convertirla, i signori bernesi e di vari cantoni, la corte di Spagna, ili conte palatino. La contessa, che ha chiesto d’esser condotta a Torino per inchinarsi alla duchessa, giunge colà in luglio: si cercano vari candidati per sposarla tra i gentiluomini di corte, ed essa non ne vuol sapere. In dicembre è ricondotta a Nizza: e l’odissea continua varia e interessante per la bellissima infelice, sino a che essa cède e riconosce il suo vassallaggio al Duca, dojpo due anni di resistenza, ed esce libera ni 1575. A Torino s’innamora follemente di Carlo Emanuele, più giovane d!i Ilei di 21 anni, e deve soffrire nuovi spasimi coinè amante e come madre, tra Carlo Emanuele che tenta soccorrerla, in memoria dell'afïetto trascorso, e la figlia, in cui vede rinnovate le persecuz'ioni da lei subite: sinché muore nel 1599 in carcere, sotto accusa di magia. Frutto delFamore passeggero di Emanuel Filiberto e di Giaco-mina d'Entremont era stata la piccola Margherita, nata nel 1574, strappata tosto alla madre, allevata in convento, poi costretta a farai suora del Gesù, e colla da epilessia dieci mesi dopo la sua professione. Esaminatala, la si dichiara colpii ta da maleficio e si constata essersi annidali in lei seicento diavoli, capitanati da Belzebù— La frase a tutta prima fa ridere, ma a pensarci su si freme d’orrore. (La causa di lei è devolula a Roma nel 1596. Carlo Emanuele manda a supplicare il ipapa Clemente VIII che la causa torni a Torino: e al rifiuto del paipa (di cui l’ambasciatore Arconali informa il duca), scongiura « che almeno si contentasse, che trattandosi di una sorella di V. A. era importante intervenissero (al processo) li ministri di V. A. ». Come fini la sventurata fanciulla? Annullata la sua professione monastica e assolta dalla accusa di eresia, sposò dopo il 1600 ili signor dii Meuiillon : e c’è da augurarsi che nella famiglia abbia trovato, se non l'a felicità, almeno la pace e l’oblio. Morte di Margherita di Valois, duchessa di Savoia, e condoglianze della Repubblica. - Riepilogo. Raffronto fra la Repubblica di Genova e il Ducato di Savoia durante la signoria di Emanuel Filiberto. Morte del Duca. — Ma ritorniamo alla Corte di Torino. Margherita di Valois, duchessa di Savoia, di mente e collitura elevata, di magnanimo cuore, di grande pietà, andava consumandosi. Ma prima di morire ottenne ancora dal nuovo re di Francia Enrico III la cessione di Finerolo e Savigliano nel settembre 74: e mentre il marito è a Lione, ad accompagnare il re Cristianissimo, e il figlio è infermo gravemente, Ella si spegne, compiuta la sua missione di Le Relazioni tra il Ducato di Savoia e la Repubblica, ecc. 129 bene, ili 14 settembre 1574. Al suo ritorno fulmineo in Torino Emanuel Filiberto trova, fra le condoglianze di tutti, pure quelle della Repubblica. Ringrazia il! 29: cc La perdila ch’io ho fatta ne l’improvisa morte di Madama mia moglie, che sia in Cielo, e l’afflitione ch’io ne sento, apportala, son certo, non poca molestia a V.a Ecc.za e Sig.rie per l'a bontà et affezione sua verso di ine. Ma dovendosi fra buoni amici e vicini [partecipare quanto occorre di bene et di malie, non ho potuto far di manco dii farli intendere coli mezo del Marchese di Mulazano... quale sia stata questa visitatione di Dio, la cui bontà non ha voluto in sì estremo doilore lasciarmi senza consolationi » 0), alludendo sia alla resa delle piazze ottenute per opera della cara morta, sia alla guarigione dell figlio Carlo Emanuele, slato in punto di morire. Gli avvenimenti maggiori che legano Genova e iPiemonLe negli anni seguenti li esponemmo: H’acquisto di Oneglia e del Maro e quel- lo di Tenda: la rivalutazione della moneta piemontese, l’agevolazione de’ commerci fra i due stali. A misura che si appianavano le contio-versie e le gelosie reciproche (i Genovesi ormai certi che il Duca non vuoi guerre, !il Duca certo che non ha a temere da essi) i rapporti di buon vicinato si fanno assai semplici e calimi. Vengono intanto crescendo Ì malanni del Duca che quetamente alterna ila sua vita fra Nizza e Ri paglia : sinché sopraggiunge l’idropisia che lentamente lo conduce alla morte, fra il compianto di tutti, il 29 agosto 1580. Da tanta spezzettalura di vicende, risaliamo ora ad una rapida sintesi, che ci dica che fossero Genova e 'Piemonte nel cinquecento, quali i loro uomini e quali i loro destini, per comprendere le loro relazioni. La Repubblica di Genova dopo il suo medioevo glorioso sul mare e in Oriente, non sa essere pani alla sua fortuna. Discordie intestine e guerre esterne la costringono assai presto a rinunziare volontariamente alla sua libertà e a darsi in signoria temporanea all’uno e all’altro. Dal 1311 al 15 28, di 217 anni 114 li passa in volontaria servitù di imperatori e d’Angioini, de’ marchesi di Monferrato e de’ Visconti, degli Sforza e dei Re di Francia. Il Ducato di Savoia, più francese che italiano dapprima, si mantiene a cavallo delle Alpi, incerto della politica da seguire, sinché i tre grandi Amedei gli danno faina e potenza in Italia, sino ad agognare (Lombardia e Liguria. Ma subito dopo declina, e Carlo II è poco più che un cc re del cappello » : disprezzato e derubato dal re di Francia, protetto e assassinato dal re di Spagna: povero travicello travolto dalla burrasca. A Genova compare ad un trailo una splendida figura: Andrea (1) Vedi le condoglianze della Repubblica di Genova in Litterarum, di Antonio Giustiniano di Roccatagliata, 1574 (filza 71-1847) e la risposta del Duca Carlo Emanuele I in Lettere Principi (N. G. 2791). Adolfo Bassi (- raa, che la scioglie dalla schiavitù francese e le dà libero governo, rinunziando magnanimamente ad esserne signore. In realtà Genova è sua: ed egli, grande negli odi come negli amori, la trascina ad una dipendenza sempre maggiore verso Spagna, quando più i tentativi di μ uotei la, buttandosi verso Francia, falliscono miseramente. — Muore decrepito il D Oria nel 1560 colla convinzione amara che molto del- 1 opera sua fu vana. La sua riforma oligarchica prepara nuove rivo-lluzioni alla città, rosa dall antagonismo di nobili vecchi e nuovi; di nobili che tutto possono e poco valgono, di popolo che molto opera e nulla ha. La ricchezza enorme di Genova a jdoco a poco sii travasa nel Banco di S. Giorgio, si logora in spese folli, in lucrosi (prestiti, in pericolone ipoteche: la flotta decade: il Governo, sentendosi sempre ipiù debole, di fronte ad entrambe, serve Spagna e s’incliina a Francia. Emanuel Filiberto raccoglie, sappiamo come, la triste eredità di uno stato che non esiste di fatto, che è negato di diritto. Francia e Spagna ne hanno dilaniate le terre e le considerano ormai cosa loro. Egli da condizioni assai peggiori di quelle in cui Andrea DOria trovò Genova, trae il (Piemonte a libertà e potenza. In venti anni di governo lo fa ricco, grande, potente, gli dà esercito e flotta propria, lo italianizza meravigliosamente, Io rende arbitro delle maggiori questioni d Italia, in un abile gioco di alleanze. lallì Andrea D Oria per coüpa propria o per ineluttabilità di eventi? Forse questo è più probabile: ma è certo che egli in trentadue anni di arbitrio assoluto non ipotè far Genova libera e grande, non potè estinguere gli odi intestini che Favevano condotta alla fatale rovina, non potè che rallentarne il doloroso tramonto. Ma Emanuel Filiberto invece, trovando lo Stato incomparabilmente più infelice, lo lasciò non solo libero di fatto, ma rispettato e temuto da Francia e Spagna, che trentanni prima avevano creduto farsene un trastullo. E mentre Genova decade, il Piemonte dalle stesse cause esterne di guerre, dagli stessi incubi di dominazioni straniere, trae v igore di forze e coscienza di libertà; esso che era la valle desolata fra tre monti — Spagna, Francia, Austria —, diventa la Λ-ia che li collega, ma cui si deve il pedaggio: il valico sicuro in pace, ma l'insuperabile baluardo in guerra. Genova e Piemonte, dibattendosi dai tempi di Carlo Λ a quelli del Re Sole, raggiungeranno la prima la dolorosa umiliazione del doge Francesco Maria Lercari a Parigi, il secondo lo sdegnoso disprezzo di λ ittorio Amedeo II che scaccia l"ambasciatore di Spagna. Di questi mutamenti profondi deve di necessità risentirsi la podalica de due Stati vicini. Genova, che considera a ragione Carlo II di Sav oia un debole, un vinto, un debitore, lo tratta con degnazione e compatimento, già pensando alla sua parte nella spartizione degli stati ipotecati di lui. Ma compare Emanuel Filiberto. Ride del fanciullo che vorrebbe andare Le Relazioni tra il Ducato di Savoia e la Repubblica, ecc. 131 alla, guerra ili Algeri: lo giudica più* tardi dalle sue lettere un ragazzo presuntuoso : alle notizie di Fiandra, riconosce che è un giovane che può valere qualcosa; al suo ritorno in Italia, che è un vicino pericoloso. E a misura che per vent’anni se lo vede crescere accanto, sospettosa ne segue le mosse: lo teme, come guerriero, torbido aggressore e deve constatare e convincersi a poco a poco che è un abile negoziatore, un vicino amante di pace, un ragionatore bonario; pur impensierita della sua forza, deve riconoscerne ila saggezza. E quanto più ne è gelosa, tanto più deve trattarlo con riguardo, tanto più raddoppia d’ossequio. Ed Emanuel) Filiberto? Giovinetto e principe, tratta Genova da pari a pari, pur sapendosi più debole, ma inferiore mai. Riacquistato 10 Stato, il duca sprezza le ambigue arti di Genova, come ci narrano gli ambasciatori: ma tosto muta lo sprezzo in una superiorità benevola, ironica a volte, che non lo distoglie dal raggiungere i suoi fini, senza lasciare alla vicina forti appigli di protesta. E morendo a cinquantun anni dopo vent’anni di regno trasmette al figlio l’opera [perfetta da lui compiuta, e gli affida la missione ardua da compiere. E Carlo Emanuele I, benché non ancora ventenne, questo intuì dal primo istante. Infatti, soffocando le lacrime, frenando 11 cuore dolente, il sei settembre scriveva ali Doge e ai Governatori della Repubblica di Genova una lettera inedita, in cui annunziando la sua sventura, fa l’elogio, austeramente ipiemontese, del suo grande Genitore sulle cui orme vuol continuare: cc Io mi rendo conto che l’Ecc.za e SS.rie V.re compatiranno meco al gravissimo dolore ch’io sopporto della grave perdita, che questi dì ho fatta, del fu Duca mio Signore e (Padre, che sia in cielo: sì per il gran valore e meriti soi, come per il singolare amore et affettione che egli portò sempre a l’Ecc.za e SS.rie V. Alle quali volendo essere l’istesso che era detto mio Signore, et mostrarme vero successor suo, non ho voluto differire di significarle questo doloroso et inaspettato caso di perdita: nella quale ricevo il solo conforto di haver visto la gran contrittione purità et divotione, con che ha reso la felice anima sua al sommo Creatore. DaiJ quale convenendosi riputare a gratia tutto quello che le piace di determinare, non starò a riputare più oltre quanto questo avvenimento mi sia stato grave... solo vengo a pregarle che rivolgano in me l’amore e la buona volontà che portavano al mio progenitore » (1). Questo l’elogio, questi i propositi di Carlo Emanuele I. Ma il destino tesseva altra trama pel degno successore del'grande Emanuel Filiberto. Adolfo Bassi. (1) Lettere Pencipi (filza 16-2792). CLASSICILMO DI OGGI E DI IERI Appunti e considerazioni su GENOVA E LA LIGUBJA NEL QJJ ATTIVO CENTO UMANISTICO Mentre una vecchia questione è ritornala di attualità, quella che riflette i rapporti con Tarte greca dell’arte dei Latini, che la stessa loro confessata opera d'imitazione formale {Graecia capta...) aveva contribuito a far passare per umile ancella della greca, questione connessa più o meno direttamente con quella delle nuove mete a cui dirigere gli studi sull’antichità classica, in seguito al progresso effettivamente compiuto dagli studi critici ed estetici, 11011 sembra ozioso richiamare l’attenzione sopra ogni celebre ritorno alla fonte inesausta e inesauribile della sapienza classica, cogliendone per quanto è possibile lo spirito informatore. Cosicché da un lato sta il problema dei distintivi caratteri del genio greco e del genio latino e dall’altro sta quello del -modo come l’una e l’altra letteratura siano state intese nelle fasi della nuova civiltà in cui gli artisti e gli studiosi furono attratti a rivolgersi al classicismo, concedendo il massimo favore piuttosto all’una che all’altra letteratura. Si capisce quanto si debba agli spiriti artistici, più inclini all’entusiasmo, se fu possibile un trionfo assoluto piuttosto dell’una che dell’altra tesi, se fu possibile anzi che tesi vere e proprie fossero poste e difese e combattute. Oggi, è noto, si tende ragionevolmente, con scientifica obiettività, ad uno studio comparativo elevando a dignità di produzione originalmente artistica così l’una come l’altra letteratura senza negare, anzi affermandone vieppiù l’intimità dei rapporti, sebbene ancora gravino sugli studiosi e sugli umanisti in genere i concetti suggestivi banditi dalla critica romantica che elevando sugli altari l’arte greca arrivò a poco a poco ad assegnarle un posto che 'in realtà non le spetta nella storia delio spirito, scambiando la smagliante luminosità fantastica per la vera e propria potenza lirica. Si rilevano soltanto differenze di qualità e non di valore, allorché si riconosce ai poeti latini il prestigio de!l’« intimità », bene osservando, con una tra le più semplici argomentazioni, in un confronto tra quei poeti che della lirica, per attenersi alla vecchia sentenza d’un retore e d’un critico famo- Appunti e considerazioni su Genova e la Liguria, eçc. 133 so (*) costituiscono i massimi rappresentanti, Orazio e Pindaro, che l’uno ha parlato tanto, come oggi si dice, del proprio « io » che veramente ha scritto l’autobiografia, l’altro è rimasto nascosto dietro la selva -dei suoi canti, dietro la grande ala del suo genio. Cosicché, intimità da uri lato, esteriorità, con le dovute limitazioni del concetto, fantastica dall’altro. Facendo le dovute riserve ad una affermazione, che non può esser rigida ed assoluta nel senso più esclusivo, non trattandosi di scienze esatte (pensiamo ad alcuni frammenti insigni dei melici greci) gli uni inseguono i fantasimi del mito e ne fanno arte, gli altri si°volgono volentieri a interrogare, a penetrare il proprio spirito per farne la storia e intanto accade loro di tessere la storia delle proprie vicende materiali. ^ Connesso con quella stessa « intimità », da cui viene all aito dei Latini gran parte della sua efficacia, è quel senso del reale clic solo nella misura e nel modo in cui effettivamente si esprime nelle arti figurate non è elemenLo trascurabile da chi ne giudichi la produzione letteraria. Così come non lo è ogni conclusione degli odierni studiosi delle arti belle che vanno per una loro strada particolare e quindi verso conclusioni, che possono riuscire nuovi ed utili elementi di giudizio per i filologi, mentre si sa come le lettere e le arti classiche fossero un tempo confuse nella stessa venerazione c nella stessa valutazione critica. Ma non è -dato il bando alle «preferenze », quelle stesse che, ridottesi oggi a poco più che considerazioni scientifiche per specialisti, affiorarono come vera c propria predilezione intuitiva c quindi artistica in epoche diverse meglio che fuori, in terra italiana, la quale per tali corsi e ricorsi, di ritorno e di ribellione al dominio del classico greco-latino è particolarmente caratteristica (2). Diverso è stato, secondo le differenze etniche della sua gente, per misura e per qualità l’apporto regionale al primo e più importante risveglio umanistico e assai più notevole che non si credesse risultò quello di Genova e della Liguria. Il Gabotto pensò che non sarebbe ardito credere ad una tradizione umanistica clic prenda le mosse nel lontano secolo XIV anche in Liguria e più particolarmente a Genova (3) ed accenna ad una ambasceria ufficiale del Boccaccio. nell’anno 1365, e sopratulto a relazioni (1) Quintiliano, Inst. Orat.. X, I. (2) La bibliografia sul problema deU’originalità romana, che si va oggii arricchendo, conta tra noi, fra gli altri, importanti studi di Rostagni, di V. Ussani, di L. Castiglioni, di G. Funaioli, del quale citerò più oltre uno scritto. Importante, per la storia della critica, la voce dei tedeschi in questo argomento, tra i qualli all’avanguardia F. Leo. e la scuola filologica di Gottinga. (3) FERDINANDO Gabotto, Un nuovo contributo alla storia dell'Umanesimo ligure, in «' Atti del)·* Società Ligure cii Storia Patria », vol. XXIV, fase. 1. p. 9 segg. 134 Mario G. Celle di liguri col Petrarca, che dell’umanesimo è con ragione riconosciuto il lontano efficace precursore. Ed io sono -d’avviso che siano tutt’altro che da trascurarsi per lo studio -di un ambiente o della mentalità di un secolo queste testimonianze che appariscono puramente episodiche ed esteriori. \ i sono uomini non letterati di professione che in realtà più di tale categoria di persone, vissute molto spesso contro corrente, ci appariscono rappresentanti più tipici di un ambiente e di un’epoca allorché si tenga conto delle loro predilezioni nel campo delle amicizie e delle relazioni epistolari. Perchè come in tutto anche in questo la moda c’entra ed è la esteriore manifestazione dello spirito del tempo. A Genova non si ebbe più che altrove una fioritura umanistica nel secolo XIV, ma è pure possibile una ricerca ed uno studio di personalità che preludano in qualche modo alla successiva fortuna degli studi classici che tanto bene secondo alcuni, e tanto male, secondo altri, hanno fatto al naturale sviluppo dell’arte nostra, della nostra letteratura e della nostra attività critica ed erudita. Così di un cc umanista del secolo XIV », come lo chiamò con un poco d’arbitrio, si occupava F. Novati, di Bartolomeo di Jacopo 0)> che fu in buona relazione col Petrarca, il quale dimostrò di averlo in molta stima. Se è vero che l’inventario dei suoi beni non è prova sufficiente per accoccare così senz’altro all’avvocato Bartolomeo il titolo di umanista, ci permette tuttavia di riconoscergli una mentalità da quella dell’umanista non molto discosta, con la differenza che di nostro patrono anziché dar bando agli insigni trecentisti non disdegnava collocare accanto a « Rectoricorum Tullii » cc Monarchici Dantis », cc Tragedie Senece », cc Orastius cum commento », cc Vergilius Eneydos », cc Lucanus », cc Boetius » e i classici greci Piatone, Aristotele, ecc. Più notevole è il fatto che tra i primissimi che veramente presentano caratteri spiccatamente umanistici siano degli ecclesiastici e che un bel nome tra quelli dei precursori degli entusiasti e studiosi dei classici antichi sia quello dell’arcidiacono, poi Arcivescovo di Genova, Guidone Settimo, cosicché la curia arcivescovile dn Genova, se non fu proprio la culla dell’Umanesimo come quasi inclinerebbe a pensare il Gabotto, certo non fu la vigile scolta del Medio-Evo dinanzi al nuovo sorriso allettante del Paganesimo che nella nuova veste dello scetticismo intelligente occhieggiava dietro i veli rimessi a nuovo della filologia e dell’archeologia. Ma un altro arcivescovo di Genova doveva acquistarsi segnalate benemerenze nel campo dei nuovi classicisti, Pileo de Marini, insigne mecenate e studioso egli stesso. A lui è diretta dal grande umanista (1) Francesco Novati, Umanisti liguri del sec. XIV - 1.Bartolomeo di Jacopo, in « Giornale Ligustico Anno XVII, 1690, p. 23. Appunti e considerazioni su Genova e la Liguria, ecc. 135 Leonardo Bruni una lettera (!) di grande interesse di cui sono per noli assai significativi -due brani : cc Sis enim michi quoque perspicere visus su ni, aut nichil humanarum rerum aclversus animi aegritudinem valere posse, aut unicum in litteris s'tiidiisque esse rejugium, quas qui jastidiunt ct contcmnunt (quella brava gente che non è mai mancata anche quando non si andava in aeroplano), verae puraeque veritatis gustum non habent. Tu igitur iis incumbe, ut jacis, praesertim cum nulla res dignior homine sapienti et in ea, qua tu es, dignitate constituto... Sunt autem (i codici trascritti) cc Ethicorum » libri, quos nuper traduxi. et « Commentaria primi belli Punici », cum quibusdam orationibus Demosthenis et cc Oeconomicorum » libro, sat, ut michi primo aspectu visum est, emendate perscripti. Haec emere licebit. Tu igitur cuivis Ianuensium tuorum qui hic negociantur committere poteris, ut libros excipiat, ac precium decens pro illis exsolvat Vale - Florentiae, 11 idus Februarii ». E 11011 erano libri di sacra erudizione che l’arcivescovo desiderava acquistare, ma versioni dal greco, se non testi greci addirittura, interessavano il prelato umanista genovese. Niuna meraviglia pertanto se egli era in relazione anche con Pier Candido Decembrio e con altri insigni letterati del tempo. Gli studi e le ricerche di quarantanni or sono, che per merito di Carlo Braggio, di Ferdinando Gabotto, e d’altri non meno benemeriti hanno condotto a conclusioni per allora davvero insospettate, hanno esaurientemente risposto anche a quel noto critico, il Bur-clikhardt, che nell’opera a La civiltà del secolo del Rinascimento », generalizzando un semplice episodio di modeste proporzioni, affermò che Genova, prima dei tempi di Andrea Doria, non ebbe pressoché parte veruna nel rinascimento, che anzi gli abitanti della Riviera passavano per tutta Italia per nemici di qualsiasi coltura. Ma, bene osservò il Braggio. nessuno volle dar mai a Genova il vanto d’esser stata l’Atene d’Italia, ma sì rilevare che Genova non fu affatto refrattaria a quel movimento colturale e particolarmente classicistico che pervadeva da un capo all’altro la penisola. Non tardarono a farsi innanzi i mecenati laici, ma una vera conquista per la coltura e per la sua obiettiva libertà intellettuale, aprendole la strada verso le più alte affermazioni nel dominio della scienza, della erudizione e della critica, furono gli effetti quasi immediati dell’umanesimo nel campo della scuola. L’insegnamento degli umanisti fu soprattutto privato e basti, per richiamare l’attenzione sui grandi frutti che diede il loro privato insegnamento, pensare alla missione di privato insegnante di Guarino il Vecchio che offre uno dei primi esempi di scuola-convitto, così come l’altro umanista. Baril) Vedila in LEONARDI BRUNI ARETINI, Epistolarum, IV, 19 ed. Mehus, Firenze. Paperini. 1741. 136 Mario O. Celle stizza, il quale ospitò nella propria dimora quello che saia il prototipo degli istitutori, Vittorino da Feltre. L’umanesimo ebbe il merito d’incoraggiare la liberazione degli studi dalla sovranità morale dell’episcopio e degli ordini religiosi, sviluppando l’insegnamento laico; e verso la fine del sec. XIV a Genova il governo dello Stato si risolveva ad aprire scuole alla sua diretta dipendenza stipendiando con annua provvigione (tutt altro che lauta in verità, e viene in mente il virgiliano solarium miseris...) professori genovesi o chiamati di fuori per 1 insegnamento della grammatica e delle altre discipline che componevano il trivio. Si sa che tra gli insegnanti incaricati vi fu l’illustre Lorenzo Valla (decreto del 1474 motivato così: « Auditis nonnullis civibus commemorantibus indignum et inutile fore non osso in hac civitate hominem doctum ac probum et bonis moribus prœditum, qui publico prcn-mw legat adolescentibus illosque bonis moribus imbuat et erudiat lit-tersi, quod optimus esse solte in omni statu et repubblica ») . Ma è bene ricordare altresì che, come informano le riferite ragioni che motivarono il rammentato decreto per Lorenzo Valla, allorché gli intervalli di vacanza che si verificavano nella cattedra erano troppo lunghi, non mancavano le rimostranze talora \ ivaci della cittadinanza che guardava con simpatia a questo genere di insegnamento e considerava un vero e proprio inconveniente non curarne la diligente continuità. Tuttavia Genova non fu per i dotti Teletta dimora, per la mancanza di uno stabile ordine cittadino, per 1 improvviso inaspettato infuriare delle fazioni con tutte le sue dannose conseguenze; e <1 altronde, per tanti motivi che dovevano aver presa sull animo loro aristocratico, essi aspiravano piuttosto alle corti dei principi. Così si può spiegare oltre che con l’indole sua irrequieta la a mala voglia » di Bartolomeo Guasco in quel distico rii Antonio Astigiano: (1) Illic grammaticam, licet invitissimus, artem Ipse docens Guaschus Bartholomeus erat. Ma hanno in verita, per lo studio dclTainhiente, un valore maggiore di quello che è stato loro attribuito alcune notizie dell’epistolario bracelliano: informando l’amico Vndreolo di una disputa letteraria che s’era tenuta in Genova, il Bracelli calcola che il pubblico concorso fo->e di cinquemila persone, attratte forse dalla curiosità di conoscere il celebre « virtuoso » che aveva appena oltrepassato il ventesimo anno. (I) Avtomi ASTISIS'I, De conciale foriur.ee carmini», lib. I. 805-6. secondo la nuova edizione di A. T*UW»X IR. I. S., XIV) che cosi corresse sull'Autografo, alla Nazion. di Torino, l'ediz. Mu* ratoriana e i codici che hanno questo e i seguenti tre distici dopo il v. 4)2 dello stesso Libro \. Appunti e considerazioni su Genova e la Liquria, ecc. 137 Piiù sorprendente, nello stesso epistolario, la notizia contenuta fin una lettera di un Guglielmo (nipote di Andreolo Giustiniani) (1): « Si de pecuniis repetundis agitur, quis est qui audeat pecunias non esse dilapidandas dicere in concionem? Nemo, crede; non reproibatur peccuniœ solucio; quin imo quo nom modo dividi debeant id in controversia positum est. Et in hoc genere graves orationes auctoritatesque maiorum, aliqni Ciceroiuim, alii Catonem, alii Lelium, multi Denwslencm suis orationibus ajitepo-nunt, nec verentur eos nominare a quibus quam turpissime obiurga-rentur si viverent ». Nientemeno che Demostene, ina non si può pretendere che lo citassero nell’originale. Questo sfogo di un genovese contro il mal costume del tempo presente è provocato da uno spettacolo poco edificante di cui egli parla come di un vizio inveterato, e gli dà ai nervi «die i degeneri nepoti vadano citando (in hoc genere) a testimonio i grandi del classico tempo andato. Sebbene isolata, la notizia ha la sua importanza permettendoci di non escludere alla prinna che gente pratica, in questioni così pratiche come quelle dei quattrini, non disdegnasse di indulgere alla moda di infiorare di classicismo la sua prosa oratoria, se proprio non si vuol concludere che tra noi, al tempo di Bracelli, non tardassero a ottenere una diretta ripercussione nella vita corrente gli schemi oratori cari ai nuovi accademici del classicismo. Non ai particolari episodico-biografici, ampiamente illustrati, come ho accennato, in special modo dai citati studiosi che, tutti intenti a cc ricostruire la vita », hanno dato secondo il metodo del tempo a questo genere d'indagine una importanza sproporzionata allo scopo, ma piuttosto ai fatti e alle notizie che hanno un diretto o un indiretto riferimento alle caratteristiche generali del moto intellettuale vogliono riflettere qui queste mie considerazioni. In complesso non si può dire affatto che il pubblico, la gente colta in generale, non partecipasse attivamente alle tendenze nuove della vita intellettuale del tempo, siccome ne conservano 51 ricordo episodi molto significativi; ma si capisce come di vero c vitale sviluppo ne fosse affidato ai gruppi di studiosi, ai cenacoli, al mezzo degli scambi diretti, degli epistolari, epistolari così ricchi, così vasti e importanti e preziosi nel *400. Si pensi, tra gli altri molti, a quello particolareggiato di Guarino Veronese che bastò quasi da solo a Remigio SabbadÜni (per costruire quella magistrale e troppo poco conosciuta Vita di Guarino Veronese (2) che segue passo passo una esistenza ottuagenaria lirra-diante di viva luce tutto un secolo di studi e di attività letteraria, (1) Nel manoncrillo Bcriano, Genova, D bia 10, 6, 65, p. 262. (2) RlmicIO Sabradimi. Vita di Guarino Keroncic, a puntate nel « Gomilr Liguitico », Anno XVIII, 1891, p. 3. 109, 185, 261, 321, 401. 13S Mario O. Celle sd pensi, per Genova, al ricco epistolario di Jacopo BracelLi. Manco a quei letterati il mezzo che si farà efficacissimo ai loro diretti discendenti per stringere un più stretto vincolo con il pubblico, con a folla anonima, chiamandola a partecipare alla loro gioia spirituale, per affinarle il gusto, propinandole, se 11011 con la generosità dei nostri giorni, almeno con intelligente parsimonia, le pillole della dottrina, per farla capace di comprendere intimamente lo spinto dei tempi nuovi. Solo alla fine del secolo del primo risveglio umanistico, dopo il "64 da Subiaco, dopo il ’71 anche a Genova la stampa cominciava a recare S suoi frutti, benefici a quei tempii indubbiamente, no tardo ad esercitarsi da noi l'arte della stampa su larga scala (!) sebbene si provvedesse in primo luogo sollecitamente ad opere scolastiche e c 1 uso corrente; tuttavia non tardò, tra il ’73 e il ’74, un contributo umanistico con 1111 Boezio per i tipi di B0110 Giovanni 111 Savona. L'accenno autorevole, adunque, all'esistenza di un cenacolo di «lotti classicisti, per quanto modesto, in Genova, si suole riconoscerlo Sn un noto passo della « Italia illustrata » (2) in cui il suo celebre autore Flavio Biondo annota che pochi valenti letterati contava al suo tempo Genova, tra i quali quelli a lui più noti erano il Bracelli, Niccolò Ceba. illustre viaggiatore, e Gottardo Stella, come il Brailli segretario e cancelliere. Ai segretari cancellieri, è stato guarnente osservato (Belgrano), va dato merito principalmente della fioritura letteraria erudita in Genova: Iacopo Bracelli, Nicolo Stella, Prospero da Camogli, il Curio, il Fazio, l’Ivani, Gottardo Stella, Bartolomeo Senarega (3) . Anche dopo i successivi studi sul notevole letterato genovese (tra (1) Cfr MaB CELLO STacUENO. Appunti e documenti sui primordi dell arie della stampa a Genova. in - Atti Soc. Li*. Storia Patria·, vol. IX. p. 42Ì segg. (V. anche Belgrano « Giuliani nello stesso volume). # « · · j · i (2) BLONDI Flou FoìUVINSIS. Italia illustrata. Basile*. 1559 — Regio prwnn. Liguria, dove si r*er precisamente: - Orna tur vero nunc (Genua) civibus navigatione ac mercatura loto orbe notissimi*: »ed paucos habet egregie liteiatos. quorum notiores nobis sunt Nicolaus Ceba. et noster ttem lacobus Bracellus ac Gottardus principis scriba ». ^ (3) Ma altrove vi furono il Panormita e il Pontano. segretari dd re Aragonesi in Napoli, il Salutati. Leonardo Aretino. Poggio Brecciolini, cancellieri della Repubblica Fiorentina, per tacere degK illustri Segretari dei Pontefici. Furono « funzionari - : e a questo o ad altro lavoro che assicurasse loro, in mancanza di beni di fortune, un guadagno continuo e sicuro erano pure costretti, perchè si sa come gli studi che tanto hanno contribuito alla formazione della poliedrica e pur ricca coscienza moderna, sbocciata dai rottami della spiritualità rigidamente imprigionata nella fede, non siano mai stati, come tutte le cose veramente belle e degne, troppo rimunerativi. E non solo a Genova come si è usato e si continua a dire. Si pensi infatti, per citare un esempio «ingolarmente comprensivo, alla lunga vita quasi tutta trascinata in mezzo a ristrettezze economiche dal celebre, lodato, decantato Guarino Veronese. Dice il Sabbadini a proposito della scelta di carriera di Giovarmi Toscanella (Giornale Ligustico. XVII. I890. pp. Π9-Ι20): - In paese fu veduta di malocchio quella sua risoluzione. Perchè non si era invece applicato alla giurisprudenza, al diritto canonico, alla medicina che impinguavano la borsa > Con le belle lettere si muore di fame. Ecco il terribile bivio, dinanzi al quale si trovarono quasi tutti gli umanisti, quand’erano giunti eli cti» della toga virile; o arricchirsi facendosi medici e avvocati o deliziarci dell arte stentando la vtfa *. Eppure se quella loro funzione di cancellieri dello Stato potè limitare la quantità della loro produzione lette- * < gli altri uno pregevole sulla geografia nell’opera sua compiuto da Giuseppe Audriani (1) è sempre un felice giudizio sintetico quello che ne dà lil Braggio (2) . « Egli fu non ultimo rappresentante dii quel sapere che venne man mano acquistando sempre maggiore importanza, perchè seppe entrare nella corrente d’idee del suo secolo e farsi pratico, nell’atto che affermava la più alta ragione raggiunta dal genere umano. Ed ognuno ammirerà, credo, la coerenza strettissima che corre in lui tra l’uomo e il letterato. L’uno completava l’altro, sicché il lettore s’incontra con piacevole meraviglia in un umanista, ossia in uno di coloro che meritarono, non a torto, il nome di gladiatori della penna, la cui vita e la cui operosità vanno del pari scevri di ogni macchia e di ogni rimprovero. Gli è che la misura e la forza che si palesano nel suo carattere, il nostro Jacopo le trasfondeva senza ostentazione, naturalmente nei suoi scritti, alcuni dei quali li diresti non indegni della gravità dell’eloquenza romana. Solo una qualità ti avviene leggendolo, di desiderare in lui, ossia un maggiore ardimento, una partecipazione più franca alle questioni che agitarono nel suo tempo la società politica e la repubblica letteraria. Tra tanta eleganza e facondia latina, gli mancava la genialità artistica posseduta in così alto grado dal Bracciolini; fra tanta dignità, misura e imperturbato dominio di sè medesimo, gli faceva difetto il coraggio del Salutati e del Valla ». Di Gottardo Stella il Serra e il Neri lodavano gli scritti, quasi tutti lettere scritte per ragion d’ufficio, per chiarezza e sapore di lingua classica, malgrado i neologismi che si rendevano indispensabili, c altresì per le bene appropriate sentenze tratte da Cicerone c Seneca, nonché dai classici greci e dai Padri della Chiesa. Ben noto era il Celia nella repubblica delle lettere e con lui corrispondevano scrittori illustri come Francesco Filelfo che gli dedicava la celebre satira che è un terribile atto d’accusa contro le donne genovesi e la corruzione al tempo suo nella nostra città, di cui il raria. non mancò di benefici effetti sulla qualità dell'opera loro. Continuamente a contatto diretto con la realtà della vita d ogni g.omo, c con le vicende politiche nazionali, non poterono tempre aitrarii per fare il « meatiere » del classicista, ma, elaborando gli sparsi elementi di psicologia cHe lo spettacolo della quotidiana vita sociale offriva loro, ne ricavarono profondità di meditazioni ori· (finali, ed ebbero la mente rivolta alle istoi e, oltrecchè alle pur non sterili dispute grammatica*!, rivestendo dell eleganza formale i teaori della loro prez.osa esperienza politica. E la necessità di prendere parte come segretari alla politica varia e mutevole, secondo il mutar della parte o del signore al governo della cosa politica, doveva contribuire, con non lieve sacrificio di personali entusiasmi, a formare quell abito mentale sereno, obbiettivo, di osservatore acuto, ma estraneo, atto allo storico. (1) GlUSEPPL AndrianI, Jacopo Bracelìi e la geografia, in «Atti Soc. Lig. di Storia Patria*, vol. LII, 1924. (2) Carlo Braccio. Giacomo Bracelìi e Wmanegimo dei Liguri ai tuo tempo, in « Atti della Soc. Lig. di Storia Patria », vol. XXIII, p. 178. - 140 Mario G. Celle poeta loda la bellezza ed il superbo aspetto a metà del sec. XV (la satira è del 1450 circa). Ma accanto a questi e ad altri esponenti -dell umanesimo ligure vi fu una vera folla di elette persone, che agli studi classici non attendevano di proposito, eppure 11011 trascurarono di interessarsene. Così, raccogliendo qua e là le sparse notizie, è interessante, ad esempio, sapere che era desiderio di Tomaso Fregoso di leggere, così per gustarlo come amena lettura, un comico della morta letteratura, Plauto, e che egli prega l’Aurispa, nel ’39 a Ferrara, di mandargliene le dodici commedie ritrovate alcuni anni prima. Non meno notevole quell9altro signore, Gaspare Sauli. che desiderava conoscere dal To->canella a quali letture paratamente su Virgilio, (cicerone e Plauto questi venisse facendo con Leonardino suo fratello ». Era anche un genovese quel Giovanili Jacopo Spinola che, soggiornando in Francia verso il 55, tra le varie preoccupazioni dell uomo d’affari, trovava tempo e modo di occuparsi del « De Repubblica » di Cicerone: « Multi autem Italici fuerunt, qui Ciceronis opera, maxime De Republica su ruma diligentia quaesierunt, sed frustra » (I)· Ad Andreolo Giustiniani scriveva un giorno il Bracelìi: « Mi dispiace di averti domandato un saggio di simulacri marmorei, delizia tua, ignorando che la tua generosità verso altri Ir ne aveva privato. Non ti dar pensiero di inviarmi la statua che mi hai destinata. Che se si darà il caso che tu ti trovi in possesso di un buon ninnerò di scolture, allora acconsentirò che la mia ca?*a, la quale è pur tua, venga adornata per tua bontà di qualche pregevole opera di I* idia o di Polieleto ». L'interesse per i prodotti delle arti belle non fu meno vivo che per quelli della letteratura, e si .~a con quanto studio gli archeologi attendessero all’opera loro ili ricerca condotta talora con singolare competenza. Allora non come al nostro tempo i due grandi rami degli studi classici, filologia e archeologia, erano nettamente distinti, ma le antichità artistiche e letterarie meglio si confondevano nello stesso fervido e intelligente amiore. Si sa di un dotto conoscitore di antichità. Eliano Spinola, principe degli antiquari genovesi. Un altro ^isnore. Tomaso Fregoso: istruttivo è il -no inventano, in cui figura una bella scelta di latini: Plauto (tra i prediletti poeti del signore di Sarzana), Terenzio, Virgilio, Livio, il tragico Seneca e Cicerone, nelle lettere specialmente ancora rare, e Gellio, Notti Attiche, e Plinio. Storia Maturale, Svetonio, \ alerio Massimo. E una figura complessa e sovrastante è quella di Biagio Asse-reto, il vittorioso di Ponza, figura di uomo d’azione e di dotto che si ebbe l’ammirazione di letterati e di umanisti, e che veramente visse nello spirito del primo rinascimento, per quel suo amore alla (I) Or. B*accjo, op. cit. p. 24 e pcnuim. Appunti e considerazioni su Genova e la Liguria, ecc. 141 gloria e per quella sua ultima delusione, allorché sul piedistallo eu **ui lo avevano fatto ascendere i suoi meriti insigni vedeva che tutto non è che ombra vana, anche la Dea che tanto fu vagheggiata dagli uomini del Rinascimento, la gloria mondana. E parecchi gli studiosi di lettere nella famiglia Spinola: Eliano, Gian Giacomo...; dotto uomo Carlo Fiesdhi in relazione col Decembrio. Bizzarra figura quella di Giovali Mario Fidelfo nato a Costali-tinopoli, fatto cittadino di Savona. I letterati italiani del ’400 offrono di rado il tipo dello studioso metodico e assiduo. La loro vita è randagia, spesso avventurosa. A ogni momento essi vengono alle prese con i vari governi della penisola per lo stipendio. Irrequieti per lo più ed avidi sempre di cose nuove, così come sono acerbi e violenti nelle polemiche, si capisce come abbiano di continuo peregrinato di città in città. Ma più irrequieto degli altri il figlio «dell’illustre Filelfo, scapestrato e donnaiolo, costretto talora a lasciare la sede d’insegnamento per scandali non precisamente letterari. ' ο $ Ψ Ha il suo valore una lettera di Leonardo Bruni a Nicolò Ceba (*). « Non (putabam in universa Graecia tantum esse latina rum 1 itera rum, quantum in te unum conspexi. Quas enim ahs te epistolas accepi tanta elegantia nitoreque conscriptas, ut admiratus equidem fuerim tibi «inter alienigenas viventi tam inorruptam patriti soli eloquentiam permansisse ». La lettera ei informa clic il nostro genovese apprezza e loda del Bruni le traduzioni del Fedone di Platone, del-l’EticÀ nicomachea di Aristotele e di alcune Vite di Plutarco: « Laudas traductiones meas, ex quibus Phaedonem Platonis, et Aristotelis libros de moribus ad Nicomachum, et quasdam Plutarchi Vitas te vidisse commemoras ». Non solo, ma Nicolò, clic rivela, tra i primi genovesi, una notevole mentalità di classicista, dà dei consigli al Bruni: « Quod autem me hortaris ad traductionem librorum Platonis de Repubblica, ais vidisse te eosdem libros a nesefio quo interprete ineptissime traductos, atque oh id magis me hortaris ad id onus suscipiendum, respondeo tibi plane quod sentio etc.», ringrazia poi della sua profferta di cercargli codici greci l’esperto traduttore il quale dimostra, nel brano riferito, di tenere in qualche conto la competenza del suo dotto corrispondente, che gli aveva segnalata una cattiva traduzione dell’opera greca che lo interessava. Così i classicisti genovesi prendevano parte all’opera di rievocazione dell’arte e della sapienza ellenica, che nel vasto quadro del risveglio umanistico andava rapidamente affermandosi, e, in certo modo, con le loro predilezioni, prendevano posizione nella contesa (I) LtONOrDi Bruni ARETINI. Epiatoìamm, lib. IX. 4, ed. cit. 142 Mario G. Celle che non tardò ad accendersi tra coloro che agli studi greci invocavano il maggior impulso e coloro che li osteggiavano, non riconoscendone l’utilità. Quando Emanuele Crisolara giungeva a Venezia nel 1396 con* una ambasceria dell’imperatore di Costantinopoli, e invece di parlar di politica si metteva a parlare di letteratura, capitava proprio in buon punto ed in terreno ormai maturo ad un fecondo risveglio degli studi classici, e parve miracolo che un tale uomo venisse proprio a integrare con il greco la coltura classica, mentre per il latino 1 Italia non aveva bisogno d’altri, e degno di nota è il pensiero di un classicista rappresentativo di quel tempo, Guarino Veronese, il qual^ faceva con qualche motivo iniziare il vero e proprio Rinascimento con il Crisolora (1)· Il Guarino, come si sa, si fece immediato ed entusiasta continuatore del Crisolora che primo aveva aperto la via ìin Italia alla coltura greca, che per merito dello stesso Guarino ebbe in un primo tempo· a Venezia il suo fondamento ed il suo centro di irradiazione. E’ noto che intorno al 1415 il Giustinian traduceva il cc Cimone » di Plutarco, quasi come attestato di gratitudine alla memoria del Crisolara, che nel medesimo tempo il Barbaro traduceva dello stesso autore P« Aristide », che non tardavano a seguire il cc Lucullo » per opera, del Giustinian, il « Catone » per opera del Barbaro. In Venezia stessa incominciò l’opposizione contro la novità ed il Sabbadini nella cc Vita di Guarino Veronese » rievocò quale paladino di quel malcontento quel Lorenzo Monaco, cancelliere di Creta, cc che diede così il primo esempio della guerra, che diventò poi famosa, tra la letteratura greca e la latina ». cc Lorenzo Monaco, egli ricorda, già amico del Barbaro e ammiratore dei suoi lavori, quando 10 Vide tutto inteso agli studi greci, gli scrisse una lettera per dissua-dernelo, cercando di mostrare che tanto lo studio del greco quanta le traduzioni dal greco erano inutili. Il Barbaro refplicò con una lettera assai vivace, nella quale sostenne la necessità degli studi greci e l’utilità delle traduzioni dal greco, appoggiandosi all’autorità degli antichi e all’esempio dei più grandi traduttori moderni, il Guarino e il Bruni. Di questa lettera Guarino mandò una copia al Gualdo a Padova, mentre da Firenze glie l’aveva chiesta il Bruni, 11 quale, paladino come era degli studi greci, voleva entrare in lizza e rompere una lancia per essi ». Quelli i campioni e gli episodi iniziali del secolare contrasto, secondo che venivano rievocati e rico- (1) Cfr. Remigio Sabbadini, Vita di Guarino Veronese in «Giornale Ligustico », anno 1891 ^ p. 9. A metà del sec. XV il dominio della Serenissima ospiterà, a Padova, un altro illustre professore greco, non meno benemerito che il Crisolora degli studi greci in Italia. Vedi larga messe di notizie biografiche raccolte da Angelo Badini CONFALONIERI e FERDINANDO GABOTTO in « Giornale Ligustico », anno 1892, p. 241 segg. e 321 segg. dove gli stessi offrono un’ampia introduzione bi— bliografica, fino al tempo loro, allo studio degli ellenisti nel Medio-Evo e nel Rinascimento. Appunti e considerazioni su Genova e la Liguria, ecc. 143 istruiti da un critico autorevole quale il Sabbadini, contrasto che sorge ira due tesi che appariscono alla prima d’altro valore e d’altra natura di quelle che poi divideranno ancora in due campi i classicisti. La letteratura latina era dominio e possesso affatto nostro, la greca assumeva tin un certo senso l’aspetto della novità e sd faceva discussione sulla sua maggiore o minore « utilità », ed apparisce •evidente la dipendenza che ad essa si faceva dalla latina, come di un efficacissimo o del tutto trascurabile sussidio. Anche quando le parti in contrasto si eleveranno ad una visione più teoricamente obiettiva della questione, resteranno sempre anche inconsciamente più o meno fedeli a quel concetto di praticità e di immediatezza, e ad ogni modo -confermeranno con la critica il carattere nettamente latino -del nostro umanesimo. La questione, ad esempio, fu vivacemente agitata in quegli anni -che costituiscono uno dei momenti più fortunati deH’umanesinno italiano, tra il 1430 e il ’40, allorché la corte pontificia si portò a Firenze, cosicché i letterati della corte papale si trovarono in diretto rapporto con quelli di Firenze e si diedero a riprendere con maggior -calore le dissertazioni e le contese, care a quei dotti, sulla preminenza fra i capitani antichi (si pensi alla foga partigiana dei sostenitori e dei detrattori di Giulio Cesare), sulla natura della lingua latina, quelle altre non meno interessanti sulla preferenza da darsi al latino o al volgare italiano, quelle assai importanti sul rapporto fra la lingua latina parlata e la lingua letteraria. E anche allora si parlò soprattutto di cc superiorità » dei Latini o dei Greci, che erano sempre messi gli uni di fronte agli altri, negandosi affatto agli uni ciò che si volle riconoscere agli altri, anziché tentare di fissarne i distintivi caratteri che fanno tuttavia delle due civiltà e delle due letterature, per usare un’espressione cara al Rostagni (1) , cc gli anelli luminosi di una stessa grande catena ». Notevolissimo impulso agli studi greci divenne il vasto piano del papa Nicolò V di una grande biblioteca di traduzioni dal greco, .alla quale collaborarono tanti illustri studiosi. Per questo vivo fervore di ricerche e di studi nel campo nuovo e inesplorato della greca letteratura non mancò l’interesse dei Liguri. Ad alcuni abbiamo accennato, a quell’arcivescovo Pileo De Marini che ci si mostra in corrispondenza col valoroso grecista Leonardo Bruni, al quale chiede versioni dal greco se 11011 proprio testi greci, a quel Gottardo Stella che ama ornare di sentenze greche i suoi scritti, e prima a quel dotto uomo del secolo ΧΓν nel cui inventario figurano opere importanti della greca filosofia, al dotto Nicolò Ceba che incoraggia il Bruni a proseguire con non minore alacrità che per (1) Augusto Rostagni, Genio greco e genio latino nella poesia, « Rivista di filologia e di istru-.zione classica », Torino, Settembre 1929, p. 305. 144 Mario G. Celle lo innanzi nella sua intelligente opera di traduttore dal greco, lodandogli le versioni da Platone e da Aristotele, invitandolo a tradurre la Repubblica di Platone. Ed altre interessanti notizie ci tramandano gli epistolari. Fin presso a morte Andreolo Gius imam legava a Poggio Bracciolini un codice di Dionigi di Alicainasso. Si sa°che al Panonnita ricorreva uno dei più noti umanisti liguri, Bartolomeo Fazio, della Spezia, per ottenere importanti commendatizie onde recarsi a Firenze a perfezionarsi nel greco ( ) e che al 1 guie Giacomo Curio, soprattutto un diligente ed utile lavoiatore, il re Ferdinando d’Aragona commetteva un giorno da fare un buon commento alle opere di Strabone. E poi le zuffe per le traduzioni Si sa che il Decembrio lanciava una velenosa invettiva contro il pubblico professore a Genova, Antonio Cassarino, per aver ritradotta (in Genova) la Repubblica di Platone, quasi in concorrenza di lui. Quella traduzione ha una storia. Dapprima al Gnsolora, il padre degli ellenisti, ne aveva condotta una diligente traduzione letterale, da quella Uberto Decembrio ne cavò una più elegante. Più tardi, nel 1438 la traduzione fu rifatta ex-novo in miglior forma tla Pler Can-dido Decembrio, figlio di Uberto, tanto geloso dell opera sua e tanto timoroso della concorrenza. Sparse notizie. Più complesse figure di liguri ellenisti le ritroveremo in tempi più inoltrati e ad essi aveva rivolto l’attenzione Gerolamo Berto-lotto (2) mettendo in special modo in chiara luce le doti e a menta non comuni di Ansaldo Cebà che amava direttamente dissetarsi alla pura fonte dell’arte ellenica, che i greci prediligeva, che si esprimeva nel greco idioma con sorprendente disinvoltura, come pochi seppero fare di poi. La sua coltura classica non fu del resto esteriore, non fu la pura venerazione che accetta i canoni senza discuterli e si mummifica nel luogo comune, e il Bertolotto ci fa conoscere alcune delle sintetiche conclusioni critiche che il Ceba ricavava dalle sue svariate letture nel campo della greca letteratura. L indagine sui «Limiri ellenisti» doveva naturalmente estendersi anche ad un illusi poeta, Gabriello Chiabrera, e» del Fallamonica e il poema dantesco, importante è il saggio di SANTINO CARAMELLA nel volume Dante e la Liguria • Studi e ricerche «, Milano, Frat. Treves edit. 1925. LE IMPOSTE SUL COMMERCIO GENOVESE DURANTE LA GESTIONE DEL BANCO DI 5. GIORGIO Il ferro, una volta avvenuta la denunzia, doveva essere depositato •nei magazzini deputatos seu deputandos dall’appaltatore della gabella, il quale riteneva per sè la quarta parte, franca da noli, dazi e spese di magazzinaggio che restavano tutti a carico dei conduttori; a questi rimanevano i tre quarti. Il deposito nel magazzino importava il pagamento del diritto fìsso di due denari per cantaro, qualunque tempo fosse durato: il proprietario del ferro, ancorché depositato, poteva disporne pienamente, tam in pignorando et alienando quam ob'igando et vendendum ad eius libitum; ma non poteva estrarlo dal magazzino se, insieme con la sua parte, non avesse venduta, allo stesso prezzo, anche quella de- collettore della gabella. Ma questi era tenuto, per suo conto, « mantenere civitatem presentem abundantem ferri in stangis, staziliis et ron-dinis ac stangletis, escluso ferro pro mareschalchis, bonitatis et qualitatis, quod possit tam excelsa Repubblica. Officium Sancti Georgii quam cives se servire pro fabrica navium et vasorum navigabilium et fabrica quarumcumque domorum ». Non considerando la tassa piuttosto forte, perchè toglieva un quarto del carico, il monopolio è abolito, si torna alla libertà della importazione, si garantisce il fabbisogno per la città e si crea il primo nucleo di quei deposili portuali da cui non tarderà a venire il portofranco. f) Diritti speciali. Raggruppiamo qui alcune lasse commerciali sulla importazione e l’esportazione^ che furono determinate da motivi fiscali per fronteggiare spese occorse in avvenimenti politici o in occasione di circostanze economiche particolari. 1.) Uno per cento sul valore delle merci, in entrata e in uscita, per mare, da Civitavecchia, pel regno di Napoli e di Sicilia, fino in Oriente, e, in Occidente, fino alla Fiandra. Si pagavano dieci soldi ogni cento lire sul valore dell’oro, argento, perle, denaro, pietre preziose; e Raffaele di Tucci nulla per l’oro e l’argento filato o in foglia, e due quinte parti, come pei i carati del mare per le navi, ragguagliate al valore di esse. La tassa eia aumentata al due per cento se le merci fossero state sbarcate o imbai cate fuori del porto di Genova (1). 2.) Drictus Anglie. Anche per questa tassa è difficile indicare il preciso punto di origine. Le relazioni commerciali tra llnghilteria e Genova erano intense già lungo il secolo decimoterzo (2). Il drictus Anglie comparisce sulla fine del secolo successivo, ma non si rivela soltanto come un aggravio sulle mercanzie inglesi: è, invece, 1 imposizione del-ì’uno per cento (c ricordiamo che l’uno per cento significa sempre una lira per ogni cento) sul valore di tutte le merci importale dall'Inghilterra, dalle Fiandre, da qualunque luogo dell’occidente verso oriente, per mare, a traverso lo stretto di Gibilterra, caricate e trasportate su navi genovesi (3). In sostanza, si tratta di una tassa sui trasporti, il che dimostra che essi erano eseguiti, in molta parte, dai genovesi e distrettuali. Una esportazione specifica che prevedeva il bando di appalto della tassa verso l’Inghilterra e la Fiandra, da Genova, era quella delle perle, gioielli, pietre preziose, oro e argento lavorato o no, pecunie numerate seu cimiate. E che si tratti di una tassa per i trasporti apparisce da una dichiarazione dell’ambasciatore Durazzo a Londra nel 16(>2. il drictus Anglie serviva per proteggere la navigazione, con alcune galee dello Stato, dallo stretto di Gibilterra nel Mediterraneo. 3.) Drictus seu devetus Catalanorum. Neppure di esso si può definire l’origine precisa. Si conoscono i rapporti fra Genova e Barcellona dal secolo dodicesimo (4) . Vi si sentono già le dure lotte dei tempi più recenti, ma, indipendentemente da tante cause di rivalità e di animosità che scoppiarono poi in lotte e in guerre, tra i due grandi porti, coi se una specie di reciprocità in materia di trattamento commerciale. La Repubblica, forse per rispondere ad una misura molto piti grave presa dai (1) A. S. G. Inst. fol. 76. v. « Venditio introitus unius pro centenario... valoris et seu extimationis omnium et singulorum rerum el mercium quocumque nomine nun-* cupatis que mittentur vel portabuntur a civitate vetula versus orientem art regna Xea-polis et Sicilie etc. ». (2) Cfr. Canale, Storia, cit., It pag. 280. (3) A. S. G. Inst. fol. 43: « Venditio introitus unius pro centenario nuper impositi videlict quad collector... possit debeat teneatur percipere de omnibus rebus et mercibus quocumque nomine censentur unum pro centenario valoris et extimation’>m ipsa-rum rerum el mercium que extrahentur de Anglia et Fiandria necnon de omnibus et singulis locis situatis intra capud Finibus terre versus occidens portandis sive mittendis super quibuscumque navibus tam januensinm et distrilualium quam extraneorum ad quascumque mundi partes etc. ». (4) Oltre ai nostri annalisti e altre notizie che dai documenti inseriti nel Lib. Inr. 1, si veda Capmany, Memorias historicas sobre la marina comercio y artes de la antiqua ciudad de Barcelona, Barcelona, 1779; vol. I. Le Imposte sul Commercio Genovese durante la Gestione ecc. 149 catalani in Sardegna (1), verso la seconda metà del secolo decimoquarto impose una tassa di sei denari per ogni lira di valore su tutte le merci importate ed esportate da e per i dominii soggetti al re d’Aragona (2): si specificava la Catalogna, la Valenza e Maiorca, ma il divieto era esteso a lutti gli stati soggetti alPAragona, compresa, pertanto, la Sardegna: Barcellona, soltanto, pagava quattro denari per lira. 4.) Dirictus catalanoriim prò Sicilia. In periodo di piena lotta contro i catalani, quando il duca di Milano liberò Alfonso V di Napoli e i genovesi si ribellarono contro di lui, alleandosi con gli angioini, Genova creò un diritlo speciale di un nuovo uno per cento che non gravò solo sulle attività commerciali con l’Aragona, ma su tutto il movimento economico dela città, assumendo il nome di drictus catalanorum solo perché era destinato ad opem ferendam Regi Sicilie a cathalanis oppresso (3). 11 decreto di imposizione della tassa è del 29 maggio 1441. Era un nuovo diritto generico sulPimportazione e l’esportazione per mare. 5.) Introitus catalanorum. Altra imposizione di tre denari per lira sul valore delle merci, importate ed esportate da e per gli stati aragonesi, sorta durante il sanguinoso e lungo avvicendarsi di battaglio durante il secolo decimoquarto fra la Serenissima e Barcellona '(4). Que* sto introito si rivolgeva contro i catalani e doveva rappresentare un compenso per i danni prodotti dal continuo stato di guerra. 6.) Introitus Corsice et Sardinie. Specialmente per quanto riguarda la Sardegna, questo diritto dell’uno per cento sul valore delle merci genovesi esportate per colà, è da collegarsi con le lotte contro i catalani. Fu imposto nel 1390, quando durava ancora la ribellione di Eleonora di Arborea e di suo marito Brancaleone Doria contro gli aragonesi e i catalani, alla quale ribellione Genova aveva dato molto aiuto (5). Ma la (1) La mcalla por blinra, cfn. Di Tucr.i, La condizione dei mercanti stranieri in Sard. Arch. St. Sardo, 1011. (2) S. G. Inst. fol. 149: a Prohibemus et devetum facimus generale qnod a die tertia februarii... nulla persona cuius cumque status existât que sit subdita habitator seu naturalis in aliquibus civitatibus terris seu locis subditis sen subditis serenissimo domino lìcgi Aragonum sine sit talis persona maioricana. valentina vel barchinonensis vel de quavis parte sen loco... possit et valeat apportare adducere... in Janua vel districtu... aliquas res seu merces, excepto sale, nisi primo solvat et solvere promittat... emptori /tresentis devoti... denarios sex jannorum pro singula libra valoris sen extimationis rerum sen mercium prodictarum (3) A. S O. Inst. fol. 177. v. Ilee est institutio et forma venditionis unius pro centenario decreti anno MCCCCXXXXÏ dic XXVTÏl mai ad opem ferendam Regno Sicilie a catalanis oppresso ; qnod emptor etc. ·*. (4) A. S. G. Inst. cit. fol. 141. * Venditio introitus catalanorum fit in hunc modum videlicet quod qui emerit dictum introitum possit... petere percipere et habere denarios tres per libram vnlimenti... ab omnibus et singulis personis habitantibus nativis... in terris sen locis subditis Regi Aragonum *. (ΐ) C.fr. Manno, Storia della Sardegna% Capolago, 1840, vol. 3. Raffaele di Tucci tassa comprendeva anche la Corsica, e riguardava le mercanzie esportate per le isole non quelle estratte da esse (1). 7.) Unius pro centenario regiminis; Unius pro centenario officii Santi Giorgii. Abbiamo visto che i carati del mare, essendo un provento a partecipazione con le famiglie viscontili, il Comune aumentava la sua quota con imposizioni proprie. Così assistiamo alla creazione, sempre durante l’ultimo periodo del trecento e tutto il quattrocento, di quattrò tasse, ciascuna di mezzo per ceno (dieci soldi per ogni cento lire) che, gradualmente, vennero assorbite nei carati del mare. Questi ultimi, in seguito a questo processo, diventarono sessanta. Le frazioni che abbiamo indicate, vennero distinte negli appalti, con la frase « introiti venduti a Giuliano Grillo nel 1438 (2). Ma, con l’assestamento delle dogane, si arrivò a creare un diritto generale, un per cento, a vantaggio della Repubblica e di un diritto eguale a vantaggio di S. Giorgio. Ambedue rimasero staccati, costantemente, dai carati del mare, e considerati co-àne cespiti indipendenti, fino alla fine del settecento. Sezione II. — Introiti dal commercio interno e dai consumi. a) Grano. La formazione geologica del territorio ligure, e special-mente del genovesato aveva disposto fatalmente alla navigazione ed al commercio marittimo, come aveva disposto, la città, il comune, la Repubblica, a considerarsi a perpetua dipendenza dall’estero per l’approvvigionamento dei grani. Ma anche questo divenne un’impresa commerciale delle famiglie private, perchè il grano non poteva venire a Genova che dal mare, e la navigazione e la scelta delle merci da traffico erano solo nelle possibilità dei privati. La notizia riportata dal Caro (3) relativa al contratto fra il Comune e Manuele Zaccaria circa l’impegno da parte di questi di importare dalla Grecia, entro il 1° luglio 1276, diecimila mine di grano, è molto istruttiva. Contratti di questo genere, per la provvista di materie prime, di derrate, di merci occorrenti per la vita economica della città, vedremo, con la stessa forma e gli stessi modi, riprodursi lungo il secolo decimosesto, perchè non si dissociavano mai, nell’indirizzo pubblico, le considerazioni generali degli interessi delle grandi case importatrici e quelli della collettività. Mentre quasi da per tutto il grano era diventato un regime monopolistico e pagava una tassa di esportazione, anzi era addirittura subordinato, in ciò che riguardava l’uscita, ad uno speciale permesso, e ne era quasi dovunque libera 1 im- (1) À. S. G. Jnsl. fol. 142. € Venditio introitus unius pro centenario nuper impositi super quibuscumque et qualibetcumque rebus el mercibus que mittentur... ad infulam Corsice vel ad insulam Sardinie de Janua vel districtu ». (2) A. S. G. Inst. fol. 177. v. (3) Cfr. Caro, Genua und die Machie,‘c\t.f I, pag. 297, nota 2. Le Imposte sul Commercio Genovese durante la Oestione ecc. 151 portazione, il comune di Genova restringeva sempre il permesso di uscita, anche per il Dominio, e colpiva l’importazione con una tassa (1). Questa non colpiva il grano all’importazione, ma all’atto di essere venduto, ed era ragguagliata a due soldi per ogni mina: la stessa tassa era percepita su legumi secchi e sugli altri commestibili che si vendevano a misura (2) . La tassa, pertanto, era a carico dell’acquirente e si estendeva al territorio di Genova e delle tre podesterie: si trattava di una vera imposta sul consumo, dilatala dalle granaglie ai legumi ed alle altre fruita secche, eccettuati i fichi de sportis (quelli comuni) de quibus presenti introitui soldorum duorum nihil solvatur. Per questa tassa non era ammessa alcuna franchigia ed alcuna esenzione, neppure per gli ecclesiastici: ne erano esonerati soltanto i monasteri di S. Francesco, San Domenico, Santa Maria al Servi, Santa Maria delle Carmelitane, San Bartolomeo de Ermeriis, San Gerolamo di Quarto, Santa Tecla e S. Bartolomeo di Cartusio di Rivarolo. Coloro che importavano grano erano obbligati a prestare cauzione che gli acquirenti avrebbero pagato i due soldi per mina, et si forte, nell’anno dall’importazione, venditum non fuisset, il proprietario del grano importato era tenuto a dare una dichiarazione di un banco de tapeto (cioè ad uno dei banchi autorizzati dal comune) a termine di sei mesi, come per dire una cambiale a sei mesi, oppure una garanzia che, comunque, nei sei mesi, venduto o no il grano, si sarebbe pagata la tassa. Da questa clausola la natura della tassa apparisce chiaramente: in fondo, ci troviamo di fronte ad un vero e proprio provvedimento fiscale sui consumi; ma la politica annonaria ne trasparisce. La tassa preme sul consumatore, però anche sulla importazione, perchè, nel caso di abbondanza di prodotto e di difficoltà nell'offerta, era l’importatore quegli che la pagava. Invece sull’importa-tcre o sul rivenditore andava la tassa della raibetta o magazzino (3). (1) Convenzione con Finale: questa poteva avere solo tremila mine di grano da Genova; Cfr. Sieveking, cit., I, pag. 84. (2) A. S. G. Insf. et. fol. 82. Venditio introitus soldorum duorum capsie grani ita fit quod ille qui dictum introitum emerit debeat et possit... colligere in civitate Janue et tribus potestatiis... pro qualbet mina grani farine ordei semole avene spelte siliginis ciccrorum fabarum faxolorum herbiliorum milii lupinorum el aliorum leguminorum aridorum ficuum castanearum siccarum nucum aucellarum et aliorum fructum aridorum qui venduntur ad mensuram soldos duos .lamiorum ab emptore sive emente etc.; Con un decreto del 2 febbraio 1447 fu stabilito : quod de aliqua quantitate grani defferendi per mare in tribus potestatiis Janue sii el esse intelligatur obligatus tam recipiens quam conducens ad solutionem dicti introitus ». Sicché la tassa fu estesa all'esportazione, anche. (3) A. S. G. Inst. cit. fol. 21. v. Venditio introitus denariorum se.r mine grani raibettarum fit in hunc modum videlicet quod ille qui emerit dictum introitum possit colligere... a quacumque persona cuiuscumque conditionis... que ponet seu poni faciet itel habebit granum in dictis raibis vel raibetis seu piata ipsarum ad vendendum pro qualibet mina que vendetur in ipsis raibis vel raibetis seu piata ipsarum denarios sex januorum et non ultra ·>. « Item eodem modo teneantur ad solutionem dicti introftus 152 Raffaele di Tucci Per essa, dovevano essere corrisposti sei denari da chiunque aveva posto nei magazzini o sulla piazza del mercato delle granaglie, il frumento, con lo scopo di venderlo. A nessuno poi, era lecito vendere grano per una quantità superiore alle quattro mine se non nelle raibe e nella raibetta. Anche qui, nessuna franchigia. Ora troviamo due gambette: una per Genova e l’altra per ciascuna delle tre podesterie, Bisagno, Polcevera e Voltri. Queste gombette si percepivano solo sul grano e sulla farina, non sui legumi e le frutta secche, ed erano ragguagliate a sei denari per mina, da percepirsi a carico del compratore (1). Un’altra tassa, capsie grani regiminis, nella quale non entrava punto la compartecipazione degli aventi diritto a quote gabellarie, limitata a Genova e sobborghi, colpiva, a carico dell’acquirente e con dodici denari per mina, grano, granaglie, legumi e frutta secche, altra imposta sul consumo (2). La tassa sul pane, o meglio, sui panettieri e i venditori di pane (introitus pancogolorum) era del comune e le famiglie viscontili non concorrevano alla percezione di essa (3). Si pagava un obolo, cioè mezzo denaro, per ogni derrata di dodici pani o di dodici biscotti (gallette) dai panettieri, o fornai, tavernieri, molinari, locandieri. Ma ciascuno di essi aveva diritto all’esenzione di quindici oboli al mese per sè e per ciascun membro convivente della sua famiglia. Il consumo di ogni persona veniva cosi rapportato ufficialmente a mezza derrata al giorno, sei pani o sei gallette. Erano esclusi dalla tassa il pane dolce quilibet alius qui vendiderit aliquam quantitatem grani vel frumenti alibi in civitate Janue quam in raibis predictis cuius non fuerit dictum granum vel frumentum vel qui dictum granum quoque modo emisset causa revendendi ». * Item quod aliquis mercator et alia quevis persona civis vel extranea conventionatu vel non conventionata non possit audeat vel présumât quoque modo vendere seu vendi facere ad voltas seu alibi quam in dictis raibis a minis quatuor in dictis quatuor minis comprchensis que vendi non possint nisi indictis raibis sub pena perdendi dimidiam partem grani ». (1) A. S. G. Inst. cit. fol. 84: « Venditio introitus denariorum sex pro qualibet mina grani seu farine tantum fit in hunc modum videlicet qnod emptor dicti introitus possit colligere .. in civitate Janue et suburbiis ac aliis locis qui sunt sub connestobillis civitatis et suburbiorum Janue et in quolibet loco qui non sit de potestariis Pulciferc et Bisamnis et a ponte Sancti Fructuosi citra et in mari a turri rapitis farii et insurella Calignani citra,... pro qualibet mina grani et frumenti denarios sex januorum ab emptore seu ». (2) A. S. G. Inst. cit. fol. 80 v. « Venditio introitus capsie grani regiminis ita flt quod ille qui dictum introitum emerit possit... colligere in civitate Janue et suburbiis ac locis etc... ». (3) A. S. G. Inst. cit. fol. 181. * Venditio introitus pancogolorum regiminis ita flt videlicet quod ille qui dictum introitum emerit colligat .. in civitate Janue et suburbiis... a quolibet pancogolo vel pancogola fornario, tabernario, molendinario, hospite et a qualibet persona que panem vel biscotum fecerit ad vendendum sive causa vendendi pro quibuslibet derratis duodecim panis vel biscocti, obolum unum sive denarium medium .lunuorum et ab inde supra ad eandem rationem . Le Imposte sul Commercio Genovese durante la Gestione ecc. 153 e della famiglia e le gallette per le armate in caso di guerra. Il pane doveva essere venduto nella giornata, anche quello speciale che si faceva per le solennità religiose: il peso di esso doveva essere fissato dai pesatori pubblici e non alterato. In caso di guasto ai forni o di interruzione di lavoro, obbligatoria la denunzia ai consoli delle calleghe. Una vera tassa del consumo, più che sulPesercizio. b) Vino. La tassa di importazione sul vino era determinata dal pedaggio. Ne abbiamo però sul consumo e furono le più drammatiche, perchè molte volte furono la causa o il pretesto di sollevazioni popolari. Ve n’è una di quattro denari per ogni pinta venduta al minuto (1). Oltre al vino, incorreva nella tassa l’aceto e il mosto, o vino cotto. Ma vi era pure un’imposta sulla produzione del vino, detta introitus itnbottaturorum (2) pari a cinque soldi per metreta, se il vino era prodotto nelle mura della città, e di due soldi se era prodotto nelle podesterie. Però, gli uomini delle tre podesterie che non erano soggetti al pagamento delle avarie in Genova, erario esenti da questa tassa, purché il vino fosse stato prodotto da terre di loro proprietà; se, invece, il vino era frutto di terreni dati loro a mezzadria o a compartecipazione di utili da proprietari genovesi, la tassa era dovuta. Anche i subconduttori di fondi, nelle tre podesterie, erano obbligati a corrisponderla. Accanto alla imposta sul consumo del vino in Genova si allinea quella sul consumo del vino nelle tre podesterie: là si pagavano tre denari per ogni pinta (3) , venduta al minuto sive in taberna, casino si ve in domo propria quam haberet vel pensionarlo sive livellarlo nomine, e sia sul vino locale che su quello importato. c) Olio. Solo per conto del comune l’olio d’oliva, importato in Genova e distretto, da Corvo a Monaco, era colpito da una tassa di due soldi e sei denari a barile (4). Sembrerebbe una imposta protettrice, data (1) A. S. G. Inst. ci t. fol. 33 v. · Vendit ià introitus lolle seu cab clic denariorum quatuor pro qualibet pinta vini quod venditur ad minutum... Inni in Janna quam in suburbiis a qualibet persona que vendiderit seu vendi faciet vinum, acetum vel vinum coctum ». (2) A. S. G. Inst. cit. fol. 111 v. « Venditio introitus imbottaturarum vini flt in hunc modum videlicet quod ille qui hunc introitum emerit possit colligere... a quacunque persona sive ecclesiastica sive scculari que vinum collegerit scu imbotaverit intra muros civitatis Janue soldos quinque janitorum pro qualibet metreta, et de vino quod recollegerit in Iribus potestatiis et extra muros civitatis Janue soldos duos januorum pro qualibet metreta n. Un ricordo di vigneti entro le mura della città f* rimasto nella son-1uosa cd aristocratica chiesa di S. Maria delle Vigne. (3) A. S. G Inst. cit. fol. 1G3 v. « Venditio introitus seu tolte cabcllc vini denariorum duorum trium potestatiarum lìisanis Pulcifcrc et Vulturi pro qualibet pinta vini quod vendetur in potestatiis prcdictis «. (4) A. S. G. Inst. cit. fol. 0Γ» v. « Venditio introitus old olivarum regiminis tantum fit in hunc modum videlicet quod quelibct persona que detulerit vel deferri fecerit in Janua vel districtu a Corvo usque Monachum aliquam quantitatem olei... solvat et solvere teneatur pro quolibet barrile soldos duos et denarios sex jnnunrum ». 154 Raffaele di Tucci l’abbondante quantità d’olio prodotta dalle riviere, e ci pare invece una imposta di carattere misto, destinata a colpire, insieme, il consumo e la riesportazione. Difatti, nell’ordinativo di appalto si stabiliva che se l’olio fosse importato per mare, la tassa doveva essere pagata in proporzione dell’olio che, man mano, si smerciava: se l’olio fosse entrato per via di terra, la tassa doveva essere pagata subito e secondo l’intera quantità importata. Sempre per conto del comune la tassa sull importazione dell’olio in Genova e distretto fu aumentata di altri cinque soldi a barile (1) . L’aumento riveste lo stesso carattere di aggravio sulla riesportazione e sul consumo. Dall’una e dall’altro erano esenti Diano e Andora per l’olio prodotto in quei luoghi, importato direttamente a Genova, secondo convenzioni particolari. d) Carni macellate. Sotto questo titolo Ι5). Λλλ. Soc. ì.ig. XXXII. pag. 44, nota, giustamente dnll*nrabo Italka, dogano. (4)cr) Ihldem, fol. 517, * Venditio inlrrtitux lapatarum clapcllarnm et cmbrexi- jxorum cuiusvis qualitati* etc. *. Raffaele di Tucci I consoli delle caUeghe erano muniti di poteri ispettivi sullo svolgimento delle operazioni degli appalti ed avevano il controllo sull’applica-y.ione delle clausole: in materia di frodi, di effrazione alle regole di dogana, di contravvenzione alle norme, erano essi i competenti in sede di prima giurisdizione, e toccava loro il compito di polizia generale sul movimento del traffico. Autorità costituite appositamente, gli osserva-tores cabellarum, o introituum, dalla seconda metà del secolo decimo-quarto, proponevano o studiavano mezzi sulle modificazioni, inasprimenti, moderazioni, nel sistema gabellario della Superba. II meccanismo quantitativo e qualitativo delle tasse commerciali, come è unito alla storia della costituzione del comune e alla politica di espansione di esso, è pure fortemente legato con le vicende economiche dello Stato, e in particolare con quelle che attengono al debito pubblico, e ne rispecchia i momenti di reazione, le oscillazioni, i bisogni, il dilatarsi progressivo. Una volta stabiliti apertamente i primi nessi tra imposta e debito pubblico, si giungerà a considerare le prime come una base di garanzia pel secondo. Non è nuovo, nel medio evo, il fatto che uno Stato costituisca come pegno a cautela di prestiti verso privati o verso banche una parte o anche tutti i suoi prodotti fiscali: gli assientos spagnuoli, dal secolo decimosesto in poi, sono l’espressione più vasta e organizzata di quelle correnti. Ma il carattere particolare che individua i rapporti fra debito pubblico e concessione di imposte, a Genova, è segnato da quelli di una contropartita commerciale. Si vedrà che il Banco di S. Giorgio non assumerà la prerogativa della riscossione delle imposte e dell’incameramento dei proventi di esse: avrà la proprietà stessa delle tasse e le amministrerà non in virtù di una delega, ma come in esercizio di un diritto proprio. Nella sostanza di questo rapporto dovremo sempre vedere la coopcrazione di quei nuclei di famiglie consorziate, la cui prima apparizione è contemporanea alle stesse origini ilei comune genovese e che fondano la loro potenza sulla percezione delle tasse sul commercio e sui consumi, e sulla rapida creazione del capitale mobiliare, attuata per mezzo dell’armamento di navi, del traffico, e dei banchi. Come il comune è subordinato ad essi per ragione delle tasse, fino al punto da considerarsi pari e concorrente con i loro diritti, cosi vi è soggetto per le necessità di assumere dai loro banchi i mutui occorrenti a fronteggiare le sue spese. La concessione di un prestito a| comune è un affare di banca: le compere, fin dal loro inizio, rappresentano un capitale azionario, di cui si determinò presto ufficialmente la natura: ognuna di esse è considerata come un capitale mobile, negoziabile, titolo, poi riconosciuto e accettato dallo Stato. Gli stessi cartularii delle compero sono intitolati alle compagne dei rioni.. L’iscrizione sul libro del debito pubblico riproduce nettamente le linee del mutuo e il suo legame con tori, compartecipi delPopcrazione di prestilo, è oggetto ili espli- Le Imposte sul Commercio Genovese durante la Gestione, ecc. 169 citi atti ricognitivi da parte del comune. In corrispondenza dell’organiz-l'ambientc finanziario cittadino. Un’organizzazione dei banchieri credi-zazione dei cred'tori il Comune istituisce un organismo suo pel consolidamento e l’ammortizzazione del suo debito, Vofficium assignationis mutuorum. Sono questi due esponenti, retti ambedue da persone appartenenti alla classe dei ricchi finanzieri, i quali giungeranno alla creazione del Banco di S. Giorgio. Il quale ha tutte le esteriorità di un istituto impostato sulla regolarizzazione del debito pubblico statale, ed anche ne ha buona parte dell’essenza, ma non cessa di coordinare e difendere gli interessi dei banchi creditori iniziali impegnanti il loro capitale nelle compere. Una prima grande operazione di prestito pubblico, che esce dal tipo di garanzia fatta con un monopolio, come il sale, è avviata nel 1330 per una guerra con Venezia. Il 25 ottobre di quell’anno si accende un mutuo di 300.000 lire con l’interesse del 10% per luoghi, e si dannò in garanzia quasi tutte le tasse cittadine, che colpivano il commercio. Con essa però si ripete una operazione che era stata compiuta nel 1274. Anche allora si era consolidata la compera salis, con l’aggiudicazione, assignatio dei redditi e degli introiti del comune a Guglielmo Di Savignone e Pietro Di Negro, nomine et vice omnium et singolorum qui in dictis comperis lecipere debent, al gruppo di finanzieri e di creditori per la compera del sale. I cognomi dei contraenti sono già una rivelazione, perchè si tratta di persone appartenenti ai più solidi gestori di banchi e di commerci della città. Le tasse non erano le commerciali, ma quelle che derivavano dall’esercizio dei poteri sovrani del comune, ad eccezione dei pedaggi di Gavi, • oltaggio e Sestri, e 1 introito delle Casse di Provenza e qualche altro minore (1). Nella concessione del 1274 non furono dati i proventi dalle tasse, esse furono trasportate nei rapppresentanti dei creditori come un vero e proprio pegno. Essi erano autorizzati ad avere consoli per la raccolta delle tasse, per la distribuzione dei prodotti da esse, tolta la parte riservata al comune, fra i diversi possessori delle compere, pel pagamento degli interessi in ragione dell’otto per cento a luogo: e i consoli e gli scribi erano eletti dai creditori (2) . Si determina in questo modo una seconda forma di cointeressenza tra i sottoscrittori al debito pubblico e il capitale da essi fornito e l’ordinamento delle tasse commerciali. (Continua) R. DI TUCCI. (1) Il documento in Sieveking. Λρρ., I, η. IV. (2) l n privilegio esplicito sulla erra ione di quc&li consoli si ebbe col dccret-i del 28 I-ebbroio 1381, A. S. G. S. Giorgio^ Contractum, vol. 26, fol. 66 e segg. Più chiaramente ancoro, i sindoci e i consoli delle gabelle furono eletti dai protettori dell;* compero di S. Paolo, nel decreto 3 Febbraio 1100; le norme per l’Iezione nel decret'* 28 oprile successivo. VARIETA’ Come si procurava un ufficio nel secolo XIII u Hoc anno fuerunt constile# Philippus Embriacus, Simon (le Bulgaro, Raimundus de I olia, Princival Aurie, IF illelmus Spinula iunior et Lanfranchus de Turcha et eo die fuit electus Jacobus Tara· burlus notarius cum Nicola Pano et curri Bartolomeo scriba. Die XXVI decembris circa vesperas d (*). Questi sono infatti S consoli per Tanno 1226 (2) che cominciava a Genova il 25 dicembre e contemporanea alla loro entrata in carica era la nomina dei tre notai, uno dei quali, Bartolomeo Scriba, c colui al quale si attribuisce la paternità degli Annali «lai 1225 sino almeno al 1248 (3). Ala perchè il notaio ha fermato tra i suoi Alti la notizia del fatto e della doppia elezione? La risposta si può avere da un documento di pochi giorni prima. 11 27 ottobre Giacomo I ara lutilo promette a Rubaldo de Noratorio lire cinque entro tre giorni dalla sua nomina a notaiou Ita tamen teneatur ex dare dictas lib. fftiuujue si dictus Jacobus fueri electus notarius in hoc consulatu Manuelis furie et Fulchonis de Castello ci sociorum et aliter non teneatur flictu* Jacobus ei dare prò adiutoruì quod dicto Jacobo prestare deb et ad officium notarie habendum j> (4)· Manuele Do ria e Fulcone da Castello furono consoli , con Ugo Embriaco, Bonfcfadio della Volta, Lanfranco de Mari e Avvocato, nel 1215 al quale anno apparteneva appunto quel 27 ottobre (5) . F/ quindi evidente: Giacomo Tara burlo aveva promesso al Noratorio le cinque lire nel caso clic gli avesse fatto ottenere la nomina a notaio entro il consolato di Manuele Dona c compagni; ma poiché era stato eletto il primo giorno del nuovo consolato, faceva inserire questo dato di fatto dal notaio tra i suoi atti a dimostrare che non doveva più nulla: l'intermediario aveva per un sol giorno, persa la partita. Ma un'altra cosa risidta da questo contratto: come ci fosse chi. per denaro, si impegnava di procurare nomine e uffici. E il caso non è isolato. Nel 1270 Egidio di Voghera promette a Opizzino da Cassano (1) Archivio di Stalo di Genova. Notaio Lanfranco, vol. IV (alti di Raimondo Medici), c. 204 (2) Annali di C αβατο e dai continuafori. edi*. dcll'Utiliilo Sfotte© Italiano, vol. II. pajt. IW. (Î) Annali, voi. III. pmg. XI c nota. <4) Not. ci», c. 197 (S) ArcH di Stato. Notai ignoti Fidilo da C GeCtWI. Docurnt^nfi nulle relazione Ira Voghera e Varietà 171 contraente a nome e per conto di Armando da Passano, di fare in modo che Pietrino Doria futuro Podestà di Corvara costituisca lo stesso Armando scrivano dei consoli di Framura. Con atto del medesimo giorno, (26 gennaio), Opizzino prende a prestito da Egidio di Voghera lire 40 di genovini da restituire in maggio 0) poiché la podesteria di Pietrino Doria cominciava appunto il 1° di Maggio, è evidente che qui si tratta di un mutuo simulato; sotto forma di restituzione Egidio riceverà il compenso della sua mediazione. Si può rredere che egli abbia raggiunto l’intento e sia stato più fortunato tli Noratorio. Comunque, è evidente che il sistema doveva essere largamente in uso;· sistema di lutti i tempi del resto: la cronaca e la pubblicità dei giornali lo provano. Solo che non usa più affidare «•erte forme di contratti ai protocolli notarili. V. Vitale. 1 nomi di donna in Savona al finire del secolo XI1 Attendendo ad un mio lavoro « 11 cognome in Savona » (*), ini fu dato radunare del materiale per un’indagine di natura affine, \edere, cioè, come si prospettino i nomi di donna, in Savona, al finire del sec. XII. E* una ricerca che etimo non abbia molti precedenti fra noi, perchè, dal lontano lavoro dello Staglieno per Genova (2) a quel- lo recente del Chiappelli per Pistoia ("), non trovo che molti siansi interessati a questo argomento. Debbo poi giustificare la fissazione di quel termine. Invero, nelle raccolte delle pergamene e nei « Registri a catena » del civico Archivio Savonese, esistono copiosi documenti assai più antichi (4). In essi, però, l’elemento femminile ha tale uno scarso gioco da non offrire materiale sufficiente per uno studio del genere. Occorre, quindi, rifarsi ai due notai del visto Archivio, Arnaldo da Como e Giovanni di Donato, i quali, colla copia dei loro istrumcnli (’), ci offrono materia sufficiente per trattare questo argomento. E, poiché essi sono i primi in ordine di tempo, si deve a questo la delimitazione della presente disamina. Come sorge il nome? Nel Medio Evo al nome di battesimo, ele- (1) Annali. Π. 134. Genova, Pincrolo. Ι90Λ (Corpus Chariarum Italia. XLVM), n. CCCIll. CCCIV, pag. 199. (1) Savona. 1928. (2) « Le donne neU'antica Società tfen. » in «* Ciom. Ligunl. >·, 1878, pag. 275 e «egg. (3) · / nomi di donna in Piti. dalTallo M. E. al ecc. XIII », Piato··. 1920. (4) Cfr. del Nobcraaco:: «Le perg. delf’Arch. com. di Satìona **, Sevona 1919. e del Bruno: · / «e*?, della catena », Savona. 1888. (5) V. del Bruno: « Gli antichi Archiv. del Com. di Savona , Savona. 1890, pag. 24 e *egg. » 172 VARII Γλ nienlo d’incertezze e d'errori per mancanza del cognome, univasi quasi sempre un soprannome, che spesso attingeva alle qualità individuali. Questo soprannome, più vicino all anima popolare, in cui % ibrava sempre lo spirito italico, finì per sovrapporsi assai sovente al primo nome, onde quello appellativo ebbe riconoscwnento di fronti* al nome proprio. E si andò poi tant'oltre che quello fece spesso dimenticar questo (1). Donde traevano questi nomi.' Il Flechia dii (-) cinque fonti diverse: romana, greca, ebraica, germanica, neolatina. Altri concordano e il Migliorini, accettando (3) questa divisione, osserva che gli elementi latini precristiani son quasi scomparsi e solo, in piccola misura, reintrodotti. Venendo al gioco di questi nomi, occorre attardarsi di più ;*u quelli d'origine germanica. 11 prelodalo, CbiappelU, occupandosi (Tuna città regia fino dall’occupazione dei Longobardi e poi longobarda di tradizioni per lutto il Medio Evo, giustamente rileva (4) che, nel eec. XI, l'Italia »t innovella e, accanto ai nomi germanici e calici, sorgon quei latini e italici, esaltanti le qualità femminili. Nel sec. XII la bella tradizione s’allarga, si consolida. L Italia si sente si, Ialina: lotta col germanesimo, *i plasma il sentimento di nazionalità e i nomi italici si diffondono di conseguenza. Anche fuori della Patria si osserva questa decadenza dell elemento germanico e, ad esempio e pei sec. XII e XIII, IWebischer la nota (-**) |η·γ il (.anione s\izzero di Friburgo. In Savona, per il tempo da me studiato, emerge il forte divario tra nomi d'origine tedesca e fi altra provenienza: **i nota la proporzione di uno a cinque. Savona precorre la norma comune. Lo spirito romano, italico brilla in documenti antichi e vi si era inchinato, n«*l 1059. il marchese Guglielmo III nel suo noto giuramento (fì) . Savona sopravanza forse molte città sorelle e, anche nel noni»' delle “ite donne, afferma la sua latinità, serbata nel groviglio laborioso delle disavventure. seguite alla caduta dell’impero romano. I più usitati dei nomi d'origine germanica sono: Berla, cosi unita a Carlo Magno, Matei da. la gran Contessa, \delasia. sorriso della leggenda Vbramiea della Marca savonese. Ri elle Ida, Alda, frequente |I) a», del Muratan IX··. XLI: - De nom. el agnom triio >. in · Arttio. 1«·! M. E. · ; Coniò! • 5*0». Unse.·. Tonno. 1987. T. V.. paa 4)6 e ·**.; Condenti: « Salla «taf. del tagn. a Magna nel mc Xitt ». m « Bullett. Ut. St ot. 11.·. IWS. pag. 45; e*tf. QuappeUt. p»g. 16 * «*. (2) · Di ale criteri per Γ ori*. de» cofn. itti. ·, in « Atti R. Acc. dei Lincei *. Set- Iti., Mei·. <;***. Sciente mor. Stor. filo!., 1871. p*f. 610 e «at* (1) « Dii nome propr. «1 nome cotn. ». Oinerr·, 1977, p*g. Z3 e sejrf. <4)Op cit.. pag. I) e »eg*. (5) « Sur Tortit ei la formel. Je» nom» de famille dan» te Cani, de Frth ». Gmm». I92Î. P·*- 16 «■ *««. (6) CIr. del San Quintino: « Ou. erti » aie. Partie della rtn*. del Prem e della Lig. nel l\ e XII mc . Torino. ISSI, T. !.. p*e ^ e «*«rsr e Saberamco cil ·> li Coen Sm. nei w>t Siali Anita .· pt« 6 e Varietà 173 fra le castellane dei nostri Marchesati, Aidela e Adele, moglie di Ottone 1, Borgogna, Giordana, Gisla o Gisella, Doniza, Ermengarda, l’infelice figlia di Desiderio^ Tuta, tratto certamente da Geltrude, cuti può ugualmente riattaccarsi Druda, da Aidruda (1) , usitato assai anc he a Genova assieme ad Adelasia, Agnese, Alda, Richelda (2). Altri nomi, pur d’origine tedesca e meno frequenti, son quelli di Trechina, forse da Tegrina, Normanna, Taria, da Lotaria, Imelda, cui probabilmente può riferirsi Imeia. Van posti con essi Romilda, oggi assai diffuso, Ansalda, Aimelina, Bardella, forse da Berardo, Bernardo, Beielda c parecchi altri, fra cui alcuni d’origine non tutta -chiara (3) . In margine ai nomi tedeschi e a quelli italiani se ne trovano parecchi, tra cui, caratteristici: Perona, forse la Peronella dei Misteri francesi, Isabella dalle « chansons de geste », Belcnda o Beiinda della novellistica popolare o taluni, come Bellenora, un sincretismo di popolare affermazione di bellezza con una decapitazione di Eleonora. E’ poi la copia dei nomi venuti all’italiano da campi, che, per religione, discendenza, rapporti culturali, ebbero su di essa lungo e profondo influsso. D’Ebraici trovami più comuni: Itta. da Giuditta, Anna, molto adottato per ragioni religiose, Adalonia, forse da Ada, Giacoma, clic può ugualmente riannodarsi alla storia paleocristiana. I)i greci, fra i parecchi, notansi, assai frequenti, Agnese, Agne-sina, se pur la popolare vergine, immolata per la fede, non ci conduca a Roma. Anche Alessandria può ridurci alle lotte politiche tra il Barbarosha e i Comuni Italiani, lotte cui Savona partecipò con intensità passionata (4) . Ricorderemo ancora, tra i più ripetuti. Sofia, Elena, Greca, Orestella. Al latino risalgono Polizia, Sibilla e Sibilla, Orsa, Giulia e Giula, Diana. Tiburzia, ecc. Lascio a parte due nomi, cari ad ogni Italiano: Italia, omaggio fresco, eloquente alla gran Madre (5) c Romana, fra tutti i nomi forse il più frequente, affermazione preziosissima e. nel suo ripetersi, sommamente significativa (6) „ Copiosissimo è il complesso dei nomi chiaramente italici. Moltis- (1) Or. Bongioanni : · Nomi e cognomi Torino. 1928; Fumagalli : «Picc diz dei nomi propri Hai. di per*. »>. Genova. 1901; Ferrière: « Etymol. de 400 prénom* ». Parigi. 1898; Scolari: « f nomi pmpr. di per», e*p. al pop. », Como. 189$; Mowai : *< Nomi propr. ancien et modem. », Parigi. 1869. che aocc. anche in aeguito. (2) Cfr. op. ci», delio Staglieno. f>ag. 276 e dello Schiapparelli : «< /-e carte longob. di Piacenza·, in * Bolle»tino dell’lat. Stor. I». *·. 1909. pag. 49 e aegg. (3) Cfr. del Volpe : « Lombardi e Romani nelle camp, e nelle cittò » in < Studi S»or. » (Crivil-tucci). 1904. XIII. (4) CÌr. di Scova zzi-Noberaaco : · Slor. di Savona*, Savona. 1926. vol. I. pag. 183 e aegg. (5^ Cfr. del Pecchia»: · Ital. nome pnopr. di per*. », in « Fan folla della Domen *·, H agoalo 1916. ff>) Per ragioni eioriche non convengono a Savona le onaerv che il Gribaudi ia nel auo · Sul 3 influenza fermanica nella Toponom. Hai. *·. in « Bolletl Soc. Gcogr Ital. *. Giugno 1902. pag. 619. 174 Varietà Fimi, spesso graziosi, quelli indicanti bellezza, esaltanti le qualità somatiche della bimba: Donnetta, Donneila, Donnina, l· iordirosa, Mirabella, Ammirata, Contessa, Benfatta, Bcllailora, Benestante, ecc. Non meno interessanti i nomi esprimenti l’auspicio, la gioia paterna : Benvenuta, Bensevega, Bellincontro, Montingaudio, Desiderata^ Dol-cesenso, Vencumbene, Menabene, Boninsegna, Plasina, ecc. Non man-cano appellativi, desunti da qualità somatiche: Bianca, l’iliabruua, Boccadolce, Amabilia, ecc. E non è infrequente il caso che la religione si mesca al sentimento popolare onde, per esempio: Dei don a, Deibene, Donata. Angelica e altri. Trovai poche volte il nome di Maria, opposto a Berta^ dice il Chiappelli (1) . Anche a Genova il nome della Vergine appare assai tardi, nel 1162, come afferma lo Stagiieno (2) ed è poco diffuso fino al sec. XV. Fu già detto che al primo nome uniasi un soprannome popolare, il quale prese a sostituire il nome di persona. LI Gaudcnzi vorrebbe, anzi, vedere in questo fatto (3) una delle fonti del cognome. A Savona la cosa è, come a Genova (4) , ben visibile in molti nomi: Bénin· casa. Fida, Adottabene, Bel demanda. Alt adonna, Altilia, Resegosa, Bonafilia, Pellegrina, Dolcesenno, Pasia, Pensabene, Forresana, ecc. Non sarà cosa inutile concludere, ripetendo quanto notavo nel mio lavoro precitato * Il cognome in Savona » (5) , che cioè il nome di donna molto concorse alla formazione del cognome in Savona. Dei nomi ricordati po^ono citarsi: Addasi a, poi Adala.«ia, Agnese, Donneila, Ermengarda, Imelda, Citila, Anna, che ricorrono spesso negli atti. Filippo Nobebasco. Le onoranza a Luigi G. B. Pandiani. Il 1· rii Giugno 1930, per iniziativa di un comitato di ex-alKevi* di professori e del nuovo Preside del R. Liceo A. I) Oria, Λ tributarono onoranze affettilo^* al * preside » per antonomasia in occasione del ilio 80* anno. Luigi G. B. Pandi ani, entrato giovanissimo nel l'insegnamento, ne percorse tutti i gradi, dal ginnasio inferiore al liceo. I suoi meriti lo portarono a Roma, ove la conoscenza e la consuet infine con gW uomini più illustri, nel campo della pubblica istrurtone. dal Chiarini al (1) Op. ci*-. p»i II (2) Op. cit.. p** Z?6. (3) Op. al-, p·* *5 e iet (4) V. at Sta«faeno. p*« 277. (5) P·*. 15 e κι Varietà 175 'Carducci, al Baccelli, e d!i 'italiani e stranieri famosi nella politica e nell’arte, affinò e ampliò la sua coltura, conferì al suo sparito quella larga comprensione delle cose, che è necessaria per intendere la unita in quello che lia di universale. Dal iLiceo passò a diligere il Ginnasio T. Tasso, istituito da poco dii Roma; poi fu mandato preside nel Liceo di iPaviia e dopo un anno fu trasferito ( 1897) al R. Liceo D’Orda a Genova, nel «piale passò tutto (il resto della sua carriera sino all’Oltofare 1923. In gioventù si occupò di letteratura studiando « L aute nei Sepolcri del Foscolo » (Torino, 1876): poi lo attrasse la disanima della idea di Patria, e scrisse : « Del sentimento della dignità nazionale » (Cremona, 1879) e del « Sentimento /talrio, dai primordi delle lettere italiane al secolo XVI » (Cremona, 1883); ma l’opera sua maggiore fu lo studio sul « Carattere morale. politico e patriottico della lirica greca e della tragedia di Eschilo » (Roma, 1891), che fu elogiato dagli studiosi contemporanei. (Le cure della scuola occuparono sempre più la mente dello studioso, sicché egli finì col dare tutta la sua attività al buon andamento io*a B (mi cenlenh e felici principi che fo**e?o m Ital.a. pniu che aveaaero il marcheaado di Monterà Ma. perweernwdo in caaa aua el marcheaado de Mon!eri . onesto roo ooo. creata tua ou.ete ai mutò in un grandiaaimo trara«to *. - Reiezione di mm*ue* Vkncmnto Trxm. IS64. m * Relaoom degli Ambasciatoti veneti al Senato a cura di A . S» fsrrni *, arol. I. Bari. W2, pag H. 177 ma la volontà dell’dmperalore aveva dediso altrimenti e per far traboccare la bilancia dii loro favore, i Gonzaga non avevano lasciato intentato alcun mezzo. Non tutti ά Monfernina accettarono senza resistenza la decisione imperiale; e quando, dopo il trattato di Cateau Cambrésis, Guglielmo Gonzaga si dispose a ridurre effettivamente a nuotvii sudditi sotto la sua autorità, i Casalaschi tentarono di conservare le autonomie Cittadine conseguite ned secoli antecedenti. Il Quazza, che da parechi anni lavora con instancabile atticità a illustrare la storia di Mantova, ha pubblicato negli « Atti e memorie della R. Accademia Virgiliana » un ben nutrito studio sulle relazioni tra Emanuele Filiberto e Guglielmo Gonzaga, che può stare degna-ffiicnte a fianco di migliori lavori pubblicati per il IV centenario della nascita del restauratore della Dinastia sabauda. I quattro punti fonda-mentali dei rapporti Savoia-Gonzaga, cioè, difesa delle libertà ca-salasche e questione dei fuorusciti monferrini; permuta del Monferrato; erezione del feudo aleramico in ducato; questione di Saluzzo, sono trattati esaurientemente sulla scorta di numerosi documenti tratti, per la maggior parte, dal ricco archivio mantovano. iLa lotta drammatica fra i casalaschi, che volevano conservare i ■privilegi comunali, o il duca di Mantova, clic intendeva sopprimere anche le ultime vestigia delle antiche immunità offrono ad Emanuele Filiberto motivo plausibile di immischiarsi nelle faccende del Monferrato e di far palese la Mia simpatia per gli oppressi. Pur troppo, mentre la grande maggioranza degli stali europei navigava a gonfie vele verso il dispotismo, Fora non volgeva propizia a quella sorta di rivendicazioni ! II Duca di Savoia, per non assumersi la responsabilità di una nuova conflagrazione, dovette assistere, inattivo, al completo assoggettamento delle terre monferrine al giogo gonzaghesco, sebbene vedesse in questo asservimento un nuovo ostacolo alFcsecuzione del rii seguo che, proseguito con indomita energia dai successori, doveva condurre la sua Casa alla unificazione politica d’Italia. Se i tentativi fatti da Emanuele Filiberto per avere il Monferrato nel 1fOccasione della pace di Cateau Cambrésis, erano rimasti infruttuosi, restava sempre la speranza che nuove circostanze sorgessero a favorire il desiderato acquisto. Bisognava, però, impedire che quel Marchesato passasse in ah re mani, c quando seppe che Guglielmo Gonzaga proponeva alla Spagna la permuta del Monferrato con la città c il territorio di Cremona, Emanuele Filiberto mise in opera tutti i mezzi di cui disponeva, per impedire un contratto clic avrebbe per il momento tarpato le ali all'aquila sabauda, la quale da • ..le dentale scintillanti vette -drizzava il volo a ...1 esultante di castella e vigne suol d'Aleramo. 178 Rasseona Bibliografica 11 contrasto, palese o coperto, fra i Duchi dì Savoia e di Mantova, a causa del Monferrato, diede il tono a tutte le relazioni dei due duchi; fece capotino a Vienna, a Parigi, a Madrid, dovunque si trattassero interessi mantovani e piemontesi. Sebbene i contendenti si sforzassero di dissimulare lo scopo vero dei loro maneggi, tuttavia la differenza fra i due appariva evidente: il Sabaudo si mostrava più risolato e rettilineo, il Mantovano, conscio della sua inferiorità di fronte all’avversario, preferiva le vie indirette e non Ssdegnava nessun mezzo per difendere il territorio conteso. E poiché un buon mezzo di difesa sta nell assalire, quando ««i presentò la possibilità di aspirare al possesso di Salasso, Guglielmo Gonzaga si fece avanti arditamente c tentò tutte le vie per venirne a capo». Per il momento le speranze andarono deluse, perchè Saluzzo rimase alla Francia. Ma ormai stava per salire al trono ducale sabaudo» Carlo Emanuele I, il principe energico e sagace, che seppe risolver* a suo vantaggio l'annona ed intricata questione di Saluzzo. C. Bornvte. K. QUAZZA, Margherita di Savoia (1589-1655), Collana -lorica sabauda, Paravia, 1930. Φ Nel periodo agitato e burrascoso della Moria del ducalo dft Mentova, che vide scomparire il ramo primogenito dei Con saga e *i ehiu*i> con la disastrosa guerra di successione, durante la quale fu orribilmente devastata la città, sede invidiata di una delle più raffinale, colte e sontuose corti principesche italiane, acquista rilievo particolare la figura della Duchessa Margherita di Savoia. 11 matrimonio di questa principessa, che aveva ereditato dal padre, Carlo Emanuele I, intelligenza pronta e vivace, ringoiare attitudine ai maneggi politici, carattere fermo e avidità di dominio, col figlio di Vincenzo I Gonzaga, segna, se non una sosta vera e propria, almeno un tentativo di tregua aU'antagonismo· che dal 1559 in poi regnò sempre fra le case di Savoia e dei Gonzaga per la questiono del Monferrato. Il tentativo fu vano, e il parentado, invece di attutire, aggravò il contrasto fra le due Case, aggiungendo ai vecchi nuovi elementi di discordia. Sulla Duchessa Margherita pesa un destino tragico. Spo*a diciannovenne di un principe giovane e cavalleresco, accolta a Mantova con isfarzo inaudito di fe«te, che richiamano alla memoria le fantastiche descrizioni dei regni delle fate, poteva guardare con piena fiducia l’avvenire e attenderei, a buon diritto, vita lieta e felice fra gli splendori e gli agi della sontuosa corte mantovana. Invece, ad un bre\r periodo di gioia tenne dietro una lunga iliade di mali. Orbata del figlio e del marito a venti giorni di di«tanza Γιιηα Rasseona Bìblioorafica 179 dall’altro, questa vedova dii ventiilre anni non ebbe neppure il conforto di vivere accanto alla figlia superstite, perchè costretta a lasciar Mantova e a ritirarsi alla corte patema. Là visse venti anni fra le angustie, le mortificazioni, i rimpianti ed tì vanii tentativi dii liberare· da una condizione intollerabile. Quando, poi, tornata a Mantova, verso la fine del 1631, aveva creduto di riacquistare l’antico potere, non tardò a provare la più amara delusione. La natura imperiosa, il carattere di Margherita naturalmente inclinato ai raggiri politici indussero il nuovo duca. Carlo di Nevers, ad allontanarla risolutamente dal ducato. Gustò ancora le gioie del potere, allorché iveime da Filippo IV elevata alla dignità di vice-regina di Portogallo, ma anche questa fu gioia effimera. Il governo esoso della Spagna, impersonato, allora, nel cinico e superbo conte di Olivares e l'ostentata indifferenza con cui il ministro epagmiolo trattava i (Portoghesi 'provocarono la ribellione che restituì Tindiipendenza al Portogallo e portò sul trono Giovanni di Braganza. L’opera di Margherita, illuminata ed energica, non valse a scongiurare il pericolo. Tornata a Madrid, dopo nuove alternative di giorni lieti e tristi, ottenne finalmente un ufficio ed un grado, che 1«» avrebbero consentito di vivere tranquillamente gli ultimi anni della vita travagliata. Ma quando pareva che la sventura avesse finito di perseguitarla, la morte le troncò l’esistenza in una oscura cittadina della Spagna, SI 25 Giugno 1655. Se ti più gravli dolori, che afflissero Margherita di Savoia, derivarono da cau*e, sulle quali nulla poteva la volontà umana, bisogna tuttavia ammettere che altri guai ella avrebbe potuto evitare, se fossi* stala mono proclive all'illusione, meno ambiziosa, meno intransigente. Il Quazza, che già nel 1923 aveva dato un buon saggio, pubblicando la corrispondenza tra Margherita e il conte Federico Gazino, relativa al progetto di fuga da Torino nel 1625-27, presenta in questo volume la figura della Duchessa di Mantova, studiata sotto tutti gli aspetti e delineata con roano maestra. Il libro, agevole e piano, ma rigoro-r*a mente scientifico, tiene degnamente il suo posto nel l'ottima Collana storica sabauda. C. Bornate. \R!X) Bornate, l na missione segreta di lier nonio Tasso. Estr. dal- ΓAnnuario del R. Istituto V. E. II di Genova, 1928-29. pp. 16. Una lettera di Bernardo Tasso a Francesco Guicciardini da Genova, nel 1526, pubblicata dapprima nel 1558 e ripubblicata più volte di poi, non era mai stata intesa nel suo vero significato c con preciso riferimento ai fatti e al momento cui si ri riferisce. Ci voleva il Bor-nate^ per il quale la storia del primo cinquecento c dell’età di Carlo Λ non ha misteri, a chiarirne il significato c i motivi. Scrupoloso 180 Rassegna Bibuoqramca indagatore, di una ininula diligenza incontentabile, il Boriiate sa ricostruire e rievocare i più piccoli particolari indicando latti note\o i e importanti anche là dove altri non li sospetterebbe. La lettera uou A riferisce al 1537 come SI Pasolini lia supposto ma al 1526 e ad una segreta missione di cui Bernardo Tasso fu incaricato presso il Doge Antoniotto Adorno. Si era costituita la lega di Cognac; pareva che gl'imperiali non potessero aver aiuti dalla Germania; restava aperta loro la porta di Genova ove potevano sbarcare rinforzi spagnoli. Di qni il tentativo di attrarre Antoniotto Adorno verso la lega; l esercito imperiale di Lombardia sarebbe rimasto così bloccato da ogni parte e privo di soccorsi. Il tentativo non riuscì; l’Adoruo era favorevole all'impero, mentre i suoi nemici Fregoso erano col re di Francia, e poS un mutamento di Genova poteva compromettere importanti interessi economici genovesi nelle regioni d Italia soggette a Carlo V e nella stessa Spagna. Dì fronte alla Mia opposi rione, la lega ritenne opportuno di ricorrere ai mezzi militari: l*ederico 1 regoso doveva bloccare Genova dal mare; l'esercito collegato 1 avrebbe assalita per terra. Ma la lega era minata dalla diversità degl interessi dei componenti, dalle discordie loro, dalla mancanza «li unità <1 azione, dalla lentezza francese, dall*assenteismo inglese. V i»ta fallire la maniera forte si pensò ancora ad attrarre VAdorno coi mezzi diplomatici. La missione fu affidata a Bernardo I a****o, segretario del conte Guido Rangoni comandante delle truppe pontificie. Ma 1 uomo era più valente letterato che abile politico e la caliga era disperata, anche perchè doveva essere grave ragione di *4»*|*'tto per il Doge il vedere « suoi avversari Fregolo dalla parte della lega. Antoniotto Adorno lo ricevette una prima volta alla presenza della moglie, con grande meraviglia del Tasso; poi lo tenne in **o*pe«*o finche, avuta notizia delle vicende di Lombardia favorevoli agl'imperiali, gli fece comprendere che la missione era fallita. I/ Ambasciatore tentò qualche sforzo ancora non volendo darsi per vinto, ma inutilmente, e 1 Adorno rimale al governo di Genova finche il gesto del Doria ne mutò le «orti. Modello di trattazione e di illustrazione dì un documento, il breve studio esauriente fa conoscere un particolare affatto ignorato nella storia genovese di quel tormentato momento. ΛΊτο Vitale. Gino Majm: I,a struttura boriale dell*- fazioni politichi» fiorentine ai tempi di Dante - E«tr. dal Giornale Dantesco, \\\T. N, 5. Annuario Dantesco, I. Firenze, 1930, pp. 28. Breve e dcn*o studio, che porta a importanti conclusioni in materia che, per l'intrinseca importanza e per i rapporti coi tempi e le Rasseona Bibliooramca 181 vicende «li Dante, ha sempre un grande interesse. La prima parte è rivolta a spiegare le parole magnati, nobili, grandi, popolani che nei cronisti non hanno sempre un preciso significato. Le fonti presentano una duplice affermazione : talvolta l’eguaglianza ghibellini nobili, «ruelfi e popolani; tal altra la divisione tanto dei guelfi quanto dei ghibellini in magnati e popolani. E in realtà, come si trovano nobili tra i guelfi, così si trovano popolani tra i ghibellini; le consorterie popolane e magnatizie si sono scambievolmente trasfuse e quindi i termini di magnati, grandi, potenti, servono a designare Faristocrazia di qualunque origine, gentilizia o popolana, guelfa o ghibellina. Poiché dunque tra i magnati ci sono anche popolani, fare dell’espres-eione a magnati e popolani » tanto abusata dalle cronache (e ripresa dal notissimo studio del Salvemini) una contrapposizione, non è esatto: essa non serve infatti a fissare una barriera di separazione tra le classi. Insomma: grande e magnate sono espressioni a indicare il cittadino potente più che il solo nobile di sangue: grande può essere rosi anche un popolano, e si lia perciò una doppia categoria di grandi: di origine popolana e di origine gentilizia; gli uni in prevalenza guelfi, gli altri per lo più ghihrllini. Guelfi e ghibellini sono perciò entrambi una miscela di magnati e popolani: ma non tutti i popolani sono popolani a un modo, nè lutti i magnati vengono dallo stesso stampo. Applicando questa concezione anche ai bianchi e ai neri, il Masi rombattr l’opinione prevalente tra gli storiri che i primi siano da identificarsi nei popolani, i secondi nei nobili, opinione del resto già ripudiata dall’Otlokar, c neppure crede che quei due partiti stiano a indicare un rozzo tra le arti maggiori c le minori. Bianchi r neri sono due rlientele grntilizir e mercantesche cimile nel governo priorale: grossi mercanti combattono contro grossi mercanti, magnali contro magnati, artieri minori contro artieri minori. Il nucleo «li questi fermenti faziosi è la consorteria, parola che va qui intesa nell’ampio significato di comunanza d’interessi c di parallelismo nei fini di persone diverse, anrhc non parenti, sotto il patrocinio di grandi casate; centro di attrazione di forze diverse. In questo senso la conforteria è forma d’associazione corporativa che può assumere diversi nomi (alberghi a Genova r in qualche terra piemontese) e, di origine schiettamente gentilizia. *~i trasforma in organismo politico rd eronomiro: suo asprtto o derivazione è perciò talvolta anche la compagnia rommerriale o bancaria. Manifestazioni della consorteria Mino la torre, la masnada, l’arme comune, la loggia, la compagnia. Dall’esame delle singole rasate dri bianrhi o dei neri risulta che ri sono, tra gli uni rome tra gli altri, r grandi e popolani r minuti, r dall’analisi degli elementi che compongono le due fazioni si ricava rhr a i bianchi e i neri sono frutto d una antitesi tra gli esponenti politici r magnatizi guelfi. demorra ti zzati -«ilio la «pinta del popolo 182 grasso, degli espone irti politici e magnatizi guelfi nobilitati -dall impulso dei nuclei ghibellini; in altre parole i neri sono certi grandi di popolo fedeli e coerenti alle loro origini, i bianchi all opposto un accozzo di grandi di popolo, i quali, rinnegate le loro origini, vanno fondendosi cou i grandi di nobiltà di schiatta ghibellina... Non lotta di classe, quale oggi si potrebbe concepire, ma lotta di caste mercantili, di due plutocrazie consorziali che in quell’attimo storico si trovano scisse da insanabili antagonismi. La prima intesa di glandi mercanti e di grandi intransigenti e papisti, è detta parte nera; essa rappresenta nel cerchio del comune quel gruppo cui fanno capo le forze politiche del popolo, mentre si chiama parte bianca il connubio di certi grandi guelfi moderati con le risultanti forze del ghibellinismo imperialista qua e là timidamente riaffacciato dopo il disastro di Tagliacozzo ». Di qui anche i diversi rapporti dei due partiti col Papato. Ho citato largamente le parole stesse del Masi nelle sue conclusioni anche perchè mi sembra che esse diano — e tutto il lavoro è perciò nel suo sottile acume di non facile lettura - la misura dello sforzo di contenere in forme sintetiche fatti ed elementi sfuggenti c fluttuanti, difficilmente riducibili in entità, ben distinte e concrete. Siamo ben lontani dalla schematizzata e un po meccanica distinzione rigida di nobili e popolani, di ricchezza terriera e ricchezza mobiliare; si tenta qui di raccogliere e coordinare 1 infinitamente vario e multiforme che è sempre nella vita e che mal si presta alle rigide e geometriche costruzioni. Per questo mi sembra che il denso Mudio sia molto notevole, senza conchiudere perciò che tutte le affermazioni possano senz’altro accogliersi come definitive. Merita ancora d’esser notato che nella vasta conoscenza bibliografica è anche compreso tutto quanto può aver analogia o rapporto alla storia contemporanea e alle lotte sociali in Genova e nella Liguria. Vito Vitale. SPIGOLATURE E NOTIZIE Nell’articolo « Procèdes d’eclairage et de décoration murale aux musées de cènes », pubblicato nell’importante rivista d’arte di Parigi « Mouseion » del dicembre 1929, Orlando Grosso illustra con quali criteri, squisitamente moderni, siano state riordinate le Pinacoteche genovesi. * ❖ ❖ Nella « Revue diplomatiche » di Parigi, del gennaio-marzo 1930, M. C. Piccioni, scrive su « Le maréchal Sebastiani, diplomate » soffermandosi ad illustrare Topera da lui svolta quale ministro degli Affari Esteri di Francia dal 1830 al 1832, e cjuale ambasciatore a Londra dal 1835 al 1810. * * * Umberto Monti nella « Cultura Moderna » di Milano del marzo 1930, pubblica varie pagine della biografìa di Goffredo Mameli, scritta dal fratello Giambattista. Come è noto, tale biografìa non ha alcun valore, e stupisce che il Monti pretenda ancora illustrare, servendosi di tali informazioni, « Due episodi inediti dei.-i/infanzia DI GOFFREDO MAMELI ». * * * Ugo Questa in « Corriere Mercantile » dell’1-2 aprile 1930, ironizza sulla recente affermazione dell’U Ilo a, secondo il quale, la scoperta d’America sarebbe anteriore al 1492, in un articolo col titolo: « Un’altra scoperta dell’america ». * * ❖ « Il poeta avvocato tubino ». sampierdarenese, è ricordato da « Marbet » in a Lavoro » del 2 aprile 1930 con una breve recensione delle di lui « Poesie Varie » stampate nel 1880 e un cenno ^ulla di lui vita. * * * «Navi di s. giorgio in porto nell’anno 1541 » è il titolo d’uno scritto di Uberto Zuccardi Merli in « Corriere Mercantile » del 2-3 ajprile 1930. Vi sono evocati ricordi della marina genovese a proposito dell’impresa ideata da Carlo V e Paolo ΠΙ tendente a liberare il Mediterraneo dai barbarei chi di Tripoli e di Algeri. * * * In « Nuovo Cittadino » del 5 aprile 1930, Emilio Penco ricorda « Il padre Vincenzo marchese », domenicano, genovese, scrittore apprezzatissimo di cose di arte e di storia, che operò intorno alla metà del secolo 6Corso. ♦ ♦ ♦ Su « La chiesa dei santi Giacomo e Filippo »> già pertinente ad un Cenobio Domenicano, scrive Lazzaro De Simoni in <« Nuovo Cittadino « del 6 aprile 1930. * * * La figura di Pasquale Paoli e stala rievocata da Antonio Curri, in una conferenza tenuta nell’aula Magna dell*Università Popolare di Milano. Γ11 aprile 1930. Il C. definì Campoformio mediterraneo la cessione della Corsica, fatta dalla Repubblica di Genova, alla Francia nel 1768. Un riassunto della conferenza è stato pubblicato da Γ « Italia » di Milano, del 12 aprile 1930. Spigolature e Notizie ❖ ❖ * Piero Pariseila in « Corriere Mercantile » delTll-12 aprile 1930. scrive intorno a « L ORDINE DI NOBILTÀ E DI CAVALLERIA DELLA LIBERAZIONE » istituito da Teodoro di INeuhoff, Re di Corsica per brev’ora. * * * tra Ginepro in « Corriere Mercantile» del 14-15 aprile 1930, ricorda « La visita DEL DOGE E DEL POPOLO ALL'OSPEDALE DI ΡαΜΜΛΤΟΝΕ ». Si faceva in U41 giorno della settimana santa, in ossequio ad una Bolla di Sisto IV, che concedeva insigni favori spirituali a chi compisse tale visita, lasciando a beneficio dell'ospedale un offerta, ed il Governo della Repubblica ne dava l'esempio ogni anno in forma solenne. * * * ì incenzo Gaudenzi, recensisce nel « Piccolo » di Roma del 17 aprile 1930, il \olume « Aneddoti garibaldini », edito recentemente dal Curatolo per i tipi del tormiggiani. La stessa opera è recensita nel « Giornale di Sicilia » di Palermo, del 17 maggio da Guglielmo Lo Curzio. * ❖ £ Di «alca» è uno scritto dal titolo « Schullemblhc alle porte», illustra la strenua resistenza opposta da Geno\a all’avanzata di Schullemburg, successo al Botta-Adorno, nel comando delle truppe austriache minacciami la Superba, nell'aprile del 1747. $ * * « Cose antiche dei lavagna »» ha per titolo (in « Corriere Mercantile » del 18-19 aprile 1930) la recensione d’un libro d’egual titolo pubblicato da Francesco Lavagna, e dedicato a studi di storia ligure, riaccostata ai personaggi più rappresentativi della casata Lavagna, considerala nei suoi vari rami: i Conti di Lavagna, i Lavagna di Genova, quelli delle due Riviere e quelli di Mondovi. * ❖ * « Barb » in « Lavoro » del 24 apirle 1930 epiega er screditare il nuovo Inno, dovuto certo, secondo lui, ad un Tirteo da strapazzo. * * C Uberto Zuccardi Merli in n Corriere Mercantile i> del 24-25 aprile 1930, scrive sulle « Elezioni arcivescovili in Genova sullo scorcio del 200 ». Particolarmente si sofferma su quella donde uscì eletto Giacomo da Yarazze. # * * .Nello stesso numero (24-25 aprile 1930) del « Corriere Mercantile », F. Ernesto Morando dà notizie su « Gli annali genovesi di Caffaro e continuatori condotti a compì mento » dal March. Cesare Imperiale di S. Angelo. * * * L. K. in del 4 Maggio 1930 6U « La Chiesa di N. S. delle Grazie » in Genova. Tale Chiesa, non molto antica nè eccessivamente interessante dal lato artistico, è ricordata spesso come edificata su d’un antico sacello che sarebbe stato coi santi Nazaro e Celso il primo tempio cristiano di Genova. * $ * B. B. in un « Carteggio inedito di Garibaldi », segnala ai lettori della « Voce di Bergamo *> del 5 maggio 1930 l’articolo di Mario Battistini pubblicato in questo « Giornale ». * $ * « 11 Giornale di Genova >» nel suo numero del 7 maggio 1930 annuncia la recente pubblicazione di « Vecchia Genov a »> - Trenta litografìe di li. Lombardi che con note illustrative di M. Labò è edita dagli Stablimenti Italiani Arti Grafiche di Genova. * * * « Alca » in « Giornale di Genova » del 7 Maggio 1930 ha uno scritto dal titolo « La trista notte del Capitano ». Rievoca la rivolta jh» polare contro di Guglielmo Boccanegra culminata nella notte del 7 Maggio 1262. # * * P. L. in « Nuovo Cittadino » del 9 Maggio 1930 scrive su « Il Beato Teofilo de Corte e Genova ». Il francescano còrso intervenne presso il principe di Willem· berg a prò degli abitanti di Zuani ribellatisi a Genova verso il 1730. * * * 11 a Lavoro », nel suo numero del 9 Maggio 1930, annuncia la pubblicazione di « Vecchia Genova » di Riccardo Lombardo, con una diffusa recensione dovuta ad Arturo Saiucci. * * * Mario Barilli in « Giornale di Genova » del 9 Maggio 1930 scrive su « Un Stradivario (che si sarebbe) rinvenuto a Rovegno » nelTappennino Genovese. * * * u Tupnolo » r>crive in « Giornale di Genova » del 10 Maggio 1930 su <· Il Santuario della Vittoria »» edificato presso il valico dei Giovi a ricordo del fatto d’arme in cui all’esercito franco-piemontese fu impedito il paesaggio del valico dai contadini di Montanesi, il 10 maggio 1625. * * * C. Brh'. in « Lavoro »> del 10 maggio 1930 ha uno scritto dal titool « Per la storia dell’Inno di Garibaldi - Una lettera dell’unica superstite presente alla prov a ». La superstite è Costanza Giglioli-Casella e la sua lettera rettifica una piccola ine-atlezza da Lei rilevata sulla lapide apporta del Comune a Casa Camozzi. * * ♦ a La probabile discendenza ligure di Pubbio Vergilio Marone » è progettata dalì'Avv. Pietro lenirà in a Corriere Mercantile» del 10-11 Maggio 1930. ♦ * * « Alca » in « Giornale di (Genova » dell* 11 Maggio 1930 ha uno scritto dal titolo: « L ora DEL rinnegato *>. Ricorda Luca Galeni, un italiano rinnegato daiosi Spigolature e Notizie 187 ai pirati ed autore famoso di gesta corsaresche nel Mediterraneo ai danni di Genova verso la metà del secolo decimosesto. * * * * « Un grande missionario ligure in Tunisia », Padre Alessandro da Varazze Cappuccino è ricordalo da Fra Ginepro in « Nuovo Cittadino » del 14 Maggio 1930. Esplicò la sua attività umanitaria in quei luoghi dal 1870 al 1891 ricevendo plausi anche dalla Colonia Israelitica che coniò in suo onore una medaglia. * * ❖ « La Chiesa di S. Bartolomeo dell’Olivella », un vetusto piccolo edificio sacro presso alla Chiesa del Carmine ora chiuso al culto, è illustrata da Lazzaro De Simoni in « 'Nuovo Cittadino » del 18 Maggio 1930. ÿ ÿ ÿ « Alca » scrive in « Giornale di Genova » del 18 maggio 1930 di « Ciulio Cybo cospiratore », signore inquieto, andace, vendicativo ed anche a volte generoso che capeggiò con esito infelice una congiura contro Genova e i Doria a mezzo il secolo 16°. ❖ * ❖ « Il primo vaccinatore » a Genova e in Liguria fu il medico Onofrio Scassi nel 1800. Lo ricorda V'ito Vitale in « Giornale di Genova » del 20 Maggio 1930, il quale dà importanti notizie su questa eminente figura nostra. ÿ ÿ ÿ Uomini e fatti delT800 a Nizza sono rievocati in un gustoso articolo da Eugenio Ananigne. Lo scritto « Il centenario del Romanticismo - Musei nizzardi - Un tuffo nell'ottocento ecc. », è stato pubblicalo dal « Popolo di Breccia » del 24 marzo e ripubblicato il 23 maggio 1930 dalla a Gazzetta di Venezia ». * * * In <* Giornale di Genova » del 24 maggio 1930 Francesco Ceraci ha uno scritto dal titolo: « Genova e l’impresa dei Mille ». V’è pubblicato un interessante carteggio Bertani-Crispi riguardante gli aiuti ai Garibaldini dopo lo sbarco a Marsala. * * * D. L. in « Tutto » di Roma del 25 maggio 1930 rievoca la figura di « Giovanni Ruffini ». * * * Importanti documenti su « Garibaldi e la spedizione dei Mille » pubblica An-jonio Monti nel « Corriere della Sera » di Milano del 27 maggio 1930. * * * A cura del Civico Istituto Musicale Gaffurio di Lodi è uscito il 29 maggio del 1930 un Numero Unico dedicato a Giuseppina Strapponi ». In esso troviamo un imj>ortante studio di Giovanni Baroni -u chi fu oltre che compagna anche ispiratrice di Giuseppe Verdi. * * * Un profilo di « Daniele Mocchio » storico della marina nato a Genova nel 1824 e mortovi nel 1894, traccia Arrigo Fucassa in « Corriere Mercantile » del 31 maggio-l° giugno 1930. Lo scritto è continuato nel numero del 6-7 giugno. * * * Mario Bonzi scrivendo in c« Genova », Rivista Municipale. fa>cicolo di maggio 1930 di « Pittori Genovesi del 600 »> ricorda ed illustra Topera di a Sinibaldo Scorza, pittor d’animali ». Lo Scorza, della nobile famiglia dei Conti di Lavagna, era nativo di Voltaggio. * * * F. Ernesto Morando in « A Compagna » di Maggio 1930 scrive .**u « Il λ miccio E 1 Mille » che partirono da Genova per Tepica impresa. 188 Spigolature e Notizie ❖ ❖ ❖ G. E. Curatolo ha in «A Compagna» del maggio 1930 uno scritto dal titolo r « Come nacque l’inno di Garibaldi ». ìj: D’« Un Vescovo Genovese del 600 in quel di Reggio Emilia » scrive Uberto' Zuccarelli-M erli in « A Compagna » di maggio 1930. Si tratta di Agostino Mar* liani che resse Ja sede di Reggio dal 1662 al 1674. ❖ ❖ ❖ Arturo Saiucci scrive in « A Compagna » del maggio 1930 su di « Un ospite di Genova: il Duca di Richelieu» che fu a Genova colmato d’onori, ascritto al Libro d’oro della Nobiltà e monumentato, anche, a Palazzo Ducale. ❖ ❖ ❖ A firma /. k. « Il Secolo XIX » del 1° giugno 1930 ha uno scritto dal titolo cc Una Regina di Polonia a Genova nel XVII secolo ». Si tratta di Crisiina moglie di Augusto II il Forte Re di Polonia da poco deposto. « I Genovesi all’espugnazione di Cesarea » è il titolo d’uno scritto a firma « Il Pellegrino » in « Giornale di Genova » del 4 Giugno 1930. V’è illustrata sopratutto le gesta del FEm bri a co. Col titolo « Ambrogio Spirinola Condottiero genovese » « Il Lavoro » del 6 Giugno 1930 rende conto d’una Conferenza di Filippo Gramatica, che ne rievocò il giorno prima, in una conferenza la grandiosa figura. ÿ $ $ P. G. O. in cc Nuovo Cittadino » del 6 Giugno 1930 ha uno scritto dal titolo « Paola Frassinetti nella gloria della beatificazione ». Paola Frassinetti è genovese e fondatrice dell’istituto di S. Dorotea. Mori nel 1882. :j-: ÿ a La Yen. Solimani e le Suore Battistine » sono ricordate in una scritto anonimo in « Nuovo Cittadino » del 10 giugno 1930. Nel 7 giugno 1730 Giovanna' Solimani fondò a Genova un Istituto. i'fi i'fi ^ Su cc La leggenda del Sudario di Edessa e il valore di Leonardo Moniàldo » scrive un anonimo in cc Lavoro » dell’8 Giugno 1930. Il cc Sudario » fu donato al Doge Montaldo da Giovanni Paleologo in compenso dell’aiuto datogli dai Geno* vesi a rimanere sul trono di Costantinopoli. ❖ & ❖ G. B. Tirocco e Domenico Ferrari glorie di Taggia, sono rievocate in due brevi biografie, ricche di dati da G. B. Tirocco. L’articolo è apparso nellcc Eco della Riviera » di Sanremo dell’ll giugno 1930. Michelius rievocando ne il « Giornale di Genova » del 1° giugno 1930 la parte presa dai Genovesi nelle agitazioni popolari per ottenere lo Statuto, accenna alla famosa frase del Bixio, di cui la critica storica ha già fatto sommario giudizio. Vito Vitale nello stesso giornale il 13 giugno risponde a Michelius in tal senso. I due articoli (portano rispettivamente i titolo: cc Lo Statuto e i Genovesi » e cc II gesto di Nino Bixio ». ;j: ;jì :j: In cc Giornale di Genova » del 14 Giugno 1930 cc Alca » scrive su cc II Testamento del Doge Montaldo » col quale il Montaldo lega alla Chiesa di S. Barto- Spigolature e Notizie 189 lomeo degli Armeni il « Santo Sudario » proveniente da Edessa ed a lui già donalo da Giovanni Paleologo. ❖ ❖ ❖ De « La Chiesa di S. Siro », una delle più cospicue di Genova ed antica Cattedrale, parla Lazzaro De Simoni in « Nuovo Cittadino » del 15 Giugno 1930. jt; j!j Colla sigla « /. g. » « Il Giornale di Genova » del 20 Giugno 1930 pubblica un interessante riassunto storico su « Il Santuario del Monte ». A A A Ubaldo Formentini ba in « Lavoro » del 18 Giugno 1930 un acuto studio su « I Liguri nella leggenda d’Enea ». ❖ * * Col titolo « Un ritratto di Van Dyck. » ed a firma Giuseppe Portigliotti il « Secolo XIX » del 18 Giugno 1930 riporta dal recente volume del Portigliotti stesso « Penombri·: claustrali », una pagina che riguarda A. G. Brignole-Sale e Paolina Adorno. In « Secolo XIX » del 21 Giugno 1930 V. S. scrive su « Un’antica colonia genovese in Georgia ». Si tratterebbe di un esodo collettivo della famiglie genovesi stabilite nel territorio dell’impero greco di Trebisonda fuggite all’epoca in cui l’impero cadde in mano dei Turchi e rifugiatesi nei monti del Caucaso. ❖ ❖ ❖ « Intorno a una pubblicazione di storia savonese » scrive un anonimo in « Corriere Mercantile » del 21-22 Giugno 1930. V’è ampiamente recensita in un recente volume di V. L. Pongiglione dal titolo « Il Santuario e la Città di Savona ». ÿ ÿ ÿ In « Corriere Mercantile » del 23-24 Giugno 1930 sotto il titolo « L’ultimo saluto dei Fanti e degi.i Artiglieri alla Caserma di Lamarmora » è riportato un discorso illustrativo della storia del colle di Benigno e del Capo di Faro, del marchese P. A. Spinola. ❖ ❖ ❖ Jose Medina ha in « Le vie d’Italia e dell’America Latina » di Giugno 1930 uno scritto ben corredato di illustrazioni su i « Ricordi Colombiani in Andalusia ». Notevole la riproduzione del monumento a Colombo nella Cattedrale di Siviglia. ÿ ÿ ÿ Carlo M. Brunetti illustra in « A Compagna » di Giugno 1930 « Il Casiello d’Oramala » residenza di Oberto Obizzo Marchese della Liguria orientale. ÿ ÿ « Genova nelle memorie di un ottuagenario » è il titolo d’uno scritto di Uberto Zuccardi Merli in « A Compagna » del giugno 1930. Vi si ricordano dettagli dell’assedio di Genova e della difesa di Massena. * A ❖ Nora Cozzolino descrive in a A Compagna » di Giugno 1930 « La Villetta Di Negro di 100 anni fa ». $ $ $ 11 « Giornale storico della letteratura italiana » di Torino, nel suo ultimo fascicolo diretto dalla Beigioioso e « L’Italia del Popolo n di Mazzini. La B. non comprese il valore dell apostolato mazziniano, ma la conoscenza di questa sua attività è assai importante per farci conoscere sempre mcgl.o i contrasti profondi da cui sorse la nuova Italia. Giacomo Perticone, Pure Γunità, ma rifare la società, in « Politica Sociale », Roma, marzo 1930. Acuto esame del pensiero filosofico-politico di Giuseppe Ferrari con raffronti sagaci in relazione al pensiero ed all azione del Mazzini, del Gioberti e del Cattaneo. Roberto Mirabelli, Mazzini ed il riscatto politico del Mezzogiorno per VUnità della Patria, in « Vila Italiana», Roma, marzo 1930. 11 M. prosegue lo studio iniziato nel fase, di dicembre 1929, portando qui il suo esame sulla celebre disputa che avvenne al Parlamento fra il Mazzini ed il Cr.spi nel 1865. Dimostra con ineccepibili documenti che l’Apostolo antepose sempre il raggiungimento della unità olla repubblica, come il Crispi stesso riconobbe più volte pubblicamente. 11 M. polemizza perciò vivacemente col Curatolo per la tesi contraria da lui sostenuta nel Di’s-sidio tra Mazzini c Garibaldi. Scrive il Curatulo nella conclusione del suo studio: « fu questa l'intransigenza repubblicana di Mazzini, dal 1848 in poi. il perno del profondo contrasto fra i due titani»; il Mirabelli in tal modo, ed a ragione giudica: « No: questo si può dire e far credere ai gonzi della storia contemporanea, storpiando, travisando, falsando i documenti ». Arnaldo Cervesato. Tre lettere inedite di Giuseppe Mazzini, in « Le Opere e i Giorni », Genova, 1° maggio 1930. Tre lettere del Mazzini a Fortunato Prandi, vengono pubblicate dal C. con un sobrio commento. La prima — assai importante — fu scritta dal Μ. Γ8 ottobre 1833, e segna l'inizio della rela zione amichevole che si strinse fra i due esuli. Meno importanti le altre due del 1837, che trattano di letture di libri ed in cui si contengono giudizi vari su persone e cose. Artlro Marpicati, Alessandro Monti e la legione Italiana in Ungheria nel 1849, in a Nuova Antologia », Roma. 1° Maggio 1930. 11 M-, sulla scorta delle varie recenti pubblicazioni suH'eroe bresciano, ne rievoca l’opera in una breve, ma ben informata monografia. Non vi sono accenni al Mazzini, ma e illustrata la parte avuta dagli ungheresi per l'indipendenza italiana e quella degli italiani per 1 indipendenza magiara, e cioè quella collaborazione tanto auspicata c promossa dal-Γ Apostolo. F. Ernesto Morando, Lotte intime di un Grande Spirito, in « Corriere Mercantile », Genova, 3 maggio 1930. II Morando, buon conoscitore della figura del Mazzini, si sofferma ad indagare le lotte intime che l’Apostolo dovette combattere contro le dure necessità della vita. Son rievocati i rapporti suoi con il padre, che era mosso si da ·· sollecitudine amorosa ed interessata per il figlio ", ma che non riusciva però a comprenderne l’altezza eroica di vita. Biblioorafia Mazziniana 193 La profonda umanità del Mazzini unita ad un’eroica fede, è rievocata del M. in pagine vibranti d’ammirazione e d’amore. Alex Casella, Una lettera inediUi di Giuseppe Mazzini agli operai d'Italia, in « Roma », Napoli, 3 maggio 1930. La lettera del Mazzini alla Società dei Caffettieri di Genova, risale al 25 agosto 1864, e cioè agli inizi di quella Consociazione operaia, per la quale ΓApostolo tracciò in breve parole il programma da svolgere. In questa lettera, infatti, egli scrive: « Io sapevo già dello Stabilimento fondato fra voi. Aiutatelo tutti. Non vi stanchino le prime difficoltà. La coope-perazione di tutti la supererà. Voi avete in mano la più grande causa che esista, quella della indipendenza del lavoro. Il problema fu agitato clamorosamente e con modi pericolosi in Francia, ma con poco frutto. Date voi, operai d’Italia, la gloria alla Patria vostra, di sciogliere quel problema col fatto, coi vostri sagrifici, colle vostre economie, senza ire funeste, tra classe e classe, colla quieta coscienza di chi vuole davvero ! ». Rinaldo Caddeo, Il traffico delle stampe antiaustriache nel periodo tra il 1849 e il 1852 a Trieste, in «Piccolo», Trieste, 9 maggio 1930. Il C. continua le sue indagini sulle tipografie del Canton Ticino. In questo articolo illustra l'importanza che ebbe 1 azione mazziniana per mezzo dell’Associazione Nazionale e l’opera patriottica di Luigi Dottesio, di Vincenzo Maisner e dei fratelli Carlo e Federico Valten, apportando nuova luce su queste ultime figure poco note. Leo Pollini, Mazzini a Kussnacht, in « L’Ambrosiano », Milano, 15 Maggio 1930. Da una lettera inedita di Arnim Meyer, conservata nel Museo degli Esuli, ora a Milano, il Pollini trae notizie assai importanti sulla residenza di Mazzini a Kussnacht, dopo l’insuccesso della sommossa del 6 febbraio 1853. In questo rifugio 1 Apostolo stette nascosto cinquantaquattro giorni e, scoperto per le solite delazioni delle spie sotto le spoglie di amici, riuscì a portarsi a Londra colla complicità di due generosi svizzeri, uno dei quali era direttore della polizia ungherese, incaricato del suo arresto. Alessandro Luzio, Mazzini e Pianori, in « Corriere della Sera », Milano, 16 maggio 1930. Il Luzio riprende in esame, sulla scorta dei nuovi documenti ed.ti nei due ultimi volumi degli scritti mazziniani, curati dal Menghini, la questione dell'attentato Pianori contro Napoleone III. Son note le tesi contrastanti su l’influenza ch’ebbe il Mazz.ni in tale atto, ed è pure noto che il L. propendeva a credere che il Pianori avesse agito sotto l’influenza dell’Apostolo. Ora l’insigne storico afferma che in base ai nuovi documenti venuti alla luce « la sua ipotesi, non solo non acquista maggiore solidità, ma per considerazioni puramente obbiettive, egli si è pienamente convinto del contrario di quanto affermava nel volume su Felice Orsini ». Rinaldo -Caddeo, I.'Austria contro le stampe patriottiche a Trieste agli albori del Risorgimento, in « Piccolo », Trieste, 16 maggio 1930. Il Caddeo continua l’interessante studio sulla stampa degli scritti clandestini in Isvizzera diffusi in gran copia a Trieste. Completa in questo articolo le notine già date sul Valten e sul Maisner ed illustra l’importanza che ebbero, come propagatori del verbo mazziniano, i librai Enrico e Giuseppe Schubart, Michele e Salomone Treves. « L’estensione di questo contrabbando — scrive il Caddeo — attesta come Trieste assorbisse una incalcolabile quantità di libri rivoluzionari e la diffusione di questi libri dimostra a sua volta quanto numerosi fossero i patrioti, e quanto largo e profondo il sentimento italiano della città ». --, Una lettera di Giuseppe Mazzini a Elia Bcnamozegh, in « La Rassegna Mensile di Israel », Firenze, maggio 1930. È un’importante lettera diretta al B. il 20 gennaio 1870. In essa l’Apostolo riconferma il *uo credo religioso, in « una lunga e meditata lettera », com’Egli stesso afferma. 194 Bibliografia Mazziniana Vittorio Ci an. Femminismo patriottico nel Risorgimento, in «Nuova Antologìa», Roma. 1° giugno 1930. In un perspicace studio il Cian riprende — dopo vent’anni — ad illustrare le benemerenze femminili nei fasti del Risorgimento. Numerosissime figure gentili ed eroiche rivivono in queste pagine, nelle quali si mette nel giusto rilievo il fascino che su di loro esercitò il Mazzini. Le donne mazziniane, dalla madre Maria all’amata Giuditta, vengono illustrate con vivo sentimento di ammirazione e con sicura conoscenza della vita e dell’opera loro. Rinaldo Caddeo. Il commercio dei libri proibiti nella Giulia durante il Risorgimento. L'abile organizzazione per ingannare la polizia austriaca, in « Piccolo », Trieste, 4 giugno 1930. Il Caddeo continua 1 importante indagine, soffermandosi ad illustrare i congiurati della Libreria Schubart. 1 opera svolta da Salomone Treves ed i sistemi usati per l’introduzione clandestina dei libri pioibiti nella Venezia Giulia. Articoli vari in Riviste e Giornali. --? Giuseppe Mazzini, I doveri delFuomn a cura di Francesco Landò gna, in « Rivista di Cultura », Roma, marzo 1930. Breve recensione della nuova edizione dei Doveri curata dal Landogna. --* Mazzini, in «. Sindacalismo Fasciata », Como, marzo 1930. Breve commemorazione dell*Apostolo : La Patria, era. per Mazzini, inscindibile dai progressi etici ed economici delle moltitudini lavoratrici. Non solo: ma la chiave di volta dell’edificio era la Educazione Nazionale, onde l'emancipazione dell operaio doveva aCermarsi di pari passo col suo superamento morale ed intellettuale, sopra tutto morale. Mazzmi è dunque — veramente — il Profeta della Nova Italia... ». Giovanni Maioli. Patrioti rimine *. --, Amore ed arte nella educazione, in « Noi Giovani », Padova, 18 maggio 1930. È ripubblicata la nota polemica dell'S maggio dell’» Osservatore Romano », già da noi segnalata. Mario Mazzucchelli, Le trattative segrete tra VittoriO Emanuele e Mazzini. La spedizione di Galizia, in « Gazzetta del Popolo », Torino, 21 maggio 1930. 11 M. continua l'esposizione delle vicende che portarono Vittorio Emanuele a non dar corso alla spedizione in Galizia nel '63 concordata con Mazzini. Alla spedizione, che doveva essere comandata da Garibaldi, si opposero i più ardenti uomini del partito d’azione che. per mezzo di ima pubblica protesta, svelarono le intenzioni del Re, di Mazzini e di Garibaldi, rendendo in tal modo impossibile 1 esecuzione dell ardito piano, che mirava alla liberazione del Veneto. L. T., Che importa? in « Regime fascista », Cremona, 21 maggio 1930. Breve nota polemica in risposta all’articolo dell’* Osservatore Romano » dell S maggio, già segnalato. --, Polemica, ìb « Grido d’Italia », Genova 25 maggio 1930. Risposta polemica alla nota dell*· Osservatore Romano » sui discorsi Bottai e Bodrero. « Perchè 1*« Osservatore Romano » — scrive 1 organo della Comunità mazziniana biasima che Mazzini abbia chiamato «il popolo» alla interpretazione delle leggi di Dio? Ma quando i predicatori cattolici (e lo fanno da secoli) parlano di Dio al popolo e gli spiegano le sue leggi, non chiamano forse il popolo a farsene l’interprete? E Cnsto a chi parlava? Non parlava Egli alle turbe? Quando parlò alle caste, lo fece colla frusta; stile squisitamente fascista. Insomma, Mazzini e noi con lui, crediamo fermamente in Dio, legge eterna di vita e di giustizia; i cattolici del giornale romano, non vogliono. Pazienza! Noi ci crederemo lo stesso assumendo dinanzi a Dio tutta la responsabiltà di questa nostra... assurda ma ardente fede in Lui ». A. Μ., I precursori di Briand, in « Popolo d?Italia », Milano, 30 maggio 1930. L’idea della Paneuropa è antica da secoli : « è il pensiero di Mazzini che esalta l’anima di Garibaldi e lo spinge a combattere per l’indipendenza di tutti i popoli oppressi. Sono Bibliografia Mazziniana 199 spade italiane che si battono in Polonia, in Ungheria e in Grec.a. mentre degli ungheresi si battono per la redenzione d’Italia. È il pensiero di Vincenzo Gioberti che afferma la « necessità di un primato spirituale dell’Italia perchè Roma possa compiere meglio, fra i popoli d'Europa, la sua missione moderatrice di concordia e di civiltà. E. oltre al Mazzini e al Gioberti, possiamo richiamare alla nostra memoria Carlo Cattaneo, che pensò agli « Stati Uniti d’Europa », fino alla schiera di giuristi e di politici che collaborano all’attuarsi del principio dell’arbitrato intemazionale... *>. M.f Una beata genovese ; Madre Paola Frassinetti, in « Italia », Milano, 31 maggio 1930. In occasione della beatificazione imminente della Frassinetti, l’A. illustra la vita di questa bella figura di religiosa e rievoca il noto episodio della richiesta da lei fatta al Mazzini nell’aprile 1849. per mezzo di Angela Costa, onde ottenere che il convento di S. Onofrio non fosse occupato. Si ripubblica la lettera di risposta del Mazzini del 13 aprile 1849. Landi, Umili patrioti della terra bresciana ; Andrea Rini, in « Brescia », Brescia, maggio 1930. il L. illustra la figura dell’esule del *21, che impressionò fortemente il Mazzini giovinetto, quando chiese a Genova alla madre sua, l’obolo per i proscritti d’Italia. —, Riempitivi, in « Osservatore Romano », Roma. 4 giugno 1930. Risposta alla nota polemica del >· Grido d’Italia > del 25 maggio: Insomma — scrive il Grido d’Italia, quindicinale nonché mazziniano di Genova — insomma Mazzini e noi con lui crediamo fermamente in Dio ; i cattolici del giornale romano, non vogliono ». No : i cattolici del giornale romano — che sarebbe poi l’Osserüafore — hanno soltanto rilevato la contraddizione di chi, come il Grido, ritiene « infelici o delinquenti » gli atei, ma però depreca che la Chiesa Cattolica condanni il libero esame che può creare « gli infelici o i delinquenti ». Ora questo non vuol dire che il Grido non creda fermamente in Dio: vuol dire che esso è fermamente insensato. Non pretendevamo di sostenere e di dimostrar altro. In ogni modo il Grido dichiara di non insistere. Prendiamo atto. Però da polemista si fa delatore. L’Ossertfafore « contrasta in modo formale e sostanziale con tutta l’etica della Rivoluzione Fascista », perchè ha criticato la esaltazione dell’odio del « saggio Bodrero ». Mazzini ha scritto: « L’umanità è l’associazione delle patrie: l’umanità è l’alleanza delle nazioni per compire in pace ed amore la loro missione ». Donde si vede che Mazzini per i mazziniani del Grido non è un ■·. saggio » e merita di essere accusato dinnanzi alla Rivoluzione Fascista. Il che non ci riguarda Ernesto Morando. Lodovico Frapolli e le sue missioni diplomatiche a Parigi, in « Corriere Mercantile ». Genova, 5-6 giugno 1930. Ampia e sagace recensione della monografia del Menghini già segnalata. —, Lodovico Frapolli e le sue missioni diplomatiche (1848-1849), in «Messaggero ». Roma, 7 giugno 1930. Breve ma accurata recensione della monografia del Menghini segnalata. —, Mazzini e la rivolta milanese del 6 febbraio 1853. in « Stampa », Torino, 10 giugno 1930. Breve recensione dell opera del Pollini, cui già s’è accennato. —, Lincoln. Melloni e Mazzini rivendicati, iu « Gazzetta del Popolo », Torino, 14 giugno 1930. Breve recensione dello studio di Nino d’Anthan, già segnalato. —, La vita e le opere di Giovanni Cadolini. Conferenza tenuta da S. E. Cam-biaggio nel salone di Cittanova, in « Regime Fascista », Cremona. 15 giugno 1930. Il Cambiaggio ha rievocato la figura del grande cremonese nella sua città, soffermandosi an- 200 Bibliografia Mazziniana che a illustrare i rapporti che il Cadolini ebbe col Mazzini fino alla tragica giornata del 6 febbraio 1853. Dopo tale data egli si allontanò, come è noto, dalle file mazziniane/. Lorenzo Gigli, Mazziniani e Garibaldini nell’ultimo periodo del Risorgimento, in· « Gazzetta del Popolo », Torino, 18 giugno 1930. Breve recensione dell’opera del Morando, più volte citata. » Attilio Bandiera, in « Popolo di Roma », 19 giugno 1930. Breve profilo dell’eroe mazziniano. Luigi Venturini, Un momento mazziniano a Milano, in « Dopolavoro di Milano », Milano, 19 giugno 1930. Ampia recensione della monografia del Pollini sul moto milanese del 6 febbraio 1853. Generale Gramantieri, L’ora di Giuseppe Mazzini, in « Il Nazionale », Torino, 21 giugno 1930. Dopo aver accennato alla « rievocazione magnifica fatta da S. E. Bottai del Grande pensatole ed educatore del popolo italiano » e al discorso di S. E. Grandi il quale, senza pur ricordare il nome del Maestro, che egli imparò a venerare fin dalla prima sua giovinezza, ne ha posto in risalto il contenuto etico di politica estera», conclude il Gramantieri: « Mai come in quest’ora la dottrina di Giuseppe Mazzini ha avuto, per fortuna nostra, pos-sibiltà di realizzazione, ne’ suoi capisaldi etici, patriottici, sociali. E i nostri figli ne vedranno i benefici effetti. Non tutta certo la dottrina mazziniana potrà aver forza di attuazione, come l’auspicata alleanza Italo-Franco-Germanica, che darebbe pace all Europa. La vita vissuta è materiata di realtà con tutte le sue miserie e col naturale suo adattamento ai tempi ed all’ambiente; l’ideale, per quanto bello, per quanto generoso e attraente, rimane troppo spesso nel campo delle irrealtà. È già un buon segno che 1 ideale del Maestro abbia trovato la strada delle realizzazioni. Oggi davvero, Egli non è più straniero in Patria ! ». Gius. A. Andriulli, Il duello serrato tra Mazzini e Cavour alla vigilia di Plom· bières, in « Messaggero », Roma, 25 giugno 1930. Ampia recensione dei due volumi mazziniani editi nell’Ediz. Nazionale. --, Luci mazziniane nel Sindacalismo nazioiuile, in « Lavoro », Genova, 26 giugno 1930. Breve recensione del voi. di Alice Galimberti, già segnalato. A. O. Olivetti, Mazzini e lo Stato corporativo, in «-'Sindacalismo fascista», Como, giugno 1930. « Mazzini sta per così dire tra Proudhon e Ferrari, è un antisocialista ed in un certo senso anche un antidemocratico, almeno di quella democrazia che si formò poi, perche è giustizia storica riconoscere che la democrazia italiana del Risorgimento era ben diversa da quella che noi combattemmo. L’ultima democrazia italiana fu sociaLstoide, pacifista, universalistica. Quella del Risorgimento che culminò nel Partito d’Azione rappresento invece l’estrema avanguardia del nazionalismo italiano operante, deH’irredentismo, del patriottismo più ardente. Essa ebbe una sua fisionomia e non si abbandonò ad un infingardo-mimetismo del socialismo avanzante, fu aristocrazia di eletti spiriti e non piatta demagogia di politicanti ». Dire fiore responsabile : UBALDO FORMENTINI. INDUSTRIE POLIGRAFICHE N A VA — BERGAMO — MILANO — GENOVA -- —————— GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA COMITATO DI REDAZIONE: GIUSEPPE PESSAGNO, PIETRO NURRA, VITO A. VITALE La pubblicazione esce sotto gli auspici del Municipio e della Reg ia Università di Genova, e del Municipio della Spezia DIREZIONE E AMMINISTRAZIONE: GçenüVcx, Pala'z'zo Rosso, Via Gçariialdt, 18 CONDIZIONI D'ABBONAMENTO ì II Giornale si pubblica, a Genova, in fascicoli trimestrali. Ogni fascìcolo contiene scritti originali, recensioni, spigolature, notizie ed appunti per una bibliografia mazziniana. ABBONAMENTO ANNUO per l Italia Lire 30 - per Γ Estero Lire 60 Un fascicolo separato Lire 7.5O - Doppio Lire 1 ó Anonima Industrie Poligrafiche C. Nava - Bergamo Tel. 32-4 Î —.............. Conto corrente con la Posta ANNO VI - 1550 Fascicolo III - Luglio-Settembre GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA . sfiondato da ACHILLE NERI e UBALDO MAZZINI PuJbblicazione Trimestrale % NUOVA 5ERIE diretta da Arturo Codignola e Ubaldo Formentini s:f BIBLlOTBOijj VQsÌìo^ -one e Amministrazione GENOVA, Palazzo Rosso, Via Garibaldi, 10 SOMMARIO Ferruccio Sassi, / primordi del Principato Massese — Renato Piaf-toli, Genova e Firenze al tramonto della libertà dì Pisa. — Vifo Vitale, Genova, Piemonte e Inghilterra nel 1814-15. — Raffaele di Tucci, Le imposte sul commercio genovese durante la gestione del Banco di San Giorgio *—* VARIETA’: Giovanni Monleone, // Colombo di Chiusanico. -— RASSEGNA BIBLIOGRAFICA : Luigi Brenni, L' arte del battilòro ed i filati doro e d'argento (Emilie Pandiani) ~ Romolo Quazza, Genova. Savona e Spagna dopo la congiura del Vacherò (Vito Vitale) -P. Luigi Levati, Dogi biennali di Genova dal 1528 al 1669 (Vito Vitale) - Arturo Segre* Il primo anno del Ministero Vallese (Vito Vitale) -Roth, Valori, Lodolini, Studi sulla difesa di Firenze e sul Ferruccio ( Vito Vitale) — SPIGOLATURE E NOTIZIE - APPUNTI PER UNA BIBLIOGRAFIA MAZZINIANA — I nostri morti : Umberto Giampaolit I pbjmobjdi DEL PRINCIPATO MASSESE È Γ8 dicembre 1442: nella chiesa di Sant’Iacopo, entro la cerchia del castello, il notaro Ser Antonio da Moncigoli stende sulla gialla pergamena, col fare dell’uomo di curia, ile clausole della convenzione che il popolo massese, di cui è affollata la chiesa, stringe col marchese Antonio Alberico Malaspina del ramo di Fosdinovo, e che, superando certamente ogni aspettativa degli astanti, dovrà decidere, pel corso di alcuni secoli, le sorti di quel grosso centro lunense (1). La nuova signoria è creata: non senza i buoni uffici della repubblica di Firenze. (L’ombra dell giglio scarlatto si era infatti proiettata sulla cittadina dei Marchesi già da alcuni anni avanti; ed era proprio fin prossimità delle sue mura — nel cc campo della Lega » ove trova-vansi accampate le forze fiorentine e degli alleati in guerra contro il Visconti — che deci devasi nel 1437 !il congedo deli vicario di Lucca per Massa, Montagnoso e Castel Aghinolfo e la sua sostituzione con un vicario fiorentino (2) E, assieme al vicario che co'i famigli riprendeva mestamente il cammino di Garfagnana, si allontanavano pressoché definitivamente dalla terra di Luiii i ripiegati vessilli lucchesi condannati ormai a sventolare, e per un secolo e mezzo soltanto, appena sul- lo estremo ilembo meridionale di OLunigiana, Montignoso, ricuperato di li a non molto con un estremo sforzo. IL anno 1437 si può dunque dire segni la scomparsa dalla scena d uno dei principali attori della storia lunense, che, e per opere di pace e per imprese guerresche, si era elevato ad elemento determinante di primo ordine nello svolgersi degili avvenimenti e nello sviluppo della vita sociale dall epoca longobarda in poi. D altra parte anche l’elemento che era a poco a poco venuto sostituendosi all antico, il Comune di Firenze, non sembrava attraversare un periodo di fiorente energia nonostante le apparenze dimostrassero, superficialmente esaminate, il contrario. Influivano soprattutto sugli atteggiamenti della repubblica il notevolissimo grado di prosperità economica, che doveva naturalmente distogliere 1 animo dei cittadini da ogni bellica avventura non ritenuta strettamente indispensabile, ed ili trapasso di regime che veniva maturandosi e che non poteva 11011 destare serie preoccupazioni intese ad evitare scosse ed urti non salu- (1) Branchi, Storia della Lunigiana feudale. III, pagg. 759 segg., Pistoia, Reggi 1898. (2) 1 Capitoli del Comune di Firenze, IX, 67, Firenze, Celimi, 1896. 202 I Primordi del Principato Massese tari. Certo è ohe Firenze mostra di non gradire eccessivamente, in quel periodo, la vicinanza di potentati come Genova e Milano, e forse anche aspira a tener a bada la più vicina iLucca cui punge brama di riporre ipiede nelila terra perduta. E al mantenimento delle buone relazioni ristabilite con la pace del 1441, Massa costituisce forse l’ostacolo maggiore. Si ha, cioè, attentamente osservando, l’impressione che Ila capitale toscana preferisse attenersi momentaneamente ad un atteggiamento di raccoglimento, pur tenendosi pronta a riprendere, impresso più fermo moto al processo di rivolgimento interiore, il proprio (posto nelle gare degli stati italiani. Noti mi pare possibile altra spiegazione del gesto quasi rinunciatario compiuto -dai fiorentini, che praticamente annullava gli effetti della capitolazione delll’ll settembre 1437 per la quale Firenze estendeva su Massa il suo legittimo possesso. Fatte salve le persone e rispettate le private proprietà, Firenze sii riservava ogni potestà ed impero sul territorio della vicaria, vale a dire pieno ed intero potere politico. ed ogni giurisdizione: gli attributi alla sovranità si accentravano quindi nelle sue mani, e Massa entrava a far parte integrante del territorio della repubblica. Allorché, dunque, nel 1441 la stessa Firenze inscena la rivolta dei Cattane! di Massa contro il Marchese Antonio Alberico, castellano della città perii comune ed SI popolo fiorentino, e spinge poi il popo- lo massese ad eleggersi un signore nella di lui persona, la Signoria non ha in fondo altro intento che evitare pericolosi contatti in un momento delicato della v'ita « nazionale », anche a costo di alienare una porzione del suo territorio mediante la creazione d’uno stato cuscinetto. Implicita confessione di debolezza, o per lo meno di non sufficiente forza. È interessante soffermarsi alquanto sulle origini del nuovo organismo. Non si può certo affermare che ne costituisca precedente giurìdico la signoria di Spinetta Malaspina nella prima metà del 1300: essa costituisce solo un precedente di fatto che serve bensì ad alimentare le a-pirazioni dei discendenti, ma che, per le sue caratteristiche di dominio prettamente personale, non può costituire evidentemente titolo sufficiente, nè fu mai effettivamente come tale considerata dai Marchesi, ti quali piuttosto si riportavano alle ragioni feudali derivanti nella famiglia dalla discendenza obertenga. Neppure da queste si giustifica però, nè in diritto nè nella realtà storica, lo stabilirsi della nuova signoria malaspiniana. Yj neppur si tratta li una usurpazione compiuta ai danni di un libero comune, come -i suole ancora dire nella generalità dei casi e forse troppo spesso. Ha esaurientemente dimostrato il Besla (!) come, giuridicamente, il Comune abbia origine lai la « co- ll) Besta, Il diritto pubblico nell'Italia supcriore e media durante il periodo comunale, Corso di lezioni, Pistoia, Picinotti. 1923, pag. 118 segg. Ferruccio Sassi 203 muratio », dall’accordo giurato dagli abitanti delle contrade, dei sestieri etc. Di tale accordo, (per quanto mi consta, mai prima d’ali ora s'i ebbe traccia neilla cittadina massese, e se pur mai ebbe vita un organismo massese a forma comunale, signorile o popolare che fosse (il che potrebbe essere oggetto d’una indagine a parte), certo il ricordo d una sua attività politico-economica era ormai lontano nel tempo. Se quindi cc memo potest alicui dare quod non habet », a maggior ragione non poteva delegare poteri 1111 organismo inesistente. Piuttosto noi potremo rilevare, prescindendo dalle particolari circostanze di fallo già accennale, come in fondo la cc collimato » esista e si manifesti, anzi si concretizzi, neH’atto noi aride che dà vita alla signoria. Potremo dire che la vecchia cc coniuratio » sta al cosidetto « libero » comune come l’alto dii Sei* Antonio da Moncigoli sta alla seconda signoria malaspiniana su Massa. Gli eifetli sono gli stessi: la ci e aziono di un organismo politico autonomo. \t* è senza significato, dal punto di vista della storia generatile, il fatto che il patrono del nuovo stalo debba ricercarsi in quella che, sino a pochi anni avanti, era stata la più spinta fra le varie demagogie italiane. Per quanto già note, almeno in linea generale, dal lavoro del Branchi, 11011 sarà fuor di luogo scorrere brevemente le clausole più importanti dell’atto di nascita dello stalo massese. ^i preoccupavano i massesi di fissare con regole precise la facoltà di emanare norme giuridiche di carattere statutario e di modificare, nelle riscontrate deficenze, gli stallili stessi; di assicurare l’equa amministrazione della giustizia, di precisare le competenze in materia fiscalité etc. L aderenza di alcune clausole a determinati principi del diritto costituzionale moderno, già riscontrata in mollissimi altri casi (’)? presenta qui caratteristiche spiccatissime. Un primo esempio lo troviamo nell obbligo della sanzione signorile agli schemi degli statuti -avanti Ha loro pubblicazione. M signore doveva inoltre avere una cassa propria distinta da quella del comune, e godeva d un assegno annuo di 325 fiorini d oro (pari a bolognini 13000), specie li cc lista civile » con la quale doveva provvedere alle spese inerenti alla sua dignità e corrispondere adì resi un emolumento mensile al podestà del comune. Questo era liberamente scelto dal signore, ed aveva competenza cc lam in civilibus quam criminalibus » sino a concorrenza di 20 bolognini, restando riservata al signore la conoscenza delle cause e multe per somma superiore e l'applicazione di pene corporali. Era, come di consueto, soggetto a sindacato neH’iiscir di carica, e durante I ufficio veniva coadiuvato da 1111 cancelliere che doveva esser massese ed era retribuito con remodtamcnto di due fiorini d'oro. Particolare cenno merita la rinuncia da parte del comune ad esìgere la colletta sui beni lauto dei marchesi quanto dei cittadini di Lucca, eccezione, quest’ullima, voluta forse dal Malaspina al fine d'indurre la i momenti salienti dcl-J‘evoluzione, tra 4a signoria rurale del (.onte Nicolò l'ieschi (*) fondata esclusivamente su ragioni di diritto fendale c su diritti allodiali, la signoria strettamente personale e temporanea di Spinetta Mala* spina della Verrucola prima su Sarzana e poi su Massa ( *), il piccolo principato Camj>ofregoso (4) e questo nuovo stato mala^piniano. Il processo di sviluppo dclTorganizzazioiie statale procede di pari passo con la precisaz/ione del concetto di proprietà avvialo verso una progressiva individualizzazione, e con Fa un ullamento ilei vincolo |>or-MHiale di sudditanza verso il signore feudale. Il trapasso dal concetto gius pubblicistico al concetto privatistico della proprietà fi e già compiuto naturalmente alFepoca del marchese Spinetta nell·’ cittadine ili Sarzana e di Massa, dove riscontriamo nel XIV secolo una classe borghese di notai, di professionisti, di mercanti, di artieri su cui i*i impernia la vita civica del tempo: per tutti costoro, c inutile aggiungerlo, la proprietà c affatto indipendente dallV^ercizio di pubbliche funzioni. K queste masse, talora già organizzate in corporazioni sin dal secolo precedente, come i beccai in Sarzana ("), certo conscie della esistenza di comuni interessi che pone accanto al medico e al notaio Fumile cacciatore o pescatore di mestiere, e differenzia co*i nettamente la popolazione della città da quella del contado (6), queste masse acquietano ognor maggiori personalità fondendo nella ^propria <1) A. S. Muh. Diplomatico. «2) cfr. una mi* monografia La politica del Conte Sicolò F teschi m Lunigiana in * Memorie rie\YAcradorni* Lunifianae di Scienze G, Capellini *, Vili, 2. & id. Signorie in lénifiant» ■ Spinetta \f alaspina. in « Giornale «lotico e letterario della Li* f fura », I92S. I. I. (41 *d. Simone Itgun La signoria dei Campnfregoto In Lunigiana. in Giornale storico e lev (erario delia Liguria’, 1928, (. 3-4. vi. Cod Palavicino. n. 29, (6) »d-, n, 51. anonimia personallità dei componenti. Ma questo tardivo fremito di \Jta, die tre seco], innanzi avrebbe inevitabilmente condotto alla for-«naziione dei liberi comuni, non j.oteva nell secolo XV giungere oltre attermartione di diritti civili, privati spettanti al singolo individuo, al singolo cittadino (lie due espressioni ormai si equivalgono) come parte del tutto. E così (vediamo i Sarzanesi trattare per la tutedia delle proprie persone e dei propri beni con Tomaso Campofregoso; i Mai· sesi a lor volta cercar di garantire, nell’atto di darsi una propria costi-turione politica, la libera ani mi nis trazione della giustizia ed una certa facoltà di governarsi nel civile e nel penale; gli uni e gli altri parlare UM, «Comune» e di una «Civitas» nel senso ora accennato. Non riterrei però si possa parlare, tanto nel caso Campofregoso come nel presente, d’una a diarchia », d'una doppia fonte di poderi, pur se almeno in apparenza lo stato massese è creato per volontà popolare. Anche prescindendo dal fatto che a Massa le cause di maggior importanza sono riservate alila diretta cognizione del Malaspina, non va passato sotto fienaio quanto aia orinai sbiadita la figura del (podestà ridotto alla condizione di semplice funzionario responsabile (« pò-testas, rector del comimissarius ») e non più rappresentante del popolo <* deli (iOmunc: a Sarzana abbiamo addirittura un « vicecomes », rappresentante del principe. Non diarchia, e quindi assenza dii quello Malo di malessere, di contraddizione tra la realtà e la finzione oppor-tunistflca che altrove rara Iteri zzava certe signorie. Orinai anche questo è uno Madio superato; una soda appare nei rapporti eoi cittadini la fonte del (potere, particolarmente politico: il principe. Egli solo è 41 capo dello Malo, fa guerre, stringe trattati, regge insomma Ile relazioni con le potenze similari. E mentre il principato Campofregoso -i caratterizza. come altrove ho notato, per la tendenza a costituire una nuova nobiltà soggetta al principe sarzanese, il nuovo principato inalassiniano di Massa si contraddistingue per idi carattere
  • i(oh. etc.. IX. Ifel. i4i Bi*wh. op est . . yVf. Ferruccio Sassi 207 tutto· le terre oggetto di contestatone fossero dall’arbitro Giano Cam JÌST ir8Tate.al , l,fi110 00,1 *,attü the :il “»ovo domiTo w ometto alle da re UH ve politiche del signor di Sarzana. orse da quella data ha inizio la preparazione della rivolta e del· ìacm,oPS! n ""e,,,a,,a ή dann,i del principato sarzanese da acopo Alahispina alla testa deglu uomini della signoria massese e del marchesato di Fosdinovo e con gli uomini di Carrara, delI’Ame- gi«.a pinoli a Ma la*pma di Vi\ i zzano le terre strappatoci desistendo cosi «la ogim ulteriore protesa di alto dominio sulle .stesse, «rara Mi va ai <0 Bianchi, op. cup«K 5*8 e 208 I Primordi del Principato Massese Malaspina il pacifico dominio delle loro terre estendendo così l’influenza della sua casa su una ivasta zona di territorio che dalle vette dell’Appellili 110 giungeva, attraverso le valili del Taveron e deH’Au-Jella, sino ad affacciarsi sulla piana di Sarzana con la terra di Pon-zanello (*). È interessante seguire, o meglio intravvedere, tra la numerosa congerie di atti pubblici, politici, che hanno per oggetto la Lumi-giana, tutta una serie di figure che si agitano tra le quinte della storiar indovinare attraverso gli spiragli — che ogni tanto si aprono mostrandoci un fatto compiuto, una situazione capovolta — 1 oscura lotta di -influenze e di predominio. È, il XV, un secolo veramente caratteristico, sotto questo aspetto. Anche ili secolo precedente appare tutto pervaso da lunghi e convulsi fremiti: ma il 1300 11011 è che il precursore; nel 1400 i fremiti divengono sussulti, e le complicazioni raggiungono ili diapason più elavato per il più vivace impeto che i singoli aggruppamenti politici di terraferma, e, quando le vie del! mare cominciano ad essere precluse, anche le repubbliche marittime, portano nelle lotte di predomino e di equilibrio. In fondo, se ben si riguardi, questo è precisamente il periodo d’oro del principato, che manifesta così la sovrabbondanza delle energie rifiorite sotto un unica direttiva, un’unica mano. La vitalità che ogni principato — e di riflesso ogni altra organizzazione statale — viene dimostrando, pur andando malamente dispei-sa, è in fondo impiegata in ripetuti tentativi per acquistare un predominio. Se pur vagamente, senza averne perfetta coscienza, e più che aütro per mire ambiziose, si mirava a raggiungere l’unità o almeno nel fatto ci si portava su questa strada colla graduale, progressiva eliminazione di signorie e comuni minori, coll’estensione del proprio raggio d’influenza, con Io scardinamento anche di punti di resistenza di eccezionale valore. Si pensi alle ripetute conquiste di Genova e di Bologna iper opera dei Duchi di Milano. Nè ritengo si possa davvero pensare che quando Francesco Sforza chiede a Luigi XI, in feudo nobile, Savona e Genova (2), egli lo faccia riconoscendo nell’intimo dell’animo suo un qualunque reale diritto del monarca francese sulle due città liguri. Non mi pare che il gran condottiero fosse tempra da umiliarsi, almeno senza un proprio grave motivo: non sembra forse il caso di dubitare che lo Sforza volesse far sentire il peso deOQla propria spada Ìli eventuali competizioni non più italiane, ma europee, ili previsione d’un urto non lontano fra le due grandi compagini et atali — Impero e Francia —, da entrambe le quali egli, a stretto rigor di diritto feudale, sarebbe venuto a trovarsi dipendente, cioè nella miglior delle condizioni per rendersi forse arbitro della sorte in Italia? Comunque, lasciando da banda gli interrogativi, e per ritornare (1) Cerini, Codice diplomatico della Lunigiana, I, 136. (2) cfr. PJCOTTI, op. cit. pag. 20. Ferruccio Sassi 209 ala Lunigiana, vu troviamo in questo periodo due principati Giunti entrambi al apogeo della loro espansione: il ducato di Milano e lidi ducato estense, che irrompeva, esso pure, al di qua degli Appennini occupando la parte alta dei dominii del Malaspina dii Fivizzano e f ruendosene .soltanto nel giugno 1451 in seguito all’intervento di nenze ( ) Queste irruzioni, la persistenza con Ha quale da Milano si mirava alle terre bagnate dalla Magra, non potevano non originare sospetti, e perdio non ci stupiremo di vedere il piccolo prindipe° massese immischiato per lunghi anni nelle controversie e nelle relazioni diplomatiche tra !i maggiori stati itali ani. Era l’epoca caratterizzata dal rapido sorgere, dissolversi, rinascere dii numerose ileghe tra gli stati medesimi : sorte sin dalla prima meta del secolo precedente e talora col preciso scopo di opporsi al-Jinvadenza straniera, sii erano a mano a mano trasferite in un terreno più angusto limitando, come è noto, le loro vedute, la loro portata ai latti esclusivamente italiani, apparentemente animate da intenti lodevoli, in realta prodotte daH’intima incapacità di ognuno d’opporsi al- I ascesa. * 1 «Alla vecchia lega d’Italia altre volte fatta in Venezia, et poi a [Poli et finalmente a Roma... a conservatione e difesa della pace quiete et tranquillità d’Italia » aderivano !il 12 Gennaio 1467, e con tutti a loro beni fra a quali è esplicitamente indicato lo « statu suo » marchese Jacopo Malaspina e la moglie Taddea della Mirandola (2). Ja marchesa Taddea, pur amando, corrisposta, il marito, non era a quanto pare tipo da lasciarsi porre in disparte allorché trattavasi di discutere affari di stato o quistSoni di alta politica. E forse il marchese stesso che, fidando nella devozione della moglie, nel suo intelligente buon senso di fine dama del Rinascimento, la poneva al corrente degli affarli che si agitavano e ne richiedeva il parere. Non era invero prudente correre all’impazzata allorché dovevasi trattare mia lega con potentati come il regime di Sicilia, il ducato di Milano, Ha repubblica fiorentina, ovvero dovevasi discutere con un Cecco Simonetta. (.osi, il 31 Gennaio 1468, il marchese Jacopo informa da Scal-dasole la moglie Taddea in Carpi « consortis amatissima », che merser Lecco, «movendo le pratiche lungamente tenute delle cose di Carrara », ha richiesto anche Scaldasole offrendo di pagare i miglioramenti fatti, e la rende edotta della risposta data e dello stato delle trattative. Mentre a proposito d’un parentado propostogli coli Dell Carretto scrive: « Io non ho deliberato farne parola se prima non intendesse la tua veduta e anello quella di Francesco (Francesco Pico della ..mrandolila, padre della sposa)... Sïchè darami risposta a ciò cli’ia sappila ìiu che modo governarmi (3) ». (1) Gerini, Cod. cit. I, 140. (2) A. S. Massa, Arch. Malaspina di Fosdinovo, Marchesi di Massa, I, copia. (3) A S. Massa, l. cit. 210 1 Primordi del Principato Massese Ne forse era estranea l’opera della moglie al mutamento d’indirizzo nella ipolitica del marchese Iacopo sospettato nel 1470 da Firenze e che non ebbe il temipo e modo di sboccare in azione aperta. Scrivo il Brandii (*) che, secondo una nota dell 10 Gennaio 1470 della signoria fiorentina al legato Garzone Garzoni da inviarsi a Venezia, il Malaspina mirava a conquistare per sè tutta la iLunigiana, dellla quale era già stato, dal 1467 al 1469, Governator Generale per Galeazzo Maria Sforza, collegandosi a tal fine col Duca di Ferrara. Nè dio appare improbabile ove si rifletta alle parentele e alle influenze che la marchesa Taddea contava nella regione emilliana e nella stessa corte estense. A questo punto le relazioni diplomatiche tra gli stati italiani presentano un punto oscuro; la lega del 1467 minaccia di crollare: sospetta infatti la condotta del Malaspina, e incerta la condotta del Duca di Miilano logicamente sospettato connivente all’impresa di Lunigiana, nella speranza di lucrare altrove buon bottino. In ipochi mesi il clima è mutato. « Scimus te semiper coluisse urbem nostram fide integritate quadam singulari: neque mutavisse animum: neque mutare posse utpote qui eam mentem quasi hereditariam geras. Pergratum est nobis quia te tuaque tam liberaliter offeras. Nos quoque eadem liberalitate te tuos~ que utemur quotiens opus sit. Vale ». Così il 20 Maggio 1469 la signoria di Firenze al Marchese Iacopo Malaspina, assicurandolo che il suo ritorno in patria è riuscito gradito assai (2). Ora, apparentemente, prosegue la buona armonia, ma basta il più piccolo incidente per far apparire le cose nella loro luce reale. (2). IL*ambasceria fiorentina {partita il 20 dicembre verso (Parigi, giunta ad Avignone, ossequiò Benedetto XIII, e da questi ricevette attestati di benevolenza, fc chiaro che la Repubblica co.-ì crasi incamminala sulla (1) N. Valois, La France et le Cran Sachitmc d'Occidcnl, III, Parigi, 1901, 390 c *egg. (2) N. Valois, 376 e &egg. Renato Piattoli 215 via che doveva condurla ad un completo riavvicinamento colla Francia. Tale atteggiarsi le era necessario per attuare gli intenti politici prefissisi, i quali appaiono chiarii, giacche il Duca di Orléans era l’alto Signore di Pisa ed uno deli più importanti motori dell’azione politica francese. Coinè Genova, (Pisa in certo modo si trovava sottoposta all’influenza francese. Quivi, ottenuto l’intento nella Liguria, diressero i loro passi ii legati di Benedetto XIII, ma incontrarono riluttanti Gabriello Maria Visconti e la madre sua Agnesa Mantegaza, i quali allegavano come scusa che il Signore di iLucca, Paolo Guinligi, ed Innocenzo VII, approfittando del trapasso di ubbidienza, si sarebbero dichiarati nemici. Vennero allora a Firenze, dove entrarono il 7 febbraio 1405. Ringraziata la Signoria dell’appoggio offerto agli altri inviati avignonesi, le chiesero quanto avevano formulato al Visconti. Rbbero in risposta buone parole e nient’altro. Infruttuoso allo stesso modo fu un tentativo fatto in seguito a (Lucca (1)· Non aveva Firenze la minima volontà di entrare troppo nel vivo della lotta tra i due Papi, nè vedeva grandi vantaggi a passare dal campo in cui fino allora era militata all avverso, sempre che il popolo lo avesse permesso e tollerato, e piuttosto preferì tenere un contegno ambiguo per ritrarre dalla situazione tutto il beneficio possibile. Davanti alle 'incertezze del Visconti, gli ambasciatori pontifici avevano cercato di strappargli la promessa che, nel caso Benedetto XIII fosse venuto a Genova, gli avrebbe prestato fedeltà. Sicuro che la propria presenza in Italia avrebbe tolto molti degli aderenti ad Innocenzo VII, l’Antipapa già da qualche tempo aveva iniziato accordi col re di Francia e il maresciallo Boucicaut per andare a stabilirsi a Genova quando con lentezza iniziò lil viaggio (2)· Il 13 maggio 1405 la compagnia mercantile fiorentina risiedente (in IPisa di Lorenzo di ser Nicola (3) e compagni scrisse a Simone d Andrea, da Prato (4) al bangnio a Chorssena in una sua lettera (5): Essi detto questo dì che l Papa da Vingnone e Bucichaldo è giunto in Genova. Non vi si dà fede, e per lettere abiamo da Genova de9 dì X/, come in questa ti si dieie, nulla clwntano... A ragione dubitavasi, poiché la compagnia fiorentina in Genova preceduta da Ardingo dei (1) N. Valois. 395 c eegg. (2) N. Valois, 398 c eegg. (3) Costui aveva da giovane fatto le piatiche in Genova, come addetto al fondaco rii Francesco di Marco Datini, illustre mercante pratese. (4) S. di A. Bellandi sottoposto di F. Batini. (5) ARCHIVIO Datini presso la Casa Pia dei Ceppi di Prato in Toscana, cartella 1116. 216 Genova e Firenze al tramonto, ecc. Ricci (1). assai meglio informata, quel giorno stesso scrisse al fondaco di Valenza di Francesco Datini: Il papa da Vignone è a Saona, e sabato s'attende qui. Ghrande aparechio gli si fa. J Dio filaccia questa osi ma si lievi via, che, secondo si dice, chostui c'è di buon volere. Fu il 16 maggio che Benedetto XIII fece l’entrata solenne in Genova (insieme al Governatore. E fu da Genova che nel seguente mese di giugno parti, spedita da un mercante fiorentino, Bonaccorso degli Alderotti, una lettera privata diretta a Gino Capponi, nella quale per la prima volta appariva come jl Pontefice avignonese ed il Luogotenente di Carlo VI faeevansi promotori della vendila di ìPisa alla Repubblica. La Signoria prestamente resane edotta deliberò che il Capponi stesso si portasse a Genova ad osservare l'andamento della cosa (2) Al riavvicinamento politico colla Francia il governo della Repubblica aveva fatto cooperare, come la migliore leva per ottenere l'attuazione dei propri fini, la forza dell'oro, offrendone copia tanto a Gabriello Maria Visconti, quanto al Duca d’Orléans ed al suo rappresentante, il maresciallo Boucicaut, i quali. « dove contra di noi erano inacerbiti, e* si cominciarono a arrendere e a addolcire come il mele, e stavano », dice il Morelli. (3) « a udire il suono ile" molti (1) Molte lettere di cote sta ragione avemmo occasione di citare in due noatri lavori editi nel Giornale Storico e Letterario della Liguria. !*uno dal titolo La spedizione del maresciallo Boucicaut contro Cipro ed i suoi effetti dal carteggio di mercanti fiorentini. N. S.. V. 1929. 134-38 ; l’altro La notizia del convegno di Savana del 1407 dalla lettera di un mercante, ivi. 224-26. Su A. Ricci, gTande meicante e notevole uomo politico, non staremo a dare notizie. Ci limitiamo ad accennare come alcune lettere della sua compagnia, contenute, come pure tutte quelle che ricorderemo nel testo, salvo avviso in contrario, nella cart. 993 dell’ABCHlvio DaTINI, parlano di un arresto che ebbe a subire in Genova, intorno alla metà del marzo 1405 e del seguito che ebbe la cosa. In una del 31 marzo trovasi: Dello ’npaccio auto A rdtin)gho nostro arete sentito, che non è stato picholo. bontà del buono Antonio Alamanni. Ora fu lassato chon sichvrtà. ma inocicnte si truova di tutta, sicché la chosa arò buon fine, e chosì piada a Dio. Poi il 22 maggio, nel poscritto: Per la innocienza d'A rdingho e per benignità del ghovematore l’à libero della malleveria m che l’avea obrighato per quelo li fu aposto, e senza ahhuno costo: per che à purghata la fama sua e rimane chon grande onore, e chi disse quelo non doveva il chontrario. Che Jdio li ulmertti, selli piace. Infine il 26 giugno, pure nel proscritto: £’ ci schordava alitarvi chôme Ardi(n)gho e Bariolino nostri sono stati distenuti 9 giorni do questo ghovematore. bontà d'L’r-bano Alamanni, che falsamente gli avea achusati, ma questo g[i)usto Signore, veduta la verità« tersero di fatto li fece rilassare chon grhande loro honore e verghogna d* Urbano ch'c in pregione, e chosteragli inanzi n’escha. È. chosì si punischono i chattici. lodato Idio. Piero Ben in tendi, mercante pratese in Genova (tutte le lettere rimasteci di costui si conservano nella cart. 1091 dell’ARCHIVIO DaTINI). in una missiva del 20 die. 1405 ci informa che quel Bartolino. di cui sopra era socio e genero di A. dei Ricci. Intorno a costui, la cui biografia e tutto il carteggio con F. Datini daremo alla luce. cfr. G. Livi. DalYArchivio di Francesco Datini mercante pratese. Firenze, 1910. 10-11 e 42-44; R. PlATTOU, In una casa borghese del secolo XIV nello Archivio Storico Pratese, VI, 1926. 121, e Andrea di Giovanni di Lotto da Prato maestro di grammatica in Genova, nel Gior. Sfor. e Letter. della Lig., N. S., IV. 1928, 46. (2) G. Capponi, Storia della Repubblica di Firenze, Firenze. 1875, 11, 413. (3) Istoria fiorentina di Ricordano Maletpini coir aggiunta di Giachetto SI aies pini e la Cronica di Giovanni Moulu. Firenze. 1718, 328. Renato Piattoli fiorini molto volentieri, e cominciarono a dare .intenzione ». l uttavia ciò non può essere assunto a causa determinante: questa va cercata in un altro ordine di fatti appartenenti a una cerchia più .vasta dei rapporti tra Firenze e Francia. Dopo la riconciliazione di Benedetto XIII e Carlo \ I, l’azione dei due ipotentati, ecclesiastico l’uno, politico l'altro, apparve si intimamente connessa, che ogni conquista dj terreno che ΓAntipapa otteneva sul Pontefice romano credevasi ridondare ad espansione del-rSnflnenza francese e viceversa. L’arrivo di Benedetto in Genova, in territorio italiano, agli occhi di qualcuno equivalse ad una tendenza della Francia ad allargarsi nella Penisola: questo tale era Ladislao di Napoli, viglile a che il rivale Luigi d’Angiò non tentasse la n- MÌncita. . Attraverso la lotta dei rami durazzesco e angioino, che aveva portato alla scissione dell’unità guelfa, scissione rispondente al bisogno degli Stati italiani di equilibrare la loro influenza nei propri destini appoggiando ora il primo, quando il secondo seminava prevalere, ora il secondo, se temibile si faceva un predominio del primo, negli ultimi tempi era emersa l’autorità del durazzesco rappresentato da 'Ladislao in special modo per l’appoggio della Repubblica di Firenze. Essa, alla morte di Gian Galeazzo Visconti, si era fatto il centro di sostegno della Parte guelfa ansiosa di sfasciare il dominio dei Visconti, alla cui conservatone aveva inteso la Francia. Ladislao era assurto cosi ad unica spes Guelfonim per Firenze, e quindi per tutti coloro clic a Firenze erano congiunti, in altre parole per il guelfismo italiano. Approfittando della situazione, volle Ladislao contrapporre una lega guelfa italiana all’offensSva francese delineatasi colla venuta di Benedetto MII, e colpire la Francia sostenitrice delle pretese angioine sul regno di Napoli nei possessi della Liguria. Onesto sembra chiaro, se pensiamo che nel giugno appunto era venuto un messo di Ladislao a Gabriello Maria λ isconti per invitarlo ad unirsi al Guinigi die era timoroso per la sua Signoria stessa, dato l’avanzargli ai confini della potenza francese, e aveva il modo di far sollevare la Riviera. Così il primo passo verso il lanciamento della controffensiva sarebbe >tato fallo: il resto sarebbe \enuto da sè. Intento solo a conservare il principato col sostegno delle armi francesi, il Visconti inviò un'ambasciiata a Genova a denunziare 1 offerta od a promettere formalmente che il primo del venturo settembre Pisa con il suo territorio avrebbe compiuto il trapasso di ubbidienza in favore del Papa avdgnonese. Non intuì neppure la portata del proprio atto, tanto da apporre un rifiuto al maresciallo Boucicaut, il «piale come Governatore di Genova paventava una sollevazione, che -arebbe riuscita disastrosa negli effetti in special modo in quel mo- Genova e Firenze al tramonto, ecc. mento, e gli chiedeva alleanza contro di Guani gli adducendo certi diritti su «Lucca e la lucchesia della corona francese. Se la catta fosse venuta ad accrescere il suo dominio, ben volentieri avrebbe partecipato all impresa, ma non per vederla invece in mano della Francia, la quale sarebbe divenuta sua immediata confinante (1). Da loro parte il Boucicaut e Benedetto XIII, rivolti ad attuare i grandi progetti tanto bene incamminati, sentivano la probabilità di una tempesta scatenata da quel di Napoli, vedevano !il Pontefice di Roma ed i suoi aderenti unirsi, e Venezia, avversata dal maresciallo, e gli altri scontenti dell espansione francese accorrere ad ingrossare le file avversarie procurando la rovina degli architettati edifici! E Firenze non avrebbe ceduto alle segrete simpatie iper Ladislao? L’acquisto invece dell amicizia di Firenze, che pur veniva incontro sorridendo Cn e kracc*a. tese, non sarebbe stato la salvezza ed il contrappeso alle forze nemiche? La conservazioue della libertà di iPisa davanti a problemi si formidabili passò in seconda linea, e la situazione perso-naie di Gabriello Maria Visconti insieme all’autonomia di quei territori che signoreggiava apparvero il prezzo dell’alleanza o — ameno — della neutralità fiorentina. i ^ °CChl Benedetto piccola cosa era l’essere riconosciuto legittimo pontefice dai Pisani soltanto, SI Bouoicaut invece avrebbe preterato al cederlo imporre la diretta sovranità di Francia sul prin-ifPato ^sconteo, ma comprese che il sacrificio era necessario, perciò 1 uno e 1 altro di conserva iniziarono l’opera che doveva, secondo i loro pensieri, decidere Gabriello Maria, a cedere 5 diritti sulla sua parte di eredita paterna. Gino Capponi fece ritorno jn patria con rassicurazioni. 1 °n PJT j ™U°ria, * ks0Ìar Passare co'i indugi l’opportu-a i*i e V r- g Albizi 3 tlattare con il Visconti, del ■rfun* ti Γ* I an"!01ZIa· Come ,venne a risapersi tra la popolazione pisana del colloquio, si sparse la voce che la città stava per essere venduta ai Fiorentini suscitando vivo fermento. Nonostante le assi -curaziom m contrario del principe, le quali dovettero essere veritiere, co a certaT ΤΓ ^ H Papato, sembrò k cosa certa Le fazioni si riconciliarono davanti al pericolo comune e mossero ad abbattere la Signoria viscontea. comune, e scris^;1^vT qUac'J° -la S°7cietà commerciale dei Ricci Xnesa l 7 c Wreie h ™VÌtà da Pixa- Madonna vÌ Zroιΐ SereZZTa- La citt“della si tiene anchora Vieha molto che Τΐΐ° ^ T ^ ddla terra- Sarà forse più brigha molto che altri non si chrede. Dio riposi tutto in paco. Riu- (1) N. Valois, 412-13. f Renato Piattoli sdito a fuggire dalla cittadella assediata, appena giunto a Sarzana, in luogo sicuro, il Visconti, disperato di ritornare vittorioso con mezzi propri là
  • i autorizzato a rispondere in tal guisa dovette aver fiducia in qualche promessa del Boucicaut di mantenerlo alla Signoria della citta ereditata, promessa fattagli affinchè più volentieri annuisse a sottoscrivere il documento che segnava il trapasso dei diritti sul suo dominio. Allora i me desiimi incaricati sottoposero le loro offerte al Governatole di Genova, il quale, passando sopra ai propri desideri ed a quelli del Visconti, non le rigettò. A Sarzana si svolsero le discussioni intorno alla somma che Firenze avrebbe dovuto sborsare ed alle altre clausole del trattato. Il Capponi, Benedetto Fortini e Niccolò Barbadori avevano una grande premura di concludere il mercato, tanto più che i pisani, al (I) Ossia dai genovesi, essendo stata redatta in Genova la missiva. (2) G. Morelli, 329. 220 Genova e Firenze al tramonto, ecc. veder la rocca munita di armigeri alle dipendenze del Boucicaut, avevano rinnovato le promesse -dii prestare ubbidienza a Benedetto XIII, mostrando di preferire ]a signoria francese alla fiorentina. Così (i ipatti con prestezza, furono decisi: Firenze avrebbe sborsato dugentomila fiorini, di cui ottantamila al Visconti ed il resto al Governatore di Genova, e sarebbe entrata in possesso di Pisa e del suo territorio, eccetto Sarzana, che il Visconti riiserbava a se stesso, e Livorno, che doveva rimanere sotto il dominio del Boucicaut. Quando il (potere della Repubblica fosse stato saldamente imposto alla città comperata ed al contado, essa era tenuta a soccorrere Francesco da Carrara venuto alle prese con li Veneziani (l). 'Per avidità di dominio il Signore dì (Padova non aveva esitato a spegnere la vita di Guglielmo della Scala, cc il quale e’ s’avea sempre allevato e tenuto come fratello » (2), e dei suoli figli, che egli stesso aveva riposto al governo di Verona. I Veneziani, già ili prima insospettiti dall’accrescersi della potenza di quel vicino, fecero divedere che non avrebbero tollerato ciò. Nel giugno del 1404· corse per Genova la voce che stavano per muovere guerra al Carrarese, e la diceria non fu priva di fondamento se il Signore per meglio difendersi cc se fidelem et obligatum Regi Francorum constituit: unde quibusdam vicibus sibi nummos Januae Gubernator mandabat » (3). L’atteggiamento del maresciallo Boucicaut va posto in relazione con gli incidenti tra genovesi e veneziani che avevano originato, accompagnato e seguito la spedizione contro il re di Cipro suscitando in Genova forte ira, la quale, per essersi col tempo sopita, non si poteva dire del tutto cessata. (4) Neppure il soccorso del Luogotenente di Carlo VI giovò molto a Francesco Novello, il quale, nel momento di cui stiamo trattando, trovatosi isolato politicamente, o, meglio, attorniato -dai nemici, era intento a vagliale le proposte di cessione del proprio dominio avanzate dal governo -di Venezia. Non tanto la sua salvezza quanto il porre nuovi ostacoli all’espansione veneziana nel retroterra stette a cuore al maresciallo quando mise come clausola a Firenze di soccorrere il vecchio e fedele alleato- In quanto a quel che concerneva la Chiesa, la Repubblica sii impegnò a non contrastare i Pisani nell’ademp;imento della promessa fatta di riconoscere come legittimo pontefice Benedetto XIII, e a to- (1, Annali pisani dì Paolo Tronci, rifusi, arricchiti di molti fatti e seguitati fino allo anno 1839 da Giuseppe Tabani, II ed., accresciuta da memorie storiche della città di Pisa, dal 1839 al 1871 scritte da Giovanni Sforza, Pisa, 1871, 220 e seg. (2) G. Morelli, 321. (3) G. STELLA, Annales Genuenses, nel XVII voi. dei Rerum Ilalicarum Scriptores del Muratori, Milano, 1730, col. 1206. (4) Cfr. R. PlATTOLI, La spedizione del maresciallo Boucicaut contro Cipro ecc. cit., 137. Renato Piattoli 221 glliere l’ubbidienza ad Innocenzo VII assumendo un’attitudine di neutralità, qualora entro sei mesi lo scisma non fosse stato risolto. (1) Sembra che poco trapelasse tra la cittadinanza genovese delle conferenze tenute a Sarzana, perchè abbiamo visto come lil 22 agosto niente si sapeva. Forse anche la conclusione definitiva fu tenuta segreta (per qualche giorno, se soltanto in una lettera scritta da Genova a Valenza da Giovanello di Giovanni fu notificato : Di nuove di Pisa e della cittadella per li fiorentini comperata sarete da ’ltry appien avixati. Eppure assai piuma, già dal dì 24, le milizie della Repubblica avevano preso la via di (Lucca per andare a prendere il possesso della cittadella di Pisa. La mattina del 30 avvenne l’occupazione, ed il giorno dopo Gino Capponi in veste di sindaco della Signoria ne prese la tenuta. « A un’ora di notte ci fu la novella, fecesene gran festa... », ricorda il Morelli (2), e invero il popolo fiorentino ebbe di che gioire; ma ancora rimaneva molto da fare per imporre la sudditanza alla città conquistata dall’oro deli mercanti e dall’intrigo dei politici, più che per il valore delle milizie e la bravura dei capitani. Ardingo dei Ricci in una lettera del 7 settembre, dopo aver ricordato come la cittadella fosse stata fornita per li fiorentini, soggiunse: Sarà forse più lun-gha chosa altri non si chrede. Che seghuirà saprete. Ed il seguito degli avvenimenti dovette suonare sgradevolmente ad orecchie fiorentine. Ivi inoltre il Ricci annunciò che il Signore di Padova, saputo l’acquisto dii Pisa e la clausola del trattato, sicuro di essere soccorso dagli antichi alleati, aveva rigettato le proposte e, rotto 1 indugio, riprese le ostilità; e...si dice quelo di Padoa à dato rotta a \ iniziarli. Se è vero, anchora si potrebe riavere. La vittoria rispondeva più ai desideri ed ai voti che alla realtà dei fatti. * * * De’ fatti di Pisa arete sentito quanto seghuko nè. Ultimamente e’ pisani ebono la cittadella, e ànnola disfatta. Vorebesi impicchare chi v’era dentro pe5 fiorentini. E ’l canpo de9 fiorentini e’ ingrosa ongni giorno di giente a piè e chavallo, che ultimamente dovrà veni-re sotto il vero sengnio. Aprestine Idio che me9 (3) debbi esere. Che seghuirà saprete. Ecco le informazioni che la compagnia mercantile in Genova dei fiorentini Tomaso e Bartolomeo (4) inviò il 15 settembre 1405 al fondaco datiniano di Valenza. L’ira che infiammò il popolo di Pisa sdegnato per essere venduto come un campo o un cavallo, la disperazione causata dal pensiero di dover, dopo tante lotte, cadere sotto il tallone di chi più odiava, (1·) N. Vai.ois, 414 e segg. (21) Cronica cit., 329-30. (3) Meglio. (4) Al proposito cfr. R. PlATTOLI, La novella del convegno di Savona cit., 225. 999 Genova e Firenze al tramonto, ecc. gli atti diretti a provocare dei Fiorentini e delle loro milizie occupanti la cittadella, lo fecero insorgere in arme, deciso a vendere a caro prezzo, a prezzo di sangue, la propria libertà. Stretta di vigoroso assedio la rocca, coloro che la difendevano, per inettitudine o codardia, disperarono di poterla conservare, e nella notte del 6 settembre, durante un fiero assalto dei pisani, si arresero. La notizia, giunta in breve tempo a Firenze, « fu scura e spiacevole quanto puoi comprendere, in tanto che tutti i veri fiorentini in quel punto addolorarono, e mai dimenticarono questa perdita, avendo rispetto all’onore, e mai si dimenticherà se non quando fia fatta la vendetta compatente, e quella fia nell acquisto di Pisa »: le parole del Morelli (1) sono bastantemente ciliare di per se stesse. Senza indugiare, che ogni tergiversazione equivaleva ad un maggior rafforzamento degli avversari, la Signoria lanciò le sue truppe in gran numero all’assedio di Pisa. Lo stesso 15 settembre la compagnia dei Ricci scrisse da Genova: De fatti rii Pixa non sa piamo che dirti. I fiorentini seghuono pure la ’ ripresa e gente assai v’ànno intorno, e tutto dì ve ne va di nuovo. Jnanzi tratto ci chonsumerrcmo di denari, poi sarà che Dio vorrà. Allora al fondaco di Valenza del Datini era addetto Cristofano di Bartolo da Barberino: a lui era rivolta la lettera; per lui pure, di lì a quattro giorni, in Firenze, Domenico di Cambio, pure socio di Francesco di Marco, redasse una lettera, dove riepilogò gli ultimi avvenimenti ed espresse pareri simili a quelli del Ricci (2): Avrai sentito chôme il nostro chomune chomperò Pisa dal singnore 206 migliaia di fior., e Bucichaldo ne fue mezano, che ne tochava buona parte...; ricordando poi la perdita della cittadella, e in ciò mostrava dj accettare 1 opinione popolare che la attribuiva a corruzione di chi eravi per difenderla, falsamente (3): A verno la cittadella e tenemola 8 parecchi traditori da Firenze la venderono a' Pisani 5 migliaia di fior., rii. che parecchi traditori da Firenze la venderono a? pisani 5 migliaia di fior.: di che per questa chagione ci chonviene venire in briglia cholloro. È vero che noi t en gimmo Livorno e I chastello presso a Pisa a 5 migla chessi chiama Ripafatta (4) in sul chamino che va a Luccha. Questa guera ci chosterà di molti danari. Di que9 ladri traditori del nostro chomune, Idio gle ne paghi. Che seguirà te Traviserò. Per ora no mi stendo in più dire. Idio ti guardi. Per aver agito con leggerezza e senza energia, una triste prospettiva di sacrifici e di uomini e di oro si apriva per Firenze, ma non vi dettero eccessivo peso i governanti, giacche in quel momento si decidevano i destini della repubblica per i secoli a venire. (1) Cronica cit., 331. (2) ARCHIVIO Datini, cart. 1110; i pass; invece che seguiranno sono stati iicavati da lettere della solita cart. 993. (3) Che la voce giungesse fino a Genova, lo dà a divedere il brano riportato all'inizio del paragrafo; del resto fu la prima a divulgarsi. ( 4) Ripafratta. Renato Piattoli 223 Con oculatezza e forza bisognava agire per porre un argine ai perniciosi effetti -dii un istante di fiacca, di conseguenza non vennero accolte le richieste di pace e le concessioni offerte dai Pisani. Al proposito troviamo lin una lettera della compagnia di Ardingo dei Ricci, del 22 settembre: L9utima (1 ) da Firenze de9 dì 17. Per da Barzalona arete delle vostre (2) e sarete da’ vostri avisati di quanto bisogna (3). Anbascadori pisani v9 erano, e sentiamo subito furono spacc[i]ati. Egli ànno il chanpo intorno ». Secondo loro, le avventure sarebbero durate, « einanzi tratto le borze nostre il servtirano. Provegha Idio a quello ci bisogna. Quel giorno medesimo l’altra compagnia in Genova di Tomaso e Bartolomeo si mostrò meglio informata, dato che scrisse: E9 fatti dì Pisa passano all9usato. Giente piove ongni giorno al can-])o de9 fiorentini. Sianosi preso a Pisa da 4 a 8 miglia. A Firenze e ito imbasciata da Pisa 6 di maggiori cittadini vi sieno. Per ancho non ci è che abbino fatto nulla. Che seghuirà saprete. A prestine Iddio che me9 debbi esere per la nostra città. Saprete che seghuirà. Precisi ragguagli intorno al procedere delle ostilità ed al risultato dell ambascia-ta pisana questi scriventi dettero il 28 settembre: Qui non è di nuovo da 9lchuna parte. E9 fatti di Pisa passano all9usato. Il canpo nostro è presso alla terra a 2 in 3 miglici, e tutto dì sono sulle porti. Anba-sciadori pisani andarono a Firenze. Pensiamo andasono per fare aclior-(lo; di che pensiamo aranno pocho onore, perchè a Firenze s9è presa cho9 denti per modo che non sarà forse mai ghuerra tra9 pisani e noi. Or piaccia a Dio di prestarne che me debbi esere per la nostra chomunità. Saprete continolo che di nuovo ne fia. La lettera non partì subito, perciò ivi furono fatte delle aggiunte, di cui eccone una: Adì primo d9ottobre. E di nuovo non ci è da 9lchuna parte. Gl an-basciadori pisani che andarono a Firenze si tornarono con pocho fare. .Se potranno volare, ci paiono atti a uscire degli artigli a marzocho, altrimenti non. Saprete che seghuirà. Con la cessazione delle trattative fu preclusa ogni via alla pace e la guerra prese a divampare decisamente. . Una delle conseguenze della perdita della cittadella di Pisa, subita da Firenze, fu il tracollo delle speranze di rivincita sui Veneziani, che Francesco da Carrara fino ad allora aveva nutrito. Tuttavia quel-l’animoso, col coraggio della disperazione, continuò a combattere fino a che, abbandonato dagli alleati, tradito dai sudditi, dovette arrendersi. In una lettera della società di Ardingo Ricci cominciata a stendere il 24 novembre assistiamo al primo giungere in Genova della novella non buona che unì nel cordoglio e nel sincero rimpianto gli animi dei genovesi e dei fiorentini: A dì 27 siamo, ed ècci chôme i viniziani son pure venuti alla loro de9 fatti di Padoa, chè l ànno auta (1 ) Sottinteso: lettera ricevuta. (2) Sottinteso: lettere. (3) Anche a Barcellona esisteva un fondaco appartenente a F. Datini. Genova e Firenze al tramonto, ecc. e preso il signore. In che modo non sopiamo aneli or a, ma a tutte gente ne nchresce, perch era valente signore. È chosì va di ghuerra. Dio metta buona pace per tutto »(l). OLo spodestato principe, fidando nella lealtà dei rettori della repubblica veneziana, con i figli si recò ai loro cospetto a richiederli di quanto il vinto può sperare -dalla misericordia -del vincitore. Sulla sua sorte varie voci, alla metà di dicembre, circolarono in Genova, e nella maggior parte ottimistiche: alla peggjio, dicevasi che sarebbe stato confinato perpetuamente a Candia; dopo ipochi giorni però giunse alla conoscenza di tutti la sentenza emanata dal Gran consiglio, che condannò il Carrarese ed i figli all’eterna prigione, preludio alla loro scomparsa dal mondo, che in breve seguì per mezzo del veleno. (2) * * * La conquista di (Pisa da iparte di Firenze rappresentava nei risultati finali una inestimabile perdita per la prosperità economica di Ge-no\a. Essa avrebbe visto allontanarsi molti dei mercanti che vi avevano preso stanza, le merci non vi avrebbero più fatto scalo, le navi di altri nazioni o di centri marittimi rivali le avrebbero tolto l’esclusività nel trasporto per conto dei Fiorentini. Questi invece, traspor- lo Nella medesima lettera si davano anche altre notizie politiche: Ed ècci chôme il char-d in al e di Bologna à fatto tagliare la testa ’ Astore da Facenza. Peggio meritava... E più oltre: E non c e altro di nuovo. I fatti di Pixa bene stano fredi: quello nostro chapitano dorme... Del malumore sorto in Firenze contro il conte Bertoldo Orsini, stipendiato per capitanare l’assedio di Pisa, parla una lettera del 15 die. della detta compagnia: All’usato si stano i fatti di Pisa. Dovranno pure sbozzachire in qualche modo. Quello nostro chapitano v’è intorno, chominca ’ avere a Firenze mala boce, e chrediamo si provedrano di un altro. Gente d’arme andava a soldo de’ pisani è stata rotta in quello di Siena a posta de’ fiorentini. Saprete che seghuirà. In altra del 5 gennaio 1406 gli scriventi della precedente inviarono particolari sulla sconfìtta dei pisani: Tosto si vedrà chôme debon ire i fatti di Pixa. Una ghrande speranza anno perduto ora i pisani, c aspettavano da 800 chaValli e fanti a piè, ed erano per passare e tutti sono stati rotti e presi in su chonfini tra noi e’ Sanesi da nostra gente; e questo fu a dì 14 di dicenbre, eh’è una buona nuova. Siatene avisati. (2) Due lettere del 15 die. si occupano di questi avvenimenti. L’una fu scritta dalla compagnia di Giovannello di Giovanni, altro commerciante fiorentino in Genova: De’ fatti di Pisa non ci e di nuovo. Porci le chose dormano. Fosse tosto quella debba! Son forte per mare e per terra stretti, per modo che se altro socorso ci veg(i)amo non anno, pure qualche volta sen dovrà vedere il fine, che Dio Voglia buono per lo nostro comune. El signore di Padoa perdè tmto, ed è a Vinegia in prigione. Troppo n’è gran danno. Idio i dia a portare in pacie. Alxì li 2 suo’ figli vi sono in prigione a Vinesia. La seconda dalla compagnia di Tomaso e Bartolomeo: Sentito arete chôme i viniziani ebono Padoa, e il singnore con 2 figliuoli è a Vinegia. Starano all’amicizia) della Singnoria. Crediamo lo manderanno in Lanata. Idio, che può, l’aiuti. f“tH di P,'isa fiassan° oll’uxato. Porci la cosa fia lungha a far più non vorremo. Apresti(ne 1 io) che meglio debbi esere per nostra città. La stessa società in una sua del 21 die. scrisse: Sentito arete chôme i viniziani presono Padoa, e il singnore andò con due figliuoli a Vinegia a domandare perdono alla Singnoria. ’Annogliela fatto, che lui chon anbo i figli ànno danaio m perpetua carciere. Gran pechaio n’è, e gran crudeltà ànno fatto. Idio, che può. l’aiuti. ratti di Pisa pasano al’uxato, e porci si farò pocho in questo verno. A prestine Iddio che meglio debbi esere Per lo nostro chomunità. Che seghuirà saprete. Cfr., nota 2a a pag. 228. Renato Piattoli laudo in Pisa assoggettata tutto il loro fervore affaristico, l’avrebbero spinta a risorgere; essi stessi si sarebbero forniti una marina propria. Dii qui »il vivissimo timore nel ceto corninerdiale genovese che causò a Firenze tanti inciampi, quando alla corte di Francia i suoi ambasciatori trattavano per l’ultima sorte di Pisa venuta in potere del bastardo di Gian Galeazzo Visconti. Ciò in grandi linee: ma, scendendo a un caso più particolare, è innegabile un’influenza immediata della guerra intorno a Pisa sul commercio della Liguria, se -il 1 settembre 1405, quando le ostilità erano appena agli inizi, la compagnia di Ar-dingo dei Ricci potè confidare al fondato datiniano di Valenza: Tuite cose qui a uso e sanza nessuna richiesta. Questi fatti di Pixa e di Lonbardia tenghono intorbidato tutto. Dio n adrizzi. Bisogna aggiungere che due navi armate dai pisani per la difesa di Bocca d’Arno danneggiavano il traffico marittimo genovese, per quanto esse mirassero, nelle loro rapine, alle merci di Firenze. Di necessità, durante il periodo bellico, i {Fiorentini, nonostante ogni desiderio iin contrario, erano tornati a far porto a Genova. Di qui inviavano i prodotti agli scali dii Piombino e Talamone, i quali, soltanto in parte, date le agevolazioni doganali offerte, erano in grado di sostituire i vantaggi di Pisa, e d-i Livorno che non era stato compreso nel trattato di vendita e di cui erasi loro concesso il libero uso. Livorno, rimasto sotto la sovranità del Governatore di Genova, era già allora un centro di notevole importanza, evuna maggiore stava per assumerne persistendo le cause fisiche che determinarono il lento interramento di Porto pisano. Ai Genovesi premeva che le merci fossero imbarcate o scaricate a Livorno, poiché il territorio era sottoposto alla loro giurisdizione : e così ai fiorentini, per la minor distanza dalla metropoli rispetto ai porti maremmani. Motroue era infatti impraticato perdurando la proibizione fatta dalla Signoria ai suoi mercanti di usarlo, al fine (li punire Paolo Guinigi della propria ingordigia. Ma le vie del mare che conducevano a Livorno erano pericolose, perciò i mercanti interessati spesse volte praticarono un sotterfugio, come anche in altri casi simili, compiendo la spedizione jjn nome di un altro, verso cui non sussistessero le ragioni di ostilità, nel caso nostro del nome di un catalano (1). E che i timori che indussero a seguire quel sistema fossero ben fondati, sta a dimostrarcelo una lettera del 19 ottobre, dove Ardingo Ricci ricordò una comune iattura ai fattori di Francesco di Marco risiedenti a Valenza: In (2) Vilardello vi si dise chôme fu preso a Livorno da ghalea e ghaleotta di pisani e levatoli le vostre e nostre lane. Chesse ne sia poi seghuito non sapiamo. Elle sono in nome (1) 3fr. R. PlATTOLI, Un mercante del Trecento e gli artisti del tempo suo, nella Rivista d A~ter XI, 1923, 243-44. (2) Nella lingua catalana In (pronunzia En) equivale al nostro signore. Genova e Firenze al tramonto, ecc. e segno (1 ) di chatelani. Proveghino que9 vostri di Maiolicha selle po-te simo riavere (2). A furia si sariano vendute ora a Firenze. Che ma-indetto sia la ghuerra! (3). Nel proscritto di una seguente lettera del 14 novembre (4) fu poi chiaramente espresso come neppure il ser-\iisi di mi prestanome avesse avuto efficacia presso i rapinatori e come le merci potessero considerarsi perdute: Le lane vostre e nostre, eh erano in sulla nave d In V ilardello, suteci tolte da9 pisani, sono in Pisa, e per noi non se ne può fare altro. O in che stagione venivano da vendelle bene! Non fu la ventura nostra. Idio ci ristori. Se avete denai i ~di Pisani, li vi tenete, che ancliora le ci manderanno insino a Firenze alle loro spese. Dio lo voglia, ma fia tosto! Solo a ruberie avvenute aprì gli occhi ÿl governo fiorentino, e, per quanto assai tardi, per evitare che ciò si ripetesse nell’avvenire, mise in mare navi armate per conto proprio per opporle ai legni dei Pisani. Noi giungiamo a conoscenza -di questo fatto attraverso una lettera del 9 novembre: Non c9è poi altro di nuovo de9 fatti di Pixa. / (rhanbachorti ne sono signori. Si può dire chredettonsi avere subito buon achordo elio Fiorentini, ed e9 no ne vogliono udire nulla. Il chanpo v9e intorno, e per mare alsì cïnno i Fiorentini la ghalea e 2 ghaleotte beni simo a punto. Chosì f ussin elle state fuori un mese fa, eh eli e vostre e nostre lane non sariano state prese. Saprete cliesseghui-rà! Le recriminazioni 11011 avevano il potere di modificare il passato, bisognava invece sperare che il rimedio arrivasse in buon punto aci impedire una qualche ripetizione di quello che lamentavasi, ed invero le navi fiorentine seppero bravamente espletare il loro compito. A pisani è stato rotto due volte gente d9arme andava a loro soldo (5}. Ora sentirete che-ila loro ghalea e ghaleotta e brigharvtino sono state prese tutte, c\_i~\oè le juste, e gl uomini scanpati in terra; e que9 Chon· ti di Mai emma sono venuti ci ubidenza del nostro Chomune, che teligli ano più chastella, sicché a questo modo si potrebono achonc[i]are le chose per noi (6). Questo fu scritto in una lettera del 23 gennaio 1406. Davanti agli altrui disastri caduti sul misero popolo -dii Pisa (?), quello della perdita delle navi da guerra dovette apparire trascurabile (1.) Ogni società mercantile aveva un proprio segno paragonabile alle odierne marche di fabbrica. (2) Anche a Maiorca F. Datini aveva impiantato un fondaco. (3) E più oltre: Non ce poi altro di nuovo de' fatti di Pixa. Gente assai ànno intorno. Chosì non deono potere durare. Saprete che fia. (4) Nella parie che precede il proscritto trovansi notizie sulle trattative di pace riprese dai pisani : De fatti di Pira non cè altro di nuovo. I Ghanbacorti ne sono signori. Avieno mandato per salvcchondotto a Firenze per II1P anbasciadori e anchora noll’avieno potuto avere, che da Firenze al tutto vogliono Pixa. Piaccia a Dio venghi loro fatto e tosto. Saprete che seghuirà. (5) Cfr. nota la alla pag. 224. (6) I Conti di Montescudaio. (7) Come da quanto sopra, e da una lettera del 3 ottobre 1405, che poi oltre ricorderemo (Fucci lettere e nuove da Lucha sino a dì 27 per lettere fatte là a dì 25 che a Pisa era auto ed eravi romore, il popolo in arme, e aveano tagliato la testa a 3, cioè a Giovanni dell'A n-gmello e Ntcolò Benetti e un altro, e vuoisi dire che i Ghanbacorti se ne sieno fatti singnori col- 227 od al più da farne poco conto. Allo stesso modo, la vittoria del navigio armato dei Fiorentini, se pure fu una novella buona e gradita, non dovette risultar tale da far credere che per ciò le condizioni generali del traffico ne riuscissero avvantaggiale. Le rapine potevano disturbarlo, ma non creare una situazione sfavorevole di per se stesse. Eppure vi è una lettera dell’8 dicembre 1405 ( 1 ), cjie ni indica il sussistere di un fenomeno economico, l’accentrarsi a Venezia dell attività affaristica ai danni di Genova, principalmente, e di Firenze. Fu allora che Ardingo dei Ricci scrisse al fondaco datiniano di Λ alenza. in definitiva a Cristofano da Barberino che vi era a capo: Abian visto quanto dite del buon profitto à fatto da un pezzo in qua chi uoi ministri che avevano temuto volesse porre a Genova il suo quartier generale. È vero che poco «dopo fu richiamato per iniziativa del Revel, ma è anche vero che ben altri problemi c minaccie urgevano in quel momento per l'avventuroso ritorno di Napoleone e per la spedizione muratiiana verso I Italia centrale. E poi il Re non era allora a Genova e per di più, avendo il Bentinck fatto presentare <1 i sua iniziativa al \ alleva, d ii rappresentante britannico a Torino William Hill, insistenti richieste di urgenti riforme costituzionali, senza che il gabinetto di Londra ne sape-se nulla, fu appunto l’azione diplomatica del \ al lesa che provocò il richiamo del Bentinck, persona molesta e pericolosa, dal comando del Mediterraneo (1). Dopo di che rappresentare il tenace lord britannico e il testardo re piemontese come due compari seduti al medesimo tavolo a trafficare a suono di sacchetti fii sterline l'indipendenza di Genova e storicamente e psicologicamente inesatto ed eccessivo: per lo meno Kartista ha scelto male il simbolo del mercante britannico. E non deve essere taciuto un altro fatto che torna ad onore «lei Bentinck e rivelandone la dirittura contribuisce ari escludere ogni sua partecipazione al famoso mercato. Quando sul principio del b. avvenuta la cessione di Genova, il Re gli offrì il ("oliare dell Vnntin-ziata. egli rispose da Firenze chiedendo una dilazione. « Sono indotto — diceva — a far questa dimanda da un nuovo, for*e scrupoloso, riguardo al mio proprio carattere e situazione. Può sembrare che quest’avvenimento, coincidendo colla occasione della riu-nion«* dello Sialo di Genova ai domini del Re di Sardegna, possa essere connesso a tale transazione e riferirai a qualche parie che io vi posso aver pre^o, conlraria all'indipendenza di quello Stato. Ora. siccome al tempo della cessione io diedi quelle disposizioni che credei più conformi ai desideri ed agli interemi di quel popolo, rosi desidero eh e una parte della mia condotta non comparisca conlraria all’altra. Desidero d’essere considerato, come in parte lo *0110, estraneo al cambiamento delerminalo dal Congresso n (2). Teorico e ideologo il Lord inglese, ma non trafficante; e il quadro, se intende veramente di raffigurarlo, lo calunnia. Il Beli- li) Ibid.. pa*. »5 ·** . e àoe XXXIV. LVI. (J) Il Bentmck al Valle», da FifcuK. 7 febbraio ISIS; StflK. pag. 17. η. I. Genova, Piemonte e Inghilterra nel 1814-15 241 tinck e Re \ ittorio, che dopo il 1815 non ebbero più occasione di trattare insieme, non si sono mai trovati intorno a un tavolo a vendere e comprare chicchessia. Ma può essere che la pittura rappresenti simbolicamente e iro-nicamente una situazione di fatto pur raffigurata in chi non vi abbia avuto parte personalmente. Rappresenta una persuasione, certo; ma un fatto realei Le ragioni sentimentali e di tradizioni diffuse hanno un indubbia importanza come elementi di giudizio, ma non sempre offrono un reale4 valore probatorio. Se così fosse^ per citare i primi esempi che soccorrono alla memoria, sebbene non abbiano con questo fatto alcun rapporto, bisognerebbe continuare a dire che Jacopo luiffini è stato vittiina delle delazioni di G. B. Castagnino, le quali, come le deposizioni processuali dimostrano, non soiio mai esistite; o ehe Goffredo Mameli si trovò nel 1848 a certi fatti d’arme proprio nel momento in cui inoppugnabili documenti lo dimostrano altrove. Qui però il mercato (e si insiste che ci si riferisce non al mercato politico ma al finanziario) sarebbe comprovato dalla pressione fiscale degli anni successivi e da affermazioni di storici posteriori. La pressione ci fu c grave e corrispondente a una dolorosa crisi generale e causa a sua volta di un più acuto malessere nella vita economica genovese: ma questo non prova ancora che il maggior peso delle imposizioni fosse conseguenza di un patto tra due Potenze mercanteggiatiti a suoli di sterline 1 antica Repubblica, anche se a Genova lo si poteva credere C1). E giova non dimenticare che in quegli anni, «lai 181 , al 1825, fu ministro delle finanze proprio Gian < -arlo Brignolc, reazionario e fattosi devotissimo della nuova monarchia. ma genovese e membro del Governo provvisorio dell’ultima Repubblica: come pensare che di fronte a un mercato ignominioso o anche soltanto alle sue conseguenze economiche non sentisse il disagio della propria situazione e il bisogno almeno di scindere la propria responsabilità mettendosi da parte? h quanto agli storici addotti a testimonianza, il Montvérand scrive^ nel 1819 e il Bignon nel 1850; e il più lontano dagli avvenimenti c quello clic ha il più chiaro accenno, impreciso tuttavia e suppositizio. L uno >i riferisce alla controversia che ancora si dihat-tc\a per la valutazione del materiale di artiglieria ceduto e in parto trasportato dagl Inglesi (ma allora dove se ne va lo scambio già avvenuto dei famosi sacchetti d oro e il romanzesco racconto della nave clic veniva di notte ad imbarcarli?) e l'altro al rimborso dei Mi**idi pagati dall Inghilterra nella prima guerra contro la Francia, prima cioè dell*avvento di Vittorio Emanuele; ma, quel ehe è curioso. non parla invece di rimborso dei sussidi effettivamente otte- I) Per 1 accrescimento dei t'ibuti locali del 1815 no certamente ; lo escludono perentoriamente i documenti citati dal Sten pag. 98, n.3. 242 liuti nel 1815. « Una convenzione firmata a Londra, assicurava all'Inghilterra prima di tutto trenta milioni pei sussidi forniti alla Sardegna nella prima guerra della Rivoluzione e poi una somma considerevole di cui l’ammontare è rimasto sconosciuto, ma che non può non essere se non un’indennità pretesa dall’Inghilterra per lo Stato di Genova conquistato e ceduto per opera sua ». E più oltre: « Pare ancora che il prodotto delle imposte levate sul nuovo Stato fosse destinato, per una specie di privilegio, al pagamento della indennità di cui parliamo ». Non può non essere se non... Pare che... Non si potrà negare che questa è una forma molto malsicura e indeterminata di affermare un fatto storico; e d’altra parte una convenzione finanziaria firmata tra due Stati non è un fatto aereo ma cosa di cui deve essere rimasta qualche traccia, sia pure nella parte più recondita degli archivi; e, a oltre un secolo di distanza, non ri dovrebbe essere difficoltà a rintracciarla quando realmente esistesse. In attesa, gli acuti ragionamenti e i sottili accostamenti possono essere fonte ili meravigliato compiacimento e di gaudio intellettuale, ma lasciano, come efficacia persuasiva, alquanto j>erplessi. Con che non si vuol dire — non occorre insistervi — che i Genovesi siano stati felici dell’unione al Piemonte, che non abbiano pagato profumatamente le spese ddl'occupazione inglese o che non siano stati soggetti dopo l’annessione a un sistema fiscale oneroso e vessatorio. Si vuol dire solamente che se Genova ha perduto la sua indipendenza anche per effetto dell’egoistico interesse politico inglesi· — e le ragioni sono notissime — non mi sembra dimostrato che sia stata anche oggetto di un reale e preciso mercato finanziario; che il quadro del Guasconi, importantissimo documento storico nel mio significato psicologico, come espressione di uno stato d animo risentito e deluso, mentre non può essere, a cosi dire, interpretato letteralmente, anche preso nel suo valore simbolico non mi pare spieghi e illustri e sia a sua volta illustrato dalle parole dei due storici francesi; che perciò la rivelazione della quale parla il Borei (pag. 138 segg.), a mio modesto avviso, per quanto ingegnosa non c persuasiva ed ha almeno bisogno di ulteriore c più sicura dimostrazione e documentazione. Viro Vitale. LE IMPOSTE SUL COMMERCIO GENOVESE DURANTE LA GESTIONE DEL BANCO DI 5. GIORGIO (Continuazione) Ormai si vede che gli stessi commercianti ed armatori governano le imposte sui loro affari e quindi dovranno ritenerle come parte integrante ed essenziale della loro operosità. La creazione di tasse commerciali durante il periodo del maresciallo Buccicaldo è-improntata a rilievi che somigliano ad un contributo generale gravante sui fonti di affari più lucrosi: l'introduzione del grano, le senserie, i cambi. Neppure a traverso le vicende e il sangue versato nei secoli e con Pinstaurazione di governi popolari si può vedere alterata la fusione originaria tra la ricchezza dei privati e i mezzi pubblici per rappresentarla e amministrarla. Con la creazione della compera Venetorum del 1350 i creditori del comune, comi* abbiamo d'etto, assumono la proprietà c la guida di quasi tutte le gabelle che riguardavano il traffico. Da Buccicaldo in poi son abbiamo più nuove gabelle, e non abbiamo più l’ina-sprimento di singole gabelle, ma già, da prima, un sistema si accenna, che, poi, diventerà regolare. Si decreta un aumento generale con una percentuale di aggravio specialmente su voci che hanno un fondamento collettivo, di maggiore confluenza di affari: i carati del mare, i pedaggi: e. in pari tempo si tenta di unificare le tasse, come si renderà unica la sede del debito pubblico nella sua amministrazione. Un secondo prestito di 125.000 fiorini per la guerra di Venezia, nel 1379, importa pel pagamento degli interessi e ramniortamento una pressione aggravata sul vino e le carni fresche: ma il 5 aprile 1357, in occasione della guerra con i •'atalani, un mutuo di 75.000 lire fu coperto con Pimposizione di uno per cento generale; e Simone Boccancgra, il 23 settembre 1364, per Pini-presa di Finale, al mutuo di 02.000 fiorini fece corrispondere un’altra imposta generale delPuno per cento. Nel 1378 VOfficium monete, ancora per la guerra di Venezia, aggrava, in vece, la tassa sulla sedia per il mutuo di 70.000 lire; il doge Nicola de Guarcho aumenta il dazio sulla rivendita del vino (super tabernis) a causa del prestito occorrente per dieci galee, aggiunto alle compere capituli. La pace di Finale è a danno 244 Raffaele di Tucci dettila ripagrossa: inasprimento -di tariffe per il mutuo di 120.000 fiorini all’8%. Ma, col 1380, la preferenza è quasi costante verso imposte generali: 1% sui carati, nel 1380, 3 gennaio, per le ribellioni in riviera orientale; una additio seu salsa di altro 1% super cabellis, il 18 novembre dello stesso anno, per compere, rispettivamente, in 110.000 e 60.000 fiorini. E allora, il 13 marzo 1381, i creditori sentirono il bisogno di una fiducia più serena nell’esistenza dei loro cespiti di garanzia e di rimborso, e domandarono ed ottennero che le gabelle non potevano essere nè abolite, e non potevano essere estinte se non con le forme determinate nel decreto, cioè, parallelamente con le compere alle quali facevano finanziariamente riscontro. Non più, dunque, una connessione pratica tra un modo e l’altro di impiego del danaro, ma una confessione palese e decretata che ormai la gabella era un fondo unico cod mutuo garantito. Ed è per ciò che, a cominciare dalla sua stessa organizzazione, il Banco di San Giorgio, insieme con i luoghi delle compere emesse col 10 e con P8%, accentrò le gabelle, in prima linea quelle, più numerose, incluse nelle nuove compere di S. Paolo, che traevano il monopolio del sale e le tasse commerciali più importanti. Il contratto di consolidazione daU’11 luglio 1539, col quale furono definitivamente trasferite nel Banco di S. Giorgio settantadue gabelle, segna il punto culminante del lungo processo di assorbimento dei proventi comunali nell’orbita di una gestione collettiva. Il Banco di S. Giorgio è la coordinazione e l’assestamento del debito pubblico, l’amministrazione delle pubbliche entrate, e, sopratutto, il luogo di riferimento e di equilibrio tra la ricchezza, l’ammirabile centro nel quale, con una protezione officiale, si rassoda e si slimola il commercio regionale. Dall’alto medio evo al 1539 il connettivo della finanza genovese, creato dalle famiglie consolari sotto il primo agglomerarsi delle compagne, si dispone nel Banco di S. Giorgio come nella logica stabilità di premesse che nessun rivolgimento politico era riuscito a rovesciare (l). Sarebbe incompleta la rappresentazione del Banco di S. Giorgio come un istituto nuovo destinato ad unificare ed assestare i titoli del debito pubblico. Il Banco si sarebbe limitato a ciò che avrebbe potuto eseguire un consorzio dei banchi cittadini. E’ che, invece^ in questa istituzione nuova non penetra che la conseguenza di un enorme giro di affari il cui stimolo di propulsione non si trova nello Stato, ma nei privati: per effetto dell’emissione delle compere, i possessori dei luoghi non erano semplici creditori dello stato, ma erano diventati proprietarii di una frazione di tasse corrispondente al valore del luogo. Occorreva disciplinare sopratutto questa situazione, che si rifletteva intensamente sulla vita commerciale della regione. Ecco, pertanto, che con l’accentramento della gestione dei titoli di stato, seguiva (1) Il testo del contratto del 1539 è riportato dal Sveking, cit. II, pag. 316 e segg. Le Imposte sul Commercio Genovese durante la Gestione, ecc. 245 quello della gestione delle imposte, e, indirettamente, il controllo, se non la guida, in principio, ma, in seguito, certamente, su tutte le forme di attività finanziaria della regione. Il Machiavelli chiama S. Giorgio uno stato nello stato. Se avesse dato alla costituzione genovese uno sguardo dell’acume consueto, non avrebbe esitato a definirlo lo stato genovese, perchè, in ogni tempo, la Superba è stata meno una repubblica politica che una repubblica commerciale: e san Giorgio senza mai distinguersi nettamente dalla Repubblica in pratica, in aspetto non era che una banca nella quale ogni affare, anche minuto, trovava una considerazione ponderata e attenta. La Relatione 'di Genova (1) , preziosa e coraggiosa esposizione a-nonima dello stato e del governo genovese del seicento, al cap. 69, ha queste significative parole, che giova leggere. « Io ho più volte detto che S. Giorgio a chi ben dritto stima non è altrimenti come da alcuni politici c- stato affermato, dentro alle mura di Genova, una seconda repubblica dei che adducendone la ragione prima dimostrerò che S. Giorgio è membro della Repubblica Genovese, e poi che egli non ha le parti che formano una repubblica. E quanto al primo capo li otto Protettori, primo magistrato delle compere di S. Giorgio Concorrevano nelle leggi del 1547 all’elezione dei Senatori e Procuratori della Repubblica, erano dunque magistrato di detta Repubblica anchora e parte di lei, altrimenti si potrebbe formare una repubblica de magistrati che non fossero suoi o vero i magistrati di una repubblica ne governerebbero un’altra diversa. Oltre a ciò li detti Protettori dii S. Giorgio e li altri suoi magistrati non possono essere se non con questa medesima qualità de magistrati della Repubblica cioè che siano, come abbiamo detto gentiluomini genovesi scritti al libro della nobiltà, il che dimostra vero che* San Giorgio non sia cosa tanto separata dalla Repubblica che possa da per se stessa formarne un'altra, al che parmi di aggiongere che S. Giorgio è stato forzato di alterare li ordini suoi con l’alterazione di quelli della Repubblica sono dunque quanto alla politica una cosa stessa.... Adunque è cosa certa che San Giorgio è parte della Repubblica o almeno che è tanto mescolato seco che non si può in neuna guisa chiamar separato, che| basti da se stessa a formare un’altra repubblica ». Al contratto del 1539 Repubblica e Banco di S. Giorgio erano giunti a traverso un’esperienza graduale: parzialmente, o per rispetto al numero delle tasse o per rispetto alla durata della concessione, il Banco dal 1408 aveva amministrato gabelle, ne aveva percepito il gettito, ne aveva versato la quota spettante alla Serenissima. La gestione gabellaria era penetrata ormai nel congegno delle compere e dei luoghi, e cioè si era (1) L’originale nella biblioteca dei marchesi Durazzo: copia in A. S. G. Ms. n. 117, fol. 41 e segg. 246 Raffaele di Tucci trasformala in un interesse del Banco, non solo, ma si era pure frazionata negli interessi di tutti quei privati che erano legati al Banco per ragioni dei luoghi. In fondo, in che cosa consisteva la novità? Forse è difficile dirlo in parole brevi, come dovremmo far noi, ma non è affatto difficile capirlo. Qui dobbiamo richiamare concetti ai quali più volte abbiamo accennato in questa nostra esposizione. La ricchezza genovese ha un’origine ed un carattere essenzialmente privato: essa sorgersi sviluppa, si consòlida e si espande dal movimento del porto, il quale, a traverso la ferrea, implacabile politica inaugurata appena dopo la prima crociata, diventa il solo sbocco di tutta la Liguria, gli altri porti essendo subordinati e collegati al traffico di esso. Le famiglie di origine viscontile, sono quelle che predominano non solo nella formazione istituzionale del comune e della repubblica, quanto nella creazione della ricchezza, per mezzo di un monopolio dei mezzi di produzione: la marineria ed il capitale liquido. Il commercio, le navi, i ponti stessi del porto, sono nelle mani di quelle famiglie, che si costituiscono in alberghi e in portici, col nome diistintivo del gruppo originario o anche del gruppo più influente^ con la netta impronta di una vasta azienda commerciale, le cui ramificazioni si trovano in ogni punto su cui è costituito un centro di affari. Si pensi alle stazioni commerciali e bancarie degli Zaccaria in oriente, dei Giustiniani a Chio, dei Pessagno m Inghilterra, dei Durazzo a Smirne, dei Centurione a Siviglia e a Cadice, dei Lomellini a Tabarca, degli altri, dovunque fosse possibile trar partilo dagli scambi, e si vedrà che tutta la storia dell’espansione della Serenissima è la storia, quasi, di quelle potenti consorterie. Lo Stato, come tale, interveniva come una rappresentanza di esse, perchè esse medesime si avvicendavano al governo. Nelle lotte tra famiglie di secondo piano, in quelle tra guelfi e ghibellini, tranne qualche ambizione isolata, troncata nella tragedia o nello stupore, a chi guardi bene addentro, non vedrà che una guerra di interessi, conflitti economici, le cui prime radici sono in turbamenti di affari trattati anche fuori di Genova, la cui essenza alla popolazione che seguiva le parti dell’uno o dell’altro sfuggiva. Fin dalla nascita l’economia dello Stato genovese si identificava con quella delle grandi famiglie naviganti, commercianti, banchieri. Ne risente la costituzione delle classi sociali: i nobili, senza titoli nobiliari se non per le eredità e gli acquisti che posseggono fuori di Genova, ed essi sono i moriopolizzatori dei banchi, delle navi e dei moli nel porto; i negotiatores, venditori all’in groisso e al minuto di generi importati, sottoposti economicamente ai nobili, perchè ricevevano, da essi, i prodotti delTin-dustria locale e quelli che si importavano; gli artigiani, che lavoravano in opifici o in corporazioni per conto dei nobili; i nugoli di scaricatori e di venditori al minuto, viventi per il porto e sul porto. Il governo, però, che forniva una veste officiale ed un carattere Le Imposte sul Commercio Genovese durante la Gestione, ecc. 247 pubblico, al complesso e grandioso perseverare di quella tipica forma di aristocrazia, era detenuto dai nobili, che ne erano gli esponenti naturali* Vi fu incluso pure un numero di mercanti, le cui possibilità finanziarie seguivano l’ascensione e la larghezza di quelle in mano della nobiltà, ma controbilanciate da un numero pari di popolani, che rappresentavano il solo elemento estraneo in quegli aggruppamenti formidabili. L’ascrizione alla nobiltà importava l’inclusione in uno di quegli alberghi il cui tessuto connettivo era una rete di affari: ecco perchè era una grande ambizione pel cuore genovese e una fortuna non concessa con tanto frequenza. La. liberalità in questo argomento portò alla divisione fra il Portico Vecchio e il Portico Nuovo, con tutte le funeste conseguenze, perchè alla base della divisione non vi era solo la discendenza dai visconti o dalle crociate, ma il solido congegno di una casa commerciale. Non si può esaminare senza ammirazione questa millenaria fusione di singole attività indipendenti nel nome della Repubblica di Genova. Le navi di Zaccaria, di Di Negro, di Vivaldi e di Doria, come quelle di tutte le altre grandi casate, perchè la Repubblica non aveva navi, uscivano per i traffici e le corse con la croce fiammante vermiglia della Serenissima, e, se il fato o la Repubblica ordinavano, si trasformavano nelle navi delle Meloria, in quelle di Curzola, in quelle dell’aspra lotta contro marsiglesi e catalani. E così il denaro di quelle Famiglie. A traverso le avarie, a traverso il continuo prestito del Banco di S. Giorgio, la Repubblica ne prendeva: ma, per quelle case, oltre al profondo vin colo etnico, che non si smentiva mai, il danaro dato era pure la garanzia di una situazione economica collettiva di cui partecipavano tutti, nella stessa misura, per la serie di interferenze che tra famiglie e famiglie e tra queste e lo Stato si annodava in rapporti complicati. Ed anche il banchiere che negoziava all’estero sentiva il vantaggio di appoggiarsi ad una organizzazione politica di proporzioni maggiori di quelle che poteva offrire una famiglia. S. Giorgio si forma come un banco che muove- i capitali non di un albergo, ma di più alberghi. Da questo punto di vista si arriva, con esso, alla vera unità politica della città, perchè è la coordinazione di interessi più larghi. Si può dire, anzi, che esso rappresenta l’equilibrio tra l’azione finanziaria del governo e quella dei privati. Già, con la riforma del 1528, genialissimamente ideata da Andrea Doria, il governo aveva preso anch’esso una costituzione più apertamente commerciale. La protezione della Spagna significava l’ingresso di Genova nella economia iberica, rigurgitante dell’oro e dell’argento, che i galeoni scaricavano dal grande serbatoio americano, tanto più ora che Barcellona si assopiva nella decadenza. Genova sarebbe andata alla Fiera di Besan-zone con i reali da otto di Spagna, solidissima moneta, piena di eccezionali risorse in mano di finanzieri come i Pinelli e i Centurione. Non Raffaele di Tucci si a, secondo noi, che aggiungere nuova gloria al grande ammiraglio quando si ìileva che egli ha dato alla sua patria anche un campo di ««zione economica senza pari, nel momento migliore, quando cioè era caiico di metallo prezioso, impoverito nelle industrie e nell’agricoltura e assottigliato nella popolazione, per le continue emigrazioni nel nuovo mondo. La subitanea carestia dei viveri in Ispagna giovò pure ai genovesi, che, per portare derrate, ebbero pure l’opportunità di collocarsi saldamente a Cadice. Il Banco di S. Giorgio, amministrato da Protettori che potevano λ antare la più lunga preparazione commerciale, perchè, invariabilmente, quei protettori erano scelti dagli alberghi, commercializzò le gabelle. In questo rilievo è tutta la cagione delle ricerche che abbiamo compiute ed esposte in questa memoria. Durante la gestione in comune, fra Genova e gruppi viscontili, dei carati del mare e dei pedaggi, che, in sostanza formano la ossatura delle tasse sul commercio, prevaleva, nella Repubblica, un sistema che era determinato dalle numerose convenzioni politiche, sia con i nuclei delle riviere, sia con le altre nazioni. Gli appalti del secolo decimoquinto ci offrono questo quadro, desunto dalle regole dei carati del mare, come quelle che erano rivolte a disciplinare il traffico più importante, e cioè il movimento del porto e delle barriere terrestri. Lna grande distinzione era fatta tra l’importazione e l’esportazione delle merci per e da Genova, e distretto, e tra il trasporto di mercanzie su navi genovesi. Tassa generale sull’esportazione e importazione in Genova e distretto, da Corvo a Monaco e dal giogo al mare, computandosi mare territoriale fino a tre miglia dalla costa, era quella del quattro per cento, quattro lire, cioè, per ogni cento lire sul valore della merce. Questa tassa generale si spezzettava in molte eccezioni, delle quali soltanto poche formavano la hase per potervi figurare un indirizzo protezionista. L’esportazione da Genova pel distretto pagava lire due e soldi dieci; 1 oro, l’argento, le perle, le gioie di ogni fattura, la moneta, una lira e soldi cinque, eccettuato l’oro filato che si lavorava, pel quale erano fissati una lira e dieci soldi. L’importazione e l’esportazione da e per la Lombardia e per l’Allemagna era colpita, invece, da due lire e dieci soldi, purché fossero state dirette, l’una e l’altra: se invece si fosse trattato di merci che continuavano per la Francia e le Fiandre o provenivano di colà, il diritto saliva a quattro lire. Le stesse merci, per godere la tariffa più mite, dovevano seguire le strade maestre del Rossiglione, del Polcevera e di Voltri, le tre stratas magistras; se avessero mutato itinerario, incorrevano nella tariffa più alta. Importazione ed esportazione da e per la Toscana, tre per cento solo per le merci trafficate con Genova; importate ed esportate col distretto, cinque lire, otto soldi, Le Imposte sul Commercio Genovese durante la Gestione, ecc. 249 quattro denari. Importazioni dalla Sardegna, tre lire. Importazioni ed esportazioni con Gaeta, col regno di Napoli, con la Sicilia, 4 per cento; da e per tutti gli scali dell’Adriatico, compresa Venezia, si pagava come per Alessandria di Egitto, cioè il dieci per cento; lo stesso per la Romania; importazioni ed esportazioni da e per la Provenza e Barcellona, 4 per cento; e così per la Francia, le Fiandre, il Brabante, i paesi situati oltre Finisterre. I panni intessuti con oro ed argento, provenienti dalla Toscana e da Bologna, due lire in entrata, se, non mutato dominio, avessero proseguito per la Francia. I panni di lana e oro, seta e oro, fabbricati a Genova, non pagavano diritto di esportazione: quelli di lana pagavano dieci soldi per pezza se non avevano grana, venti soldi se l’avevano. Passiamo, ora, alle tasse che si volgevano al movimento di carico di merci su inavi genovesi, che facevano da vettori. Carichi provenienti calla Siria e dalla Romania diretti in Provenza, non pagavano nulla, come nulla pagavano le merci dei saraceni pel tratto da Tunisi ad Alessandria e viceversa. I fiorentini, per trasportare merci inglesi su navi genovesi, corrispondevano secondo le convenzioni — Traffico tra: Inghilterra, Fiandra, Gaeta, regno di Napoli, Sicilia, Maiorca, Valenza, dtieoi lire; Inghilterra, Francia «e Portogallo, Granata, Biscaglia e Gasti-glia, lire quattro; Castiglia, Portogallo, Granata, Maiorca e Valenza, lire dieci; Maiorca, Valenza e Gaeta e regno di Napoli, sei lire; Corsica, Sardegna e Gaeta, Napoli, Sicilia, quattro lire; Aiguemorte, Provenza, Barcellona e fuori Genova e distretto, dieci lire; dalla Provenza, via terra, ma imbarcate per Gaeta, dieci lire, sedici soldi, otto denari. I padroni di navi, per questo così vario e imponente servizio di vettura, davano sicurtà per una leale dichiarazione del carico e del viaggio secondo i libri ed il giornale di bordo. II grano, la farina, i legumi pagavano in uscita da Genova e distretto lire quattro per cento; nulla in entrata e nulla per il carico dei vettori. Tutto questo meccanismo di tasse era però soggetto alla clausola derogataria generale « salvis juribus francorum et immunium juxta formam conventionum et immunitatum quas habent cum vel a Communi Jamile » - Accenneremo più iln là alile immunità più importanti. Si pagava, iniojltre, per le navi, cocche, galee, qualunque genere vì.scello che navigasse fuori delle acque del' distretto, per ogni viaggio ■di andata e ritorno, due quinte parti del valore dello scafo dedotto il costo deirarmamento e della campagna, seconde la dichiarazione che deveva fare lo stesso capitano. Le due quinte parti del valore, annunziate col metodo molto complicato delle carature genovesi, corrispondono effettivamente ai due quinti della lira, cioè ad otto soldi, tariffa assai· inferiore a quella che era determinata per le mercanzie e i carichi. Dal pagamento di questi due quinti erano immuni le navi castigliane, 250 Raffaele di Tucci di qualunque stazzatura, e le barche scoperte, che si impiegavano per il piccolo cabotaggio nelle acque del distretto, e, comunque, non oltre Livorno e Pisa (1) . Convenzioni politiche e commerciali con nazionalità straniere si complicavano col sistema delle esenzioni e con i privilegi concessi alle città del Dominio. In vario grado di diritti, secondo le convenzioni, erano immuni Albenga, Andora, Calvi di Corsica, Diano, Levanto, Noli, Porto-maurizio, Portovenere, San Romolo, Taggia, Yarazze, Celle, Albissola: la franchigia consisteva sopratutto nel potere esportare dal porto di Genova quanto occorreva pel consumo interno di quei luoghi, senza pagamento di gabelle. Su questo punto il Banco di San Giorgio fu costretto ad accettare una situazione che derivava da patti espressi: ma, dove le esenzioni erano più vaste del semplice diritto di esportazione, e riguardava, invece, la libertà di traffico, San Giorgio si oppose. La lotta cominciò a causa di Spezia. Gli abitanti di essa sostenevano « che il luogo di Spezia e tutto il suo territorio era franco ed immune da ogni gabella e diritto imposto e da imporre: che gli spezzini potevano estrarre dal porto di Genova, senza corresponsione di dazio, tutto quello che serviva per la loro città; che avevano facoltà di navigare per la Corsica, la Sicilia, la Sar-degna? Marsiglia ed Aiguesmortes sine aliqua gabella quovis nomine nuncupata; e che queste immunità non erano il frutto di una grazia da parte di Genova, ma titulo conventionis proprio sudore, periculis et impensis, stabilita nel 1273, esattamente come quelli di Portovenere. il Banco di San Giorgio, competente, ora, a giudicare in materia gabellaria, confermò altre sentenze, di cui la più antica era del 1385, e sentenziò il 16 febbraio 1532, « videlicet dictis hominibus Spedie et villa-rum et universitatam coniunctim et divisim licere et in perpetuum extrahere posse de civitate Jaune et portare ad dicta hora Spedie et villarum pro eorum usu et utilitate illas res et merces que eis in dictis locis sunt necessarie absque dacito et decetu » (2). Lo stesso ottiene Sarzana (3) e dopo la lunga lotta, in cui fu aiutata dai francesi, Savona (4) Il principio che adottò San Giorgio per regolare i rapporti con i distrettuali fu dunque esclusivamente questo: libertà di esportazione per i generi da consumarsi sul posto. Si tornò, con maggiore e più preciso vigore, alla unità economica della Liguria il cui centro doveva essere solo il porto della Dominante. Ed esso fu attuato non solo con la riduzione dei diritti accampati dai distrettuali, quanto con l’altro secondo il quale nessun traffico, imbarco e sbarco, era permesso nel dominio se non nel porto di Genova. Completamente in mano di amministratori (1) A. S. G. Membr. I. Ins. Gabell. cit. fol. 29. (2) A. S. G. San Giorgio, Sala 34, voi. 60: « De immunitatibus a magistratibus Divi Georgii concessis, (stampate poi a Genovas Bertoli, nel 1593). (3) ìbidem. (4) Iibidem; e cfr. Casoni, Annali, V. Le Imfoste sul Commercio Genovese durante la Gestione, ecc. 251 che ne conoscevano l’importanza e l’ingranaggio a traverso i propri affari e le proprie attività, il porto apparve quello che era effettivamente: un punto di traffico eccezionalmente felice e ricco, ma bisognoso di coordinazione. Dopo di avere chiarita la situazione dei distrettuali, il Banco rese meno numerose e più svelte nel loro sistema le gabelle sul commercio e indirizzò le sue preferenze verso quelle che premevano sul movimento portuale. I carati del mare assorbirono una quantità di qi ei diritti staccati che rendevano piti che difficile e complicato il pagamento: furono incorporati in essi l’introito sui fustagni, quelli sui tessuti di lana e mezza lana, quelli che abbiamo distinti dal nome di Giuliano Grillo e risalgono al tempo di Bucicaldo, due uno per cento e due mezzo per cento, i drictus Angliae, Vintroitus Corsice et Sardinie, i tre dritti catalanorum. Fu unificata l’imposta sul grano e sul vino, separatane però la percezione fra Genova e le tre Podesterie. Sicché, dopo il contratto di 1539, le dogane colpirono quarantotto voci, comprese in esse le tasse derivanti dald’esercizio sovrane del comune e quelle relative alla sua giurisdizione: ciò apparisce bene dalle tabelle che portiamo in appendice, dall’elenco delle quali, per le ragioni riportate ivi, mancano quella degli emboli, quella sul magazzinaggio del grano in raibetta, quelle sul ferro e sulle carni da macello. I carati ebbero una tassazione generale che riguardava non più le convenzioni e i trattati e i privilegi, nè subiva le interferenze degli avvenimenti politici: le eccezioni e le variazioni sull’applicazione della tassa generale erano in funzione soltanto con l’opportunità del commercio. La tassa era del cinque per cento sul valore delle merci tanto importate in Genova che esportate dal porto o per le vie di terra (1) Siccome, nei carati, era stato incorporato un diritto dell’uno per cento a vantaggio della Repubblica e di un per cento a vantaggio del Banco, effettivamente la tassa era del sette per cento. Ma non si fanno più distinzioni, come al tempo dei visconti, fra genovesi e forestieri, e per questi ultimi non vi è più la graduazione stabilita dai trattati. Le variazioni delle tasse si riferiscono alle merci che tengono presenti le sole necessità del commercio. Giacché il porto di Genova era lo sbocco naturale delle industrie e del commercio della Lombardia e il veicolo delle materie prime e dei prodotti di cui la Lombardia aveva bisogno, e giac- (1) A. S. G. Ardi. San Giorgi*», Contraili, Membr. n. 23 folv. 27, « Venditio in-Iroitus caratorum sexaginta maris in quibus computatur drictus unins prò centenario •generalis in eo incorporatus ad exigendum pro ipsis caratis et drictubus ut infra videlicet quod ille qui dictum introitum emerit possit et valeat colligere... a quacumque, persona cive vel exlranea cuinscnmque gradus et conditionis existai... pro omnibus et singulis rebus et mercibus quocumque nomine nuncupatis extrahendis de Janua vel ose il fermo sulla seta. L'ufficio dei carati concesse « a tulli coloro si genovesi che forestieri di qualunque* nozione che vogli condurre o far condurre in questa città seta de qualsivoglia sorti e qualità cosi dal regno de Sicilia come Calabria e Napoli che pos-sino trattenerle in questa «lugana per un anno e volendole intanto spedire per fuori de dominio per qualsivoglia parte del mondo non sieno tenuti a pagare* più de libre quaranta di moneta eli Genova per ogni balla di· rubli 250 a peso di dugana, e per quelle chi* volessero spedire per la città debbano pagare il solito con comodità de doi mesi « (3). K giacché il provvedimento parve poco fruttuoso, la concessione fu estesa alle sete d: Provenza (4) , e poco dopo a quelle di Spagna (5) . Per sostenere l’industria del candeggio delle tele, già in progresso, permette a Pietro Torre * de poter far condurre de Fiandra quella quantità di tele e bruges crudi a Genova e quelle poter introdurre dentro della citlà et haver tempo un anno de farle imbianchire et accomodare et riportarle in (lugana e quella poterla mandare per qualsivoglia luogo e solo pagare quattro per cento > (6). Si aveva bisogno di panni inglesi, e allora « si concede grati» a Giacomo Valdataro che due navi quali lui nominerà che vengono de Inghilterra carriche di mercantia di quel paese che toccando in questo nostro porto e mari de Corvo e Monaco si obblighi de farle venire a diritura a Genova e per quelle robe che scaricherà debba pagare a longo numerato » (7) . t'gualmenle per merci della Germania « concede al signor Giovanni Picchento de Emden porto franco per una nave nomenata il Cavagliero Negro patronizzata per patrone Bernardo Tisoen de Emden per tutte quelle merci che sono e saranno in testa di forestieri e per quelle che scaricheranno in terra debba pagare li suoi diritti a longo numerato » (8) . Sospensione del pagamento dei diritti di dogana per Battista Cotta e compagni, purché entro tre mesi introducano non meno di trenta casse (1) A. S (». San iiiorfin. «λΙλ .11. *σΙ 1212. λ jtltijmo (2) Annali* IV. puf. J76. (3) A. S -< LO O 01 LO IO rH CO rx Ό M o Ό co >---( (-1 o Ό LO IO IX 01 o o o co io ►H H-t LO o o 05 o VO co io co LO IX 01 LO LO o in o LO IX co Ix 01 n t-l oo 01 01 VO 01 LO 01 ►H o co o o Ix o co co IO LO LO Ό CO LO o o o 01 o o co Ix o c LO 00 o IX LO 01 CO LO o co 1---1 co co On m 01 VO -Φ t---< 01 01 co LO 1---1 IO 01 LO ·---1 01 "3· M o t-4 co Ί¬ IO 01 ο o o co co co t---( CN Ix t---1 LO LO LO VO o t---1 o ^i· co 0J o\ IX Ix ”1" -ί¬ LO 01 LO ο H- o co· CO 01 H*4 CN co O O Η* O o ve 0 01 CO OO o LO Ix o o t-H IO LO LO LO o o o IX 01 o o cO IX o o LO ►--- ix LO 01 co LO -Î- CO co Ό o VO 0 -t 01 LO Ix LO 01 01 Ό IO LO *1 CO Ix CO CO o lx VO LO o LO In c o Ix 01 o LO t---t 00 LO 0 01 TT 01 01 'φ o LO LO o to o o LO LO VO co IX o o LO ·---t o 01 co co Ί" co c VO o c Ix co Ix co In a> »~4 '1 Ό 01 01 co Ix Ό VO io Ix o o IH o LO o LO }-i o LO IO IX 01 o o co o o o LO >---1 o oi co 01 co LO -t Tf 01 co o VO LO o I'. co '3*. 01 Ix Ό LO oc Hi 0* gü 01 VO o (M o O\ o 00* co VO LO in co o 01 LO 01 ■'+ HH 01 co o o O 1 o co ve LO co o 01 LO 01 *---1 01 0 co co 01 to ιο o IX 'S o 1---1 LO 01 ve 01 LO io o IX o o l-( M o 01 VO VO o to VO 01 o O LO o t--- 0\ o VO VO co 01 o c o o O 01 co HH o LO LO •o r-1 o to IO CO LO o -LO LO fc-i o rj oc Tt- HH co co VO 1---1 o CO IX 00 io oc *---( ►---1 01 LO 01 IO LO LO o LO LO co co VO co 01 o to O c LO O co co 01 cc 01 LO LO 01 co Ix 00 o o c o lx -« < J J HI ai < 0 ÒJO <υ u .2 o o -i—» *o ^ \ ·*-> p. £ E TV o 260 Raffaele di Tucci co LO o o\ o HH o On 01 co H-l o rf o co o\ rj- HH o HH vo co LO 01 HH co LO Ο 00 o O 1-0 O Cn HH Ο o LO Ο HH Ο co 'Φ Xx HH VO CO rj* o 01 HH 01 Ol HH LO HH co LO io o 0\ O in HH o 0\ 01 co HH o rf o co C\ ri· HH o ix vo co LO 01 HH co LO o co o o o o o On 01 o o LO o LO o o co o tx HH vo 00 Xx o o 01 HH 01 01 LO 01 HH CO LO 01 ο ί- ο: ο 0. 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Il Franzone derivava la sua tesi da due atti pubblici attribuiti al notaro Gaspare Ardissone da Pontedassio, sui quali costruiva l’albero genealogico premesso al suo volume (2). Il primo di questi atti, in data 10 agosto 1447, è il testamento di un Giovanni Colombo, figlio di Bartolomeo, del luogo di Cliiusanico, castellania di Monteroso nella Valle di Oneglia. Nell atto il testatore, sempre secondo 1 albero del Franzone, fa menzione di un figlio (Bernardo) e di tre nipoti (Pietro e Benedetto figli di Bernardo, e Cristoforo figlio di Domenico). Il secondo documento, del 25 agosto 1468, è un atto riguardante una vendita che Domenico Colombo fa al fratello Bernardo, presumibilmente il medesimo nominato nell'atto precedente. Nel documento il Domenico ricorda i propri figli Cristoforo. Bartolomeo e Giovanni, ed egli risulta come abitante in Savona. Anche il Semeria Vassallo, sulle orme del Franzone, prende per base del suo studio questi due documenti, ai quali aggiunge, ricavandola sempre dall’albero franzoniano, la citazione di altri atti notarili posteriori, che dimostrano la lunga dimora di una famiglia Colombo nella Valle d’Oneglia, dimora che lo scrittore trovò confermata anche da memorie e monumenti locali. E ragiona in questo modo: « Siccome i biografi colombiani non hanno ancora potuto chiarire con sicurezza dove mai il Domenico Colombo vivesse nel periodo 1430-1455, entro il quale gli scrittori si contendono ciascuno il proprio anno da assegnare alla nascita del Navigatore », così, in forza dei citati atti, « non potendosi portare in contrario nessuna circostanza di fatto », si deve ritenere che Domenico Colombo risiedesse (1) Ludovico Semema Vassallo, Cristoforo Colombo è nato m Valle d Oneglia? - Sanremo. 1930. pag. 27 con illustTazioni. (2) Domenico Franzone. La vera patria di Cristoforo Colombo - Roma, 1S14. 264 Varietà colla famiglia in Chiusanico o vicinanze allorché il figlio Cristoforo venne alla luce. Questa la sostanza dello studio del Semeria Vassallo, e qui sta tutto il nocciolo della questione o, per meglio dire, dell’equivoco. Prima di tutto bisogna tener presente che il Franzone non pubblicò gli alti notarili in parola: egli dice solo di averli veduti. Si appoggia, è vero, sull’autorità del Giscardi e di altri genealogisti, i quali, a loro volta, non hanno pubblicato i documenti. Di più, per dimostrare la sua tesi, introduce nel suddetto albero interpolazioni evidenti, togliendole a prestito da documenti di Genova, di Savona, di Cogoleto. (Basterebbe citare il terzo fratello di Cristoforo — Diego, nome rivelatore — che egli aggiunge nella sua genealogia, traendolo senz’altro da carte non di Chiusanico, ma di Savona). Non è vero poi che manchino, come il Semeria Vassallo afferma, documenti sul luogo di residenza di Domenico Colombo tra il 1430 e il 1455. Lo troviamo, il vero Domenico padre del Navigatore, a Genova nel 1439, nel 1440, nel 1447, nel 1448, nel 1450, nel 1451 : gli atti relativi (ch’erano ignoti al Franzone) sono pubblicati nella Raccolta Colombiana (Parte II, vol. I), di cui il Semeria Vassallo evidentemente non tiene conto. Quello da lui sostenuto non è, in sostanza, altro che un caso di omonimia. Per convincersene basta confrontare l’albero genealogico genovese, inserito nella citata Raccolta Colombiana e i documenti annessi, con l’albero del Franzone. In quest’ultimo il Giovanni capostipite della famiglia Colombo di Chiusanico fa testamento nel 1447, mentre il Giovanni capostipite del ramo di Genova nel 1444 risultava già morto. Sono dunque due persone ben distinte: nessun dubbio. Questa sola constatazione, riguardante il capo della famiglia, fa cadere tutto il resto, anche il sottile ragionamento intorno alla data della nascita dello Scopritore. Quanto alla residenza del Domenico di Chiusanico in Savona, nel 1468, è sufficiente ricordare che gli atti di archivio savonesi, che parlano di Domenico padre di Cristoforo Colombo « laneriiis de Jamia », lo dicono Domenico Colombo de Quinto, oppure de Janua; ma non mai di Chiusanico. Non regge nemmeno l’argomento avanzato dal Semeria Vassallo della famosa partita di vino venduta nel 1470 da un tal Bellesio di Porto Maurizio a Domenico Colombo e al figlio Cristoforo, perchè appunto in quel medesimo anno (vedi l’atto del 2 marzo 1470 del no-taro Giovanni Gallo) lo stesso Domenico esercitava a Savona anche il mestiere di tabernarius e poteva quindi — egli e il figlio — aver comprato vino a Porto Maurizio e anche più in là. Nell’atto del no-taro Gallo egli è detto precisamente « Dominicus de Columbo civis Januae, quondam Johannis de Quinto, textor pannorum et tabernarius ». Anche qui niente Chiusanico e niente Oneglia o Monteroso. Altri rilievi, e non pochi, si potrebbero aggiungere. Li tralasciamo. Però una domanda si può fare, ed è questa: Se i Colombo di Varietà 265 Chiusanico — i quali dai documenti (ritati dal Franzone e ripetuti dal Semeria Vassallo appaiono assai numerosi e non di umile condizione (sulla fine del sec. XVI posseggono case, una cappella e un sepolcro gentilizio) — erano veramente i discendenti dello Scopritore dell’America, o si ritenevano tali, perchè non si presentarono coi Colombo di Cuccalo e di Cogoleto alla famosa causa per la successione del Maggiorasco tentata in Ispagna, e il cui insuccesso è una delle prove incontestabili della genovesità di Colombo? In conclusione, per 11011 parlare delle strabilianti invenzioni straniere, queste di Chiusanico vanno messe insieme con le pretese di Cuccalo, di Piacenza, di Cogoleto e con tante altre, fondate ora su tradizioni inconsistenti, ora su impressionanti omonimie; talora suffragate dalle subdole interpolazioni dei costruttori di alberi genealogici. Il Franzone, come già scrisse lo Spotorno, è uno di questi. Ma i loro artifici cadono di fronte all’esame critico, e di vero non resta che il Colombo genovese, sostenuto da una documentazione ricchissima e concorde, dalle testimonianze sincrone di uomini d’ogni paese e, sopralutto, dalla voce stessa del Navigatore e dei suoi veri congiunti. Giovanni Monleone. Rassegna Bibliografica Luigi Brenni, Varie del battiloro ed i filati d’oro e d'argento (cenni storico-tecnici e 18 illustrazioni), a cura dell’autocre, Milano, 1930, Vili. Il volumetto attrae l’attenzione (per la copertina rifulgente d’oro, giusto richiamo ad un’arte che si occupa di battere l’oro in fogli; e •del resto tutta l’opera è sontuosa per la carta patinata e per le illustrazioni ben scelte. L’Autore ha gii à al suo attivo tre studi sulla tessitura serica, sulle seterie, e su'i velluti di seta italiani, che sono buoni apporti alla conoscenza delle arti ricche, nelle quali l’Italia fu per secoli maestra e donna. Il Brenni è di quella stirpe lombarda che unisce alla forte e sena attività commerciale l’agilità dell’ingegno e l’amore della scienza. Uomo d’affari egli ebbe la sana curiosità di ricercare le origini della éiia « partita », la seta, e questo studio sui battiloro, che può parere estraneo agli studi sulle seterie, vi rientra invece per il non piccolo uso dell’oro nei tessuti serici. Ma prima di giungere a questo uso speciale dell’oro battuto in foglie o tirato in fili, il Brenni studia l’arte nelle sue branche dei Battiloro, dei trafilatori d’oro (detti anticamente Tiraoro) e dei fabbricanti di filati d’oro e d’argento per iil ricamo, le tessiture, le |pas-samanterie, ecc. ecc., con notizie assai interessanti su questa industria, che per la ricchezza della materia trattata e per la specialità della lavorazione fu sempre chiusa in un certo mistero. S’imparano così molte cose curiose; dai metodi antichi di battere l’oro con un martello, ponendo le foglie fra strati di pelle finissima, ai metodi moderni di tirarlo in fili, che qualche volta sono del diametro di tre centesimi di millimetro, traverso filiere con buchi forati nel diamante, l’ultimo dei quali non è visibile ad occhio nudo. Dopo le notizie generali sull’arte, il Brenni ne studia gli sviluppi in Spagna, in Francia, iii Germania, dal Medio-Evo ai tempi moderni; passa poi a esaminarne la diffusione in Italia e specialmente a Genova, Lucca, Venezia, Roma, Firenze, Milano, seguendone le vicende nei tìecoli. Copiose sono le notizie sui Battifolii genovesi, e per esse (il Brenni 6!i giovò delle ricerche del nostro infaticabile Ferretto, aggiungendovi altre notizie raccolte nel ricchissimo Archivio di Stato di Genova. Rassegna Bibliografica 267 Da esse appare che nel Duecento l’arte doveva essere assai fiorente in Genova e tale si mantenne sino al Quattrocento, ma già nel Cinquecento se ne lamentava la decadenza e nei primi anni del Settecento i maestri dell’Arte in Genova erano ridotti a cinque, ed a poco a poco scomparvero anch’essi. Rimase e permane tuttavia in Genova l’arte antichissima dele filigrane, che hanno rinomanza mondiale. Anche nelle altre città italiane si ebbe in grande onore questa Arte che fu, assieme a quella della seta, una gloria italiana; purtroppo essa e ora passata in eredità agli abili e fortunati industriali francesi e germanici; pochissimi sono oggi i Battiloro in Italia. Nell’ultima parte del suo studio, il Brenni offre ampie notizie sull’impiego dell’oro e dell’argento per la decorazione dei tessuti di seta mediante il ricamo e la tessitura. Questa unione dell’oro con la seta ha origini remotissime, e venne a noi dal lontano Oriente, in molteplici foggie. Per fare il maggior risparmio del prezioso metallo si ricorse e si ricorre a molti sapienti artificii, e si ha l’oro papirifero, l’oro membranaceo, l'oro di Cipro, l’orpello e l’oro metallico, tipi diversi di doratura su carte, su membrane, su laminette avvolte su fili di seta o di materie vegetali. iL’autore chiude il suo lavoro con alcuni documenti assai utili per lo studio dell’Arte nei secoli XVI, XVII, XVIII e con una tabella della importazione moderna in Italia dei fili e foglie d’oro e d’argento, dalla Francia e dalla Germania. Circa l’arte dei Battiloro in Milano, l’autore, potrà ricavare qualche buona notizia dagli Statuti della Corporazione dei mercanti di stoffe d’oro, d’argento e di seta (confermati dal governo francese in Milano nel 1504), nei quali vi sono parecchi capitoli sui Battiloro circa la purezza del metallo, la proibizione di battere foglie d’oro o d’argento di notte, di usare fili di bronzo, rame, oricalco, indorati per tesserli nella seta e così via. Questi Statuii furono pubblicati da Léon G. Pélissier in Documents pour l’Histoire de la domination française dans le Milanais, Toulouse 1891, p. 286 e segg. Emilio Pandiani. R. Quazza, Genova, Savona e Spagna dopo la congiura del Vacherò, Estr. dal a Bollettino Storico Bibliografico Subalpino », a. XXXII, fase. I-II, 1930, Torino, pp. 108. La congiura che prende il nome da Giulio Cesare Vacherò è indubbiamente uno dei fatti più notevoli della storia genovese del secolo XVII, tale, per l’importanza, il significato e le ripercussioni, che meriterebbe di essere largamente studiata. Non che manchino i lavori e le notizie, ma la narrazione degli storici contemporanei dovrebbe essere integrata dall’esame dei documenti; e dei due più importanti studi speciali sull’argomento, quello di Gian Raffaele Della 268 Rassegna Bibliografica Torre, che ebbe parte importante nell istruire il processo conti o i congiurati, se presenta un vivace quadro d ambiente ha bisogno di essere compiuto nella parte politica e diplomatica; quello assai più recente dell’Arias, pur recando un notevole contributo, usufruisce fonti indirette, derivate per lo più dagli archivi fiorentini. L'Arias dice che conseguenza della congiura nella politica esterna fu di scuotere la cieca fiducia del governo genovese verso la Spagna e di ingenerare invece una certa diffidenza. Non accede a ^ questa conclusione il Quazza nel suo studio, nel quale minutamente si esaminano le conseguenze diplomatiche della congiura. L importante avvenimento non è considerato da lui nei riguardi interni e nelle P ί ■ sone dei congiurati e dei complici o nei rapporti fra le classi sociali genovesi, argomenti solo indirettamente risultanti dall esame dei documenti diplomatici, ma piuttosto nelle esterne ripercussioni. L’indagine è condotta principalmente sulle relazioni degli inviati liguri a Madrid e sulla corrispondenza del Governo della Repubblica coi suoi rappresentanti ; quelle lettere sono per qualche tratto riprodotte, per lo più ampiamente riassunte: e la narrazione, per quanto chiara, ordinata, perspicua, viene per quel susseguii?i di note e di missive ad assumere talvolta un aspetto un po lento e monotono. Ma i risultati sono di una evidenza e di una importanza singolari. La congiura, oltre che latto interno di valore e di significato grandissimo, viene a inquadrarsi in un più vasto campo, il campo appunto nel quale, coni è ben noto, il Quazza è maestro e patrone, quello dei rapporti degli Stati italiani con Francia e Spagna nell'età della Guerra -dei trentanni. Perchè la delicatezza della situazione sta appunto in questo, che Carlo Emanuele, aperto e dichiarato ispiratore e favoreggiatore della congiura, è alleato della Spagna nella guerra del Monferrato e alleata della Spagna è anche Genova, per tradizione e per interesse. E Gonzalo, il governatore di Milano, che si arrovella intorno a Cabale, ha un gran bisogno di Carlo Emanuele e ne appoggia 1 assurda pretesa che i colpevoli genovesi arrestati e confessi non siano condannati a morte, e dipinge a Madrid come catastrofica la situazione interna genovese e gravissimo il pericolo per la nobiltà da parte del popolo. A sua volta Genova insiste a Madrid per il suo buon diritto e per il rispetto alla propria sovranità. cosi mandandovi appositi inviati come per mezzo del suo gran concittadino, il capitano Ambrogio Spinola. E Madrid fa in costanza un doppio giuoco perchè teme il mancato aiuto di Carlo Emanuele a Casale e perchè nelle sue necessità politiche ed economiche ha Vroppo bisogno d’aver aperta in Genova la porta d Italia e di mantenere i cospicui interessi finanziari e commerciali che la legano coi suoi possessi italiani ai mercanti e ai banchieri della Repubblica. Ma il legame è. naturalmente, reciproco e la fittissima Rassegna Bibliografica 269 rete d’interessi tra i due Stati, spezzandosi, -danneggerebbe l’uno e l’altro in egual misura. Perciò Genova, se per rispetto alla propria sovranità e sopra tutto al prestigio della classe dominante, si oppone recisamente alle pretese che diminuirebbero la sua dignità di Stato sovrano nell’esercizio della propria interna politica, comprendendo fatale e indispensabile il suo appoggiarsi alla Spagna, anche per l’essere stretta tra il Piemonte minaccioso e la Toscana insidiosa, cerca di riprendere al più presto i cordiali rapporti con la potente protettrice. Ma queste trattative diplomatiche e questi pericoli, mostrando la debolezza della situazione politica di fronte alla Spagna interessata a fare un doppio giuoco e a veder perpetuata la lotta tra Genova e il Duca di Savoia, da un lato fecero sì che il governo nobiliare sempre più identificasse la propria conservazione con la conservazione della Repubblica, determinando anche una più stretta unione tra i diversi nobili minacciati da un comune pericolo, dall’altro portò nelle contese tra nobili e popolani una maggior moderazione reciproca per impedire malcontenti e per evitare che ne derivassero danni comuni. Interessanti e persuasive conclusioni rigorosamente appoggiate a dimostrazione documentaria che recano una luce nuova sull’importante episodio. Vito Vitale. P. Luigi M. Levati, Dogi biennali di Genova dal 1528 al 1669, Ge-nova-Rivarolo, Tip. Marchese e Campora, 1930, 2 voli., pagine 475-495. I due nuovi volumi del P. Levati riempiono la lacuna tra i Dogi perpetui e quelli del secolo X\ III dei quali aveva raccontato precedentemente la vita. Il meritorio lavoro è così compiuto, e da Si-mone Boccanegra a Giacomo Maria Brignole che vide il passaggio-dalia Repubblica aristocratica alle democratica, anzi a Gerolamo Du-razzo, Doge di nomina napoleonica nella Repubblica ligure, costrètto poi a offrire a Napoleone la signoria della Liguria, sono 174 dogi. Che 144 biografie dei supremi magistrati della Repubblica offrano un materiale cospicuo e utilissimo alla storia ligure è inutile dire: chi conosce i precedenti volumi del Levati può attestarlo. È una raccolta minuta e minuziosa di dati biografici, di particolari talora anche curiosi e gustosi, di episodi spesso molto significativi a far conoscere e penetrare la vita e il costume dei vari momenti della Repubblica. I due nuovi volumi comprendono più che un secolo e mezzo, dalla riforma di Andrea Dona al 1699. le biografie di 39 dogi: tutte gran brave persone e piene di ogni merito secondo il biografo che trae i suoi maggiori elementi di giudizio dai discorsi all’assunzione 270 al breve trono o da encomiastici elogi funebri. Ottantanove personaggi, non tutti di chiarissima fama personale, ma che, per essere stati per un biennio a capo della Repubblica e per tutto il resto della vita appartenenti di diritto ai Serenissimi Collegi, hanno avuto parte cospicua negli avvenimenti politici del loro tempo. Vita per alcuni periodi ristretta e stagnante nella diminuita influenza della Repubblica posta quasi sotto il protettorato di Spagna; altre volte invece agitata dalle contese tra le classi e le fazioni o dai sussulti delle frequenti congiure, turbata spesso dalle insurrezioni ricorrenti di Corsica, resa difficile dalla necessità di conservare 1 equilibrio tra la Francia e gli Asburgo (e ne derivavano tragici momenti come nel famoso bombardamento di Luigi XIV) e dal bisogno di difesa contro le mene e le aspirazioni dei Savoia, pericolosi e turbolenti vicini. Ma chi ricercasse indagini in profondità su questi maggiori avvenimenti rimarrebbe deluso. Non bisogna chiedere al Levati quel che non ha voluto dare. Egli espone cronachisticamente le vite dei suoi dogi, raccogliendo le notizie da tutte le parti e da tutte le fonti che gli sono apparse utili, accostandole meccanicamente e con criterio cronologico, tutte sullo stesso piano. Niente esame di problemi 0 di questioni politiche, niente quadri d’insieme^ ma una serie di notizie ricavate dalle fonti più disparate, notizie anche disorganiche talvolta, ma tuttavia di una utilità preziosa. Così com’è, l’opera del Levati ha due pregi notevoli per gli studiosi: la raccolta di tutte le notizie che alla sua diligenza è stato possibile rintracciare sui singoli dogi e quindi la ricostruzione, sia pure soltanto estrinseca e meccanica, della figura di questi capi dello Stato che nelle storie generali sono per lo più senza volto distinto, sperduti nel carattere collegiale del governo della Repubblica; e la indicazione delle fonti bibliografiche e archivistiche servite alla raccolta e utilissime a chi voglia approfondire le ricerche sopra un determinato periodo o fatto della storia ligure. Doria, Spinola, Cananei, Pinelli, Centurione, Fieschi, Lomellini, Imperiale, Gentile, Ne-grone, De Franchi^ Sauli, e altri molti nomi della vecchia aristocrazia repubblicana sfilano così portati da questi dogi che furono tra 1 più cospicui rappresentanti delle loro famiglie; e insieme alle notizie biografiche, e talvolta più interessanti, particolari nuovi e curiosi di vita pubblica e privata, aneddoti gustosi, episodi capaci di illuminare tempi e costumi più di quel che non sogliano fare le narrazioni solenni delle storie auliche, diplomatiche e politiche. È insomma una grande, paziente, utilissima raccolta di materiale molto spesso ancora allo stato quasi greggio, senza pretese critiche e ricostruttrici: del resto l’Autore ha chiamato l’opera sua col nome di studi biografici. La mancanza di rielaborazione è anche nella forma che, come nei volumi precedenti, sebbene con qualche Rassegna Bibliografica 271 miglioramento, è poco curata, trasandata e sconnessa. Fortunala-tamente più corretta ]a stampa «di quel che non fosse nel volume precedente e senza gli svarioni che in quello si dovevano deplorare. Comunque, il IP. [Levati ha rilevato dall’oblìo molti nomi, se non tutti cospicui, degni di ricordo per la funzione esercitata, e ha fornito un materiale di cui tutti gli studiosi della storia genovese dovranno servirsi: e ha compiuto in molti anni d’intensa fatica una somma -di lavoio e una raccolta di materiale storico di cui bisogna essergli grati. Vito Vitale. Arturo Segre, Il primo anno del Ministro Vallesa 1814-1815, « Biblioteca di Storia italiana recente », vol. X, Torino, 1928, pp. 411. È un lavoro stampato da parecchi anni ed edito da un biennio, che avrebbe dovuto essere annunciato assai prima d’ora per il suo intrinseco valore e per 1 importanza nei riguardi della storia ligure. Intorno alla figura del barone Alessandro di Vailesa, conte di Montaldo, si raccoglie tutta l’opera politica e diplomatica del regno di Sardegna nel primo anno della restaurazione. Tra difficoltà enormi interne ed esterne, derivate queste dalle aperte o larvate ostilità del- 1 Austria e della Francia, si trattava di ricostruire e rafforzare il regno in un momento delicatissimo e difficile. Appoggiandosi per mezzo di abili ministri, il S. Martino d’Agliè a Londra, Giuseppe De Mai-stre a Pietroburgo, all’Inghilterra e alla Russia, il Vailesa riuscì a impedire gli ambiziosi disegni delle due potenti vicine; per l’opera ferma e sagace del San Marzano, rappresentante sardo la Congresso di Vienna, vide confermata al suo paese la promessa cessione di Genova, mentre riusciva a ottenere lo sgombero totale del Piemonte dalle milizie austriache. Il lavoro diplomatico per questi intenti era già riuscito o prossimo a esito felice, quando nuove difficoltà soprag-giunsero per l’avventura napoleonica dei cento giorni e la conse-seguente spedizione murattiana nell’Italia centrale, avvenimenti che sembrarono mettere in forse tutti i risultati raggiunti e in pericolo i confini occidentali dello Stato. Respinto il Murat dagli Austriaci, il Piemonte ruppe ogni indecisione e, dopo aver conchiuso con l’Inghilterra una convenzione finanziaria, per cui gli era concesso un sussidio annuo di undici sterline per ogni soldato del corpo operante, mandò in Francia, al comando del generale Vittorio Sallier de la Tour, tre brigate di fan! eri a che, se non ebbero occasione di prender parte a grandi fatti d’arme, si fecero onore: da questo momento e da questa occasione trasse origine l’Ordine Militare di Savoia. Lunghe le trattative diplomatiche e difficili con la Francia e con gli alleati anche dopo Waterloo, tuttavia il Vallesa riuscì a vedersi riconosciuta parte della Savoia rimasta alla Francia nel 1814, a non ce- 272 dere l’Alto Novarese vivamente desiderato dall’Austria, a occupare 1 isola di Capraia già possesso di Genova e allora tenuta da presidio corso contro le scorrerie barbaresche, ad avere dalla Francia una indennità di dieci milioni. E intanto fra ostacoli e difficoltà non lievi, amministrative e finanziarie, si compiva anche il riordinamento interno, con carattere e intenti spesso gretti e meschini, una sempie con onestà di propositi e dirittura d’azione. Magistrale monografia questa del Segre, nella quale non si sa se più ammirare la chiarezza e la lucidità dell’esposizione, la perspicacia nell’illustrare fatti e avvenimenti coordinandoli e inquadrandoli nella storia generale, o la solida preparazione ampia e minuta nell’accuratissima bibliografia, la larga documentazione preziosa fondata tutta su materiale di primo ordine, derivato dalle carte del Vailesa. Per Genova e la Liguria basterà notare che è il momento del passaggio al regno di Sardegna. Le trattative del congresso di Vienna nella corrispondenza diplomatica col San Marzano, la preparazione e l’informazione accurata dell’ambiente ligure nelle relazioni di polizia, l’opera di adattamento e di assestamento del nuovo regime nei primi passi difficili, nelle corrispondenze di Luigi di Col legno, per alcuni mesi dimorato a Genova nel 1815, ne escono illuminate e illustrate con particolari spesso nuovi, interessantissimi sempre. L azione del Bentinck, per esempio, tenace nelle sue convinzioni costituzionali e nel volerle imporre a Genova, le difficoltà che per questo suscitò al governo sardo, sono pagine nuove e curiose nella storia di un momento pur noto anche nei particolari. Così sono illustrate le intenzioni in fondo benevole del re, desideroso di acquistare popolarità e favore presso i Genovesi, purché non fosse messa in dubbio la sua autorità e il suo diritto, desideroso sopra tutto di accarezzare e conquistare coi favori e le blandizie la nobiltà, più avversa e ritrosa. Ma la cosa più importante nei riguardi di Genova e della Liguria è un prospetto fornito dalla polizia ancora nel 1814 sui maggiori cittadini della regione distinti in buoni e cattivi^ accompagnato ciascuno da brevi notizie. Buoni sono a Genova 329 e 362 cattivi, anzi cattivissimi o pessimi, se sono stati favorevoli al governo rivoluzionario o napoleonico e se vi hanno partecipato. Nelle riviere sono 384 tra buoni e cattivi. Si trovano in questi elenchi preziosi, che, riprodotti integralmente, costituiscono un’ampia appendice, i nomi di tutti i maggiori personaggi del tempo coi giudizi relativi. Naturalmente la polizia chiama buoni i favorevoli al Piemonte o gli innocui e gli agnostici; cattivi tutti gli altri. Pessimi perciò, a cominciare da Girolamo Serra e dal Pareto, i rappresentanti del Governo provvisorio dell’ultima repubblica, come i superstiti del moto demagogico del 1797 che erano da quelli ben lontani di opere e di sentimento. Ma il governo di Torino era meno gretto e intransigente dei 273 suoi funzionari e informatori e, mostrando di non voler tener conto del passato, soprattutto dell’avversione dimostrata all’unione al Piemonte, offriva cariche, uffici, onori ai capi del Governo provvisorio, ai suoi rappresentanti all’estero, primo Antonio Brignole Sale, ai maggiori cittadini; e non pochi di essi, di fronte al fatto compiuto e alla nuova realtà, non sdegnavano le offerte. Le notizie date dai documenti studiali dal Segre hanno un valore veramente notevole per la storia di Genova in quel momento cosi importante e così variamente giudicato. E il pensiero degli studiosi anche della storia ligure si volge grato e riverente al compianto valoroso autore, improvvisamente scomparso prima di poter avere il meritato riconoscimento di una vita di lavoro e di studio e delle molteplici benemerenze verso le scienze storiche. Vito Vitale. Koth, Valori, Lodolini, Studi sulla difesa di Firenze e sul Ferruccio. In quel gran dramma della storia italiana che si apre con la calata di Carlo Vili e nel quale la vecchia Italia medioevale comunale e signorile, frammentaria e discorde, si piega sotto il peso di una. profonda crisi spirituale, della propria incapacità unificatrice e della forza predominante degli Stati moderni unitari e militari, anche se tanto più barbari di lei, la caduta di Firenze è l’epilogo, illuminato da bagliori di stupendo eroismo. Ricostruito storicamente e nel suo ambiente politico diplomatico militare, il fatto ha una complessità ben lontana da quella che è la visione necessariamente semplice della tradizione popolare. È un momento e una conseguenza di una lunga crisi spirituale e costituzionale che travaglia tutta l’Italia e specie Firenze ancora arretrata nella sua struttura comunale; è in margine alla lotta di predominio tia Francia e Spagna; è effetto del cieco egoismo di un Pontefice che, nell esasperazione nepotista, nell’orgoglio dinastico ferito, viene meno al proprio precedente atteggiamento e all’opera dei predecessori che avevano difesa la libertà italiana e sottomette l’Italia alla Spagna per far rientrare i Medici in Firenze. E non mancano elementi economici, contese faziose e sociali nelle lotte tra i partiti dentro la città; 11011 mancano caratteristici elementi religiosi nel-J affiorare dei ricordi savonaroliani e nella postuma influenza del irate che sembra, per l’esplosione di sentimento mistico e popolare e con quella proclamazione di Cristo a Re di Firenze, l’ispiratore della resistenza e della difesa. Ma la tradizione popolare e nazionale non guarda a tanti e tanto complessi elementi; vede soltanto un episodio di gloriosa affermazione d’indipendenza, vede un sesto disperato tanto più eroicamente grande quanto più praticamente imi- 274 tile ed esalta il gesto che illumina un tramonto e lancia un appello all”avvenire. Ed ha ragione. Già, subito, quel fatto e il suo maggior eroe sono stali narrati ed esaltati da scrittori d’ogni maniera, aulici e popolani, che ne intendevano il valore ed erano costretti preziosa testimonianza, ad ammirarli quasi involontariamente, anche se favorevolissimi ai Medici, come il Giovio e il Nerli. E accanto al Guicciardini, al Varchi, al Giannotti e a tutti i maggiori storici contemporanei, altrettanto e forse più significativi i poeti, i poeti popolari, appunto, che compivano opera di divulgazione, quasi anticipando i giornali: Main-brino Roseo e Donato Callofilo, che scrivevano poemi narranti l'assedio e la gloriosa rotta di Gavinana. Poi, per lungo tempo, quasi nulla di notevole. Ma nel Risorgimento la storiografia romantica si impadronì nuovamente dell’argomento e sentì che la difesa di Firenze in pieno Cinquecento ricorda, per quanto da lontano, quella di Crema e di Milano nel secolo XII e anticipa quella di Roma, di Venezia, di Brescia nell Ottocento: di Roma specialmente, onde il Ferruccio, chiamato a dar parere al governo e nominato da ultimo dittatore militare, fu paragonato a Garibaldi. Analogie che vanno prese con molta cautela, come tutte le analogie storiche, ma che hanno un profondo valore sentimentale. Comprendeva la storiografia romantica del Risorgimento — e con essa il romanzo, fosse pure il truculento Assedio del Guerrazzi o il lacrimoso Nicolò de9 La pi del D’Azeglio — che c’era un’intima parentela fra gli eroi della cadente Repubblica fiorentina e quelli del Risorgimento; che la resistenza di Firenze acquistò un carattere di piena italianità poiché il piccolo Stato toscano superava morendo i confini storici e diventava il rappresentante legittimo di una causa allora inavvertita ma reale, destinata ad essere ripresa e a fiorire dopo il travaglio di tre secoli. Poi cominciò l’indagine critica e mi piace ricordare che si può dire aperta dall’Assedio di Firenze di Pio Carlo Falletti Fossati e di mandare al venerando maestro il più devoto e affettuoso saluto. E anche da questa, cui diedero largo contributo le pubblicazioni documentarie del 1889, nel centenario della nascita del Ferruccio, la fisonomia del fatto e 1 immagine dell’eroe principale, nonostante qualche esagerazione per amor di tesi come nel noto libro dell’Alvisi, o per paradossale genialità nella preconcetta critica demolitrice di Vittorio Imbriani, riuscirono immutate; chiarite, collocate nell’ambiente storico ma sostanzialmente quali la tradizione le ha viste e sentite. Dopo un periodo di tempo nel quale l’attenzione fu attratta, se mai, piuttosto verso il problema costituzionale di quell’organismo comunale in ritardo, come in uno studio dell’Anzillotti, ora, intorno al centenario della caduta della Repubblica e della morte del suo difensore, acca»1*' ai discorsi d’occasione e alle rievocazioni coni- Rassegna Bibliografica 275 memorative, una serie di studi ricorda ancora la difesa di Firenze e ne rievoca la maggior figura. Sono, a parte le biografie divulgative del Rebora e dei l’Allodoli, gli ottimi studi, diversi di metodo e di atteggiamenti, di profondità e di coltura, del Rotli, del Valori, del 'Lodolini. (Più vasto, organico e comprensivo il lavoro di Cecilio Rotli abbraccia tutta la vita di quella che egli ha giustamente chiamalo L’ultima Repubblica Fiorentina (trad. A. Neppi Modona. Vallecchi, 1929) e accoppia la larghissima conoscenza bibliografica e documentaria a una assai simpatica adesione spirituale all’argomento ehe considera in tutta la sua estensione e il suo sviluppo sotto i vari aspetti, ma sopra tutto come fenomeno politico e diplomatico; a quel modo die Aldo Valori (La difesa della Repubblica Fiorentina, Vai-lecchi, 1930), senza trascurare questi elementi, e in essi anzi necessariamente innestandolo, considera più propriamente l’ultimo periodo e il lato militare. Narrativo e aneddotico, vivace e appassionato il libro del Lodolini (Papato - Impero - Repubblica, la difesa di Firenze nel 1530, Bologna, Cappelli, 1930) è destinato a un più largo pubblico, ma. ben informato, è lontano aneli’esso dalle vane e verbose esaltazioni. Da questi libri di dotta e critica esposizione o di facile e viva narrazione, la grandezza del fatto e della figura dominante balza spontanea, tanto più evidente quanto mieno ricercata. Dice bene il Lodolini: «Ferruccio uomo è sconosciuto alla stregua di documenti o di memorie; ne scopriamo soltanto il volto in battaglia, pur chiuso nella celata, quando gli occhi lampeggiano il suo amor di patria, la sua nobiltà militare, il suo genio di eroe. Forse per questo egli è il simbolo del valore italiano e della virtù silenziosa ». Aspro era e impetuoso, di subitanea violenza e di energici modi che gli procuravano odio nei nemici e devozione illimitata nei suoi; insofferente delle mezze misure e degli indugi, dispregiatore dei raggiri e delle complicazioni diplomaiiche. Uomo di azione, l’azione solo intendeva, anche impetuosa e violenta. Il mercante che si era fatto volontariamente soldato assunse il suo posto di difesa e di combattimento senza sottintesi e patteggiamenti, per tenerlo fino alla fine, a qualunque costo. Si disputava e si patteggiava in Firenze circondata dalle forze di Carlo V e minacciata dalle mene di Clemente VII, logorata dalle contese interne dei partiti, tradita dall’equivoco contegno di Malatesta Baglioni, persuaso dell’inutilità della resistenza ed inteso ad evitare anche mali peggiori, come il sacco di Roma di pochi anni innanzi; ed egli restava fermo in armi, occupava il contado ribelle e cercava di conservarlo alla Repubblica. Stretto sempre più l’assedio dalle milizie di Filiberto d’Orange, tentava dal nord il colpo decisivo di sfondare le linee nemiche per portare aiuto agli assediati. Menile Malatesta nicchiava e s’impegnava 276 Rassegna Bibliografica ad evitare ogni sortita, il popolo, eroico nella caparbia resistenza, nell’ultima riunione dei consigli del 2 agosto affermava per bocca di Bono Boni ai Capitani: « voluntà del popolo è che si assaltassimo li nemici pregando le V. S. oltre al confidar in Dio confidino anche in loro medesimamente, ne’ quali si spera vittoria. 11 che anche sarà onore a V. S. e utile alla Città ». Sono le ultime parole magnanime di Firenze e dell’Italia medioevale. Parve udirle il Ferruccio e obbedì. La sua grandezza non è tanto nelle parole al Maramaldo (e lasciamo in un pietoso oblìo questo disgraziato sul quale si è anche troppo disputato e al quale si potranno, se mai, accordare le attenuanti degli usi militari del tempo, del vizio di mente e della provocazione grave: ma soprattutto non sarebbe tempo di non farne più un simbolo e di togliere dal nostro vocabolario le sciocche parole ricavate dal suo nome che ci hanno fatto tanto male?); la sua grandezza vera è nella risposta al luogotenente Giampaolo Orsini. Andato incontro al nemico superiore di forze, quando avrebbe potuto evitarlo, dopo l’iniziale vittoria in cui morì 1 Orange, circondato da ogni parte, all”Orsini che, vista ormai inutile ogni resistenza, gli chiede: «Signor Commissario, dobbiamo arrenderci? » rispose: cc No, io voglio morire ». E a quel magnanimo grido i suoi gli si serrano attorno e uno contro venti hanno ancora la forza di ricacciare da Gavinana gli imperiali; ed egli, davanti a tutti, li insegue con la spada alle reni, finché, circondato ancora, rinchiuso in una casupola col solo Giampaolo, si batte fino all’estremo delle forze; e cade ferito e vien portato al capitano imperiale. Io voglio morire. Mantenere la consegna, obbedire fino alla fine, salvare l’onore e l’avvenire. Morire per vivere nell’eternità. Ferruccio morendo salvava l’onore suo e di Firenze e 1 Italia. Vito Vitale. Spigolature e Notizie Urna ricca raccolta di poesie dialettali savonesi antiche e moderne a cura di F. Noberasco e I. Scovazzi, sotto il titolo di « o Cicciolla », e teste uscita a sa\ -»na coi tipi di Pietro Lodola. & % % Renato Pialtoli prosegue le sue indagini di storia medievale illu?trando « Un mercante dei. Trecento E cu artisti del ΤΕΛΙΡΟ suo, e cioè Francesco Datini, in uno studio comparso nella « Rivista d’Arte » di Firenze del 1929 ( fascicolo li e III). Vi si trovano notevoli accenni a rapporti tra gli artisti fiorentini e la Corsica. i'fi ❖ ^ Mentre il Colle di S. Benigno sta per scomparire, uno scritto non firmato ricorda opportunamente in « Corriere Mercantile » del 27-28 Giugno 1930 la storia de « La Torre di Capo di Faro ». sii Î-Î ❖ « Brevi note di toponomastica ligure » pubblica Giulio Miscosi in « Lavoro » del 28 Giugno 1930. % i|: au. e. i. » scrive in « Secolo XIX » del 28 Giugno 1930 di Capitan Raimondo ». Si tratta d’un tipico lupo di mare igenoveee, Raimondo Villa di Sturla, che nel 1849 s’awenturò con un leggero scifo (un latino lungo otto metri) nell Oceano toccando le Isole di Capo Verde. Ricco, -come di consueto, è il fascicolo dell Aprile-Giugno dell’« Archivio Storico di Corsica». Oltre ad una nutrita bibliografia (a cura di R. Cardarelli, Ersilio Michel, Vito Vitale ed O. F. Tencajoli) ed alle rubriche Documenti, Notizie di Fonti e Varietà son da segnalarsi tre memorie importanti. La prima di R. Russo isu « La rirellione di Sampiero Corso », condotta su documenti inediti dell’Archivio di Stato di Genova, la seconda di Ersilio Michel su « Stendhal e Mons. Pe-raldi a Civitavecchia; Una segreta missione in Corsica del Governo Pontificio », con documenti tratti la maggior parte dall’Archivio segreto Vaticano; la terza di /. Rinieri, su « S. Gregorio e l’assestamento episcopale dell’Isola ». ÿ ÿ ÿ Vito Vitale rievoca nel fascicolo del Giugno 1930 della « Rivista storica italiana » di Torino, la figura di « Luigi Corvetto », recensendo il recente volume di M. Ruini sull’eminente figura dello statista genovese. ÿ ÿ $ Vincenzo Porri recensisce nella « Rivista storica italiana » di Torino del Giugno 1930 lo studio di A. Fossati « Origine e sviluppi della carestia del 1816-17 negli Stati Sardi di terraferma », che è in parte dedicato alla Liguria, dove più infierì la carestia. ÎJÎ ijc ÿ Giuseppe Pessagno lia uno scritto su « Le quattro età della cittadella di Chiavari » in « Genova», Rivista Municipale del Giugno 1930. $ ÿ ^ Tomaso Pastorino scrive in « Genova », Rivista Municipale del Giugno 1930, su « Un ritratto d’Andrea Doria posseduto dal Municipio » di Genova cui fu offerto dal March. Emanuele D’Azeglio nel 1867. 278 Spigolature e Notizie « p. a. m. » ha in « Nuovo Cittadino >s del 1° Luglio 1930 uno scritto su « Genova e il Bellarmino ». \ i si ricordano parecchie occasioni in cui il Bellarmino fu a Genova specialmente da studente, per « dispute » accademiche e predicazioni. $ $ ÿ « Omicron » ricorda in « Corriere Mercantile » del 1-2 Luglio 1930 « Giovan Battista Draghi » pittore genovese dimenticato. ÿ $ $ In «Lavoro» del 4 Luglio 1930 «Omega» scrive, col titolo: «A ritroso dei secoli » una pagina di ricordi storici sïïl Santuario di Belvedere. Nel « Giornale di Genova» del 4 Luglio 1930 lo scritto: «Un rifugio di poesia a Pegli : \ illa Pallavicini » di Cicilia Paolini Ferroro ricorda Clelia Durazzo insigne cultrice di botanica morta nel 1830, che fondò il ricco giardino di piante rare in seguito trasformato nella grandiosa villa. $ $ $ « Omicron » scrive in « Corriere Mercantile » del 4-5 Luglio 1930 su « Un Pittore senese a Genova - Ventura Sali m beni ». $ $ $ /. g. in « Giornale di Genova » del 5 Luglio 1930 ha un cenno storico ed artistico su « Il Santuario di Montallecro » in quel di Rapallo. ❖ ❖ ❖ Giuseppe Leti in un opuscolo pubblicato il 6 Luglio 1930, neir81° anniversario della morte del Poeta, riafferma « Intorno la iconografia mameliana », la tesi già espressa su queste colonne nel fascicolo IV dell’anno 1928. « Il Nuovo Cittadino » del 6 Luglio 1930 ha uno scritto di « De Allegri » dal titolo: « I grandi VELLUTI e damaschi GENOVESI» dove è ricordato soprattutto l’antica Fabbrica degli Ardizzoni che tenne a lungo il primato genovese in questa industria. V V V Manlio Boriili scrive in « Giornale di Genova » del 6 Luglio 1930 un articolo dal titolo: «A. Noli, solitaria pescatrice... ». Pagina di storia e d’arte, dove il ricordo di Antoniotto da Noli, l’audace na^gatore scopritore delle Isole di Capo Λ erde, è intrecciato a quello di San Paragorèo, il leggendario Patrono di Noli. $ $ ÿ Su « L*Abbazia di S. Pietro in Portovenere », storica chiesa ligure che si età riaprendo al culto, è comparso ianonimo' uno scritto illustrativo iti «Corriere Mercantile » dell‘8-9 Luglio 1930. « /. g. » scrive in <« Giornale di Genova » del 9 luglio 1930 su « La prima Cattedrale di Genova » ossia la Chiesa dei Santi Apostoli, oggi detta di San Siro. $ $ ÿ Λ. L. rievoca la figura di « Goffredo Mameli », in « Piccolo » di Roma del-111 Luglio 1930 nell’ottanlesimo anniversario della morte. $ ÿ ÿ Cenni storici su « La Λ illetta Dinecro » già dimora patrizia ed ora Giardino Pubblico, pubblica Michelius in « Lavoro » dell’ll Luglio 1930. ÿ $ ÿ Lazzaro De Simoni scrive in « Nuovo Cittadino » del 13 Luglio 1930 su « La Chiesa di Santa Caterina di Lucoli » antico monumento ora scomparso. Spigolature e Notizie 279 ^ ^ $ « Lux » traccia in « Lavoro » del 15 Luglio 1930 un po’ di storia de « La Lanterna », il tipico Faro di Genova. ÿ ÿ ÿ Su « Le Nobiltà locali in Liguria » scrive « Januensis » in « Corriere Mercantile » del 15-16 Luglio 1930. Lo scritto è riprodotto nel fascicolo di Luglio di « A Compagna ». ÿ ÿ ÿ Si chiede G. B. Allegri in « Lavoro » del 13 Luglio 1930: « I Liguri sono d’origine celtica? ». Senza giungere a definitive conclusioni, 1Ά. rileva come abbondino in Liguria i ricordi di tale civiltà, specialmente nella sua parte occidentale. ÿ ÿ ^ , In « Corriere Mercantile » del 18-19 Luglio 1930 è tracciata succintamente la storia de « La Camera di Commercio di Genova » dalle sue origini ad oggi. Lo scritto è anonimo. ^ ÿ ÿ « Il Lavoro » ha nel numero del 19 Luglio 1930 (segnata ***) « Una Pagina di Storia Genovese » che illustra uno dei momenti più importanti della Storia della Repubblica nel secolo XVI, già illustrato da Carlo Bornate nel suo studio su « Una missione segreta di Bernardo Tasso », e riferentesi al complesso momento politico in cui sorse la « Lega Santa ». ❖ * * In « Nuovo Cittadino » del 20 Luglio 1930 Lazzaro De Simoni illustra « La Chiesa di San Giuliano » in Albaro. ÿ ÿ ÿ D. L. Pariset scrive in tono umoristico sul « Giornale di Genova » del 22 Luglio Ì930 come « L’aviatore Ramon Franco storiografo e profeta non riconosce Genova patria di Colombo ». ÿ ^ ^ Rievoca la storia ed espane i pregi artistici de « La Chiesa della Maddalena » (una tra le più aristocratiche di Genova! il Sac. T. Badino in « Nuovo Cittadino » del 22 Luglio 1930. ❖ ❖ * b. m. recensisce in «Corriere Mercantile» del 22-23 Luglio 1930 col titolo « L’arte del battiloro in Genova » il recente volume di Luigi Brenno. ❖ * ❖ Renzo Ricciardi oppone al Tilgher (in « Corriere Mercantile » del 23-24 Luglio 1930) una sua « Difesa dei dialetti morituri ». Lo scritto, denso assai di rilievi, interessa anche Genova e i liguri tutti. * ❖ * Lazzaro de Simoni in « Nuovo Cittadino » del 24 Luglio 1930 recensisce i due recenti volumi di P. Levati « Dogi biennali di Genova dal 1528 al 1699 ». * * * /. g. in « Giornale di Genova » del 25 Luglio 1930 offre notizie storiche ed artistiche su « Il Santuario dell’acqua santa » presso Yoltri. ❖ * * Su « La Chiesa di S. Francesco di Castelletto », uno dei ipiù interessanti monumenti dell’arte gotica in Genova, ora distrutta, scrive Lazzaro De Simoni in « Nuovo Cittadino » del 27 Luglio 1930. * * * Su « La Borsa delle Merci » (già Borsa Valori) e sulla vetusta Loggia che l’accoglie ha un buon cenno storico il « Corriere Mercantile » del 29-30 Luglio 1930. * * * « La Scuola Grigia », un cenacolo d’artisti genovesi di cinquantanni fa, è ricordata da « Flavius » in « Giornale di Genova » del 30 Luglio 1930. 280 Spigolature e Notizie sjî î{î î{î A limila: « Il Pellegrino » il « Giornale eli Genova » del 30 luglio 1930 ha uno scritto che ricorda « I Genovesi ed il più celebre Santuario d’Oriente », quello della Vergine sul Monte Carmelo. * ❖ >!i « La Compagnia dei Caravana » è il titolo d'uno scritto anonimo in « Corriere Mercantile » del 30-31 Luglio 1930. « Garibaldi agricoltore » è il titolo d’uno scritto a firma m. s. in « Giornale di Genova » del 31 Luglio 1930. Collo stesso titolo « 11 Secolo XIX » del 10 Settembre oftre una pagina del recente libro del Curatolo che ha il titolo medesimo. Il fa sci colo Giugno-Luglio 1930 di « Mediterranea » è esclusivamente dedicato aH’illustrazione dell’opera del letterato corso Francesco Domenico Fal-cucci, per opera di Gìjio Bottiglioni. Arrigo Solini, Guido Mazzoni, Clemente Merlo, Ersilio Michel e Sebastiano Deledda. Nella rivista « Fert » è comparso un breve studio di Vittorio Adami su « Il nizzardo Augusto Anfossi nelle Cinque Giornate di Milano ». Ne dà una recensione « La Lombardia nel Risorgimento Italiano », di Milano del Luglio 1930. < « Il piì antico Santuario della Liguria », cioè Soviore, al disopra di Monte-ros>o al Mare (Riviera di Levante) è illustralo da un anonimo in «A Compagna» di Luglio 1930. ❖ ❖ ❖ « Genova ». Bollettino Municipale del Luglio 1930, ha, in francese, uno scritto di Henry Brdarida su « Christophe Colomb dans la littérature Française ». Col titolo di « Regime secco a Caprera » si narra in « Giornale di Genova » del 3 Agosto 1930 un episodio della vita di Garibaldi nell’isola tratto dal libro del Curatolo: « Garibaldi agricoltore ». :je :|ì « La Badia Cistercense di Tiglieto », uno dei più vetusti edifizi monumentali della Liguria (ora pur troppo in rovinai è ricordato in « Giornale di Genova » del 3 Agosto 1930 da Manlio Burlili. * ❖ Su « La Chiesa di Granarolo », antichissimo sacello sulle alture di Genova, sopra la stazione Principe, scrive Lazzaro Do Simoni in « Nuovo Cittadino » del 3 Agosto 1930. « Loano, antico feudo dei Doria » <* illustralo in un articolo anonimo in « Giornale di Genova » del 5 Agosto 1930. # # :j: In « Lavoro » del 5 Agosto 1930 G. B. Allegri in uno scrìtto dal titolo « Alla ricerca dell uomo terziario » illustra la storia antica di Toirano e di Loano, vecchi borghi liguri ricchi di memorie. Su « Il terremoto della Liguria occidentale nel 1831 » scrive F. Ernesto' Mitrando in « Corriere Mercantile » del 6-7 Agosto 1930. * ❖ * «Sul Vescovo di Luni Antonio Camilla ó Camulla » scrive il Canonico Mussi in « Nuovo Cittadino » dell’8 Agosto 1930. Dai Camulla, poi Camilla, alcuni derivano il nome di « Camogli ». Spigolature e Notizie 281 In «Giornale di Genova» del 9 Agosto 1930 Vito Vitale ricorda « Felice Mo· rando, lo speziale di via Luccoli » che tanta parte ebbe nei moti rivoluzionari (tólla fine del 18° secolo, e s’allontanò poi da Genova seguendo il Massena. îk î£ ì-i Alberto Gianola in « Nuovo Cittadino » del 10 Agosto 1930 iparla de « L’inte-f.L'SSE di Nicolò Tommaseo per la Corsica » alla quale dedicò studi ed affetti Socialmente rivolti verso la figura del Paoli. Giulio Mis cosi scrive in «Giornale di Genova » del 12 Agosto 1930 su « La strada romana attraverso Genova ». È, come è noto, la via Aurélia. L’A. ne ri presenta il percorso preciso. Col titolo « Molare » uno scritto anonimo in « Lavoro » del 13 Agosto 1930 ci informa sull’origine e sulle vicende del Castello che i Malaspina avevano in quel luogo ridente della valle dell’Orba. « Sopra San Giovanni il Vecchio » a complemento d’altro scritto precedente-mente pubblicato in « Nuovo Cittadino » scrive V. C. nel numero del 13 Agosto 1930 dello stesso giornale. ì-ì 'f Di « Un Santuario di Genova » assai ricordato nella storia cittadina, quello detto della Madonnetta in Carbonara, scrive Giuseppe Scolari in « Nuovo Cittadino » del 14 Agosto 1930. In « Nuovo Cittadino » del 15 Agosto 1930 « Fra Ginepro » fa la storia de « Il Santuario di Lampedusa presso Castellaro-Lk;ure » ricordato da Giovanni Ruf-fini nel suo romanzo « Il Dottor Antonio ». * ❖ ❖ Col titolo «Arma: le rade profumate» e la firma «Tugnolo» il «Giornale di Genova » del 21 Agosto 1930 ha una pagina di storia della grotta, ora Santuario, (si dice fosse abitata dai primitivi liguri) (presso Arma di Taggia. \ « Dogi Genovesi » è il titolo d’uno scritto di Vito Vitale in « Giornale di Genova » del 22 Agosto 1930. L’istituto dogale v’è Brevemente studiato nella sua origine, nella sua costituzione e nel suo funzionamento. 9 9 « * V Arrigo Fugassa in « Corriere Mercantile » del 23-24 Agosto 1930 scrive d’uno scrittore ligure moderno, « Carlo Pastorino », narratore vivace d’episodi della nostra ultima guerra. Lazzaro De Simoni illustra in « Nuovo Cittadino» del 24 Agosto 1930 «La Chiesa dell’Annunziata di Portoria » volgarmente detta di S. Caterina ed attigua al Palazzo di Pammatone. « I tempi del B. Baldassarre Ravaschieri - 1419-1492 » sono rievocati da L. Saiiguineli in « Nuovo Cittadino » del 26 Agosto 1930. 11 Ravaschieri chiava rese, fu uri francescano devoto alla Repubblica di S. Giorgio. Angelo Ferrila in « Nuovo Cittadino » del 26 Agosto 1930 scrive su « L’integrità morale di Ausonio Franchi ». ❖ ❖ ❖ Su « La Lanterna », il Faro di Genova, il « Giornale di Genova » del 26 Agosto 1930 ha uno scritto anonimo illustrativo. 282 Spigolature e Notizie ^ ^ ^ Franco TorrieUi scrive di « Tagliolo e il suo castello» in «Giornale di Genova » del 28 Agosto 1930. Il Castello illustrato lia vicende storiche interessanti e pure posto in Monferrato si riannoda però ai fasti della Repubblica Geno veee alla quale per un eerto tempo Tagliolo appartenne. $ ÿ ÿ « Il Beato Jacopo da Voragine », del quale ricorre quest’anno il centenario della nascita, è ricordato da « Fra Ginepro » in « Nuovo Cittadino » del 31 Agosto 1930. ^ $ ÿ Alla necessità di più accurate indagini da compiersi su vari problemi economici riguardanti la storia di Genova nella prima metà del secolo scorso, problemi adombrati da A. Fossati nel recente studio su le « Origini e sviluppi della carestio nel Piemonte del 1816-17 e degli Stati Sardi di Terraferma », accenna A. Codignola, recensendo tale opera nel « Leonardo » di Milano delTAgosto 1930 ì-ì Dionigi Scano in « Mediterranea » dell’Agosto 1930 afferma la discendenza sarda dell Eroe Poeta Goffredo Mameli, illustrando la figura dell’avolo suo, Don Giovanni Maria, del padre Giorgio e del fratello Francesco. « Michel Giuseppe Canale » è ricordato in « A. Compagna » dell’agosto 1930 in uno scritto di Emilio Olivari. $ ÿ ^ « L expulsion des Jésuites d’Ajaccio (1768) » è illustrata con nuovi documenti da A. Ambrosi nella « Revue de la Corse» del Giugno-Agosto 1930. ❖ ❖ ❖ In « A Compagna » di Agosto 1930 Giuseppe Rizzo scrive su « Il validissimo CONCORSO DEI GENOVESI ALLE IMPRESE DELLA PRIMA CROCIATA ». ❖ ❖ ❖ Nella « Revue de la Corse » del Giugno-Agosto 1930 E. Franceschini studia « La Corse aux premiers jour de la Révolution », soffermandosi ad illustrare « La journée de 5 Novembre 1789 ». ì*e % ìj: Gemma Roggero Monti in « A Compagna » d’Agosto 1930 illustra col titolo « La Madonna di Montebruno » un Santuario di Val Trebbia che fu già romitorio agostiano ed ha ricordi storici notevoli. ÿ ÿ ÿ Un notevole contributo alla storia della navigazione mercantile nei riflessi della sua espansione nell’oltre Oceano, ci è dato da Giuseppe Pessagno, che illustra 6U base documentaria inedita « La grande navigazione genovese al XVII secolo e La Compagnia delle Indie Orientali », nel fascicolo dell’Agosto di « Genova », Rivista Municipale. Come è giudicata « Genova negli scrittori americani » ci è narrato da Ars in « Lavoro » del 2 e 14 Settembre 1930. ❖ ❖ ❖ Il « Giornale di Genova » del 3 Settembre 1930 ha uno scritto (a firma « Il Pel-legrino ») su « Tolemaide, la Genova del Levante ». V’è rievocata la fierezza dei crociati genovesi nell’espugnarla e le attività commerciali che v’isti lui la Repub blica, di cui divenne feudo. % # # Eugenio Casanova in « Ricordi Garibaldini », pubblicati da « L’Impero d’Italia », di Roma, del 3 Settembre 1930, rievoca un episodio significativo della vita dell Eroe, e cioè come seppe rintuzzare da par suo il 5 Dicembre 1851 a Lima delle offese fattegli da Un gallo. Spigolature e Notizie 283 ❖ ❖ ❖ In «Giornale di Genova» del 3 settembre 1930, alca scrive su « I Vestici Genovesi » evocando l’episodio d’un’aspra ribellione jjopolare contro il Marescial- lo Boucicaut, governatore di Genova in nome di Carlo VI di Francia (3 Settembre 1409). ❖ ❖ ❖ « Il Santuario di Montegrazie » presso Portomaurizio, ricco di bellezze artistiche come di storici ricordi collegati all’Ordine di Malta, è illustrato da Fra Ginepro in « Nuovo Cittadino » del 4 Settembre 1930. In « Giornale di Genova » del 4 Settembre 1930 è recensito il recente opuscolo di Antonio Cappellini « Santuari del Genovesato ». In « Corriere Mercantile » del 5-6 Settembre 1930 F. Ernesto Morando raduna, col titolo « JNicolò Paganini - L’infernale italiano », ricordi interessanti la giovinezza e la vita artistica del grande musicista genovese. Di notevole interesse è lo scritto di Luigi Devoto in « Secolo XIX » del 6 Settembre 1930 col titolo: « Sopra la Croce, in Borzonasca ». V’è ricordato come nel 1713 dal paese di quel nome Genova traesse ;per Corsica una Colonia modello: 600 montanari furono arruolati con le relative famiglie e si stabilirono ipresso Ajaccio in località ch’ebbe nome: Porto Chiavari. Albéric Cahuel ne « L’Illustration » di Parigi del 6 Settembre 1930, illustra « Un reliquaire du Romantisme », e cioè 1’ « Album d’Alexandre Bixio ». Lo studio è corredato da una ben informata nota biografica sull’eminente personaggio ligure. · ìjc ìj: In « Giornale di Genova » del 7 Settembre 1930 è uno scritto anonimo tolte, dalla Rivista Municipale « Genova », dove, sotto il titolo « L’Albergo dei Poveri » si riferiscono cenni storici sul Ricovero fondato con quel nome dal Brignole sull’altura di Carbonara. Carlo Gentile, Direttore dell’Osservatorio di Imperia, muove « Alla ricerca degli antichissimi ABITATORI di Liguria » in « Lavoro » del 10 Settembre 1930. Grotte, tane e caverne sono ricordate in breve ma con cura, pel materiale interessante il tema. ìi: :·: i'fi Il <( Corriere Mercantile » del 13-14 Settembre 1930 riporta dal « Bollettino Storico Bibliografico Subalpino » una Nota di A. Bongioanni « Sul nome locale Imperia » assunto di recente dalle città riunite di Portomauriizo ed Oneglia. ÿ ❖ ÿ Nel « Corriere Mercantile » del 13-14 Settembre 1930 è inserito « Un Poemetto di Federico Mistral in lingua genovese », traduzione eseguita dal compianto Angelo Federico Gozzo, noto cultore del dialetto genovese. Mario Maria Martini scrive in « Giornale di Genova » del 14 Settembre 1930 su « L’ultima avventura di Giuliano Grimaldi ». Figlio di Luca, Doge di Genova nel 1728-29, fu dal padre esiliato (sotto colore di essere inviato straordinario al Sultano del Marocco) a cagione della vita avventurosa che conduceva a Genova. $ ❖ Iiì « Nuovo Cittadino » del 14 Settembre 1930 Fra Ginepro recensisce col titolo « Il Transito di S. Caterina » una « Vita » recentemente pubblicata da P. Gabriele sulla Santa di Casa Fieschi. 284 Spigolature e Notizie ì|: « Il Lavoro » del 14 Settembre 1930 riferisce in tono umoristico la comunicazione presentata al recente Congresso delle Scienze di Amburgo dal Prof. Ulloa secondo la quale 'Cristoforo Colombo sarebbe stato un corsaro catalano, parente del famoso Cuollion. ' « Il Collegio Nazionale Cristoforo Colombo di Genova » è ricordato nella sua storia e nel suo riferimento al Ruffini (Lorenzo Benoni) in « L'Illustrazione Italiana » del 14 Settembre 1930 in uno scritto illustrato a firma g. Su « Pierre Puget a Genova » scrive X in « Corriere Mercantile » del 17-18 Settembre 1930. ❖ ❖ In « Giornale di Genova » del 18 Settembre 1930, Leonardo Lagorio ricorda « La Repubblica di Portomaurizio » evocando una bella pagina di storia medievale della Liguria. ❖ ❖ $ Col titolo « Zena » ed a firma « Il Lettore » è recensito in « Giornale di Genova » del 20 Settembre 1930 il recente volume di F. A. Castello: « Zena, a Ligùria e ó sò folclorismo » in duecentocinquanta Sonetti in dialetto genovese. :-ì :·: :|c « Sulle origini dei Malaspina » ha una breve Nola il Canonico Mussi in « Nuovo Cittadino » del 20 Settembre 1930. « Il Santuario della Madonnetta e il suo fondatore » ricorda uno scritto anonimo in « Corriere Mercantile » del 20-21 Settembre 1930. :Jì :-ì In « Corriere della Sera » del 23 Settembre 1930 Umberto Fracchia scrive una pagina di folklore ligure col titolo « I Cantori di Molassana », famoso gruppo canoro d’un paesello vicino a Genova ch’ha forti tradizioni di canto popolare e le continua. ÿ $ ÿ « Una satira di Montesquieu del 1728 » è riferita in uno scritto anonimo in « Lavoro » del 25 Settembre 1930. È contenuta in sette quartine di settenari di cui la prima è riportata, le altre analizzate. ÿ ÿ ÿ Uno scritto anonimo in « Giornale di Genova » del 25 Settembre 1930 ricorda « Il III Centenario di Ambrogio Spinola » rilevando specialmente la rivalità tra il grande condottiero e i Doria. In « Nuovo Cittadino » del 27 Settembre 1930 uno scritto del Can. D. Cam-biaso dal titolo « Sant’Agostino e la Liguria » ricorda i Cenobi agostiniani già sparsi per la Liguria ed ora in gran parte distrutti o soppressi. ❖ ❖ ❖ « Fra Ginepro » in « « Nuovo Cittadino » del 27 Settembre 1930 ha uno scritto sui « Poeti ventimigliesi », l’Aprosio, il Gandolfo, il Biamonti, il Pei-lavino. ^ i'fi # Di « Gian Domenico Cassini » crive a lungo Stefano Rebaudi in « A Compagna » del Settembre 1930. ❖ ❖ ❖ «Un Cesare ligure» (Publio Elio Pertinace) è ricordato da Uberto Zuccardi Merli in « A Compagna » del Settembre 1930. Spigolature e Notizie 285 Antonio Cappellini in « A Compagna » del Settembre 1930 inizia un suo studio sui i «Tesori d’arte patria» con un cenno storico su l’arto genovese. ❖ ❖ ❖ Di « Francesco Ottone » notevole figura di popolano genovese che accostò tutti gli uomini più rappresentativi della democrazia dell’età sua conservando vivo ricordo dei personaggi più cospicui del Risorgimento scrive F. Ernesto Morando in « A Compagna » del Settembre 1930. Su 1’« Origine d’un nome con cenni storici di un Santuario » scrive Giovanni Florio in « A Compagna » di Settembre 1930. Si tratta del Santuario di Ofegina e dell’etimologia di questo vocabolo. Gemma Roggero Monti in « Giornale di Genova » del 30 Settembre 1930 scrive su «I corallieri di Liguria » ; un’arte, questa, di lavorare, per trarne vezzi, i coralli che anche dalla Liguria va scomparendo. ❖ ❖ Ne « L’Indice » del Settembre 1930, Gino Saviotti dedica un sagace ed acuto saggio all’arte di « Eugenio Montale ». ❖ ❖ ❖ Uno studio particolareggiato su « Il sacco di Genova del 1522 » ha Mario Cybeo in « Corriere Mercantile » del 30 Settembre-10 Ottobre 1930. APPUNTI PER UNA BIBLIOGRAFIA MAZZINIANA Studi e scritti su G. Mazzini pubblicati all’estero Giorgio Nurigian, Sàzdatelità na italianka dàrjava, Sofia, Peciatnitz Doverie, 1930. II N. prende in esame le figure più eminenti della storia italiana, dedicando al Mazzini non poche interessanti pagine. --? Letters of thè Italion Patriot. Mazzini, in « New Jork Times », 13 giugno 1930. Breve recensione delia raccolta di lettere mazziniane edite a Londra da Alice De Rosen Jervis con introduzione e note di Bolton King, già segnalata. --« Anniversario di Giuseppe Mazzini, in « Progresso Italo Americano », New Jork. 22 giugno 1930. Breve nota commemorativa in occasione deU’anniveisario della nascita dell’Apostolo. --9 Giuseppe Mazzini, in « Il Mattino d’Italia », Buenos Ayres, 22 giugno 1930. Vibrante nota esaltatrice della figura del grande Italiano nella ricorrenza della sua nascita. Giuseppe Bottai. Il pensiero di Giuseppe Mazzini in uno scritto di S. E. Bottai, in « Il Mattino d’Italia », Buenos Ayres, 23 giugno 1930. \ iene ripubblicato il discorso tenuto a Genova dal Bottai, già segnalato. --, Nell*anniversario della nascita di Giuseppe Mazzini, in « Mattino d’Italia », Buenos Ayres, 24 giugno 1930. Si dà notizia delle ce:imonie commemorative avvenute a Genova il 23 giugno per l’anniversario della nascita di Mazzini. --- Mazzini’s Letters, in « John o'Londons Weekly », London, 28 giugno 1930. Breve recensione della raccolta di lettere tradotta da Alice de Rosen Jervis, già segnalata. --, Mazzini e la beata Paola Frassinetti - L’opera della Madre delle Dorotee durame il Risorgimento, in « Bollettino della Sera », New Jork, 29 giugno 1930. E’ illustrato il noto episodio della protezione acco:data alle Dorotee dal Mazzini durante la epopea romana del 1S49. Η. Λ an Ouzen, Fascisme, Kapital en Arbeid - De « sensus corporativus ». Giuseppe Bottai, dicter en minister, in « De Maasbode », Rotterdam, 8 agosto 1929. Ampia disanima della interpretazione del pensiero mazziniano data dal Bottai nel discorso tenuto in Genova già segnalato. Arthur Liyincston, Mazzini*s Letters, in New Jork Herald Tribune », New Jork. 17 agosto 1930. Ampia recensione della raccolta di lettere mazziniane tradotta dalla Rosen Jervis, già segnalata. Bibliografia Mazziniana 287 Arnaldo Cervesato, Tre lettere inedite di Mazzini, in « Opinione della Domenica »,' Philadelphia, 7 settembre 1930. Il C. ripubblica le lettere di Mazzini a Fortunato Prandi, già edite nel fascicolo di maggio dell’Opere e i Giorni. Opere e studi su G* Mazzini pubblicati in Italia Pellegrino Ascarelli, Giuseppe Mazzini e il problema religioso in Italia, Roma, Sapientia, 1930. L’A. ripubblica in opuscolo illustrandola la lettera del Mazzini al filosofo livornese Elia Be-namozegh, già segnalata. Antonio Rosmini, Saggio sul comuniSmo e sul socialismo, pubblicato a cura di Alberto Canaletti Gaudenti. Roma, Signorelli, 1930. L’importante saggio del Rosmini, pubblicato con una breve introduzione del Canaletti, si ispira a concetti non molto diversi da quelli che sono alla base della critica fatta al comuniSmo dal Mazzini. Il saggio del Rosmini è del 1847; la lotta ingaggiata dal Mazzini contro il comuniSmo è ancora anteriore. Rinaldo Caddeo, Giulio Solitro fiduciario di Mazzini a Trieste, in « Piccolo », Trieste, 10 luglio 1930. Il Caddeo continua le sue importanti ricerche, che tanta luce apportano alla conoscenza del lavoro di propaganda fatta con la stampa clandestina. In questa puntata illustra la figura d» Giulio Solitro ed altre figure di benemeriti patrioti, con I ausilio di nuovi documenti tatti dall’Archivio di Stato di Trieste. A. 0. Olivetti, Il potente e originale G. Ferrari, in « Gazzetta », Messina, 12 luglio 1930. Il foglio messinese pubblica in anticipo la prefazione, premessa « ad un libro di prossima pubblicazione », della quale ripubblichiamo questa ardita interpretazione di uno dei più discussi problemi del nostro Risorgimento: a Essere stato repubblicano federalista è forse un crimenlese? Non furono repubblicani Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi, Francesco Crispi? E perfino Giovanni Nicoteia e il Mordini e il Correnti e Visconti Venosta. E non furono federalisti Vincenzo Gioberti e Carlo Cattaneo e il Montanelli e tanti altri ? Allora l’idea federativa aveva altrettanti diritti che quella unitaria. E l’idea federativa doveva necessariamente essere repubblicana come quella unitaria doveva essere monarchica, fosse con la Casa di Savoia o col Borbone e con Murat o perfino col Duca di Toscana o coi Duca di Parma. Assurda appare invece in assoluto l’idea mazziniana di una repubblica unitaria, regime necessariamente borghese e capitalistico al quale mancava borghesia e capitale ed al quale sarebbe venuto meno forza di principe e consapevolezza di popolo, come mancò alla Repubblica Romana ». Romolo Cacgese, Re Carlo Alberto e la prima propaganda Mazziniana, in « Bollettino della Regia Università italiana per stranieri », Perugia, 19 luglio 1930. E’ la terza lezione del corso su La Rù>oìuzione unitaria italiana, tenuta a Perugia il 9 lugLo. Dopo aver accennato alla ben nota lettera di Mazzini a Carlo Alberto, all’alba del nuovo regno, in tal modo giudica i primi tentativi insurrezionali diretti dall*Apostolo : e L’ardore della fede patriottica fece nel campo pratico commettere parecchi errori al generoso patriota. Infatti nel ’33 e nel ’34 si ebbero sterili tentatavi sediziosi e insurrezionali, buoni soltanto a convertire ardenti capi e fautori mazziniani in eroici martir.... ». 288 Bibliografia Mazziniana Fra Salirvibeno, Il XXII Luglio 1854, in « Corriere Emiliano », Panna, 22 luglio E rievocata la feroce repressione del tentativo insurrezionale avvenuto a Parma il 22 luglio . attn uito al Mazz.ni dallo sto ico Emilio Casa, e non a torto, come afferma l’au- t0ie' , qx;esto articolo. Si veda infatti quanto il M. stesso scrive ad Emilia Hawkas il 26 ed il 31 luglio 1<854. Alessandro Luzio, lì sei febbraio negli atti officiali austriaci, in « Corriere della Sera », Milano, 23 luglio 1930. I! chiaro storico, prendendo lo spumo dalla storia dei moti del 6 febbraio del Pollini, formula un giudizio definitivo sulla responsabilità del M. nel fallimento di essi. ,, Elementare giustizia es.ge — dichiara- che non si addossino a ]ui tutte le cause del rovescio: bensì in massima parte agli agenti da un lato (al Brizi soprattutto) che scambiando i propri desideri per realtà, esagerarono la facilità dell'impresa; ai dissidenti dall’altro, che tardarono frastornati all ultimo momento dall'inclemente stagione, ad abboccarsi col Mazzini si Svizzera per fargli un quadro esatto della situazione, e chiusisi in una sterile cri-a non va uta.ono tutto il danno del loro assenteismo, peggio ancora non videro che il riservarsi il propr.o concorso all'eventualità d'un primo successo favorevole equivaleva ad un ingannevole adesione ». Claudio Isopescu Un mazziniano romeno: Nicola Balenai, in « La Voce di Mantova », Mantova, 24 luglio 1930. L 1. rievoca la nobilissima figura del letterato patriota romeno Balcescu, che fu un fervente seguace del Mazzini, da lui conosciuto personalmente a Parigi nel novembre 1849. Romolo Caccese La corrente Mazzini,,na e la corrente neoguelfa - La prima guerra dell indipendenza, in « Bollettino della R. Università Italiana per .stranieri », Perugia, 26 luglio 1930. Nella quarta lezione del corso per gli stranieri tenuta nell’Università di Perugia, il chiaro storico trattò, fra l'altro, dell’evoluzione del pensiero mazziniano dopo il 1834. Ci sembra ssai ardita, ed in ogni modo non ancora dimostrata, la seguente affermazione: « dal· 1 azione mazziniana anteriore al 1833-34 traspare che il pensiero, la preoccupazione domi-me s* circoscriveva al raggiungimento dell unità nazionale. Nel decennio successivo Mazzini trasse una nuova conseguenza, che venne a far parte del suo ideale programma. Egli si convinse che la repubblica sarebbe stata una istituzione mal fondata, forse inutile, se non fosse stata preceduta da una profonda, radicale rivoluzione religiosa ». Ma tale ideale programma lo si ritrova formulato in tutto il suo rigore, già prima della ben nota « tempesta del dubbio ... la quale accadde per l’esito moralmente sconfortante dei moti del 1833-34. e se mai lo riconfermò sempre più nella convinzione — più volte già espressa in numerosissimi scritti — che soltanto da una profonda rivoluzione religiosa l’Italia avrebbe tratto alimento per una non effimera rigenerazione politica. Renato Sorica, Patrioti piemontesi in terra cisalpina, in « La Lombardia nel Risorgimento Italiano », Milano, luglio 1930. 11 S., con la consueta sagacia, illustra le benemerenze unitarie di un valoroso nucleo di esuli piemontesi, liguri e napoletani, che operarono in Milano sulla fihe del 1700. L’acuto saggio si chiude con la seguente conclusione: «In quanto al ceto sociale cui apparteneva questo tipico Stato maggiore di una nazione che andava realizzandosi al canto di un fiero inno di guerra, non sarà fuori posto osservare che la più parte di esso era data dal clero antivaticanista uscito dal Portico pavese, associato con una discreta rappresentanza di medici, di negozianti, d’avvocati, di militari e di nobili spiantati, in altri termini dalla frazione più intraprendente di quel terzo stato che pure essendo ancora sprovvisto di politica esperienza e gravato per di più di nerissime colpe verso il proprio Sovrano, fu non di meno il primo a gettare gli occhi al di là dei ristretti limiti della propria piccola patria, per vagheggiarne una più grande e politicamente e materialmente più ricca, più forte, più rispettata. 289 La qual cosa, dati i tempi, non fu merito indifferente, che Giuseppe Mazzini ancora non era nato ». Giuseppe Fonterossi, L'elezione di Mazzini a Messina nel 1866 e uno scritto ignorato di F. Guerrazzi, in « Camicia Rossa », Roma, 15 agosto 1930. Importante contributo agli studi mazziniani. Il F. rievoca le aspre lotte combattute alla Camera dei deputati per impedire la convalida dell’elezione del Mazzini a deputato di Messina nel 1866, e rivendica al Guerrazzi un nobilissimo indirizzo dei democratici livornesi agli elettori di Messina, Il F. illustrando gli scritti del Mazzini, con i quali ΓApostolo rifiu:ò l’amnistia conce33a il 18 agosto 1866, amaramente commenta: «Erano quelli i giorni nei quali l’Italia riceveva « come elemosina di seconda mano » Venezia, ed abbandonava all’Austria il Trentino e l’Istria ». Francesco Perotti Beno, Giuseppe Mazzini ed i coniugi trentini Carlo ed Emilia Venturi, in « Studi Trentini », Trento, fase. Il (agosto), 1930. Il P. sulla scorta della pubblicazione delle Lettere di G. Mazzini ad una famiglia inglese, pubblicate dalla Richards e tradotte in italiano dalla Pareto, rievoca le figure di Carlo ed Emilia Venturi ed i rapporti ch’essi ebbero con il Grande Esule. Aggiunge un notevole contributo di notizie sulla famiglia Venturi e su episodi ignorati del suo patriottismo, tratti da documenti inediti che si conservano in vari archivi del Trentino. Articoli vari in Riviste e Giornali Carlo Macecchini, Lo « splendido isolamento » del cooperativismo fascista, iti « Rassegna economica dell’Europa mediorenlale », Roma, giugno 1930. «La formula associativa di Giuseppe Mazzini rimane la formula tipica del cooperativismo: non è stata e non può essere superata da Lenin e dagli interpreti di Marx, dai piccoli filosofi della democrazia, siano essi Gide, Ansuele. Sutter, Tanner, ecc...». L. N., Mazzini, il Tommaseo, il Manin e la difesa di Venezia, in « Giornale storico della Letteratura Italiana », Torino, fascicolo 286-287. Succinta recensione dello studio del Gambarin, già segnalato. Tranquillo Gardella, La vita di Mazzini narrata ai giovani fascisti, in « Bibliografia fascista », Roma, giugno 1930. Breve recensione del saggio di Armando Lodolini, già segnalato. ---, Minime, in « Problemi del Lavoro », Roma, 1 luglio 1930. L’interpretazione del pensiero mazziniano fatta dal Ministro Bottai a Genova è in tal modo commentata dalla rivista romana: « A Genova è stata ricordata la figura di Giuseppe Mazzini, quale apostolo del’a « libera associazione operaia » che troverebbe la sua superiore esaltazione nell’ordinamento corporativo italiano. Per Mazzini Yassociazione voleva essere strumento di autoeducazione e perciò, necessariamente, di autogoverno. Come può essere confusa questa concezione colla costrizione gerarchica che dall'alto ritiene di interpretare aspirazioni e bisogni delle masse inquadrate e rappresentate, e governa e manda negando pregiudizialmente ogni derivazione e delegazione del potere dal basso? Giuseppe Mazzini, trasportato dal suo tempo nella incandescente atmosfera sociale del dopoguerra, avrebbe probabilmente acceduto al sindacato unitario, ma è indubbio che l’avrebbe propugnato solo come comunità professionale autogovernata dai produttori tutti. E si sarebbe pur reso ragione del fatto che i grandi organismi previdenziali obbligatori, di Stato o di categorie, abbiano a sostituire le modeste mutue libere nella funzione eco- 290 Bibliografia Mazziniana nomico assistenziale, ma non avrebbe certo approvata la soppressione e l’impedimento delle mutue libere ; anche minuscole, e aggettivantìsi di un ideale politico e sociale e religioso, e custodi e propagatici di coscienza mutualistica nelle tessere e nei ruoli dei reggimenti assicurativi. Questo, dunque, il Mazzini che è stato esaltato a Genova ? ». Queste parole suscitarono una polemica intorno alla quale ved. l’indicazione sotto la data 1° settembre. Giuseppe A. Andriulli, li duello serrato tra Mazzini e Cavour alla vigilia di Plombières, in « Secolo XIX », Genova, 2 luglio 1930. È, ripubblicata la recensione ai due ultimi volumi degli Scritti del Mazzini, già apparsa nel « Messaggero » del 25 giugno 1930. Gilseppe Mazzini, I doveri deirUomof in «Messaggero», Roma, 3 luglio 1930. Il foglio romano encomia la Cooperativa « Pensiero ed Azione » per la nuova ristampa dell’aureo volumetto. Elea, I n grande amore di Giuseppe Mazzini, in « Piccolo », Roma, 4 luglio 1930. Si ripetono cose note ed arcinote sui rapporti intercorsi fra il Mazzini e la Sidoli. Francesco Carli, ha fuga di Felice Orsini dal Castello di Mantova, in « Gazzetta », Messina, 5 luglio 1930. Il C. rievoca 1 audace fuga compiuta dall Orsini il 29 marzo 1856 ed accenna alla corrispondenza eh egli riuscì a mantenere dal carcere col Mazzini per la complicità del secondino Tommaso Frizzi. Intorno agli aiuti prodigati dal Mazzini per tale fuga si veda quanta luce portano i documenti pubblicati nel volume LIV degli Scxitti mazziniani. Paolo Pantaleo, Rievocazioni storiche del Risorgimento, in « Regime fascista », Cremona, 5 luglio 1930 Ampia recensione del volume Mazziniani e Garibaldini nell’ultimo periodo del Risorgimento di F. E. Morando. L articolo e stato ripubblicato dalla « A Compagna » di Genova dell’agosto. Stefano Accardi. Giuseppe Mazzini sulla R. Nave « Fieramosca », in « Il Grido d Italia », Genova, 6 luglio 1930. L A., eh era medico di bordo in servizio della nave Fieramosca il 13 agosto 1870, rievoca gustosi episodi sul viaggio compiuto dall'Apostolo in istato d’arresto, da Palermo a Gaeta. L articolo verrà ripubblicato ne << L’Opinione » di Spezia del 14 luglio 1930. F. Ernesto Morando, Un nuovo volume deW E pistolario mazziniano, in « Corriere Mercantile », Genova, 12 luglio 1930. Ampia ed acuta disanima dei più importanti caratteristici contributi che apporta alla conoscenza dell Apostolo, 1 ultimo volume degli Scritti mazziniani, che contiene 165 lettere dal 23 gennaio al 23 ottobre 1855. A. M., Ludovico Frapolli e le sue missioni diplomatiche a Parigi (1848-1849), in « La Lombardia nel Risorgimento italiano », Milano, luglio 1930. Breve recensione del’o studio del Menghini già segnalato. , Mazzini e la Beata Frassinetti, in « L’Adriatico della Sera », Ancona, 15 luglio 1930. Si ripubblica la ben nota lettera del Mazzini alla suora Angela Costa, con il seguente commento: «Questo documento rivelato ora dal volume che il padre Gilla Gremigni dedica alla Beata Paola Frassinetti, coi tipi della Vaticana, è tale da gettare altra bella luce su quegli avvenimenti, tanto più che per esso le Dorotee furono veramente salve. Un Arci Bibliografia Mazziniana 291 vescovo, mons. Benedetti, che assistette ai funerali della Beata, scrive ora che quella lettera del Mazzini è « rivelatrice di sentimenti che fa piacere di ritrovare in lui ». Alfredo Grilli, Scritti di Giuseppe Mazzini, in « Corriere Padano », Ferrara, 16 luglio 1930. Succinta recensione degli ultimi volumi editi degli Scritti mazziniani. Il G. formula un voto che ci trova pienamente consenzienti: «Molti degli articoli politici, e molte delle lettere — scrive — sono o inediti o dati alla luce in periodici del tempo o in pubblicazioni posteriori ; per la prima volta si riuniscono dunque in questi volumi dell edizione nazionale. La quale vorremmo — e non è da oggi soltanto che facciamo questo voto che foese più conosciuta e letta dagli ita'iani in genere, non dai soli specialisti di questioni storiche del Risorgimento, e sarebbe doveroso che ogni pubblica biblioteca e ogni libreria di enti di educazione e di istruzione, non mancasse di questa monumentale opera ». Luigi Venturini, L’anniversario di una sentenza, in « Popolo d Italia », Roma, 18 luglio 1930. Ampia recensione del volume di Leo Pollini, Mazzini e la rivolta milanese del 6 febbraio 1853, già segnalato. Orazio Carratelli, Attilio ed Emilio Bandiera e l’audace spedizione in Calabria, in « Volontà d’Italia », Roma, 21 luglio 1930. Vibrante rievocazione del martirio dei fratelli Bandiera. L’articolo venne ripubblicato dal Popolo di Calabria di Reggio Calabria del 24 luglio, e dal Regime Fascista di Cremona del 25 luglio 1930. Arnaldo Cervesato, Tre lettere inedite di Mazzini, in « Regime Fascista », Cremona, 24 luglio 1930. Il C. ripubblica l’articolo già edito nella rivista Le Opere ed i Giorni del Γ maggio. A. Abrlìzzese, Una lettera inedita di Emilio Bandiera, in « Gazzetta di \enezia », Venezia, 25 luglio 1930. Nell’anniversario del martirio di Cosenza, ΓΑ. pubblica una lettera inedita di Emilio Bandiera al padre, del 13 luglio 1834, modesto contributo alla conoscenza dell’eroica figura, ma tale tuttavia da essere conosciuta. Μ. B., Le congiure dello « Sperone » e del « Diamante », in « Lavoro », Genova, 26 luglio 1930. Il Bettinotti rievoca episodi poco noti della insurrezione genovese del giugno 1857, voluta e preparata dal Mazzini, per indurre il Governo Sardo a rompere guerra all’Austria. Giuseppe Macaggi, Il Mazzini e il 6 Febbraio 1853, in « Lavoro », Genova. 25 luglio 1930. Succinta recensione del volume di Leo Pollini, del quale fa ampie iodi, e conclude: « Può dirsi che meriti il 6 febbraio specialmente ora che si conosce nella sua integrità, le ire, le accuse, i vilipendii, le imprecazioni di tanti scribi e farisei? Il Mazzini affermava con sicura coscienza nel 1866: « Ho certezza che nel prepararsi generale degli animi nello sviluppo storico del risorgimento italiano, quel tentativo giovò ». Il libro del Pollini conferma quel giudizio ». F. Ernesto Morando, Nuovi scritti politici di Giuseppe Mazzini, in « Corriere Mercantile », Genova, 25 luglio 1930. Ampia recensione del volume 55' degli Scritti mazziniani. F. M. GialanzÉ, Cavour, Garibaldi e Mazzini e la redenzione del Mezzogiorno, in « Mattino », Napoli, 26 luglio 1930. Encomiastica recensione degli studi del Mirabelli, già segnalati, i quali, secondo il G., 292 Bibliografia Mazziniana rappreoentano « un contributo notevolissimo alla storia del nostro Risorgimento ed illuminano di gran luce il dramma garibaldino dal Faro al Volturno e la tragedia mazziniana placatasi nella raggiunta unità della patria ». F. Ernesto Morando, La Polonia nel pensiero di Giuseppe Mazzini, in « Messaggero », Roma, 31 luglio 1930. 11 M., prendendo occasione dalle recenti cordiali manifestazioni italo-polacche di Varsavia, e più dagli accenni che si trovano nei due più recenti volumi degli Scritti mazziniani, rievoca la lotta sostenuta dall Apostolo della nazionalità in favore della Polonia. Bice Pareto Macliano, Un amica di Giuseppe Mazzini, Aretusa Gibson Cullum, in « Gran Mondo », Roma, luglio 1930. La P., attraverso i suoi ricordi personali, rievoca la figura nobilissima di questa amica di Mazzini nata a Bury St. Edmund nel 1814 e spentasi a Parigi tredici anni dopo la morte del Grande Apostolo. Giuseppe Capograssi, Il pensiero giuridico di Giuseppe Mazzini, in « Rivista internazionale di filosofia del diritto », Roma, luglio 1930. Il C. dà un succinto ragguaglio intorno alle esercitazioni di filosofia del dirirtto fatte nella R. Università di Roma nell anno scolastico 1928-29 sul tema: « Il pensiero giuridico di Mazzini ». Vari giovani si sono addestrati in sì difficile palestra, ma uno solo ci sembra abbia detto cose degne di nota, e costui è Aldo Ferrucci: ■ Per il Mazzini — egli afferma — di nazioni non ci sono se non quelle che si creano da sè. E questo e conforme alla sua intuizione fondamentale che della vita non fa uno spettacolo, un godimento, ma una milizia, un sacrificio; ed è conforme al 3uo insegnamento politico principale, per cui i diritti non si ottengono dall’alto, ma si conquistano con l’insurrezione e col martirio che fu infatti l’essenza del suo apostolato. Sicché in conclusione non ci sono popoli aventi virtuali diritti, che altri debba riconoscere; ma il diritto è concepito come conquista e solo a questo patto ha pregio ed è sacro come manifestazione di un volere divino ». Carlo Agrati, Il 6 febbraio del ’53, in « Rivista del Comune di Milano », Milano, luglio 1930. Breve recensione dello studio di Leo Pollini più volte cit. Rodolfo Mosca, Tramonto di Mazzini, in « La parola e il libro », Milano, luglio 1930. Recensione assai pretensiosa del volume di Leo Pollini, più volte citato. Per il M., il moto del 6 febbraio 1853 significa soltanto che « l’ora della predicazione e della prassi mazziniana sta per volger alla fine : ancora un’esperienza — dichiara —, che non può non riuscire infelicemente, e il moto mazziniano avrà perso quasi tutto il suo fascino, e la funzione storica del Mazzinianesimo terminata ». Quod demonstrandum est! Arnaldo Cervesato, Tre lettere inedite di Mazzini, in «Giornale di Sicilia», Palermo, 2 agosto 1930. Il C. ripubblica l’articolo, già segnalato, comparso nelle Opere ed i Giorni del 1° maggio 1930. A. Abruzzese, Giuseppe Mazzini e Daniele Manin negli anni 1855-56, in « Gazzetta di Venezia », Venezia, 5 agosto 1930. L A. prendendo in esame i due ultimi volumi degli Scritti mazziniani, si sofferma in parti-colar modo ad illustrare i rapporti che intercorsero fra i due grandi fattori deH’unità italiana. L’indagine è sagace ed accurata. --, Una lettera sconosciuta di Giuseppe Mazzini, in «Tevere», Roma, 5 agosto 1930. Bibliografia Mazziniana 293 Breve recensione dell’opuscolo di Pellegrino Ascarelli, nel quale si ripubblica la lettera di M. a Elia Benamozegh, già segnalata. A. Luzzato, Mazzini e la missione della donna, in « II Lavoro fascista », Roma, 8 agosto 1930. Si ripetono le consuete cose sull’emancipazione della donna propugnata dall’Apostolo e sul valore educativo da Lui attribuito alla musica. Arnaldo Cervesato, Maria Drago Mazzini, in « Gazzetta di Venezia », Venezia, 8 agosto 1930. 11 Cervesato — un po in ritardo invero ! — rievoca la figura della madre di Mazzini traendone gli elementi delle lettere di lei al figlio pubblicate dal Luzio già da vari anni. L’ex Alpino, La psicologia di Giuseppe Mazzini, in « Liguria del Popolo », Genova, 9 agosto 1930. L’ex alpino riprende le sue diatribe mazziniane più feroce che mai. Dopo aver ripubblicate qualcuna delle più sublimi pagine dell’Apostolo riguardanti la tempesta del dubbio, egli scrive: «Tutta la sua vita fu un urlo di rabbia e maledizione; fu un sospiro al suicidio tanto egli era senza speranza e senza pace. Almeno sull'ultimo avesse goduto un po’ di letizia, un’ombra di pace! No; coU’avvicinarsi degli ultimi suoi giorni, crebbe l’angoscia, crebbe a dismisura. E quando egli vide la monarchia vittoriosa a Roma, ed infranto l'ideale suo repubblicano, ebbe tali sussulti di furo:e, tali impeti di rabbia, tali accenti di disperazione che non aveva mai provati, nè mai gli erano usciti di bocca. Egli aveva rivolto il suo lavoro, tutto il suo partito ad un solo scopo, a cacciare, com’egli diceva, la menzogna monarchica da Roma, a liberar la città eterna dall’obbrobrio e dalla vergogna di essere !a sede della dinastia di Savoia. E sotto l’immane sforzo, vinto ma non domo, spezzato ma non placato, lasciò la tristissima vita. Tale è la psicologia di Giuseppe Mazzini: del ribelle, del settario, del nemico di Dio e degli uomini. Tale diventa la vita lontana da Dio ». Antonio Marenduzzo, Mazzini e la musica, in « Popolo d’Italia », Milano, 10 agosto 1930. Acuta indagine sulle idee estetiche del Mazzini soprattutto nei riflessi dell’arte musicale. P. S., La polemica tra Mazzini e Manin, in «Lavoro», Genova, 14 agosto 1930. Il Silva, con la consueta sagacia, tratta dei rapporti intercorsi fra il Mazzini ed il Manin anteriormente alla ben nota polemica del 1856, sulla quale apportano nuova luce i due ultimi volumi deg-i Scritti mazziniani, e particolarmente illustra le cause dei profondi dissensi ideali che divisero i due grandi fattori dell’indipendenza. L’ex Alpino, Giuseppe Mazzini e la sua sorella Antonietta, in « Liguria del Popolo », Genova, 15 agosto 1930. In quest altra diatriba 1 ex alpino vuole sì proporsi di illustrare i rapporti intercorsi fra il Mazzini e la sorella Antonietta, studio che sarebbe assai importante fare, ma invece non fa che lanciare improperi contro la memoria dell’Apostolo. L’a. dopo aver affermato che la conispondenza fra Giuseppe ed Antonietta, fu letta dal parroco Stefano Fasce, il quale afferma «che il Mazzini parlava in esse come un Santo Padre», scrive: «Veramente il Mazzini con una incredibile volubilità sapeva prendere tutti gli atteggiamenti pur di avere il favore altrui : e quindi si mostrava ed era ateo con gli increduli, e si fingeva religioso coi credenti ; e coi giansenisti parlava da giansenista e coi cattolici da cattolico, e coi protestanti da protestante ; però in fondo all’anima era « il ribelle » a Dio ed agli uomini; e si mostrava deferente agli inglesi, dicendo ogni male contro il Papa, perchè veramente sovia ogni altro in lui dominava l’odio contro il Romano Pontificato e la Chiesa Cattolica ! ! !... ». E non si fermano qui le rivelazioni strabilianti sulla figura del Mazzini ; che l’ex alpino sa che 294 Bibliografia Mazziniana 1 Antonietta inviò al fratello le Confessioni di Sant’Agostino. sperando che questo grande convertito lo facesse ritornare alla fede, ma che avvenne? Il Mazzini — secondo l’a. — rimandò quel libro dicendo: «È bello, ma è troppo tardi! ». Ed aggiunse ch’egli era ormai così legato al suo partito, che più non se ne poteva liberale; egli con feroce volontà e perseveranza l’aveva suscitato e per qualche tempo diretto, ma, ormai se ne sentiva dominato e senza ritegno trascinato ». Dove l’ex alpino trae l’informazione su questa missiva ? Ha letto la lettera ? Oh ! no. La cosa è più semplice. Udite: « Non si può dire quali furono le precise parole del Mazzini, ma certo dovettero esser più o meno queste, perchè tale era il sentimento, anzi l’avversione che egli manifestò al suo partito sul fine della vita... » ! ! ! --, Alberto Mario9 in « Veneto », Padova, 16 agosto 1930. Breve profilo divulgativo della figura del mazziniano veneto. Rinaldo Caddeo, Nel centenario della fondazione della Tipografia Elvetica, Le gionario », Roma, 16 agosto 1930. Il C. traccia brevemente la storia di questa benemerita fucina di scritti patriottici ed colar modo mazziniani. L’articolo verrà ripubblicato in «Palestra fascista » di Catania del 31 agosto. L. T., Per antitesi, in « Regime Fascista », Cremona, 19 agosto 1930. L a. illustra, sulla scorta degli scritti contenuti nei due ultimi volumi mazziniani, i grandi contrasti che vi furono tra il Mazzini ed il Manin nel 1856, concludendo: « È. sufficiente questo saggio delle antitesi profonde ed acute — per non ricordare quelle Mazzini-Garibaldi, Garibaldi-Cavour, — che dividevano gli uomini del Risorgimento, per dimostrare: primo, che il Risoigimento si è effettuato tra lotte grandiose; secondo, che la lotta delle opinioni, delle idee, dei mezzi, è stato il massimo coefficiente della risurrezione italiana; terzo, che i contrasti ideologici sono una condizione del moto storico». P. S., Esasperazioni mazziniane, in « Il Lavoro », Genova, 21 agosto 1930. Il Silva, in un rapido excursus attraverso gli ultimi volumi degli Scritti mazziniani, illustra i tentativi insurrezionali infaticabilmente organizzati dal Mazzini nel 1855. Al termine del suo esame, il S. dichiara: « Dovremo deplorare e biasimare, come improvvide e pericolose, l’esasperazione e le mene rivoluzionarie del Mazzini nel 1855? Noi riteniamo che no. Pure in mezzo alle sue esagerazioni e alle sue storture, l’attività rivoluzionaria mazziniana in quel periodo critico serviva a propagandare e a ribadire alcune verità essenziali, la cui diffusione nell’opinione pubblica italiana si rivelò provvidenziale al momento degli avvenimenti decisivi del 1859-60 ». L’ex Alpino, Giuseppe Mazzini e la sua sorella Antonietta, in « Liguria del Popolo », Genova, 23 agosto 1930. Prosegue la diatriba, ma si fa ancora più interessante. L’a. afferma che alla morte del Mazzini si diffuse la voce ch’egli avesse manifestato ai circostanti il desiderio di avere un sacerdote. A conforto della sua tesi l’ex alpino cita quanto scrisse allora il P. Persoglio, e cioè: «Questa cosa non possiamo in nessun modo accettare, ma non crediamo impossibile che sull’ultimo della vita ritornasse a migliori consigli ». Questa ipotesi viene in tal modo interpretata dal commentatore: «Quell’impossibile dice troppo poco e forse molto meno di quello che pensava lo scrittore ». Il processo alle intenzioni è dunque fatto non solo al Mazzini, ma anche al padre Persoglio ! L’ex Alpino, Gli ultimi anni e la morte dì Antonietta Mazzini, in « Liguria del Popolo », Genova, 30 agosto 1930. Continuazione e fine della diatriba mazziniana. È raccontata la morte cristiana dell’Antonietta in contrapposto a quella del fratello; vien pure detto che, per timore d’essere seppel- in « Il in parti- Bibliografia Mazziniana 295 lita accanto a Giuseppe ella dichiarò di voler riposare nell’umile cimitero di Murta; quindi prosegue affermando che « i settari avevano tutto preparato per rinnovare colla sepoltura dell’Antonietta l’Apoteosi della Rivoluzione e del suo gran Capo Mazzini, e presso Ja tomba di Staglieno avrebbero voluto porre la salma di lei; ma il nipote, ben conoscendo la fermissima volontà della zia, non acconsentì e volle che fosse seppellita coi riti della Chiesa nel cimitero di Murta. La Massoneria genovese ne smaniò di rabbia, ma ottenne un grande compenso; gli inviati di lei tanto strepitarono e minacciarono che si fecero consegnare le lettere di Giuseppe Mazzini alla sorella, e via se le portarono e da quel punto non se ne ebbe più nuova ». Giovanni Tucci, I fratelli del Sacrificio e dell’Eroismo, Attilio ed Emilio Bandiera, in « Rivista -della Venezia Tridentina », Bolzano, 9 agosto 1930. Articolo commemorativo del martirio dei Bandiera. A. 0., Mazzini e la rivolta milanese del 6 febbraio 1853, in « Leonardo », Milano, agosto 1930. Breve recensione del volume di Leo Pollini già segnalato. Il mutualista, Cifre e tendenze nel movimento mutualistico, in « I problemi del Lavoro », Roma, 1° settembre 1930. Il commento al discorso Bottai fatto dalla rivista romana, provocò una risposta del Lavoro fascista, cui a sua volta ribattè II Mutualista, il quale per quanto riguarda l’inteipretazione del pensiero mazziniano, in tale modo scrive: « Un operaio asfaltatore di Genova, che si dichiara mazziniano, aderente al Fascismo, protesta (e il Lavoro fascista di Roma ospita) contro la affermazione che il corsivista di Minime ebbe a fare recentemente, su queste pagine, a proposito di Mutue libere e di Giuseppe Mazzini apostolo della libera associazione operaia... Limitandoci a quella parte della polemica che più direttamente ci interessa, e veramente straordinario che il mazziniano operaio genovese dimentichi come Mazzini abbia scritto: «Foste schiavi un tempo, poi servi, poi assalariati; sarete fra non molto, purché il vogliate, liberi produttori e fratelli nell’associazione. Associazione libera, volontaria, ordinata su certe basi da voi medesimi, fra uomini che si conoscono e si amano e si stimano l’un l’altro, non forzata, non imposta dall’autorità governativa, non ordinata senza riguardi ad affetti e vincoli individuali, fra uomini considerati non come esseri liberi e spontanei, ma come cifre e macchine produttrici... ... La redazione de II Lavoro Fascista che, di suo, alla lettera dell’operaio genovese ha aggiunto un titolo ben vistoso (« A certi sobillatori... ») e l’affermazione che le « mutue libere non sono mai state soppresse, anzi stanno moltiplicandosi in tutte le regioni e per tutte le categorie», voglia non confondere le cose: le mutue di categoria che si vanno costituendo non sono « libere », perchè assumono carattere obbligatorio contrattuale (e noi le approviamo, senza sognarci di spezzarne la unità anche coattiva in mutue dai diversi aggettivi politici e religiosi); le mutue libere invece, quelle che si chiamano tali (abbiano carattere generico misto od anche professionale) perchè spontanea e volontaria è in esse la iscrizione e la permanenza, oggi in Italia sono o fascistizzate o cattoliche. Ora noi per mutue libere « aggettivantisi di un ideale politico o sociale o religioso » intendiamo appunto quelle a libero reclutamento che potrebbero costituirsi fra elementi di una stessa fede politica o sociale o religiosa di integrazione della attività colturale od anche ideologico-politica che la statutaria libertà di associazione, dalle successive leggi controllata non soppressa, prevede e consente. Noi comprendiamo appieno: e la assicurazione obbligatoria di Stato, e la previdenza mutualistica categoriale pur essa necessariamente obbligatoria, e la opportunità di coordinare la mutualità libera generica di paese e città sia con accentramenti unitari sia con raggruppamenti consorziali e federativi, e persino l’obbligatorio inquadramento nazionale in un ente parastatale di tutte (diciamo tutte !) le associazioni mutualistiche di ogni tipo, forma e aggettivazione. Ma comprendiamo anche (e rivendichiamo come una profonda esigenza del nostro spirito, non meno che come un grande interesse morale e sociale per la Nazione) la libertà di praticare la mutualità come cemento solidaristico fra gli uomini di una 296 stessa fede. In una parola: unitari fino alla coercizione laddove l’interesse superiore di nazione e di categoria o di zona lo impone e lo giuslifica; liberi laddove la libertà non è più disunione e disgregamento ma cemento di fede e presidio di valori morali che alla nazione giovane. Così noi siamo mutualisti, oggi, pur predicando (anzi reclamando di poter predicare e volgarizzare !) la assicurazione obbligatoria e la mutualità professionale coattiva. Non sappiamo se Mazzini (così avverso ad ogni coercizione, o di Stato o di categoria) sarebbe d’accordo con noi: pensiamo peraltro che dovrebbe essere assai meno d accordo con chi la libera mutualità nella sua espressione idealistica più alta finisce in sostanza per cancellare addirittura ! ». G. Casuccio, Gustavo Modena, in «Veneto», Padova, 12 settembre 1930. Succinto profilo del fervente mazziniano veneto. Giuseppe Fonterossi, Le elezioni di Giuseppe Mazzini a Messina nel 1866, in « Italia Giovane », Bologna, 15 settembre 1930. Il F. ripubblica l’articolo comparso in « Camicia Rossa » del 15 agosto, già segnalato. --, Una lettera inedita di Giuseppe Mazzini, in « Giornale (1 Italia », Roma, 20 settembre 1930. Si ripubblica la lettera al Benamozegh, già segnalata. Alberto Lumbroso, Quando e perchè ruppero Vamicizia Michele Amari e Giuseppe Mazzini?, in « Messaggero », Roma, 24· settembre 1930. Il L. dichiara che il problema è più psicologico che storico, e crede di risolverlo nel·'affermare che i Siciliani erano come i Piemontesi per atavismo monarchici, donde 1 avversione del-l’Amari per il Mazzini dopo il 1852. Soluzione, come si vede, un po’ semplicistica. I NOSTRI MORTI UMBERTO GIAMPAOLI E’ morto a Pisa, alla sola età di 58 anni, il 15 agosto 1930, uno dei più valorosi componenti della nostra famiglia, Umberto Giampaoli. Lascia notevoli studi di numismatica, di storia artistica riguardanti in par-ticolar modo Massa e Carrara, e di storia del costume. Daremo un più degno cenno di lui, corredandolo da una compiuta bibliografia, in un prossimo fascicolo di questo Giornale, ch’egli predilesse e dove pubblicò la maggior parte de’ suoi studi. Direttore responsàbile : UBALDO FORMENTINI. INDUSTRIE POLIGRAFICHE NAVA — BERGAMO - MILANO- GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA COMITATO DI REDAZIONE : GIUSEPPE PESSAGNO, PIETRO NURRA, VITO A. VITALE La pubblicazione esce sotto gli auspici del Municipio e deUa Regia Università di Genova e del Municipio della Spezia A DIREZIONE E AMMINISTRAZIONE: GçenoVa, < JPalaz.no Rosso, Via C^ariLaldt, 18 CONDIZIONI D’ABBONAMENTO : // Giornale si pubblicò a Genova, in fascicoli trimestrali. Ogni fascicolo contiene scritti originali, recensioni spigolature, notizie ed appunti per una bibliografia mazziniana. ABBONAMENTO ANNUO per Γ Italia L. 50 - per Γ Estero L. 60 Un fascicolo sei,arato Lire 7 .óO - Doppio Lire 1 ó I _ _ _ Conto corrente con la Posta ANNO VI - 1530 Fascicolo IV - Ottobre-Dicembre ± GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA fondato da ACHILLE NERI e UBALDO MAZZINI Pubblicazione Trimestrale NUOVA SERIE diretta da Arturo Codignola e Ubaldo Formentini o Direzione e Amministrazione GENOVA, Palazzo Rosso, Via Garibaldi, 1 Ô SOMMARIO V. Vitale, L insurrezione genovese del dicembre 1746 R. Piattoli, Genova e Firenze di tramonto della libertà di Pisa G. Salvi, // ratto di Bianchinetta d Oria — R. di Tucci, Le imposte sul commercio genovese durante la gestione del Banco di S Giorgio RASSEGNA BIBLIOGRAFICA: Giovanni Cipollina, Cenni critico-storici di Rivarolo ( V, Vitale) — Annali Genovesi di CalTaro e dei suoi continuatori (V Vitale) — V. Imperiale di Sant’Angelo, Jacopo d'Oria e i suoi Annali : Storia dì una aristocrazia del duecento (V. Vitale) — SPIGOLATURE E NOTIZIE — APPUNTI PER UNA BIBLIOGRAFIA MAZZINIANA. L’INSURREZIONE GENOVESE DEL DICEMBRE 1,746 Quando nel 1846 i dotti e i patrioti, che eran poi la stessa cosa, si raccolsero a Genova per l’8° congresso scientifico italiano, in quel fermento di smisurate speranze, che si assommavano nell’aspirazione all’indipendenza, il ricorrente centenario della cacciata degli Austriaci forniva lo spunto oratorio a gran parte dei discorsi, molto più sottintendendo di quell che fosse possibile dire apertamente, e gl’italiani di ogni regione salutavano nel moto genovese ili gesto precorritore dell’auspicata crociata antiaustriaca. Questo carattere italiano dei moto locale rilevava ed esaltava un anonimo palermitano nella dedica di un suo opuscolo nel quale narrava le giornate genovesi offrendolo a nome del popolb italiano al popolo di Genova; questo carattere riconoscevano i fuochi di gioia che la sera del 10 dicembre arsero sulla chiostra apenninica non in Liguria soltanto ma in Toscana e in Romagna a precorrere quelli della più grande e trionfale dimostrazione dell’anno successivo salutata dai versi celebri di Goffredo Ma-meli, dai falò accesi su tutta la cerchia dei monti per opera specialmente di Nino Bixio, dal pellegrinaggio di Oregina quando la bandiera tricolore sventolò la prima volta in pubblico apertamente, portata da Goffredo Mameli. 11 popolo — cantava il giovane poeta — cc saluta una memoria ma prepara una vittoria ». iLa celebrazione era appunto la rievocazione del primo moto popolare e nazionale contro il nemico che per risorgere e vivere l’Italia doveva vincere e fiaccare. Ma strano, a prima vista, quel moto, chi lo consideri in quella che è la cornice del 700 o meglio rimmagine che noi siamo soliti foggiarci di quel secolo apparentemente lezioso e sdolcinato, fatuo ed elegante ma insieme pensoso e innovatore, curioso di nuove cose e di nuove esperienze, una delle età di più profondo rinnovamento spirituale e culturale che siano state mai, in cui le damine incipriate sottostanti e sovrastanti impassibili alle gravi architetture del capo e agli enormi guardinfanti discutono di filosofia e di scienza, di economia e di religione tra le chiacchiere mondane e i velenosi pettegolezzi nei salotti e noi caffè, e cavalieri e cicisbei e abatini galanti e avventurieri sfrontati si mescolano ai dotti e si rivestono essi stessi talora da sapienti innovatori e da pensatori sventatamente rivoluzionari. Parrucche e scarpettine, abiti di seta e di broccato, spadini e tabacchiere, arazzi e quadretti leziosi, gavotte e minuetti, salamelecchi, baciama- 298 ni, inchini ialino credere a qualcliecosa di fiacco e smidollato; ma sarà bene non fidarsi di queste apparenze. E sarà bene non fidarsene neanche a Genova. Certo, non molto viva e attiva e dignitosa la vita politica neanche qui, con quel doge che aveva la maestà di una comparsa, riverito in trono a date fisse, con il complicatissimo e rigorosissimo cerimoniale spagnolo imparato all’Escuriale e sanzionato dalle leggi del 1576, ma con una autorità che 11011 superava quella degli altri senatori mentre gli pesava addosso il divieto di uscire dall palazzo fuorché nei cinque giorni in cui si recava a Messa solenne e in pochi altri rigorosamente fissati dalle prammatiche, con pompa fastosa ed etichetta severissima, costretto persino dalle consuetudini, se non dalla legge, a non uscire dallo Stato mai più dopo cessato l’ufficio. Un ufficio del resto che durando due anni 11011 dava una grande autorità personale e invece rovinava spesso irreparabilmente i patrimoni per le feste di rigore, principale il « pasto », il pranzo che -doveva offrire all’incoronazione, con tale un lusso e una munificenza che la nomina a doge appariva una sventura specialmente alle vecchie famiglie scadute dall’antica ricchezza, ed era desiderata o tollerata soltanto dai nuovi arricchiti. Accanto al Doge, il Senato e il Collegio Camerale costituenti i Serenissimi Collegi, una ventina di persone in tutto; e poi il Minor Consiglio di 200 membri e il Gran Consiglio composto di tutti i nobili di almeno 22 anni, assemblea questa di assai scarsa autorità. Tutti nobili, s’intende, nel governo, perchè al patriziato spettava per tradizione ormai secolare il governo della Repubblica, ma le famiglie e le ricchezze della vecchia aristocrazia andavano scemando per naturale esaurimento. Nelli» superbe dimore regali, nei meravigliosi palazzi e nelle sontuose ville suburbane, le ricchezze accumulate dagli avi si dissolvevano mentre una nuova ricca nobiltà di banchieri e ili mercanti si costituiva. Si dissolvevano nella mollezza dei costumi, nelle feste, negli spassi, nei banchetti pantagruelici a cui qualunque pretesto era buono. Tra questa nobiltà genovese, se si deve credere ai competenti di tale materia, era anzi sorto 1111 costume che fu tipico del settecento. Il Senato, per metter fine agli odii tra le famiglie che laceravano lo Stato e per trovare occupazione a quei giovani nobili i quali erano obbligati a tagliarsi reciprocamente la gola per passare il tempo, secondo che narra un diarista, escogitò il sapiente e geniale rimedio di affidare a ciascuno di quelli una dama da assistere e servire, seguendola come ombra fedele; e ne venne l’uso dei cicisbei. Si capisce che quella gente non si occupava delle funzioni pubbliche; e la vita politica assumeva talvolta aspetti ed episodi sconcertanti. La storia del Brighella non è, per altro rispetto, meno significativa di quella della vergine cuccia pariniana. Era Brighella un cagnolino che il doge Francesco Cattaneo portava costantemente con se, anche nei L’insurrezione Genovese del dicembre 1746 299 Consigli. Per non essere da meno, i Magnifici Signori cominciarono a portare anch’essi i cagnolini e le cagnoline ad ascoltare le tediose discussioni e l'aula severa del Minor Consiglio fu piena di guaiti e di abbaiamenti, di zuffe e rincorse canine, finché un intollerante, forse sprovvisto di cane, non gridò sotto lo schermo dell’anonimo consentito dai biglietti di calice, che era indecoroso e intollerante che la sala del Consiglietto fosse ridotta a una cavallerizza e suggerì -di distribuire nella sala qualche « robella con noce vomica » che sarebbe stata provvidenziale. Di fronte a un tale pericolo i consiglieri si portarono via i cagnolini e rimase solo a imperare il Brighella. In queste condizioni il governo effettivo era nelle mani dei pochi costituenti i Serenissimi Collegi e, sotto l’aspetto arcigno del formalismo esteriore, era in sostanza un governo patriarcale che amava molto il quieto vivere ed aveva da gran tempo rinunciato ad ogni idea di conquista per evitare pericoli di guerre e di rovesci; era un governo vecchio che sentiva la propria debolezza e l’incapacità dell’azione aperta e decisa, ma aveva dei vecchi decaduti il senso geloso della dignità, l’orgoglio del passato, la caparbia tenacia nella tradizione e nelle convinzioni, l’odio alla forza prepotente unito all’incapacità di reagire: una mescolanza caratteristica di scaltrezza prudente e di sospettoso timore. Persino le tenaci difese dei privilegi cittadini, la ostinata tutela del protocollo e del cerimoniale e quelle per noi risibili questioni di forma e di puntigli di precedenza assumevano di fronte alle maggiori potenze un’importanza sostanziale, come quando la pretesa del rappresentante spagnolo d’aver al suo passaggio per le porte della città dai corpi di guardia gli stessi onori del doge determinava una complicata e interminabile questione diplomatica. Troppo, d’altra parte, era vivo e cocente il ricordo dell’affronto di Luigi XIV, che l’onesta dignità e l’arguzia bonaria del doge Lercari non aveva potuto che in piccola parte vendicare, perchè un governo, il quale aveva coscienza di non rappresentare una forza viva, non sentisse la necessità di sottrarsi con duttile prudenza alle pretese e alle violenze dei potenti. E bisognerà ricordarlo a spiegarne gli atteggiamenti. Sotto la classe dirigente della politica, tutto il mondo della gente ili affari e di commercio, pullulante nel porto, negli scagni, nei bandii, attiva, intraprendente, tenace; e il popolo rude e lavoratore fieramente individualista e attaccato alla propria libertà personale, lontano dalle armi per la vecchia tradizione individualistica e indisciplinata, cosicché il piccolo esercito era una curiosa e pietosa accozzaglia di disperati malviventi o di mercenari mal disposti e mal pagati, e anche dopo l’insurrezione fu impossibile ordinare un po’ quel-l’improvvisato esercito popolare che aveva messo in fuga gli Austriaci. Ma guardiamoci dallo scambiare quella riluttanza e queirindisciplinato individualismo per viltà: risponderebbe lo stesso maresciallo 300 Antoniotto Botta Adorno con la frase grossolana e triviale ma espressiva rivolta in Olanda a uno smargiasso monturato che gli insinuava qualche cosa di simile: « Per voi e per i vostri belli ufficialetti basterebbero le donne di Pré, con gli orinali ». Due sono stati i grandi problemi e le grandi preoccupazioni del governo genovese nel secolo 18°; la Corsica in perpetua insurrezione e le aspirazioni minacciose del Piemonte sabaudo. Da un lato, 1 isola insofferente, guardata con occhio cupido un po da tutti; pedina oi-mai importantissima nel serrato gioco di predominio del Mediterraneo tra Inghilterra, Francia, Impero, Spagna e il Piemonte già entrato in possesso della Sardegna; dall’altro 1 aspirazione sabauda all espansione, il pericolo dell accerchiamento della Casa attiva e ambiziosa che, dalla riviera, dal Monferrato, dalle Langhe guardava al ricco poi lo, centro del commercio d Italia, sbocco della strada di Lombardia, appendice italica della Spagna che, cacciata recentemente dall Italia, tentava di rientrarvi rioccupando la Lombardia o almeno gettando un suo rampollo nel ducalo di Parma. Difficile e delicata situazione pei la repubblica amante del quieto vivere ma superbamente oigopliosa, della propria indipendenza e decisa a mantenerla. Anzi ci fu un momento nel quale i due pericoli si sommarono, quando, durante la guerra di successione d’Austria, Carlo Emanuele III di Savoia, alleato dell’Austria e dell’Inghilterra, minacciò anche l’isola e ne aiutò apertamente le insurrezioni. Anche di questo occorre t°ner conto, nel complicato momento, di questa minaccia nuova che esasperava il timore genovese per 1 invadente vicino e il rancore contro i suoi alleati austriaci che avevano anche mancato a un patto preciso. Era scoppiata nel 1740, alla morte dell’imperatore Carlo VI, la guerra che si chiamò della successione d’Austria. Di fronte al blocco franco-spagnolo che rappresenta una vasta estensione di coste e quindi una minaccia al dominio marittimo britannico, è naturale che 1 Inghi terra si accosti all’impero; e tra i due gruppi marittimi Genova, anche questo è naturale, resta neutrale. Genova, centro bancario dei maggiori d’Europa, ha troppi interessi coi diversi belligeranti per compromettersi. Ma ecco una notizia sbalorditiva: nel trattalo di Worms ira Austria, Inghilterra e Piemonte, il 13 settembre 1743, 1 adesione del Piemonte alla lega anglo-imperiale è compensala con la cessione del marchesato del Finale, di quel marchesato che Genova, nel 1713. aveva comperato dall’impero che ne era venuto in possesso per lunga sequela di eventi. Come se quel patto non esistesse, il marchesato eia dal nuovo trattato assegnato alla Casa che da lungo tempo lo agognava. Come si vede, il fatto, se non la teoria, dei trattati pezzi di carta è più antico di quel che non ci sia voluto far credere. Allora, è naturale, Genova minacciata accetta le non disinteressate offerte dei franco-ispani e, dopo lunghe e vivaci discussioni nel Minor Consiglio, stringe coi re borbonici di Francia, di Spagna e di L’insurrezione Genovese del dicembre 1746 301 Napoli il trattato di Aranjuez, per il quale, in compenso dell’integrità territoriale che essi le garantiscono, s’impegna a permettere il passaggio ai loro eserciti, anzi ad accrescerli con un corpo di 10 mila uomini e un treno di artiglieria. in realtà, però, con la cavillosa sottigliezza propria di quella debolezza senile, il Governo di Genova non dichiara effettivamente l’alleanza con una schiera di belligeranti, intende soltanto di compensare un beneficio promesso con un altro beneficio, senza specialmente impegnarsi contro l’Austria; e l’ambasciatore genovese, che rimane a Vienna, non considerandosi appartenente a uno stato belligerante, assicura che eventualmente le truppe di Genova combatteranno solo contro il re di Sardegna. È tutta una equivoca e falsa situazione dalla quale sboccia la tragedia. Perchè dopo alcuni successi iniziali, i Gallo-Ispani, che avevano puntato verso la Lombardia per condurre nel ducato di Parma l'infante don Filippo di Borbone, battuti a Bassignana, respinti nel loro tentativo, minacciati dalle nuove forze discese di Germania e dalle flotte inglesi minaccianti di togliere tutte le comunicazioni marittime, si ritirano rapidamente su Genova. Genova chiede ansiosamente agli alleati il mantenimento delle promesse pattuite, quella difesa del suo territorio che era convenuta; ma, mentre lia buone parole, vede che gli alleati non mostrano alcuna intenzione di resistere alla marcia degli Austriaci insecutori e che anzi dopo una breve resistenza alla Bocchetta si ritirano su Sestri e Savona, lasciando Genova assolutamente scoperta. È una triste commedia o piuttosto una vergognosa perfidia e un vero tradimento, a cui si aggiunge anche lo scherno, perchè i generali spagnoli dicono che nulla è perduto e il trattato di Worms non è stalo e 11011 sarà eseguito; in ogni modo l’abbandono momentaneo di Genova è una necessità e la città potrà, ricca com’è, accordarsi facilmente con gli Austriaci con una contribuzione in denaro. In quei frangenti, sotto la minaccia di tutto il peso dell’esercito austriaco e mentre Carlo Emanuele, ricuperata la contea di Nizza, procedeva lungo la riviera di Ponente e l’armata inglese bloccava il mare, il governo tentò di scongiurare la rovina ricorrendo all’astuzia dichiarando cioè al Brown, capo dell’esercito austriaco, che l’alleanza gli era stala imposta e protestandosi devoto a Maria Teresa. Ma il Brown ricevette male i messi genovesi e rispose con rude brutalità alle sottigliezze e alla finezza politica del governo chiedendo subito gravi condizioni: consegna di una porta della città, pagamento di una somma immediata e di altre da stabilirsi in seguito. Mentre si stava per rispondere a queste richieste, sopraggiunse la notizia che era arrivalo ad assumere il comando dell’esercito austriaco il generale marchese Antoniotto Botta Adorno, iscritto nel libro d oro della nobiltà genovese, ma che, figlio di un proscritto per tentato omicidio, non 302 Vito Vitale sentiva alcun legame per la patria dalla quale era vissuto sempre lontano e per la quale non aveva che livore e desiderio di vendetta. Conoscendo lia massima preoccupazione di Genova, egli, si valse del re di Sardegna come di uno spauracchio per ottenere la resa della città e per continuare ad angariarla: era per essa, diceva, un vantaggio la temporanea occupazione austriaca in luogo della definitiva e militare occupazione piemontese: ma è certo che egli questa non avrebbe mai permesso perchè l’eccessivo ingrandirsi del Piemonte, sebbene alleato, non entrava affatto nei calcoli dell’Austria e del suo rappresentante; ed è noto che, nell’innata avversione e nel quasi profetico timore per il Piemonte, le istruzioni segrete del governo austriaco ai suoi generali erano di non dar alcun aiuto efficace e positivo a Carlo Emanuele. Il 6 settembre la resa della città era firmata: consegna delle porte, cessazione di ogni ostilità e scioglimento dell’esercito, consegna di tutte le armi e le artiglierie, pagamento immediato ed altri da stabilirsi; il 7 i patti erano eseguiti e riusciva vano l’ultimo tentativo di conservare almeno la porta di S. Tomaso. In questa resa, che soltanto evitava l’occupazione militare e il saccheggio e nella quale, tra le condizioni onerose e umilianti, ricompariva 1 obbligo del Doge Serenissimo e di sei dei principali senatori di recarsi a chieder scusa a Vienna (l’esempio di Luigi XV aveva fatto scuola), l’oligarchico governo non aveva dato prova davvero di fermezza e di dignità; ma bisogna tener conto dello scoramento derivato dal tradimento degli alleati (i quali, curiosa inversione, accusavano a lor volta Genova di arbitraria intesa col nemico), dell’indolenza di molti nobili, del sospetto che alcuni di essi, i possessori dei così detti feudi imperiali, favorissero per loro interessi particolari la causa degli Austriaci, e anche della coscienza del contrasto tra le classi e del timore che il popolo non volesse prender le armi per sostenere un governo di cui non amava i rappresentanti e fosse indotto a desiderare novità. Ma a stringere i rapporti e a unificare gli spiriti dovevano pensare gli Austriaci e specialmente il conte Coteck, mandato apposta per le trattative e le richieste finanziarie. La contribuzione di 50 mila ge-novine per (c rinfresco » o rifornimento di viveri all esercito, quella ben più grave e penosa di tre milioni, che costrinse, contro ogni precedente, a metter lie mani sul banco di S. Giorgio, davano luogo a una serie di trattative, di discussioni diplomatiche che neH’esasperanle lentezza avevano lo scopo di guadagnar tempo, ma non riuscivano, con tutte le lamentele e le dimostrazioni di impotenza, a smuovere 1 inflessibile caparbietà avida e vendicativa del Botta Adorno e dei suoi. Intanto però, di fronte ad evidenti segni del sentimento popolare, il primo atteggiamento remissivo si andava mutando e se nei consigli della repubblica alcuni dei nobili timorosi del peggio rimanevano sempre fermi alla politica di concessioni e di sottomissioni, altri si L’insurrezione Genovese del dicembre 1745 303 facevano interpreti del pensiero e della insofferenza popolare. Dinanzi a richieste sempre più imperiose,* minacciose ed esorbitanti, si andava formando uno slato d’animo di malcontento e di insofferenza che poteva portare alle più disperate risoluzioni. « È vero che si potrebbero soffocare gli Austriaci nel poco numero che sono », aveva detto il senatore Matteo Franzoni nella seduta del Minor Consiglio il 22 ottobre, correggendosi subito per escludere l’eventualità pericolosa da cui sarebbe derivata l’occupazione anche militare della città. Prima affermazione di una possibilità forse già ventilata nei lamenti del popolo insofferente, ma che, cosa singolare, parte da un nobile e alla quale via via altre si susseguono sempre più frequenti e frementi a testimoniare il malcontento incontenibile. Di tra i severi e aridi atti ufficiali si sente così maturare la tempesta, con chiara partecipazione di molti consiglieri del governo allo stato d’animo generale. E quando la tempesta si avvicina non s’intende bene se prevalga nelle tortuose deliberazioni il senso vigile e prudente della responsabilità e il timore del peggio o la disperata risoluzione di lasciar precipitare gli eventi pur di uscire dalla situazione umiliante e intollerabile. La decisione di riferire al popolo lo stato dei fatti e delle pratiche coi comandanti Austriaci intorno alle nuove richieste di contributi, di alloggi per le truppe, di artiglierie, non è soltanto la giustificazione di una via seguita e il desiderio di uno sgravio di responsabilità, ma un vero accostamento al popolo, tanto più significativo in quel geloso ordinamento oligarchico. La richiesta delle artiglierie che venivano tolte da Genova per essere mandate alla spedizione progettata dagli imperiali in Provenza, è la goccia che ha fatto traboccare il vaso. « Era diverso tempo che il popolo o sia la Repubblica di Genova mormorava e fremeva in vedere prendere i suoi cannoni e la sua artiglieria per farli imbarcare e condurre in Francia e non aspettavasi forse che un pretesto per poter più liberamente eseguire l’attentato che aveva divisato ». Sono parole di una anonima relazione recentemente pubblicata che, per essere del 13 dicembre, è la prima in ordine di tempo di quante sono finora note; e vi è notevolissimo questo accenno alla predisposizione degli animi e l’affermazione del popolo o sia Repubblica di Genova, che accomuna in unico sentimento tutte le classi cittadine. L’atteso pretesto è dato dal fatto notissimo che non occorre tornar a raccontare, tare. Il trasporto del mortaio dalle alture di Carignano, il suo affondamento in Portoria, la scena di prepotenza della scorta sui cittadini che numerosi, tornanti a quell’ora dai lavori consueti, assistono tra irosi e beffardi ai vani sforzi per liberarlo, il gesto audace del generoso monello interprete dello stato di spirito di tutto un popolo giunto all’estremo dell’esasperazione e della sofferenza, la fitta sassaiola che costringe la scorta ad abbandonare il mortaio, sono cose troppo note 304 Vito Vitale per essere ancora ricordate. Sarà piuttosto da osservare che l’affondamento del mortaio non fu che il pretesto aspettato. Tant’è vero che gli autori della famosa sassaiola furono, come per incanto, sostenuti da persone armate, cc che prontamente vi accorsero e spararono qualche colpo di fucile ». Il giorno dopo i ribelli fanno già mostra, guidati da Tomaso Assereto già ufficiale in Corsica, di tattica accorta, occupando abilmente le tre strade che fanno capo alla porta di S. Tomaso tenuta dagli Austriaci, e quando in grosso drappello di questi vi passa per andare a rilevare il mortaio, l’assalgono e lo respingono. Intanto il popolo, lasciati da parte i sassi, dando la scalata alla mal difesa armeria, disarmati i corpi di guardia, assalite e svaligiate le botteghe degli armaiuoli, si trova munito di più validi mezzi di offesa e in istato di resistere. Le sei radiose giornate si possono distinguere in tre tempi: il primo dalla sera del giorno 5 a mezzodì del giorno 8 si può dire il periodo iniziale e tumultuario dei moti; il secondo, dal mezzodì del-l’8 alle 10 antimeridiane del giorno 10, è il periodo dell’armistizio e insieme dell’allargamento e dell’organizzazione militare del movimento; il terzo tempo, dalle 10 del giorno 10 alla notte dell’11, segna la fase risolutiva e più violenta della rivoluzione, terminata con la effettiva e generale cacciata degli Austriaci dalla città. 11 combattimento alle porte e ai punti strategici più importanti dura tutto il sei e il sette; in questi due giorni gli Austriaci sono sloggiati dalle posizioni occupate in città. Creata una magistratura tumultuaria detta dei Difensori della Libertà, con sede nel palazzo °©tp dell’Università in via Balbi, è data una specie di ordinamento militare alle masse e sono stabilite rigorose norme di polizia per impedire disordini, ruberie e violenze. Intanto durano intense le trattative da parte del governo e dei suoi emissari col Botta, duplici trattative degli emissari ufficiali e di volenterosi cittadini, come quel p. Antonio Visetti gesuita che comincia per iniziativa individuale, dati i suoi precedenti rapporti col Botta Adorno, e che, almeno in un secondo tempo, è invece un agente segreto del Governo. 11 giorno 8, festività solenne e molto celebrata a Genova, si stipula l’armistizio che viene prorogato il 9; ma poiché il Botta tarda ad accettare le richieste degli emissari governativi e gli amorevoli consigli del p. Visetti, la mattina del 10 suonano ancora le campane a stormo; la lotta si riprende furibonda da Albaro peli Bisa-gno alle alture di Pietrami nula, di Castellacelo, di S. Rocco, di Ore-gina, a porta S. Tomaso, alla Lanterna, a S. Benigno. È uno sforzo disperato di energia e di valore. Sul Bisagno il ragazzo Pittamuli si segnala nell’appiccare il fuoco ad una casa occupata dai nemici; fulminali dalle alture, gli Austriaci sono costretti ad abbandonare i luoghi presidiati, le porte e le mura della città, e il Botta cerca scampo e riposo a Sampierdarena. L'insurrezione Genovese del dicembre 1746 305 Non finiti certo i pericoli, perchè allora il generale austriaco, nel naturale desiderio della rivincita, pone l’assedio alla città e l’insurrezione mutata in guerra aperta continua per gran parte del ’47. Ma quando, tra il marzo e l’aprile, cioè dopo circa quattro mesi, sopraggiungono i primi aiuti franco-ispani (e si vanteranno di aver salvato la città; la storia, come si vede, si ripete) alle spavalde assicurazioni del Duca di Bufflers che in udienza solenne, presenti i Collegi riuniti, fa le più ampie promesse, il doge può serenamente rispondere che « se l’amore della libertà tanto ci ha fatto intraprendere da noi soli », tanto più c’è ora ragione di sperare nella vittoria finale. Ma, strana contraddizione, al comandante supremo francese rimasto a Genova fino alila pace di Aquisgrana nel 48, al duca di Richelieu chiamato poco dignitosamente « il liberatore », cc l’eroe di Genova », il governo, quasi non rendendosi conto della grandezza del recente gesto compiuto, innalza una statua nel salone stesso del Minor Consiglio e dedica il forte che ancora ne porta il nome. Il quale più propriamente e con maggior verità e dignità avrebbe dovuto essere dedicato invece alla fiera e invitta virtù di Pellina Brignole che, pur tra le civettuole moine, resistette invincibile al lungo tenace disperatissimo assedio del suo cicisbeo, il duca appunto, sedicente irresistibile conquistatore di città e di cuori femminili. Curiosa davvero questa nobiltà nei suoi atteggiamenti vari e incerti nei quali lo spensierato godimento di una vita vuota e incolore, l’orgoglio superbo del passato e delle tradizioni, il timore del peggio e l’apatico abbandono agli eventi si mescolano e si sovrappongono stranamente. Ed ecco così il suo contegno nell’insurrezione del ’46. È tradizione radicata che questo contegno è stato vile e quasi traditore; che, davanti alla santa furia popolare, il governo nobille ha rappresentato il timore, l’incertezza, quasi appunto il tradimento. Ricordiamo le celebri parole di Carlo Botta che drammatizzano l’asserito contrasto. Scoppiato il moto in Portoria, il popolo si rivolge al governo per essere armato e poter così continuare e compiere l’opera arditamente iniziata, cc Ma, dice il Botta, i signori che avevano paura di essere salvati, continuarono saldi nel disdire la richiesta. Strana contesa, scandalosa da un lato, eroica dall’altro. La Signoria resisteva al popolo per perire, il popolo le voleva far forza per salvarla ». Così, nella retorica antitesi, la solenne prosa di Carlo Botta in-tepreta e rappresenta quella che si può dire la tradizione Volgata dell’evento memorabile e della parte che i vari elementi vi hanno sostenuto; una tradizione che poche voci contrastanti, accusate di servilismo verso la nobiltà o di avversione al popolo, non hanno potuto oscurare ed abbattere. E s’intende: i due momenti in cui la rivolta genovese è stata più fervidamente rievocata e ricordata ad eccitamento e monito di cose future, non erano propizi alla riabilitazione di un’opera che la stessa nobiltà dominante aveva voluto lasciare nel- -»/V 306 Vito Vitale l’ombra e nell’equivoco perchè questa era l’opportunità politica del momento e della sua situazione; non l’età dell’invasione francese sedicente apportatrice di democrazia e di libertà, quando la nuova ed effimera repubblica democratica aveva a ispiratore quel demagogo dello speziale Morando, non l’età della celebrazione centenaria quando Goffredo Mameli cantava Balilla e l’aria era corsa da fremili di speranze e da presagi di riscossa di carattere prevalentemente popolare. Eppure la verità è altra e alquanto diversa. Non, s’intende, che una meravigliosa scoperta abbia dissepolto un qualche Balilla gentilizio, non che l’azione della nobiltà appaia superbamente eroica o spavaldamente temeraria; la verità è soltanto questa: che la nobiltà dominante non si è opposta al moto perchè 11011 ne aveva nè la forza nè la volontà e, mentre conservava una esteriore neutralità formale, destinata a rispettare gli obblighi diplomatici e a darle la funzione di arbitra in caso di rovescio dell’azione popolare, prudentemente, con la prudenza oculata, circospetta, un po’ anche equivoca, che è propria spesso della diplomazia degli stati deboli e senili, ha favorito, anzi, sottomano, ha diretto il movimento. Questo che le relazioni e le fonti austriache hanno rimproverato sul momento al governo, l’occhio acuto di Achille Neri, che non era davvero un iconoclasta della storia genovese, ha visto chiaramente; Emilio iPandiani in uno studio esauriente ha documentariamente dimostrato, e Omero Masnovo con recenti indagini ha confermato e ribadito. E duole vedere che i conservatori delle tradizioni a qualunque costo siano insorti contro una severa e serena affermazione storica come si fosse trattato di un’offesa personale o di un insulto alle più sacre tradizioni genovesi. Nulla si toglie al popolo genovese e al suo eroismo con quell’affermazione: nè noi abbiamo oggi più alcuna ragione demagogica per conservare artificialmente 1111 confi il lo e un dissidio nobiltà-popolo che non ci fu, almeno nei modi e nella violenza con cui lo si vuol mantenere. Nè si venga a dire che bisogna rispettare le tradizioni. La tradizione ha un indubbio valore storico come elemento psicologico e sentimentale, ina la storia ha anche i suoi diritti quando si tratta di cose dimostrabili e documentabili. Altrimenti, per rispetto alla tradizione fissata, dovremo continuare a giurare nell’ a eppur si muove » galileiano, o, per restare nella storia genovese, nella frase attribuita a Nino Bixio: « Sire, passate il Ticino e saremo tutti con voi », che nessuno dei testimoni o dei presenti ha udito o riferito; dovremo continuare a credere alla storiella del figlio di OLamba Doria gettato a mare nella battaglia di Curzola; alle orecchie e ai nasi che Megollo Lercari non ha tagliato mai; o continueremo a ripetere che Corvetto, Delfino, Pellegrino Rossi e magari Ugo Foscolo inviarono il famoso invito all’esule dell’Eliba; che Genova nel 181 l fu venduta dairinghilterra al Piemonte a sacchetti di monete sonanti; che Jacopo L’insurrezione Genovese del dicembre 1746 307 Ruffini è stato tradito da quel « giuda )> di G. B. Castagnino che gli atti processuali e di polizia dimostrano assolutamente innocente; che Goffredo Mameli si trovava a certi piccoli fatti d’arme, proprio nel momento che le sue stesse lettere lo indicano a colloquio col Mazzini a Milano. Correggere questi errori della tradizione non è offendere alcuno, ed è un diritto e un dovere della storia. Il governo genovese, legato alla capitolazione del 6 settembre e direttamente responsabile della sua applicazione, non può dare armi nè apertamente dirigere la sommossa, ma sottomano le procura le armi e fa dare buoni consigli perchè i capi del movimento sappiano dove trovarle; e mentre come governo mostra di voler frenare il popolo, i singoli nobili, molti almeno di essi, lo aiutano; anzi quando si è costituito il Quartier Generale della sommossa nel palazzo dei Gesuiti, Gian Domenico Spinola funge da tramite tra i due poteri e i capi della rivolta ricevono ed eseguiscono ordini e consigli che vengono dal governo ufficiale. Nella tregua durata tra il giorno 8 e il 10. il doge atteggiandosi a esautorato dinanzi al popolo non assume impegni per le nuove trattative affermando la plebe totalmente sfuggita di mano al governo e col pretesto del timore del popolo furente evita di impegnarsi, mentre 10 Spinola propone al Minor Consiglio l’abbozzo di un trattato che sarà sottoposto al generale austriaco dai rappresentanti popolari e aggiunge questa chiara e decisiva raccomandazione: « Il corpo nobile non deve fare alcuna mossa nè prendere alcuna ingerenza ed unicamente stare a sentire le proposizioni saranno fatte dal nemico, alle quali proposizioni dovrà sempre rispondere il popolo istruito sempre occultamente dalla nobiltà ». Il contrasto tra il popolo che vuole armi per salvare il governo e il governo che le nega ostinandosi a perire qui svanisce interamente per dar luogo a una situazione meno drammaticamente antitetica, ma più reale, meno ciecamente ostinata, più tortuosa certo e obliqua, tuttavia non contrastante coi sentimenti popolari. Anzi, quando l’azione si riprende con maggior violenza, il popolo è effettivamente diretto e guidato in gran parte da nobili, e persino 11 clero con lo stesso arcivescovo Saporiti vi partecipa; e nell’ardore del momento e nell’azione comune si placano, o si attenuano le avversioni e gli odii. È vero che quel giorno un popolano ha tirato un colpo di archibugio al cav. Grimaldi affacciato ad una finestra del suo palazzo in via S. Luca σ A voi cavaliere Grimaldi che ve ne state in casa mentre noi andiamo al fuoco »; è vero che molti nobili si sono premurosamente rifugiati fuori di città attirandosi lo sdegno e il rimprovero così del popolo come del governo; ma è anche vero che, come avviene in tutti i movimenti, lo stesso moto popolare è opera sul principio di una minoranza di qualche centinaio di generosi che poi si trascinano dietro gli altri, e tra questi molti nobili travestiti. È vero 308 Vito Vitale che la luminaria ordinata dal Quartier Generale a vittoria conseguita non è solamente segno di gioia, ma misura di prudenza per evitare vio-lenze e saccheggi, ma è anche vero che Giovanni Carbone, garzone di osteria, riportando, ferito, al doge le chiavi della Porta S. Tomaso, le presenta riverente, esponendo il giubilo del popolo nel veder liberato dall’oppressione il proprio Principe e chiedendogli perdono a nome di tutti dei trascorsi commessi nella confusione di quelle giornate. E nulla come la trasformazione compiuta dalla tradizione di queste generose umili parole nell’altezzosa espressione di minaccia e di rimprovero messa in bocca al Carbone: il popolo aver riconquistate le chiavi, badasse il doge a non farsele riprendere, nulla come questa deformazione dà Γindice preciso del travisamento che i fatti hanno subito. Le giornate di dicembre sono gloria di Genova, di tutta Genova, in tutte le classi, in tutto il suo popolo, in modo certo diverso secondo le necessità di una politica anche debole e tortuosa; ma piace e non dovrebbe essere argomento di rammarico — che, senza nulla togliere al popolo, non appaia in quelle giornate, che sono alla radice della nostra storia recente, alcuna voluta viltà o alcun ignominioso tradimento. Così, per vie diverse convergenti ad un unico fine, tutti, o quasi, i Genovesi del 1746 hanno contribuito a quello che fu detto il solo avvenimento del secolo XVIII che appartenga veramente alla nazione italiana; a quel fatto — coloro che si fermano ipnotizzati su qualche episodio personale o su qualche nome sembrano dimenticarlo che nell’esplosione contro il sopruso straniero è il primo e solo moto spontaneo di dignità nazionale, il solo grido di riscossa contro le violenze e le prepotenze delle politiche dinastiche, delle occupazioni militali, delle tortuose e cieche diplomazie trascuranti 1 esistenza di un anima e di una volontà popolare e nazionale, prima del gran turbine rivo-luzionario. Con questo di più che non pochi dei movimenti fili olio allora di imitazione e di ispirazione straniera; questo è di caratici( nettamente spontaneo ed antistraniero. Rilevare tutto questo è motivo di profondo compiacimento anche per gli studiosi, per quegli « storici puri » ai quali tanto spesso si rivolgono le ironiche frecciate dei faciloni improvvisatori o dei ciechi orecchianti della tradizione; per i così detti eruditi che non sono pei quella gente arida, insensibile, apatica, chiusa nella sua verità documentale archiviale e paperacea che taluno si compiace di rappresentare, ma spiriti capaci di intendere e rivivere le tradizioni e le glorie del passato, almeno quanto i patetici del color locale; capace anche di sentire e intendere Balilla. Sicuro, Balilla. Ma non è il caso di una discussione baliIliana. Basterà accennare che, per molteplici dati ed elementi, il nome e il fatto non possono essere revocati in dubbio. Se mai, la questione e L’insurrezione Genovese del dicembre 1746 309 un’altra; ma, checche altri ne possano pensare, mi ostino a credere abbia un’importanza affatto secondaria, fors’anche addirittura negativa; la questione cioè del chi precisamente Balilla fosse e come si chiamasse allo stato civile. Per un secolo, fino al 1845, nessuno lo lia saputo, e Balilla è stato solamente Balilla. In quell’anno fu identificalo, su affermazioni non troppo controllabili, in G. B. Perasso nato in parrocchia Pratolongo, a Montoggio, nel 1729; ma ecco che alcuni anni dopo fu scovato un altro G. B. Perasso, nato nella parrocchia di S. Stefano a Genova, nel 1735; e da allora i due Perasso e i loro sostenitori si accapigliano perchè ciascuno pretende d’aver lanciato lui il sasso fatale. In sostanza le prove si riducono a questo, che nel 1746 al momento del tumulto c’erano almeno due ad aver quel nome, il che non dimostra affatto che uno o l’altro od entrambi avessero il soprannome di Balilla o quale dei due, — perchè non saranno stati tutti e due — abbia cominciato la sassaiuola. Del resto quel nome doveva essere molto frequente, poiché altri se ne trovano negli anni successivi; ma sarà meglio lasciarli al loro destino, non sono incontri desiderabili. Il ragazzo di Portoria è Balilla, Balilla senz’altro; ed è tal nome che basta. Che cosa conferisce infatti alla sua figura e al suo significato il sapere dov’è nato e quale ne fu il nome al fonte battesimale? È Balilla, e Balilla resta, comunque anagraficamente si chiami, il giovane che, compiuto il gesto incitatore, è poi scomparso dall’azione della quale ha dato il segnale, nella quale si disperde senza lasciar la traccia dei Carbone, dei Pittamuli, degli Assereto, dei Canevari, di tutti gli altri eroi venuti dopo e conosciuti per nome. E a idealizzare il personaggio nel suo vero significato giova, e non nuoce, la indeterminatezza delle notizie che lo riguardano, perchè la vita di Balilla e la sua opera è tutta in un solo istante. Balilla si chiama, chiunque sia stato; Balilila è una realtà e un’idea; Balilla è una tradizione e una forza; Balilla può ancora accendere i cuori e armare le braccia sicure. Il nome ha una sua realtà ideale e indistruttibile, è assurto a significare sentimenti che sono sempre stati e sempre saranno negli animi vibranti di fede e di entusiasmo; per questo ha meritato di dare il suo nome a tutti i bimbi d’Italia. Balilla è stato un ragazzo ed è diventato un simbolo, e il suo valore non cambia per sapere se poi sia stato tintore o vinaio o quanti figli abbia avuto o se abbia visto la luce a Montoggio o in Portoria. Ha un valore ideale ed educativo che nessun particolare di fatto può accrescere o mutare: che importa ai nostri Balilla di questi particolari? che sarebbe importato ai giovani romani di conoscere la personalità storica o le vicende della vita di Orazio Coclite, di Muzio Sce-vola, della vergine Clelia? Badiamo piuttosto alla maestosa grandezza del Simbolo. Tutta 310 la storia del nostro risorgimento nazionale, in quanto affermazione e conquista e allargamento dell’indipendenza, si compendia nella se-colar lotta contro l’impero che rappresentò per quasi due secoli il nostro avverso destino. E questa lotta lia al principio e alla fine un grande ignoto. Il fanciullo sconosciuto che nel 1746 diede il segnale di una lotta che doveva durare sino a Vittorio Veneto, al 1918, è cresciuto a moltitudine sterminata, è diventato un esercito e un popolo; si è trasformato in Colui che simboleggia le sofferenze e gli eroismi, la tenacia indomabile e il valore generoso di un’intera nazione, nell'ignoto soldato che dorme il suo sonno di gloria nel cuore stesso d Italia, nel centro di Roma augusta, sull’altare della patria. Chi vorrebbe diminuirne la grandezza e il significato o turbarne il sonno glorioso coll’andar ricercando il comune d’origine o il nome di nascita del Milite Ignoto? E almeno una volta tanto, contribuendo a lasciare nella penombra incerta e leggendaria la persona reale di Balilla, 1 indagine degli storici puri, l’arcigna critica storica accusata di arida insensibilità e d* indifferente freddezza, ha lavorato non solo e non tanto per la verità e la dignità della storia quanto, e ancor più, per la poesia e per la leggenda. Vito Vitale. GENOVA E FIRENZE AL TRAMONTO DELLA LIBERTA’ DI PISA (Continuazione e fine). Per effetto -dell abbondanza di cereali nelle colonie del Mar Nero e dell importazione a Genova il mercato dei grani di questa città all aprirsi del 1406 godette di condizioni tanto favorevoli, che di si-mili non vi era memoria, se non riandando ad un ventennio prima. Ciò, unito alia ripresa generale, fece bene sperare per il resto dell’anno, e l’effetto di tale ottimismo si rivelò negli appalti delle gabelle della mercanzia, le prime ad essere poste all’incanto, le quali furono aggiudicate ad un prezzo più elevato che non 1 anno precedente. Era diffuso il parere che anche le rimanenti sarebbero state richieste con offerte uguali oppure superiori nei confronti del periodo scaduto. Quantunque til pericolo fosse quasi del tutto cessato, quantunque i ciLtadiini avessero ripreso 1 abituale dimora e le usate occupazioni, ai 23 di gennaio nè Benedetto XIII, nè il maresciallo Boucicaut si era- > no risoluti ad abbandonare Savona. Il primo se la spassava ben reverito da donc e segnori e in quanto al suo ritorno non se ne parlava più in Genova, 1 altro 'invece era atteso di giorno in giorno, ed infatti poi venne. Nella prima metà del mese seguente il Boucicaut si diresse di nuovo a Savona, ed il giorno in cui vi arrivò partirono a quella volta otto dei cittadini più notati per fargli onore. Lo scopo del viaggio era d'i conferire con »il Pontefice, quindi la sua permanenza alla corte papale si credeva che non sarebbe durata più di due o tre giorni (1). All approssimarsi della Pasqua d'i Resurrezione tornarono a circolare le voci di una prossima venuta di Benedetto XIII, anzi speoificavasi che sarebbe giunto nella settimana santa: in quel momento, essendo scomparsi anche gli ultimi residui della mortalità, niente turbava Genova e la Liguria, Idio lodato e per la boutade de lo magnifico nostro signore mese lo governatore, secondo quando era nel pensiero di Pie-ìo Benintendi (2). Chi si riprometteva di assistere alle cerimonie sacre rese più solenni dall’intervento del Papa, dovette ricredersi: quando (1) Leti, del 13 febb. 1406. (2) Le», del 12 marzo 1406. 312 Renato Piattolï il 2 aprile il nostro mercante scrisse un altra lettera a Francesco Dattili, egli espresse di parere che forse quello sarebbe anivato a este compiute; al 18 aprile ipoi non seppe più neppur dire se sarebbe realmente venuto o meno. Ciò non preoccupava affatto i oveinatore. è sano e aiegro et de buono animo, diceva il Benintendi, ι qua e però dette pochissimo valore ad un sintomo che in processo di tempo avrebbe spento la felicità del Boucicaut e dei suoi dominanti e allontanato ancor di più Benedetto XIII dalla Liguria. iLa pestilenza, che sembrava del tutto scomparsa, era tornata a serpeggiare toccando ora qua ora là: et questo è poga cosa, tanto è vero che non ne uccideva forse neppure uno per settimana. Ma al futuro nessuno ci pensava. » « È cosa nota che l’economia genovese, fortemente decaduta duran-te le lotte civili che erano divampate nell’ultimo decennio de Ire-cento, si avvantaggiò molto durante il predominio francese. Per merito della pace interna, garantita ed imposta dal forte governo e maresciallo Boucicaut, la prosperità era tornata a fiorire dando i modo di procedere alla stabilizzazione della moneta in confronto specialmente del fiorino e del ducato. La società di Ardingo Ricci aveva notificato il 13 febbraio 1404 ai sottoposti di Francesco Datini in Valenza: Qui ss è oggi forte ristretto a denari per ogni parci lo faranno ancliora più. perche ci si da ordine di bandeg[g ] ogni moneta forestiera e che Ί fiorino non si spenda per pai di soldi 25 chôme vale; e, .se questo andrà avanti, chôme, si clirede, questi denari non possono che bene valere. Direnivi spesso che faran, e lsimile fate voi a noi di chotesti, e schnvete spesso. Qualche giorno (Ορο l’ordinanza fu emanata con benefici risultati per la moneta locale secondo quanto risulta da una lettera del 3 marzo: Avisamovi dell'ordine fatto qui sopra le monete, che vogliono che per di qui a c primo d'aghosto, in tre termini, il fiorino torni a sol. 2x, lo ducato a sol. 27 1/1, chôme vogliono per oro; e sanza fallo vi vena E p questi denari ne sono migliorati per ogni parte, dome vedete ( ). faranolo più alla giornata. Dì per dì vi diremo che furano Ils mule fate voi a noi di chotesti. Non può che giovare. Provvediment nanziari spesso erano presi allora dalle autorità politiche, e non sempre con competenza e savio discernimento (per es. in Genma, an-che nel 1409 il governo intervenne a regolare il cambio); ( ) que* volta fu agito energicamente, giacché si tornò alla panta aurea 11-spetto alle monete allora più pregiate. ( ) Nelle lettere mercantili era dato qua.i .empre il li.tino del cambio del giorno della citi» di solito in fine, prima della sottoscrizione. _ . «ri (2) Cfr. la lettera che la compagnia di Tomaso e Bartolomeo scrisse il 7 maggio al fondaco datiniano di Valenza: Qui è tallo ordine .opro a' chanbi e pagamenti e lettere che venghano di fuori. dicewUi. pei cui quelli denari ne diuenlono migliori e uaranno ongni dì più. Genova e Firenze al tramonto, ecc. 313 Le cause che noi abbiamo esposto, quali le guerre dii Lombardiia e Toscana, la pestilenza dilagante in Genova, avendo allentato la celerità negli affari, diminuirono la richiesta del danaro, quindi la valuta genovese peggiorò il suo cambio. Questo stato di disagio suscettibile di mutazioni solo graduali e a non breve scadenza venne a date periodiche turbato, e favorevolmente, dai pagamenti che la Signoria fiorentina e rasi obbligata a compiere verso al maresciallo Boucicaut e Gabriele Maria Visconti per la cessione di Pisa e dei suoi territori. Le prime notizie che si hanno al riguardo sono date da una lettera del 15 settembre 1405 della compagnia di Tomaso e Bartolomeo: Sono questi denari a pregi di sotto ( 1 ), e par ci per un pezo si staranno circha a pregi o a par ebbe di nuovo, e che faranno saprete. Abiendocisi a fare paghamento per questi fatti di Pisa varebbono di meglio assai. Non si sa per anello il cierto. Al primo di ottobre era già entrata nelle casse governative Ja somma stabilita per la prima rata provocando sul cambio gli effetti prognosticati: Questi denari migliorarono per lo paghamento ci s’ebe a fare, poi si sono tornati in larghezza e pocho o niente ci si fa. Faranno secondo bisogna. I)i chotesti (2) ci tenete ben avisati: anche non può che giovare (3 ). Ecco il destino riservato ad una aliquota del danaro che la repubblica di Firenze in gran copia esigeva dai sudditi suoi. Se i versamenti fiorentini riuscivano a far guadagnare qualche punto alla moneta di Genova, è logico credere che il maresciallo Boucicaut avesse voluto esser pagato nella valuta aurea della regione che governava. Questa, iper essere richiesta in notevole quantità in cambio di fiorini, per il momento veniva a rarefarsi sul mercato e quindi aumentavano le pretese di chi ne aveva. Può anche darsi il caso che, avvenuto il pagamento iin fiorini, la valuta fiorentina eccedesse sulla piazza in confronto della genovese, che perciò avvantaggiavasene, ma è meno probabile, dato che la Repubblica di Firenze era solita compiei e le operazioni bancarie per mezzo di tratte sui suoi cambiatori risiedenti nei vari centri di produzione, ed è naturale che costoro si servissero della moneta avente corso legale sul luogo. Il beneficio che ritraeva il cambio di Genova per tale ragione era momentaneo, brevissimo, come di sopra abbiamo avuto agio di vedere, e come è espresso in una seguente lettera del 6 ottobre: Ècci larghezza di denari per ogni parte, ma clirediamo ci sarà a fare altro paghamento per lo nostro chomune, chetine varanno di meglio (l)cfr. nota I. ('2») Intendi: del corso dei danari in Valenza, essendo la lettera indirizzata al solito fondaco datiniano ivi stabilito. (3) Nella stessa lettera, più oltre, trovasi: £’ ci si dice ogni dì lante bugie de* fatti di Pixa, che non si può chredere nulla. Per ora il chanpo v’è intorno e ogni dì vi chrescie gente, ma ra-xiona chesse ’ pisani non anno altro aiuto chelloro, che ancora non vi vede donde, e’ chonverrà chapitino alla bocca della macina. 314 Renato Piattoli questi denari (i). Del versamento quìi annunziato parlò in una sua del 20 ottobre la compagnia di Tomaso e Bartolomeo: Sono questi denari a9 pregi di sotto. E9 per questi pagliamenti s9anno a fare a monsingno-re, chè ogi se n9è fatto parte, l9avanzo si fa a calendi novenbre. Parci per sino fatti tali paglia nienti che si manterranno circlia a9 pregi o aparebbe di nuovo. Saprete che faranno a giornata (2). Ed in altra del 30 ottobre riprese a dire: Sono questi denari a9 pregi di sotto, e parmi per sino fatto questo paghamento s9à a fare che si manterranno bene, poi dovranno bassare avanti l’altro o apparebbe di nuovo. Che faranno saprete ispesso. I lieti auspicii sotto cui si aprì il 1406, con la fine, o, meglio, l’assopimento del contagio, ebbero la forza di risollevare l’assonnata economia, siccome abbiamo avuto agio di esaminare. Ai sintomi dii ripresa in precedenza esposti, possiamo aggiungere che neppure le droghe importate dall’oriente furono trascurate nel nuovo fervore. Piero Benintendi nella lettera del 13 febbraio ricordò la voce che diceva già giunta presso le contrade liguri la nave Pinella proveniente da Alessandria; nell’altra del 2 aprile scrisse dell’entrata nel porto della nave di Oberto Cicogna arrivata con 2000 cantari di specierie da Alessandria e Rodi. Naturalmente tutto questo contribuì a che il danaro fosse richiesto in maggior copia ai banchieri per affari a lunga e breve scadenza, e il cambio potè riprendere il cammino ascensionale. Così apparirà più chiaro quanto annunziò l’il marzo la compagnia di Ar-dingo dei Ricci al fondaco datinîano di Valenza: Questi denari elio-minc[i]ano a migliorare e far annoio vie più per denari saranno pagliati all9uscita di questo a questo ghovernatore per li fatti di Pixa, i quali si stanno all9usato, ma ora ne viene tenpo chelle chose non dovranno chosì dormire (3); e son pure assai stretti, ma cercliano d9avere vettuvaglia per via di mare. Sessi verrò loro fatto, non sa-piamo. Tosto si vedrà che de9 essere. Che Dio ne lassi seghuire che deb9esere il nostro meglio. Mentre Firenze si depauperava gettando oro a piene mani per annientare Ja resistenza della rivale, mentre questa, giunta al punto ( 1) E, subito dopo, intorno agli avvenimenti della guerra di Pisa: Altro non ce di nuovo. 1 jatti di Pisa si stanno anchora. Bugie assai se ne dichono. Il chanpo V e intorno, e poi vi sarà g(i)unto il chapiUino nostro e’ dovrano rischaldare le chose. Loro per fino a qui nessuno aiuto anno. Che seghuirà saprete. (2) Nella let'.e-a il passo è preceduto da quest altro: Qui non e di nuovo che a dire vi s abbi. Sentito arele come passato sono le cose. Parci che indugiare la possino, ma canpare no, che non venghano a crede e nel vero Iddio. A prestine Iddio che me’ debbi eseme per la nostra comunità Vorrensi inpighare quegli eh’erano illa cittadella, chè se loro non fossino stati si tristi non areb- bo(no) e’ pisani ora a venire a cosciendere a patti. Sarà con più costo, ma fia alsì con più onore. (3') L’opinione di vigorosi sforzi prossimi ad essere compiuti dai Fiorentini era assai diffusa. Cfr. quanto aveva scrilto il 25 febb. la compagnia di Tomaso e Bartolomeo: Qui non c è di nuovo da’lchuna parte che a dirvi s’abbi. I jatti di Pisa passano all'uxato. Parci che faranno la /ine del Padoano. Tosto si vedrà che debbi ese"e. Ormay ne viene il tenpo dai po'.elli vicitirc più ispesso non s’è potuto sino a qui. A prestine Iddio che meglio debbi esere per la nostra co munità. Che di nuovo ne fusse saprete. Genova e Firenze al tramonto, ecc. 315 estremo adunava le ultime risorse dii uomini e di sostanze per sostenere l’attacco con l’energia della disperazione (1), Genova tornò a vedere la discesa della propria prosperità che con gioia per breve tempo aveva salutato rifiorente. Lo spettro della morte di nuovo erasa disteso sulla misera città. * * * I lutti che la Liguria e principalmente Genova dovettero lamentare a causa della pestilenza durante il 1406, furono ben maggiormente numerosi che nell’anno precedente. Quantunque la violenza questa volta fosse più devastatrice, il decorso del contagio fu ipiù regolare. I sintomi manifestatisi allo schiudersi della primavera divennero vie più frequenti e funesti coll’aumento del calore. Quando sopraggiun-sero i dì canicolari, anche i più coraggiosi cittadini di Genova pensarono seriamente ai casd loro, temettero e per la propria e per l’esistenza dei cali, e, pur facendo qualche sforzo pecuniario, cercarono un rifugio tanto sulle montagne quanto nei centii meno abitati della costa marina. Agli ultimi del giugno o ai primi di luglio anche Piero Benintendi si allontanò dalla città con tutti i famigliarli per migliori lidi. Allora i dintorni di Genova si mantenevano sempre esenti dalla pestilenza, di conseguenza il mercante pratese, forse per non trascurare del tutto gli affari, sii stabilì in un paesetto distante appena sei miglia dalla metropoli. Ma poi il malanno prese ad estendersi e dovette allontanarsi di nuovo ponendo la stanza in Camogli. Qui potè vivere in una relativa sicurezza, e certo non rimpianse la grande speissa al sentire le tristi novelle che giungevano dalla città, dove nella prima settimana di agosto erano avvenuti 170 decessi, 164 la seconda. Queste cifre egli inviò il 28 agosto all’aniico Francesco Datini in una lettera che scrisse in fretta avendo alle mani un pellegrino che la avrebbe recata a destinazione. In quei giorni si sussurrava in Camogli che a Genova nella terza settimana si sarebbero sommati ben dugento morti. In Camogli il nostro mercante dimorava ancora ai 6 di settembre, quando scrisse una lettera ad Andrea dei Bardi in Firenze incaricandolo di certe commissioni da fare al Datini. Quegli trovò più sbrigativo rimettere la lettera ricevuta a Francesco di Marco stesso. Nella nuova missiva il Benintendi, che aveva potuto meglio informarsi, diede l’esatto bilancio dei vuoti apportati dal morbo nelle file della popolazione genovese per tutto il mese di agosto, che era stato tale: nella prima settimana erano caduti 164, 173 nella seconda, 210 nella (1) Che il ceto mercantile fiorentino ne avesse sentore, ne è traccia in una missiva del 26 marzo della compagnia di A. dei Ricci: De’ fatti di Pisa non cè altro di nuovo. Troppo dur osso fia, na pure niuno susidio ànno da persona. Per certo non potrano durare. Lesine ldio seghuire il nostro meglio. 316 Renato Piattoli terza e nella quarta 235. Noi non sappiamo come, data la progressione continua, egli potesse prognosticare un numero di decessi inferiore ai centocinquanta per la prima di settembre, tuttavia una certa diminuzione vi fu realmente, e senza dubbio fu dovuta all’attenuarsi dei calori estivi, non essendo ormai lontana la stagione autunnale. Che egli, stando in tal modo le condizioni sanitarie di Genova, non pensasse a tornarvi, quantunque il bilancio ne soffrisse, è cosa ovvia, perciò non ci maraviglie remo al trovarlo ancora in Camogli al 5 di ottobre. Fu allora che annunziò al collega pratese come, con approssimazione, durante il mese di settembre la moria avesse mietuto nella città 200 vittime nella prima settimana, nella seconda 180, nella terza 135, infine nella quarta da sessanta in settanta. È facile dedurre dalle cifre addotte che di contagio declinava assai rapidamente dando luogo a fondate speranze di prossima line, speranze che il nostro informatore dovette nutrire se dava probabile il suo ritorno all’usata dimora per di lì a una dozzina di giorni. È anche -altrettanto agevole di sospettare che il numero dei decessi probabile per l’ultima settimana di settembre rispondesse ipiù ai desideri che alla realtà. Lo sbalzo è troppo forte per essere accettato ad occhi chiusi. Infatti un miglioramento vi fu e continuo, ma anche graduale, tanto è vero che il mese di ottobre vide 98 defunti la prima settimana, 86 la seconda, la terza 85. (Per la quarta il Benin-tend'i, quando il 29 del mese scrisse di nuovo a Francesco dì Marco, ne prospettava da 60 a 70: questa volta anche noi concordiamo con lui. Egli allora era già da qualche giorno rientrato in Genova ed aveva (preso ad accudire a quanto necessitava gli iper il soggiorno a Diano, dove stava per recarsi a reggere la dignità podestarile. Possiamo arguire che non sarà stato il solo nè dì primo a dare l’esempio, di che ci indica la situazione essersi di molto schiarita. Altro indice di rinnovata sicurezza fu ìil tornare che si fece a volger lo sguardo ad movimenti di Benedetto XIII, che in quel torno di tempo dimorava in Nizza. Nessuno sapeva dire con certezza quale strada avrebbe scelto: l’una che portava ad Avignone e l’altra che giungeva fino a Genova. 11 Benintendi si rivolgeva l’augurio che si incamminasse per la prima delle due, ossia che non tornasse nella città dove il destino aveva sbattuto il piccolo pratese un giorno lontano. Christe aora et sempre lì meta in cuore quelo che sia meiho suo et lo nostro..., esclamava il buon mercante. Un terzo argomento di non scarso valore a denotare le risorte condizioni di Genova è il seguente, che nonostante le cifre della mortalità esposte dal Benintendi, qualcuno credette la metropoli ligure sicuro rifugio nei confronti di altre regioni. Questo qualcuno fu appunto Francesco Datini, cui erano dirette le missive di Piero di Giusto, il quale dimorava in Toscana, più precisamente a Prato e a Firenze con alterna vicenda. Nella sua del 29 ottobre il Benintendi Genova e Firenze al tramonto, ecc. 317 accusava d'i aver rlicevulo dall’amico Ire lettere redatte l’una il 27 settembre, le rimanenti il 2 ed iil 16 del mese stesso. Già nella prima l’illustre mercante aveva palesato l’iintendimento di porre la stanza !in Genova per fuggire la pestilenza, di mandare un giovane al nostro Piero, al quale chiedeva inoltre di prendere a cuore la cosa. Nelle altre due era tornato sull’argomento: non occorre dire che il collega, che aveva non piccole ragioni di essergli grato, gli si offrì per qualunque evenienza, e siccome slava per partire, come di sopra abbiamo accennato, ne incaricò !il figlio Antonio. Lì per lì il Datini non ne fece niente, non perchè avesse dismesso il proposito, ma perchè (prima dii prendere una risoluzione ci pensava mille volte, e non contento chiedeva consiglio a chi gli sembrava in gra do di darglielo per competenza. Uno di coloro che interpellò fu Filippo Mangioni, membro di una delle più cospicue casate fiorentine. Costui, che di per se stesso oppure per mezzo del fratello Antonio (l) aveva il modo di essere pienamente informato dei rapporti (politici intercorrenti ira la Repubblica e gli altri Stati, ne lo sconsigliò con una lettera che merita di essere riportata per intiero (2): Christo diarissimo chôme padre. Ne9 dì passati ebbi vostra lettera per la quale mi dite avermene mandata un9altra, la quale mai non ebbi, chè v arei risposto. Per questa vostra lettera voi mi fate tante prof erte che mostrano una salvaticheza, che non si debono nè vogliono usare tra chi si tiene come figliuolo come fo io, ma voglionsi usare chon gli altri9 sicché per tutte le volte sia detto che meco non mostrate tanta salvaticheza, ma s9io posso nulla o potrò per Vavenire, voi non m9avete di cosa eli9 io possa e sievi di pi acier e se non dirmi el pensiero vostro ed io ne farò quello eh9io debbo. Veglio avete donato el vostro, ch orne chè ne sono molto chontento, però che Γ avete donato a signi ore, chello vale e ognindì ve ne potrà rendere buono e giusto merito. Che così piaccia a Dio di mettergli nel9animo eh9egli el faccia come può (3). E’ mi pare che voi temiate della mortalità, e per questa chagione dite prochaciate torre casa a Gienova. Non penso per uguanno sia da ( I ) A. di Cipriano Mangioni detto Mangione fu Priore della Signoria di Firenze per il terzo t imestre del 1404 sotto il gonfalonierato di Lorenzo Machiavelli. (2) ÀRCH. Dat., cart. 1095. È indirizzata la lettera al Nobile huomo Franciescho di Marcho da Prato in Firenze. Il Datini di sua mano annotò a tergo il giorno di arrivo: Da Saminiaio. Adì 20 di dicenbre; e quello della risposta: R. a dì 24. (3) F. Datini, privo di figli maschi e legittimi, fu sempre assillato dal problema cui lasciare alla morte le ingenti ricchezze. Attraverso gli anni escogitò diverse soluzioni, l’ultima delle quali, la definitiva, fu la migliore: per essa al suo decesso avvenuto il 16 ag. 1410 fu fondato un Ceppo dei poveri di Cristo a carattere laicale sotto la protezione del comune di Prato. La Pia Opeia in tal modo potè resistere nei secoli ed ancora continua a spandere le sue oculate beneficenze. 318 temere, ma un altr’anno forse bisognierà; ma voi, che per la grazia di Dio e per la vertu vostra potete, non potete erare ad essere senpre in punto che quando vedessi pure el tempo non avessi a far altro che salire a chavallo; ma tanto vi divo, non per consiglio, che chi consiglia chonviene che sia savio, che s9io fussi Franciesco, io non ne andrei a Gienova. Non ch’io non pensi che là non sia migliore fugire eh al*» trove9 ma voi sapete come e* gienovesi scoppiano de fatti di Pisa, e a. Gienova potrebbe fugire tanti fiorentini, che penso fia così, che fieno el fiore di Firenze, che sott9 onbra che ’Z duca di Borgognia o re di Francia lo faciess9egli, e9 potrebono tirare la rete a una smisurata pescheria e tenergli tanto che noi faciessimo con loro patto del navichare per mare a loro senno, ch’altro non penso fusse loro soferto, e forse anche altro. Vovene avere detto mio parere, e, quant io per me penso, ci sarà assai altri luoghi dove andare. Tutte le cose vostre acietto, ma quella bella casa da Prato e quelle posisioni che voi v’avete, starà meglio e più degniamente la guai dia ad ogni altro c’a me. Salutatemi la vostra brigata e Lucha (1)? e se qua posso fare cosa vi sia di placier e, schrivetemi due versi. Del danno vostro ricievuto in mare m’inchrescie come fusse in me propio. Christo vi guardi. In Saminiato. Dì XX di dicenbre MCCCCVI. Vostro Lippozo di Cipriano Mangioni. OPoiche Francesco di Marco abbandonò il progetto dû un soggiorno a Genova, vuol dire che gli argomenti addotti dal Mangioni lo convinsero, che corrispondevano alla realtà, ci gioverà quindi 1 esaminarli più a fondo. * * * Ben ipoche e inconsistenti speranze rimasero al popolo di Pisa quando furono annientate le milizie assoldate accorrenti in aiuto, quando furono distrutti i soccorsi in vettovaglie di cui la città era assolutamente priva, quando furono respinte le sortite di tempo in tempo tentate dagli assediati per introdurre viveri e spezzare il ferreo cerchio che tutti i giorni diveniva più saldo e più pesante. E9 non pare forse chosì a9 pisani, chom9a voi e noi, che que fatti t'odino per lun-gha. Raziona che sono forte stretti da ogni banda, e a{n\che di vet-tuvaglia non vi può entrare, e questi dì il popolo uscì fuori e da que del chanpo ebono ghran rotta, che più di 300 ne rimasono presi, che da 150 v9era cittadini. Infine eglino stanno male e subito si spera ve-ranno al segno, se piade a Dio: così il 28 maggio 1406 la compagnia in Genova di Af dingo dei Ricci scrisse al fondaco datiniano di Valenza. Troppo erano orgogliosi i Fiorentini dei propri successi e trop- (1) L. del Sera, altro socio di F. Dalini in questo tempo addetto al fondaco di Firenze. Genova e Firenze al tramonto, ecc. 319 pò poco facevano valere l’eroismo del popolo che bramavano assoggettare, il quale con tanto disperato coraggio opponeva sì viva resistenza. Il fermo proposito di non capitolare fino a quando una stilla di forza fosse rimasta nelle braccia dei difensori della libertà era alimentato dalla tenue fiducia che qualche potenza si muovesse in soccorso deli miseri Pisani; l’ultima, iperchè caduta anch’essa potevano considerare lutto perduto. A parole molti Stati avevano promesso il loro soccorso; a fatti nessuno; finalmente la resipiscenza sorta nei principali motori della politica della Corte francese diede adito a nuovo ardire. •Luigi d’Orléans e Giovanni di Borgogna, pentiti aver concesso la ratificazione al trattato di vendita di Pisa dicendo che era stata estorta in un momento favorevole, strinsero tra di loro un accordo per conservarne la sovranità a Carlo VI; il duca di Borgogna anzi nel luglio del 1406 inviò iper lettera le sue rimostranze al maresciallo Boucicaut. I Pisani allorché ne vennero a conoscenza, certi quasi d;i poter scampare al fatale destino con l’aiuto della Francia, inalberarono sulle mura le insegne di quel signore. Da parte sua la Repubblica di Firenze, intuendo l’approssimarsi di qualche pericolo, spinse avanti con maggior ardore le operazioni guerresche per far cadere al più presto la città e porre gli avversari davanti al compiuto, inoltre rifiutò di aderire alle intimazioni di togliere l’assedio recate da un messo a nome del Duca (1). Qualche tempo dopo vennero in Firenze due ambasciatori dei Duchi per il medesimo intento, ma la Signoria con buone parole dimostrò loro l’cmpossibilità di cessare la guerra e le ragioni che militavano in proprio favore; aggiunse anche di aver mandato in Francia dei suoi ambasciatori appunto a delucidare la quistione agli oppositori. Parve che gli inviati rimanessero paghi di quelle spiegazioni, e quando verso il 18 settembre, durante la via del ritorno, passarono Prato da dove fecero una sosta per venerare la sacra cintola di Nostra Donna, il Podestà della terra, per incarico ricevuto dai Priori, nel colloquio che ebbe con loro, tornò a ribadirle (2). (1) N. Valois, 490 e seg. (2) Cfr. la seguente lettera della Signoria al Podestà di Prato (ARCH. COMUNALE DI Prato, cassetta contenente lettere di diversi tempi): Priores artium et I . T/ .... I ropuli et Lomums rlorentie. V exillifer lusticie | Mesce' Gusselino dal Bosco et messer Burello dalla Riviera ambasciadori del serenissimo re di Francia e degli illustrissimi Duchi d’Orliens e di Borgogna sono stati a noi pregandoci che noi ci leviamo dallo assedio di Pisa, etc.; e noi abbiamo loro risposto mostrando le nostre buone ragioni, e come pe~ questo abbiamo mandato in Francia nostri ambasciadori. E sonsi partiti da noi con assai buona cera. E perchè essi passano di costà e ànno volontà di Vedere la Cintura di Nostra Donna, vogliamo che la facciate loro mostrare e che gli facciate vedere volentieri e con buona man,era; e Voi da voi medesimo per quella maniera che vi parrà parlerete loro delle ragioni intorno a questi fatti di Pisa, chè ne sete bene informato. Datum Florentie, die XVIII septembris, MCCCCV1. 320 Renato Piattoli Era sicura Firenze che la Francia non sarebbe trascesa alle vie di fatto per una controversia dii valore sì limitato per lei, quindi non recedette dal suo ostinato atteggiamento. Del resto, anche se la nazione oltramontana avesse mostrato i denti, la Signoria non avi ebbe potuto arrendersi sia per mantenere la tranquillità all’interno, la propria reputazione all’estero, sia per non vedere svanire in fumo un affare tanto bene 'incamminato, per quanto attraverso immensi sacrifici. Caddero invece le braccia ai Pisani ormai scoraggiati ed in preda alla più amara delusione, alle cui sciagure si unì anche il tradimento del loro Signore. Il 9 ottobre nel gelido mutismo della sciaguia videio entrare le milizie nemiche nella contrastata città ed occuparne le foltezze. iL’irrimediabile era compiuto, la libertà del glorioso Comune più non esisteva. Di lì a pochi gliomi i mercanti già prima banditi tornarono a porre ^la sede in Pisa, facendola da padroni questa volta, ed ül 28 del mese stesso la compagnia di Ardingo dei Ricci annunziò ai solit;i corrispondenti di Valenza: Verano henisimo i fatti di Pixa, eli è nostra e più libej'a che se li avesimo per ischicivi. Le chose vi s asebtano alla giornata e molte chonpagnie di fiorentini vi si ponghono. Or ponghino de9 dritti ora chotesti scharagozzi (J) ! e vedrete se fia loro renduto pan per cliofaccia (2). Se sangue ed oro a profusione aveva richiesto la guerra, se tanti dolori e disagi per essa avevano dovuto sopportare, le conseguenze della vittoria furono tali per Ì Fiorentini da rifarsene ad usura. Vite umane non sarebbero più sprecate nell’avvendre contro 1 antica nemica soggiogata; il possesso del suo porto li liberava dal mendicale uno scalo marittimo e dal servirsi forzatamente di Genova. Il danaio che in tal modo era prima speso ora rimaneva ad impinguare le casse dei mercanti e dello Stato. Mentre fin politica era aperta la via al conseguimento del principato regionale, per le finanze 1 acquistò i ap-presentò l’autonomia completa. Non solo, che se in lontane regióni, come la Spagna, mercanti sospettosi incitavano ad alzare le taiiile doganali contro i prodotti fiorentini, eravi ài modo ora di rintuzzare la minaccia opponendone una simile; e questo valga anche per i pi ossami, quali i Genovesi, che si vedevano senza mezzi da opporre a quanto era avvenuto e ne fremevano. E che appunto dietro pressioni genovesi ü duchi di Borgogna ed Orléans avessero frapposto tanti ostacoli, non è probabile? Il fatto si è che i due potenti signori rimasero punto soddisfatti dalle conclusioni riportate dagli ambasciatori fiorentini, anzi appena giunse la novella della caduta di Pisa li fecero imprigionare (3); atto che significò rottura dei rapporti ufficiali. (1) Dispregiativo, forse, di Saragozzi: abitanti di Saragozza o Spagnoli in genere. (i2) Sic. Intendi: jocaccia. Spesso nelle missive di quella società trovasi il vocabolo in tal modo alterato. (3) N. Valois, 491. Genova e Firenze al tramonto, ecc. 321 Fu in questa atmosfera gravida di malintesi! e di minaccde che Francesco Datini confidò a Lippozzo Mangioni il divisamento di andare a stabilirsi in Genova, dalli i sintomi di pestilenza diffusi in Toscana e in special modo nei centri di più addensata popolazione, 'i centri industriali, quali Firenze e Prato. La risposta del fiorentino, che conosciamo, non faceva una grinza: esistendo la tensione e l’ostilità tra la Repubblica e la Francia, per cui si poteva prevedere un arresto in massa dei mercanli risiedenti nella nazione trans-alpina, chi non avrebbe garantito un atto simile da parte dei Genovesi divenuti sudditi della Francia, dei Genovesi che non riuscivano a digerire l’amaro boccone della conquista di Pisa, se la loro città fosse divenuta l’asilo dei più cospicui abitanti di Firenze in fuga davanti al dilagare della pestilenza? Certo lo avrebbero fatto, e prima di liberare la preda dorata avrebbero voluto dettare i patti, costringendo la Repubblica a servirsi unicamente delle navi liguri nei trasporti marittimi. Noi però dubitiamo che il buon Lippozzo avesse allentato un po’ troppo le briglie alla fantasia. * * * All’aprirsi del 1407 la Repubblica dii Firenze, come se nessuna nube offuscasse la reciproca benevolenza o forse anche per non dare appiglio ad un ulteriore accrescersi del malanimo, pensò a liquidare tutte le pendenze inerenti all’avventura di Pisa, quali li pagamenti in conseguenza del trattato di compera non ancora ultimati. Agli 8 di gennaio la compagnia d'i Ardingo dei Ricci scrisse in una missiva: A questi dì sono questi denari miliorati e ora un pocho sono bassati, ma milio[re]ranno però di’è venuto Lo ’nbasciadore a fare il paglia-mento a questo Signore di fiorini XX mila; die per tutto questo fo conto staranno buoni ; e poi di aparà largiieza, sapretelo. Di poi il 22 febbraio l’altra società dii Tomaso e Bartolomeo continuò: Il paghamento si /e’ a Monsingnore di fior. 20 mila, e ora gli àn fatto Valtro di fior. 27 mila ed è fatto tutto. E noi n9 abiamo pagliati fior. Vili mila, e in Banchi gli si sono iscritti per dì primo d9aghosto (l ). Ragiona da chalendi luglio a clialendi sette[m]bre ci sarà streteza, e Ilo-diamo il truovarcisi. DeVoposito vi ghuardate alora. Infine quella stessa compagnia ìil 21 aprile ricordò ai sottoposti in Valenza di Francesco di Marco: Eravate avisati del paghamento s’era fatto al gho-vernatore per fatti di Pisa. Di Livorno nè d'altro non vi sopiamo dire chôme si rimangila, perchè di ciò non ci mettiamo a sentire. Lasciamo fare a chi fa. Da’ltronde v'informate, se lo volete sapere, chè di qua non se ne tiene ragionamento. Nel frattempo le relazioni diplomatiche tra Francia e Genova da (l) Cfr. pag. 322 Renatò Piattoli una parte, «dall’altra Firenze, lin dipendenza sempre agli eventi che avevano deciso la sorte dii Pisa, non avevano contribuito certo a rischiarare l’orizzonte. Nel gennaio li Priori riuniti nel Palazzo della Signoria dii Firenze avevano discusso l’invito fatto dal maresciallo Boucicaut, senza dubbio sotto l’influenza dell’Antipapa, dii dare esecuzione alla clausole del trattato di vendita concernente il passaggio della cittadinanza pisana all’ubbidienza di Benedetto XIII. Non ebbe il Governatore di Genova pretesti da addurre in contrario alla risposta fiorentina, che, essendo prossima la soluzione dello scisma, l’atto non avrebbe avuto valore (1): infatti allora fervevano le trattative per indire un convegno tra Ï Pontefici di Roma e di Avignone, nel quale avrebbero cercato di risolvere la crisi della Chiesa occidentale (2). Trascorse poco tempo che nuovi suoi ambasciatori vennero a sollevare obbiezioni intorno a un altro paragrafo del trattato, il quale diceva che, a conquista avvenuta, la Signoria avrebbe costretto i Pisani a risarcire il danno infertogli con l’arresto di una galea e dii certo naviglio minore da lui inviato a rafforzare e rifornire Ï difensori della cittadella dopo la fuga di Gabriello Maria Visconti (3). A Firenze non si volle pagare la somma pretesa dal Boucicaut, perchè sembrava esagerata. A sua volta, il Governatore non credette opportuno consegnare una delle quattro torri di Pisa occupata durante la guerra dalle milizie genovesi, come a tenore dei patti sarebbe stato suo obbligo, finche non avesse ricevuto completa soddisfazione. Tanto per indurlo a mitigare le pretese, quanto perchè, dovendo arrivare allora a Portopisano dalla Fiandra una nave carica di merci di Fiorentini ma padroneggiata da Francesco Doria, si temette che costringesse il suddito a scaricarla a Genova per rifarsi a suo agio di ciò che non gl*i era acconsentito, il 3 maggio Jacopo Salviiati partì da Firenze in compagnia di Antonio di Alessandro per ordine dei governanti, ed entrambi in veste di ambasciatori si diressero verso la capitale della Liguria. Giunti che furono in Pisa, trovarono che il Doria era già arrivato e allora stava per sciogliersi dall’ormeggio avendo ricevuto la temuta e prevista intimazione dal maresciallo Boucicaut. Egli non volle annuire alle preghiere di soprastare alquanto rivoltegli dagli inviati certi di ottenere la revoca dell’ordine, quindi non rimase loro che affrettare di viaggio. Il 13 maggio la società di Tomaso e Bartolomeo scrisse ai soliti di Valenza: Giunsono a dì 7 qui i nostri anbasdadori da Firenze. Sono venuti per rimanere d9 ach or do dion monsignore di quanto à 9fare chol nostro diomune, e pensiamo tutto aconderanno, per lo choman-damento che Francesco Doria di venire qui. Hor à auto licenzia (1) N. Valois, 491-92. (2) Cfr. R. PlATTOLI, La notizia del convegno di Savona etc. cit. C31) Tutte le notizie eull’ambasceria trovane! della Cronica di G. SALVI ATI, XVIII voi. delle Delizie degli Eruditi Toscani del p. Ildefoneo di San Luigi, 266-73. Genova e Firenze al tramonto, ecc. d’andare a scharichare dove piade a* nostri anbascvadori. Aspettone risposta da Firenze dove vogliono vada a scharichare, e chosì ne fa-ranno. Che seghuirà saprete. Tale fu Ja voce diffusasi lin un iprimo momento, invece il Doria eseguì lo sibarco delle mercanzie nel porto di Genova, e di quii a suo tempo furono trasportate a Firenze senza alcun altro aggravio doganale. In una lettera della stessa società redatta 1Ί1 luglio troviamo: Francesco Doria scharichò qui, chôme vi s’è detto per più. Gli anbasc[i]adori sono qui. Non sapia[mo] che s’abino fatto, se non pagliare denari. Se altro sentiremo dei dirvi, vi si dirà. Ottenuto l’accordo intorno al risarcimento dovuto al Governatore, gli ambasciatori intrapresero la discussione intorno alla seconda parte dell’incarico loro affidato, cioè la compera di Livorno. Che qualche assaggio al proposito sulle idee del maresciallo Boucicaut fosse stato in precedenza fatto, s'i suppone dall’esserne giunto un sentore alle orecchie dei dipendenti di Francesco Datini che dimoravano in Valenza. Abbiamo visto come avessero chiesto particolari alla compagnia di Tomaso e Bartolomeo, che per risiedere in Genova supponevano fosse al corrente di tutto; e come essa il 21 aprile avesse risposto di non saperne niente. Ciò indica che ai mercanti fiorentini, per lontani che fossero, stava molto a cuore la sorte di 'Livorno rimasto a far parte del dominio di Genova, rompendo la continuità territoriale del contado pisano e favorendo altri mercanti per di più rivali. Il piccolo porto destinato ad una tanto gloriosa vita nella storia del commercio toscano, trovandosi in potere dii coloro che άη definitiva dovevano subire tutto il danno dell’assoggettamento di OPisa, era per la Repubblica un pruno nell’occhio abbastanza doloroso. Prima di poter dire che la questione di Pisa era una buona volta maturata, anche quel problema andava risolto, e senza riposare sugli allori, senza porre tempo in mezzo, ne fu tentata la via. Il Boucicaut pretese per la cessione di Livorno una somma ascendente a centomila fiorini, lasciando però divedere che avrebbe potuto calare fino agli ottantamila. La Signoria, subito avvisata, dette ai suoi inviati la facoltà di offrirne fino a cinquantamila; ma il Governatore si rifiutò di trattare ulteriormente su tale base. Allora i Priori, che forse sperarono nel sorgere di una qualche evenienza più favorevole, ordinarono al Salviati ed al collega di prendere il congedo e ritornare a Firenze, dove giunsero il 28 luslio. L’avarizia della Repubblica fiorentina, che, inspiegabilmente, si rivelò spesso nei momenti lin cui meno avrebbe dovuto far conto del danaro, fece perdere l’opportunità e per lunghi anni altro non ne nacque. Soltanto nel 1421 il doge Tomaso Campofregoso vendette il castello di Livorno ai fiorentini dietro un corrispettivo pari alla somma agli inizi chiesta dal Governatore francese: centomila fiorini; e nella compera fu incontrato un forte ostacolo nel Duca di Milano, il quale affermava « molto presuntuosa- 324 mente essere in via d’acquistarlo e volerlo poli donare (l) ». Firenze, e sia detto a sua lode, dubitò sempre di tali amidi. Durante la ripresa dell’attività dei pirati catalani del 1407-08 e la conseguente controffensiva genovese che porlo all allontanamento di Piero della Randa, uno dei più temibili predoni, dai mari provenzali, mentre le navi di Genova compivano la loro opera di polizia, fu scritto da questa città al fondaco daliiiiano di Valenza (2): Coni è da’ vostri di Vinignone (3) e di Bnrzalona, le 3 ghalee di Bonifazio (4) che furo costà presono la nave fe9 fare Piero Aldobrandini, a Bocholi (5)^ e a Bonifazio si dicie Vanno menata, che v9era roba di vostri di Vingnone e Bardi e d'altri. Qui siamo istati a luoghotenente e al consiglio. Saune lor male. Mandasi co lettere a mo[t^signore e a Bonifazio per riavella, e a buona speranza ne stiamo. Che seghuirà saprete. Che piada a Dio non se ne ridevi danno. Istamani s9è detto qui che Vhanno rilasciata. Non ci è per modo si deba credere. Se è logico che il campo d’azione delle navi corso-genovesi fossero i mari di Provenza dove avevano rifugio i pirati catalani e quel Piero della Randa che riuscirono ad indurre a cambiar acque, non lo è altrettanto che il danno dovesse ricadere sui Fiorentini. Davanti alle loro proteste, il Governatore e gli altri rettori di Genova fecero restituire tutta la preda, e ciò avvenne allorché le navi furono disarmate, all’infuori di una, la quale continuò la sua opera, come risulta da una lettera redatta in Genova il primo settembre 1408: Le 3 ghalee ristituirono tutto quelo doveano, siche andò bene. Sono disarmate tute, acieto che 1& che a questi dì prese la naveta a Pisa di roba di fiorentini, che si riarà. Arebela scarichata al porto, se non che sentì s9armava in Pisa Ia ghalea, che in poche ore fu fuori, e per dota si partì. Diravisi se altro aparà di nuovo. I n altra volta ancora ì commercianti fiorentini subirono la violenza dei medesimi marinai liguri e per di più nel loro porto, benché non vi fossero ragioni politiche di reciproca ostilità e nonostante che i governanti di Genova facessero rendere il mal tolto ai legittimi proprietari. Qualche giorno più tardi si diffuse la notizia che la galea colpevole era caduta in mano di nemici poco ini se ri cordi osi, infatti da Genova il 7 settembre fu scritto: La ghalea d Urbano da Mare è suta presa ala Chapraia dale ghalee de’ mori. Erari anchora la ghalea dela ghuardia di qui. Volsela sochorere: non fu a tenpo. Ora Dio aiuti e9 (1 ) D. Bon INSEGNI, Storie della città di Firenze dall’anno 1400 al 1460, Firenze, 1637, 17. (2) Lett. del 23 giugno 1408 della eoe. di Tomaso e Bartolomeo. (3) Anche ad Avignone ebbe un sindaco F. Datini, il primo anzi in ordine cronologico. (40 Bonifacio di Coreica. (5) Bocche del Rodano. Genova e Firenze al tramonto, ecc. 325 cristiani e profondi e Mori. Se altro sentiremo, il saprete. Il 15 di quel mese infine quelli stesso scriventi ri epilogarono in una loro lettera parte degli avvenimenti narrati: Asai vi s’è doto che qui si ri-stituì tutto quelo ebe di danno o si rischatò la nave fu presa a Bocholi. E dele 3 ghalee ne presono la i Mori, chôme vi s’è detto, che fu mala gingillata per chui tochò. Di qui v onderà imbasciata, e pe[n]sasi tutto si rià, cioè saranno rilasciati i christ ioni furono presi, e bene n andron elino. Dando ora uno sguardo sommario alle palesi manifestazioni contro i Fiorentini ed il loro commercio, possiamo senz’altro escludere che derivasesro da una qualsiasi tensione nei rapporti ipolitici tra la Repubblica ed il Governatore francese di Genova, anzi tanto l’una quanto l’altro erano accomunati nel disegno di favorire Luigi d’Angiò contro Ladislao di Napoli. Questi, dopo la conquista di Roma, era divenuto il dominatore delle forze politiche italiane rompendo quel-l’equiliibrlio che sipeciialmenté gli Stati delFItalia centrale erano tenuti a custodire. Nel suo movimento diretto ad espandersi verso il settentrione era giunto in breve a minacciare li possessi di Firenze, la quale sempre più si mostrò pronta ad appoggiare le pretese dell’Angioino di Napoli, cioè ad entrare nel medesimo ordine di 'idee nutrite alla Corte di Francia, e quindi dal Governatore di Genova. Mentre le forze terrestri di Ladislao irrompevano nel territorio della Repubblica, la sua flotta iprese a molestare le coste della Toscana, rendendo malsicuro l’accesso a Portopisano, perciò il maresciallo Boucicaut si assunse l'impegno di proteggere quello sbocco commerciale fiorentino e di sbarazzare i mari circostanti dai navigli avversari. Allorquando nel maggio del 1409 venne tolto al Signore di Piombino, Jacopo II d’Appiano, suo accomandato, l’isola d’Elba ( 1 ), l’interessata Repubblica ricordò al maresciallo la promessa non ancora mantenuta (2). Nello stesso tempo Ladislao per il mancato soccorso di Siena dovette ritirarsi nella base di operazioni di iPe- i ugia (3). Bisogna dunque concludere che era l’aniimo del popolo genovese ostile a quei Fiorentini che ricevendo prima in accomandila Gherardo d’Apipìiano si erano procurato uno scalo a Piombino ai suoi danni, e poi coll’acquisto di Pisa avevano anferto un sì fiero colpo alla sua prosperità. Lo stesso popolo avversava del pari Luigi d’Angiò per Γaiuto e j\ soccorso che all’occorrenza non mancò mai dii offrire ai (1) R. CARDARELLI, Baldaccio d'Anghiari e la Signoria di Piombino nel 1440 e 1441, Roma, 1922, 13. (2) N. Valois, IV, 1902, 116. (3) 11 2 maggio 1409 la comp. di Tomaso e Bartolomeo in Genova scrisse al fondaco datiniano di Valenza: E' rre Lancislaio se ti ato indietro e dilungatosi inverso Perugia. Credeva i sanesi li si jaciesimo incontro, ed elino l'anno fatto con buoni Verretoni. Saprete che seghuirà. E di lì a due giorni confermò: Non ci è di nuovo. I re Lancislaio s'ò ritirato dietro con suo Verghogna. Che seghuirà saprete. 326 Renato Piattoli pirati catalani tanto quanto per altre ragioni il maresciallo Boucicaut ne assecondava le m'ire. Tale disparità di vedute, che aveva la sua giustificazione in divergenza assoluta degli interessi, non favorì certo il pacifico dominio francese sulla (Liguria, che incominciò a pesare come un giogo. Le navi de re Luigi furono prese sopra la Ghorghona da l armata de Lanzalaio, salvo la nave di Gherardo di Dono, che n è ito a Pion-bino con asai giente deValtre navi. Idio ristori chi perde. T^uto è venuto qui. Ecco ciò che il 26 maggio 1410 fu scritto da Genova al fondaco datiniano di Valenza ( 1 ). Navi genovesi avevano validamente cooperato alla sconfitta della flotta angioina ed il porto di Genova ne avea accolto le prede. Ciò potè avvenire perchè il poipolo aveva ormai ritrovato la sua autonomia di azione, il modo di manifestare il proprio volere. -no Il 3 settembre dell’anno precedente, mentre il maresciallo Boucicaut era fuori immerso in operazioni esorbitanti dal semplice leggi -mento della città, era scoppiata una rivolta contro i dominatoli fian-cesi, di cui parlò in una lettera del 26 del mese la compagnia di Tomaso e Bartolomeo: Arete sentito dele chose di qui. Pensiamo che le si riposeranno presto e bene, che, secondo si dice, que che tenghono Chasteleto sono rachordati con questi di regime[n}to. Saprete che ne seghuirà. Hognora che chostoro ànno riauto Chasteleto pensiamo l'arme si porà giù e ogniuno po’ starà a fare e fati suoi. Sa pretelo. Durante quel mese stesso certe galee di Lu.igi d’Angiò avevano a Savona recato molestie ai rivoltosi, il che era equivalso ad aggiungere esca al fuoco. In quanto i Fiorentini erano alleata all Angioino, contro di essi erano state poi ordinate rappresaglie in Genova, di modo che la massa popolare potè sfogare il livore per tanto tempo rattenuto verso di loro, in attesa di regolare il conto con I altro (2). E, un venta, seppero ben ricordarsene a tempo e luogo. RENATO PIATTOLI. (1) Nella stessa lettera, più oitre. trovasi: Ecc: chôme il cncrdinaie ài Bologna c saio fato papa. Idio li dia oene a Tare ( 2) N. Valois. 131 e IL RATTO DI BIANCHINETTA D’OBJA Trattando questo tema non pretendo di presentare al pubblico una rarità. Argomenti simili furono toccati dal Pesce e dal Belgrano; e prima di essi il Vescovo annalista non disdegnò di ricordarci il « fatto di cattivo esempio » riferentesi a Teodorina, figlia di Giorgio Sur, alemanno; la quale « bella di corpo e ornata di egregi costumi » per le molte ricchezze di cui poteva disporre, andando alla messa un giorno di festa, fu rapita per istrada da Paolo Doria e, su un brigantino, condotta alla Spezia, indi a Pontremoli, dove, essendo stata trattenuta per alquanti giorni, per i buoni ufficii di Lazaro D’Oria fu restituita ai parenti, andando di lì a poco sposa a Domenico Ler-cari (*). Il tema inoltre non vuole essere una primizia, perchè il fatto fu ricordato, sebbene scheletricamente, dallo Staglieno e diede il soggetto ad una commedia (2), che andò in scena a Sassello, facendone parlare i giornali cittadini (3). Ho creduto, ciò non ostante, tornare suirepisodio, perchè le sue fonti, più che quelle di altri simili fatti, sono piene di moltissime circostanze che lo ricompongono in quasi tutte le sue particolarità; perchè i personaggi che ne furono i protagonisti occupano un posto nella storia; perchè al ratto seguì un processo, a cui presiedette una persona ignorata, ma che si rivela in esso, uomo di carattere, amante della giustizia, sprezzante di ogni vile timore. ì'fi :·: Bianchinetta, la fanciulla rapita, apparteneva alla famiglia D’Oria. Suo padre, Filippo, o, come volgarmente veniva chiamato, Filippino, era signore di Sassello e, morendo, fu tolto all’affetto della figliuola nel 1451, quando essa contava solo tre anni di età. All’orfana rimasero la madre, di nome Mariola, ed il nonno, Ottaviano Vivaldi. Presso quest’ultimo visse un certo tempo in Savona, colla madre e (1) Giustiniani, Annali di Genova, vol. II, p. 541. (2) ENRICO ZunINI, Bianchinetta D’Oria, commedia in due atri con prologo in v^rsi, Genova, tipografia Ciminago, 1908. (3) CaffaRo, rubrica: Arte ed Artisti; SECOLO XIX, rubrica: Teatri e Concerti, 25 sìttembre 1901. 32S D. Guolielmo Salvi colla sorella maggiore Peretta, amata come figliuola (*). Aveva anche un fratellino chiamato Pietro Antonio; anche questi non ebbe ohe pochi anni di vita, seguitando poco dopo il genitore alla tomba. Col nuovo lutto la sua famiglia, secondo le disposizioni testamentarie del padre, perdeva il dominio del feudo Sassellese che andava ai parenti più prossimi di linea maschile (2); ma alle due sorelle rimanevano ancora ingenti ricchezze (,l), che stimolavano il desiderio delle piima-rie famiglie di Genova a stringere parentado con loro. Nel 1460 Bianchinetta contava 12 anni: sul suo carattere, sulla sua educazione nulla possiam dire; nemmeno sulle sue qualità fisiche i documenti ci danno veruno accenno. Battista D’Oria, il giovane rapitore, era il secondo genito dei cinque maschi di Bartolomeo e Girolama D Oria. Gli altii quattro chiamavansi Ceva, Costantino, Matteo e l·ranceschino; quest ultimo morto in pupillari œtute (4). I ra Battista e Bianchinetta correvano vincoli di parentela, discendendo entrambi da Andreolo D Olia, lui per via di Giacomo e di Bartolomeo, lei per via di Lilippo, di Antonio e di un secondo Filippo. La sua eia nel 1460 dovea esseie di circa 20 anni, la sua indole, per il fatto stesso di cui scriviamo, si rivela violenta assai, come era naturale a figlio di ricco signore feudale, educato ad un superbo sentire. Dietro di lui, probabile ideatore del ratio, sta suo padre, Bartolomeo, uomo pieno di esperienza, calcolatore al sommo e di una tenacia singolare. Non contento della quarta parte che gli proveniva dalla morte prematura del piccolo Pietro Antonio Doria, avendo dovuto dividere il feudo con suo fratello Lamba e coi cugini I edisio » Gabriele del fu Simone, pensò di aggiungere alle sue ricchezze i patrimonio lasciato da Filippo D Oria, facendo sposale da < ue suoi figli Peretta e Bianchinetta, di cui egli con altri era stato costituito tutore. Al suo desiderio, però, si opponevano gli altri tutori e la madre delle fanciulle. Che fare? Agli uomini violenti ogni mezzo e buono. Stabilisce che il maggiore dei suoi figli, Ceva, rapisca Peretta, mentre era presso il nonno a Savona; e, riuscito bene il primo colpo, ordisce nuova trama per far rapire Bianchinetta dall altio suo ig io, Battista. Da furbo egli non comparisce nella scena del rapimento; ma la tenacia nel difendere il figliuol suo, e presso il Consiglio < eg i Anziani e presso il tribunale ecclesiastico, ci dice apertamente quanto gli stesse a cuore il buon esito della cosa. Contro i suoi consigli e la sua audacia dovea combattei e Ludovico D'Oria del fu Leonardo, l’altro pretendente alla mano di Bianchi-netta. Egli era di età più inoltrata che Battista ed avea certamente (1) Archivio di Slato, Not. Obcrto Foglietta, filza XI, n. 282. (2) Arch. di Stato di Milano, Confinium, 44, 1443-67; 7 settembre 1451. (3) GISCARD!, Origine e fasti ecc., Ma. alla civica, voi. II. (4) Arch. di Stato, Not. Oberto Foglietta, f. XIV, n. 453. Il ratto di Bianchinetta d’Oria 329 fatta una carriera non disprezzabile, se nel 1460 veniva eletto ammiraglio della flotta che i Genovesi fornivano a Renato di Angiò, re di Napoli (ι). Il suo carattere si rivela riflessivo all’eccesso, sprezzante di ogni raggiro, sol fidato nella sua buona causa, e per questo un po’ ingenuo. 11 matrimonio fra lui e Bianchinetta doveva esser stato combinato dalla madre di quest’ultima e dal nonno Costantino Vivaldi, che con Ludovico avevano legami di parentela, essendo anche la madre di lui una Vivaldi di nome Caterina, ed al progetto aveva aderito Bianchina, figlia di Stefano Lomellino, vedova di Antonio D’Oria e nonna paterna di Bianchinetta. Detto brevemente degli interessati al triste dramma, non ci rimane che far parola dei giudici costituiti dal Papa a punire i colpevoli ed a riparare il fallo. Celso da Crema era entrato, per professare l’Ordine Benedettino, nel monastero di S. Benedetto di Polirone, in quel di Mantova, ove emise i suoi voti il 24 giugno 1430. Nel 1460 eletto priore di S. Nicolò del Boschetto, con altri prelati della congregazione prese parte alla elezione dei priori nei monasteri di S. Girolamo della Cervara, di S. Benigno di Capofaro e di S. Giuliano d’Albaro, che, per l’unione alla congregazione di S. Giustina, erano rimasti vacanti (2). Nel 1462 egli non è più priore al Boschetto, ove troviamo in suo luogo un vice priore. Forse l’incidente che gli diede la morte — fu ucciso da un cavallo imbizzarrito (3) — - avvenne qui in Liguria, prima che spirasse il tempo del suo governo, ed allora spieghiamo perchè non gli fu subito dato un successore. Vincenzo del Finale che divideva con Celso da Crema il peso della delegazione pontificia, apparteneva alla famiglia Maglio ed era oriundo del paese di Orco nel Finale. Vestito l’abito Domenicano e professata quella regola, colla sua virtù e coll’efficacia della sua predicazione ben presto fu conosciuto a Roma, donde gli venne l’incarico di predicare la crociata indetta da Pio II contro il turco e di raccoglierne i sussidi pecuniari (4). Nel 1461 fu creato priore di S. Maria •di Castello ed ivi nella medesima carica finì i suoi giorni il 18 gennaio 1463. A lui fu dato il titolo di beato ed anche oggi gli viene reso pubblico culto nella parrocchiale del suo paese (5).. ❖ ❖ * Intorno alla chiesa che Martino D’Oria volle innalzata a Genova in un lembo della Domo-culta, assoggettandola a S. Fruttuoso di Capodimonte, ove egli si ritirava per professarvi la regola di (1) Jacopo DOria, La chiesa di S. Matteo, p. 208. (2) SALVI, La badia di S. Benigno di Capofaro in Genova, p. 97. (3) Matricola congregationis cassinensi (arch. privato). (4) Atti della Società Ligure di Storia Patria, vol. XXI, p. 110. (5) Atti citi., vol. XXI, p. 130. 330 D. Guolielmo Salvi S. Benedetto, e dedicandola a S. Matteo, ben presto sorsero stupendi edifici, tutti dei vari rami della famiglia D’Oria, e la piazza prese da essa nome e si chiamò: platea nobilium de Auria. JNè solo sulla piazza, ma anche nei vicoli circonvicini si allinearono i fabbricati dell’illustre famiglia ed avemmo la contrat a nobiiium de Auria, come avevamo la contrada dei Grimaldi presso S. Luca, quelle dei Carman-dino, dei Lercari nella regione della Scutarie, quelle dei Piccamilio e dei Cibo e quelle più conosciute degli Spinola e dei Fieschi, ricordateci dal Belgrano. Ai tempi nostri rimangono ancora nella piazza e nella contrada dei D’Oria gli splendidi palazzi, cui coll’and are del tempo inconsulti restauri tolsero la primitiva bellezza; da molti dati, però, è facile indovinare le trifore e le quadrifore, che si aprivano slanciate nei muri, le logge sorrette da svelte colonne, in cui sembrano sporgere il capo le dame ed i cavalieri antichi, ed i portici che risuonano ancora delle grida faziose, dei parlari seri stipulanti contratti, degli addii scambiati tra quelli che restavano ed i parlenti per nobili imprese guerresche o per arrischiati viaggi marini. È conosciuto come due fra i più belli palazzi che adornano la piazza di S. Matteo furono donati dalla repubblica uno a Lamba D’Oria, il vincitore di Scurgola, l’altro al magnifico Andrea, il padre della patria. Rimane un terzo, che ben può stare a paragone cogli anzidetti, dalle linee gotiche malamente deturpate, che chiude a sinistra la piazza di cui parliamo. In esso abitava la vedova di Filippino D’Oria con la figliuola BianchinetLa. La identifichiamo dal latto che il 4 luglio 1469 Peretta D’Oria vendeva a Battista D’Oria, il marito della nostra rapita, la metà della casa paterna che essa possedeva in indiviso colla sorella Bianchinetta, e i confini ivi espressi solo alla casa anzidetta si possono adattare: ante dicat platea (nobiiium de Auria) ab utroque latere sive retro via publica (‘). Abbiamo ancora vari dati sulla casa del rapitore, situata pur essa in contrata platee nobiiium de Auria, i cui confini erano: ante et ab uno latere via ab alio latere domus nobilis Lambe de Auria in parte et in parte domus heredum quondam Cristo fori de liozolo retro seu ab alio latere domus nobilis Palili de Auria quondam Cove (“). Alla medesima casa, prima che passasse ai figliuoli, Bartolomeo D Oria aveva fatto non poche spese, con un restauro che non solo domili sue sed civitati ornamento videri potest; ed i Padri del Comune lo esentarono dalle gabelle pro duobus estimis prò ipso melioramento seu nova jabrica, intelligentes illam nobilem esse et ornatam ac civitati decorum (3). Con tutto questo però non saprei dove rintracciarla con (1) Arch. di Stato, Not. Oberto Foglietta, fil. XIV, n. 443 (4 luglio 1469). (2) Arch. di Stato, Not. cit., f. XIV, n. 444 (4 luglio 1469). (3) Arch. di Stato, Diversorum registri, 69 (8 maggio 1458). Il ratto di Bianchinetta d’Oria 331 sicurezza, solo crederei raffigurarla nel palazzo che si lascia a sinistra, nella piazza -di S. Matteo immediatamente prima di imboccare la via Davide Chiossone. Anche la casa di Lodovico D’Oria era situata in piazza S. Matteo ma non mi fu dato identificarla con miglior precisione. Nella Pentecoste del 1460, la piazza dei nobili D’Oria è deserta. L’ora del meriggio, fra nona e vespro, forse inviterebbe i genovesi a far la siesta, se le feste della vicina Sanpierdarena non li attraessero. Sono feste popolari in cui la maggior curiosità è costituita dalla corsa al palio, che del suo nome aveva reso celebre fin dal 1299 una pietra della scogliera del Capofaro, chiamata per l’appunto petra palii (r). Chi avesse potuto, in quel giorno, penetrare con lo sguardo nel palazzo di Bartolomeo D’Oria avrebbe scorta una eletta di bravi che prendevano le ultime istruzioni dalla bocca di Ceva e Battista sulla impresa organizzata e che fra breve dovea vedere la sua attuazione. Il piano rimaneva così combinato: che Battista sarebbe andato in casa della vedova di Filippino D’Oria; nel tempo opportuno avrebbe rapita l’unica figliuola rimastale, Bianchinetta, che poscia avrebbe consegnata sulla soglia dell’abitazione ad un varazzino, senza dubbio il più bravo fra i suoi bravi, il quale difeso dagli altri l’avrebbe recata in porto su una galea ivi preparata per condurla a Varazze, donde la si sarebbe fatta salire al Sassello. L’esecuzione fu effettuata a puntino. 11 percorso più breve che anche oggi allaccia piazza S. Matteo al porto si delinea facilmente per piazza Campetto, via Orefici, piazza Banchi, via Ponte reale e Sottoripa. Il medesimo venne seguito dai rapitori; e dai documenti ci viene descritto coi nomi onde anticamente venivano chiamate le piazze e le vie anzidette con le loro adiacenze. Così ci sono ricordate la contrada di Scutaria e la piazza sottostante, evidentemente, di Campetto; la contrada dei Lercari in So-zilia con il vicino carubeum Clavonarie (2), altrimenti detto di S. Pao- lo il vecchio (3) presso il quale era la spezieria di Egidio da Vernazza; vengono poscia la piazza o vico dei Lercari, la contrada Banchi, la via Lomellini dei Banchi, colla piazza dei nobili Dinegro (4); segue un tratto di Sottoripa e più precisamente lo sbocco di essa: circa exitum dicte rippe; e finalmente la via del ponte dei legnami situato fra il ponte dei vini, poscia detto dei Chiavari, e quello del pedaggio o della mercanzia. (1) Salvi, Op. cit., p. 44. (2) Nel 1251 è detto de Clavonariis (PODESTÀ, Il colle di S. Andrea, in Atti della Società Ligure di Storia Patria, vol. XXIII, p. 27), e fin da quest’epoca avea case di legno dei Lercari. (3) Anche la contrada di Scutaria era detta di S. Paolo il vecchio nel 1466 (RlCHERl, Ms. al-l’Arch. di Stato, vol. XIV, p. 1428). (4) Oltre la piazza vi era anche la via Dinegro che da Banchi conduceva al porto (Podestà, Il ïorto di Genova, p. 43). 332 D. Guglielmo Salvi Battista, adunque penetrato nella casa che fu di Filippino D’Oria, rapì la Bianchinetta e la pose fra le braccia del varazzino il quale dovea portarla fino alla galea preparata nel porto, circondato da una schiera di armati, fra cui lo stesso Battista e suo (rateilo Ceva. La scena del ratto dovette riuscire movimentata assai per il numero di coloro che vi presero parte — furono numerati in sei o otto e per la resistenza die oppose la fanciulla. Sino dal principio ella diede in pianti e grida che attrassero alle finestre la sorella di Ludovico, moglie di Lorenzo D’Oria, e la cognata, moglie di Marco, suo fratello, tacendole spettatrici impotenti a recare nessun aiuto alla sventurata. F Ja resistenza fu viva «durante tutto il percorso. Nel dimenarsi la fanciulla ebbe scarmigliati i capelli e certamente nell animo suo apparve repentinamente tutta la trama ordita in suo danno, perchè nel dolore suo invocava Dio: lieu milii Deus; apostrofava il rapitore dicendogli: cc Battista, Battista, non riesci al tuo inlenLo perchè io voglio il mio Ludovico »; ed invocava la persona amata che solo in questa circostanza l’avrebbe potuta aiutare esclamando: cc Oh! Lodovico, Lodo-vico mio ». lì quando, condotta sul ponte dei legnami per essere imbarcata, vide precludersi ogni via di essere restituita in libertà si volse ai molti curiosi che si erano uniti agli armati per osservare la scena e li pregava di aiutarli: adiuvate me, quia me abducunt. L’orgasmo della fanciulla, per altri motivi, era condiviso da Ceva e più ancora da Battista D’Oria. (^)ui era in giuoco tutta la loio audacia; se il colpo riusciva bene, tutto era guadagnato; altrimenti bisognava rinunciare a tulto. Kssi erano tutto occhi per vedere, tutto oiec-ciiie per udire. Battista specialmente con la sua spada sguainata ora è davanti, ora dietro alla comitiva: ed a Banchi fa sfoggio di audac ia vibrando la sua spada e sfidando tutti col dire: avi ha alcuno che voglia far qualche cosa? ». Lo stesso avea fatto Ceva, suo fratello, presso la casa di Girolamo Lercari. Quest’ultimo aveva appena osato dire allo speziale Giovanili Vernazza che la rapita era la figlia di Filippino DOria quando si sentì rimproverare da Ceva: cc bene! vogliamo vedere se delle cose nostre faremo a capriccio vostro»; e soggiunse: avi ha una turba di stolti che vogliono parlare, ora vedremo se chiuderemo loio Ja bocca e se delle cose nostre disporremo a nostro talento! ». Nella contrada di Scutaria un’altra persona non specificala nel documento, andando con Ceva D’Oria diceva: « ora vedremo chi si intrometterà nelle cose nostre ». Fra l’audacia più sfacciata che insolentiva contro tulti, perchè sul volto di Lutti leggeva il tacito riinpio-vero che meritava l’azione brutale. Nessuno, però, osò mettersi dalla parte della debolezza oppressa e tanto meno recarle aiuto. Due stessi domestici di Ludovico 11011 sentirono il dovere di difendere la giovano fidanzata del loro signore dall’insulto che le veniva fatto e, paurosi, andavano dicendo che si trattava di parenti! Il ratto di Bianchinetta d’Oria 333 E difatti senza veruna difficoltà, dal ponte dei legnami la fanciulla fu posta sopra ima barchetta che la condusse alla galea ivi preparata, sulla quale fece il tragitto per mare fino a Varazze. Intanto per Genova si spargeva rapidamente la notizia dell’accaduto. Molti erano quelli che avevano presenziato alla scena; che curiosi avevano seguito la banda armata fino al porto; che avevano vista la nave salpare carica della preda agognata. Or mentre nella casa di Ludovico le donne si affliggevano immensamente per l’accaduto e quasi pazze, se verberando per domum incedebant; mentre la madre pur essa naturalmente rimaneva immersa nella desolazione e nel pianto, il ratto della dodicenne, facendo le spese dei mille conversari e nelle case e nelle vie, come in un baleno, si sparse per la città e fuori di essa. Benedetto Dinegro, stando il medesimo dì della Pentecoste nella piazza della chiesa di S. Teodoro, apprese l’accaduto da alcuni uomini che ne ragionavano sommessamente ed, uscito di quella piazza, incamminandosi verso Fassolo, da altri molti ascoltò la medesima cosa nei suoi mille particolari. Come restassero i tutori della ragazza all’oltraggio nuovo, onde Bartolomeo D’Oria offendeva la memoria e la famiglia di Filippino, è facile immaginare; ed è facile ancora misurare la vergogna ed il furore di cui dovette ardere il fidanzato di Bianchinetta. Ma quali mezzi erano in loro disposizione per ottenere una riparazione? Pochi in verità, quando consideriamo che ai potenti riuscivano facili le vie per corrompere quell’ombra di giustizia che allora regnava; ciò non ostante tutti li sperimentarono. Mentre a Genova la notizia del rapimento serpeggiava di bocca in bocca fino ad essere conosciuta, come troviamo scritto, per totum mundum o come altri disse, Deo et mundo, il rapitore, trovatosi in possesso della fanciulla, sentiva di aver espletata solo la parte materiale dell impresa propostasi: ora gli bisognava guadagnare l’animo di lei coll affetto; ed a questo secondo lavoro si accinse immediatamente. Le memorie che abbiamo al riguardo non ci dicono del modo onde Bianchinetta fu trattata sulla galea, della compagnia che l’attendeva a Varazze, del corteggio con cui fu accompagnata al Sassello, dell’incontro che ebbe colla sorella; ma possiamo bene immaginare il tutto ponderando bene quello che dissero due sassellesi, suonatori di piffero, sulla di lei vita nel castello del rapitore, dabant eidem puele omnes incunditates quas poterant pro contentando et mittere debent ad ponderandum saumas ad domum mei catorum. Item quod de omni mulo mula roncino seu i oncina venientibus versus Januam seu eseuntibus versus Lombardiam vacuis vel oneratis de quibus fit mentio in venditione dicti pedagii quod solvatur dictum pedagium pro quibus diversimode fiebat solutio dicti pedagii pro adventu et exitu que Januam et de Janua faciebant et diversimode fiebat divisio inter commune et marchiones seu participes solvatur et solvi debeat pro quolibet qui in Januam venerit denarium unum cum dimidio januinorum et quando de Janua vadunt versus Lombardiam solvant denarium unum cum dimidio et dividatur sic inter commune et marchiones videlicet quod commune habeat denarium unum et marchiones seu participes denarium medium januinorum. Item quod de omni axino vel axina venientibus versus Januam seu euntibus versus Lombardiam vacuis vel oneratis de quibus fit mentio in dicta venditione dicti pedagii et pro quibus diversimode fiebat solutio pro adventu et exitu qui Janua fiebant et etiam diversimode fiebat divisio inter commune et dictos marchiones seu participes ipsorum solvatur et solvi dieibeat pro quolibiet quando Januam venerint tres quartas partes unius denarii januinorum et quando de Janua versus Lombar- (1) Cfr. Assereto, La moneta genovese, cit. 352 Raffaele di Tucci diam vadunt similiter tres quartas partes unius denarii januinorum et dividatur sic inter commune et dictos marchiones et seu participes videlicet quod commune habeat duas tertias partes et marchiones seu participes aliam tertiam partem. Item quod omnia alia de quibus finimento in venditione dicti pedagi super quibus nihil est innovatum remaneant et sint firma et valida secundum quod in dicta venditione continetur salvias semper predictis et salvo quod ubicumque fit mentio in dicta venditione de moneta papiensi reducatur et reducta esse intel-ligatur ad monetam Janue in hunc modum videlicet quod unus denarius papiensis antiquus de quibus in dicta venditione fit mentio computetur pro obolo uno et novena parte unius denarii januinorum. Item quod totum pedagium Gavii predectum tam pro parte communis seu ementium a communi quam pro parte marchionum seu participum pre-dictorum colligatur et colligi debeat per emptores et collectores ipsius pedagii apud portam Vacarum et non alibi et hoc ex eo quia cum dictum pedagium colligeretur in duobus locis videlicet per commune seu per emptores et collectores partis communis ad portam burgi Sancti Tome et per collectores marchionum seu participum predictorum ad portam Vacarum magnum incommodum sequebatur mercatoribus et soltvere debentibus dictum pedagium. M. CGC. LIII°. Die XIIII Januarii. Lata et firmata fuit emendatio additio et corretio seu corretiones predicte etc. A. S. G. Membr. XIX. Gabellarum Veterum, fol. 102. v. - 104. v. * VI. ALCUNI DOCUMENTI ILLUSTRATIVI DI PUNTI TRATTATI NEL TESTO I. 6 dicembre 1191. L’arcivescovo Bonifacio appalta a Rolando di Sestri la decima maris che percepisce a Sestri, Lavagna e fino a Portovenere, e gli dà in compenso la decima parte delPintroito. A. S. G. Not., Guglielmo Cassinese,JI. Le Imposte sul Commercio Genovese durante la Gestione, ecc. 353 IL 14 agosto 1238. Carbone Malocello consul introitus canne, nomine participum dicti introitus vende a Ugone di Rivarolo il diritto di percepire due denari per liia da coloro che comprano panni di lana? di lino, di canavacccio, di fustagno sìve bambasilos. A. S. G. Not. De Cassina, fol. 324. III. 9 settembre 1248. Guglielmo Porcello del fu Corrado a nome suo e dei fratelli Enrico e Porcellino vende a Giacomina moglie di Giacomo Alberico due denari per lira chie raccoglie de introitu vice comitatus, per prezzo di venti lire. A. S. G. Not. Guglielmo di Pegli, II. 3G. IV. 7 marzo 1251. Enrico Contardo vende a Delomede Magnavacca quartam partem totius introitus pedagii Vultabii istius anni presentis per -l-ire 229 genovesi. A. S. G. Not. De Furnariis, III. 89. V. # 12 giugno 1252. Nos Martinus de Maraboto pro galea mea et nomine Johannis Calvi pro galea sua et nomine Cunracti Porci prò galea sua et Philippus Malocellus nomine meo et prò galea mea et nomine Cunradi Porci prò alia galea sua et Bonavia de Arenzano nomine meo et prò galea mea et Alexandrinus de Arenzano nomine meo et prò galea mea Marianus de Funtaneila nomine meo et prò galea mea Simon Barionas nomine meo et prò alia galea mea ad complementum dictarum decem galearum naulizamus vobis Marino de Palma pro te et Gasperino Grillo et Ga-sperino Riccio onerantibus in dictis galeis torsellos sexaginta quinque usque in octuaginta Idoni Lercari juniori pro te et Belmustino et Jo-hanne Lercariis nepotibus tuis onerantibus torsellos sexaginta quinque in octaginta Pastono de Nigro oneranti pro te torsellos triginta ed quinque Bonovassallo Nepitella pro te Pischeto MaUono et Ogeri'no Nepitella nepote tuo onerantibus torsellos quadraginta quinque usque in 354 Raffaele di Tucci quinquaginta et Tome de Castelletto oneranti torsellos triginta usque in quadraginta predictas decem galeas pro deferendis Januam ab Aquis Mortuis predictis torsellis et promittibus vobis predictis mercatoribus habere paratas predicta decem galeas cum hominibus centum et sexdecim pro qualibet earum inter quos sint ballisterios decem quilibet cum balista sua et quadreftlis viginti quinque et homines duodecim muniti ad ferrum pro qualibet galea. Acto etiam inter nos quod si ille due galee que sunt in custodia maris pro communi Janue et sunt ex dictis decem galeis ad tempus conveniens non redissent Januam promittimus vobis locare alis duas galeas loco earum etc. A. S. G. Not. de Furnariis. II. 124. / VI. 15 aprile 1253. Giailmo de Glapa e Giovanni Piccone incantaverunt in publica callega dal comune di Genova e per lire duecento introitum de raibela. A. S. G. Not. De Furnariis. II. 150. VII. 10 giugno 1253. Lanfranco Usodimare incantavit dal comune di Genova introitimi scribanie de Tunese et cie tabernis et fondegariis. A. S. G. Not. De Furnariis, II, 160. VII. Enrico di Ansaldo Mal'lòno e la moglie Piperina vendono a Giraldo Usodimare denarium unum in introitu porte sive pedagii porte ex qualibet libra denariorum januinorum per lire cinquantacinque. A. S. G. Not. De Furnariis, III, 118. VIII. 2 gennaio 12GG. Simone di Anseimo de Castro vende a Giovanni marchese di Gavi introitum colligendi percipiendi et habendi medaliam imam in pedagio Gavii per qualimlibet libram, pel prezzo di trenta lire genovine. A. S. G. Not. Federigo de Sigestro, II, 19. Le Imposte sul Commercio Qenovese durante la Gestione, ecc. 355 IX. 12 marzo 1268. Corrado de Mari cede a Guglielmo Carcati de Mari l’ottava parte dell’z/zfroi/us quaranteni tamquam emptor dicti introitus a communi Janue anno presenti. X. 12 marzo 1268. Guglielmo Carcati de Mari tamquam emptor anni presentis introitus denariorum quattuor canne ne vende la tredicesima parte a Corrado de Mari. XI. 1 febbraio 1269. Simone Grillo, Egidio di Negro, Vivaldo de Carlo, Antonio de Incisa, emptores introitus sive cabelle lini... XII. 17 ottobre 1284. Vivaldino de Vivando, Aniceto de Vivaldo, emptores introitus carnis et casei pro anno presenti... A. S. G. Not. Federigo de Sigestro, II, Fol. 26-28-29-279. 356 Raffaele di Tucci ο Ι- Ε ο Q. Σ LU ο ο ο ο co ο Ο ° CO je hh μ co «ο co < J J LÜ m < 0 o o O ir> Ο Ο O Μ . H fO 0 CO Ο O vo >o 01 CO >- O O Ix — Ο Ό C7\ co O CO CO o LO CO Ο Ο O IO vo CO C\ Ο O *N 0< SS J\ ΓΟ M eo o rt- co - o PO ^ K Ο O t-ι Ό CO lx Ό Ο O lx o ÌG vo co 01 co ο -t- co co ' Cn § CN co Ό O tx hh \0 O In» io O co O IO CO 01 CO N ’t CO 0 ΖΌ co Cn O IX -h VO O co »-o ix co O P l_x o o o O CO LO <Ό IX Ί* CO CO 2 CD C\ *-h 1-1 < Ό ►“· Ό co K H 'C O r\i CO μ η l\ co t\ Ο O o IO CO tN CO ^ CO CO CO CO Ck *“· CO CO co O >-< VO h- ^ CN 1X^*0 £ o 01 CO ^ CO N i· CO co <υ H-J o c > 'o 5 ‘n <£ . _ rt <υ 0) > ·--- u u u «---· •g rt rt o ri ’C ·*-> y «---1 ”rt c1 Ph 3 'C Π JH o rt bjo o rt r--- rt a- o. i---· j6 o o s O o H---· o -4-» ÛJ O -O o ,ψ3 ο o o (H pH tfj G « c u Ψ--- rt cS CO o O P-. PQ Λ o o ta Λί rt c n o ·- .22 γξ a c a l* $ Si: c ϋ C0 ·- ·§ ^ ~ « C 5 (Λ c C ο C U .£ ιλ rt o ~ a a « < U U o Uh U Continuazione, ved. pag. 262 del fascicolo precedente. ANNO E IMPORTO Le Imposte sul Commercio Genovese durante la Gestione, ecc. 357 c ir. 01 O O IO O o io O *0 C c o o 01 1.0 o 01 O o; cc o o o HH o IO O ve In O o Ix CN Tt· Ό CO VO tT ΤΓ oi w o ’-O *1 o o IO o o IO O LO o c O O 01 LO o 01 O 01 co O o O l-H io IO O VO rx io IO co Ί¬ VO co VO CO co Ο! M t-l O O LO o o o ο O O 01 O O o o O O O LO o 00 LO LO VO VO LO LO co co 01 O O 01 O CO o o M O LO O O O m Hi LO co LO Ci VO co w O io o o o O O 01 o O O o O O LO o In, Ό VO VO LO LO CO 01 IO io 01 o O LO m o co l-l o O 01 t". LO LO O O O H io co io LO ro Ο co CO o o io VO LO 01 o O LO o o o o co w o O 01 o O ' o o io O O O 01 LO o 01 LO co LO LO VO LO •o co VO co CO 01 O CO VO Q O o 01 o o o ó o co N o o o O o HH C\ o o o LO LO co 0\ LO VO CO co 01 IO 01 o o o 01 o 01 o 01 O o O co rx o o o io O o o H-l 0\ O 01 c LO LO LO LO 00 o\ o vo co CO CO co 01 οί Q ο o o o 01 o K-l O o Q O o o o o o O ο o o o 01 VO »o LO LO vo σ\ o LO "Ι¬ tx CO co co 01 ο 00 vo ix o o LO o o o o o t-l o LO LO LO o o 01 o o o o io o o VO o o o LO o CO LO vo 00 LO LO vo vo o io Ί¬ OS co co 0» < J J U1 m < 0 c 1 3 1 J2 rt u. S- ο. o o c .5 e u o U Ο Ο Ο μ b*> u o 3 co u. <υ a, in bo bD rt Oh .2 "bJD fcjO oJ •a <υ ex .rt ’o t/3 cd ι- ό/) J2 'a Le Imposte sul Commercio Genovese durante la Gestione, ecc. 359 o ι- α: 0 1 Σ UJ 0 z z < o t-H o VO Ό o o o t-H ^O LO o 01 01 IX co 01 01 01 1---1 VO VO co o o Ό VO o o o CO IO o 01 ---1 νο O 01 Tf Ον ο Ix co 0* IX o t-H νο O Οί ■Ί¬ oo Ον ο IX CO Ο IX O Ο · νο O 0* Tf 00 Ον co IX CO Ο hH O Ο t-H o οι o o Ον co co CO Ο t-H o Ο t-H o ο 00 VO σ\ 01 IX § òo < J J UJ CQ < 0 G — S "03 5 « S O c3 C <υ rt Ό u ‘a, H a m o r-< c5 .Ί53 ’S V- o u o *S> . u O *6 li) ·— Οι ÒjO tuo Ό O) ex o 360 Raffaele di Tucci RIASSUNTO Anno T otale Anno X otale 156? 1358844 1586 1393394 1568 1396361 1597 1665983 1572 1399068 1598 1601226 1573 1382779 1599 1620072 1574 1366996 1600 1628017 1575 1352957 1601 1567258 1576 1302887 1602 1626847 1577 1269554 1603 1672371 • 1578 1319974 1604 1690607 1579 1362804 1605 1704307 1580 1271071 1606 1712369 1581 1406356 1607 1655210 1582 1431070 - -- 1583 • . -- 1416525 1584 1295841 -- .--- 1585 1361823 ------ Raffaele di Tucci. Rassegna Bibliografica Avv. Giovanni Cipollina, Cenni critico-storici di Riva roto (Polcevera), fascicolo I e li 1927, fase. Ili 1928, fase. IV 1930; tip. Marchese e Campora, Rivarolo, pp. 228. Come l’autore avverte, è una serie di appunti, di annotazioni e delibazioni sommarie e disordinale intorno a documenti, più che un lavoro completo o un libro vero e proprio. La modesta avvertenza piace come prova di coscienziosa serietà anche perchè il lettore, mentre non è soggetto a delusioni, trova invece anche più ohe non credesse, cioè una messe non ispregevole di notizie, di documenti, di particolari che hanno certo un valore locale e ristretto, un materiale necessariamente frammentario ma utilissimo a ricostruire la storia e la vita di Rivarolo e della Val Polcevera. Storia e vita chiusa nei lìmiti di un piccolo borgo rurale poi divenuto cospicuo centro industriale, ma che può fornire dati interessanti e che ritrae la sua importanza dalle relazioni col grande centro popoloso di cui il nucleo rurale, ora compreso nella Grande Genova, era alle porte. E chi pensi che dalla Polcevera deriva la famosa tavola che tanti studi e discussioni ha suscitato, che dalla Polcevera sono derivate molte delle famiglie viscon-tili e da essa ha tratto origine lo stesso Caffaro, che vi hanno avuto possessi molti dei maggiori feudatari e vi hanno esercitato predominio politico ed economico i Fieschi, i Fregoso, e negli ultimi secoli della repubblica i Cambiaso, vede agevolmente che una narrazione organica, sistematica, della storia di questa valle importantissima nelle vicende genovesi, può assumere un reale interesse e un effettivo valore. Poiché l’Aw. Cipollina si propone molto opportunamente di compiere un simile lavoro organico riellaborando il materiale raccolto con cura paziente e amorosa, sia lecito fare, ,a dimostrazione d’interesse per la sua meritoria fatica, qualche osservazione e dare qualche consiglio, anche se non chiesto o desiderato. Come i cronisti medievali solevano rifarsi nei loro racconti dal l’origine del mondo, gli studiosi locali difficilmente resistono alla tentazione di allargare le indagini ad ampie e difficili questioni, lungamente dibattute tra gli studiosi, le quali o si riprendono da capo per ampie disamine critiche facendone argomento di studio speciale, o perdono, in campo che non è il loro e ili discussione affrettata e sommaria, il proprio valore. E ne viene una notevole sproporzione con l’entità del luogo e degli eventi 362 Rassegna Biblioorafica da illustrare. Perciò aspre questioni di origini di popoli e di istituzioni, sopra tutto difficilissime indagini linguistiche e quella sirena tentatrice dell’etimologia (che ha così fieramente ingannato studiosi liguri anche appassionati ed entusiasti) sono da lasciare da parte. Una narrazione piana, ordinata, prettamente espositiva se destinata al pubblico mediocremente colto e ai concittadini desiderosi di conoscere e seguire le vicende della propria terra, o una esposizione documentata senza aridità, con precisa esattezza di citazioni e di riferimenti, se al lavoro si voglia dare più severa veste scientifica, sarebbero qui particolarmente indicate. Ma nell’uno e nell’altro caso vorrei portare una coraggiosa anche se dolorosa potatura a quella forma di coltura varia, un po’ confusa e affastellata, accostante le più disparate citazioni antiche e moderne, che è un pregio in un’arringa o in un esposto curiale, non in un lavoro di questo genere; potatura che vorrei estesa a certe digressioni (unus et alter adsuitur pannus, direbbe Orazio) ed anche ad alcune citazioni. Riportare le tre lettere di Colombo perchè vi è nominato un Messer (Francesco da Rivarolo, lettere, s’intende, notissime e mille volte ripubblicate, è, per citare un solo esempio, veramente eccessivo. Altro occorre. Lo dice lo stesso autore: « La storia di Rivarolo è ancora da fare! È tutta avvolta nelle pergamene e nei rogiti, dal 1200 in poi! Occorre rileggere, rintracciare e commentare i contratti notarili e le sentenze dei Podestà e dei Rettori! E nella paleografica scrittura delle Filze e dei Regesti sorprendere i bagliori di vita, i costumi, le volontà, il pathos insomma di quei forti conterranei nascosti nei chirografi e nei loro testamenti ». Se si eccettua il pathos che mi pare un po’ eccessivo e i punti esclamativi eccessivi veramente (non aveva tutti i torti Tantalo, al secolo l’accademico Ugo Ojetti, quando in una delle sue più celebri Cose viste ne proponeva addirittura l’abolizione) siamo perfettamente d’accordo. È appunto questo che si chiede e che il Cipollina può e deve dare; la vita locale, anche intima, minuta, ricostituita negli usi, nelle stesse vicende demografiche e nelle trasformazioni economiche e agrarie, ricavate appunto dai rogiti notarili, a complemento delle vicende storiche clamorose, necessariamente scarse in un piccolo gruppo rurale. Molta parte del materiale c’è già, inorganica ancora ma preziosa; altra potrà essere trovata e raccolta; l’Aw. Cipollina può dare veramente l’opera che illustri organicamente la valle di Rivarolo. In quest’opera promessa e attesa, bella di caratteri tipografici e di illustrazioni, come i fascicoli di saggio, sarà raccomandabile qua e là una maggiore accuratezza nel testo e nella riproduzione dei nomi, ma specialmente nella revisione delle prove di stampa, in modo particolare nelle citazioni latine, qui spesso veramente maltrattate. Vito Vitale. Rasseqna Biblioorafica 363 Annali Genovesi di Caffaro e dei suoi continuatori, vol. Vili e IX: Jacopo D’Oria, traduzione di Giovanni Monleone, a cura del Municipio di Genova, 1930, a. Vili, pp. 339-256. Cesare Imperiale di Sant’Angelo, Jacopo D’Oria e i suoi Annali, Storia di un aristocrazia italiana nel Duecento, Venezia, Libreria Emiliana editrice, 1930, pp. XI-342. Corrono tempi fortunati per Jacopo D’Oria e per la Genova del Duecento, e specialmente di quella seconda metà del secolo che l’insigne cronista, il maggiore dei continuatori di Caffaro, ha amorosa-mente descritta e riprodotta nellia sua cronaca viva e fedele. A breve distanza dalla pubblicazione della prima edizione italiana, superiore per ogni rispetto alla tedesca -del Pertz che si era finora dovuta adoperare anche tra noi, edizione, com’è noto, curata dall’imperiale nelle Fonti dell Istituto Storico Italiano, compare ora la traduzione che compie degnamente la serie Caffariana pubblicata per cura del Muni-cipio genovese. Un saluto e un ringraziamento particolare va fatto all’editore critico e al traduttore quando si consideri che non mai tutta la serie degli Annalisti era stata pubblicata tra noi nè mai i tentativi di versione altra volta iniziati erano stati condotti a termine. Ed ora, fatto non privo di significazione e di valore, essi sono invece compiuti a soddisfare i bisogni «della coltura storica e della diffusione di glorie e grandezze che debbono essere non generici vacui ricordi oratorii, ma conoscenza precisa e concreta. A questo intento risponde la versione amorosamente curata dal Monleone e destinata a portare gli Annali anche a contatto di chi non voglia o non possa ricorrere al testo originale, mentre l’edizione critica sarà sempre ricercata per i bisogni degli studi storici della coltura superiore. Sarebbe ora inopportuno ritornare sul testo e sui caratteri della cionaca di Jacopo D’Oria di cui è stato fatto cenno recentemente in occasione dell’edizione critica (cfr. Giornale, 1929, pag. 88 sgg.), tanto più che il traduttore non aveva questa volta problemi da affrontare relativi alla paternità del testo o a redazioni diverse. Sarà opportuno piuttosto notare che la traduzione, procedendo di volume in volume, si è andata facendo sempre più viva e spigliata pur conservando piena aderenza al testo; che le note si sono fatte sempre più importanti a chiarimenti di cose, di luoghi, di persone; che abbondanti sono i riferimenti e i raffronti con altre fonti sincrone. Ogni volume ha un prezioso indice onomastico; al nono è aggiunta in appendice una minuziosa cronologia di tutti gli Annalisti, a cominciare da Caffaro, nella quale sono ordinatamente disposte tutte le notizie che li riguardano. Altrettanto grato quanto il compimento di quest’opera meritoria è 1 annuncio che le seguiranno le altre cronache egualmente tradotte dal Monleone. Genova avrà così ili suo corpo di cronache intero, accessibile a tutti i lettori, in questi bei volumi eleganti anche nella forma 364 Rassegna Biblioorafica esteriore e sarà un conforto alla scarsa speranza che sia prontamente colmata la lacuna tra la serie caffariana e le cronache del Sena-rega e del Gallo curate -dal Pandiani nella nuova edizione muratoriana. Il Monleone dà tra le altre anche la cronologia di Jacopo D’Oria: un elenco cioè cronologico delle notizie che gli si riferiscono. Uno studio organico invece sull’ultimo dei continuatori di Caff aro ci offre Cesare Imperiale, in un lavoro che chiude la serie cominciata col Caf-faro e i suoi tempi e continuata con Genova e Federico II. Dei tre questo è indubbiamente il lavoro più organico e omogeneo. Non vuol essere una indagine critica minuta che metta a contributo tutti i dati e i documenti noti sul periodo studiato; sarebbe stato in certo modo rifare il lavoro del Caro con l’aggiunta dei documenti pubblicati e delle notizie acquisite da più di trent’anni a questa parte. Vuol essere una esposizione facile, scorrevole, viva, dell’ambiente famigliare e cittadino in cui Jacopo è vissuto e che egli ha nella sua cronaca rappresentato, una larga parafrasi degli Annali integrata con notizie di .altre cronache e documenti o desunte da opere recenti, un rifacimento delle prefazioni e delle note degli ultimi volumi degli Annali organica-mente rifuse e opportunamente ampliate. Ne esce in una narrazione continuata la storia di una famiglia e di uno Stato, cioè di una aristocrazia famigliare che ha nello Stato parte preponderante e si chiude nel periodo studiato con tre fratelli per diverso rispetto insigni il quarto, Nicolò, scompare presto — Oberto e Larnba i vincitori della Meloria e di Curzola e Jacopo il narratore. Vinti o vincitori, esuli o dominanti, i D’Oria sono sempre al primo posto, da Simone e Pietro sul principio del secolo, ai due grandi ammiragli che lo chiudono: maggiore di tutti Oberto nella narrazione e nella simpatia dell'imperiale, Oberto tipo di vero uomo di Stato, saggio e accorto, prudente e valoroso, creatore di quel governo che con terminologia odierna si direbbe nazionale, la diarchia Oberto D’Oria-Oberto Spinola, che è la più forte e tranquilla forma politica che Genova abbia avuto. Dopo il prodigio della Meloria Oberto si ritira, ma Corrado suo figlio che lb sostituisce gli è di troppo inferiore e le lotte civili riprendono e si aggravano, interrotte dal trionfo di Curzola, per assumere una frenetica violenza con Branca e Bernabò al principio del XIV. Ma Jacopo non racconta tutto questo; egli arriva al 1294 quando, stanco e sfiduciato, preoccupato dell’avvenire, depone già vecchio la penna in attesa che altri riprenda il suo lavoro. L’immagine serena e severa del cronista fervido di amor patrio e di profonda fede religiosa esce viva dall’amorosa ricostruzione, sebbene la sua sia stala piuttosto vita chiusa di studioso, di archivista, di tecnico della storia che vita attiva di soldato o di diplomatico. E con lui rivivono le figure dei fratelli, della casa intorno alla quale sembra raccogliersi tutta la storia, specialmente marinara, di Genova, e anche le figure degli amici dei nemici degli avversari interni ed esterni, Spinola, Fieschi, Grimaldi; Federico II e Manfredi, In- 365 nocenzo IV e Carlo D’Angiò, Guglielmo Boccanegra e Benedetto Zaccaria ed altri numerosi. Figure di diverso rilievo, ma vive tutte e reali. Quegli ammiragli e diplomatici, quei mercanti aristocratici, soldati e navigatori, sono uomini e presentati come uomini, lungi dalla retorica falsa e rumorosa degli atteggiamenti declamatori e gladiatori di gente in perpetua ostentazione di eroico furore, lungi dal gretto atteggiamento di gente rivolta soltanto agli affari, agl’interessi, al pratico e all utile immediato. Uomini veramente umani e compiuti, come quella simpatica figura di Percivalle D’Oria, il trovatore che canta d’amo-ìe e di politica, che combatte per Federico II e prepara, conchiudendogli il matrimonio con Adeiasia, il trono di Sardegna a Enzo infelice, e, tornato in patria, copre uffici pubblici e intanto riscatta beni confiscati, partecipa a imprese commerciali, vende case e terreni, fa permute e donazioni, e poi, già settuagenario, corre in aiuto di Manfredi contro Carlo d Angiò, ma nel passare un fiume affoga per salvare un soldato in pericolo. Bella e signorile esposizione, misurata ed equilibrata, del più alto e glorioso momento della storia di Genova. Vito Vitale. ^Spigolature e Notizie Antonio Costa continua lo studio su ·« Un anno santo tormentato dalla feste - 1450 » nei suoi Appunti di storia genovese pubblicati nel fase, de « Il Pari re Santo » del luglio-agosto 1930. ÿ ÿ ^ In (( Emporium » di agosto 1930 G. Delogu dà conto dei recenti restauri d’u>no storico edificio genovese: « La Casa di Andrea Doria » già offerta al grande ammiraglio dalla Repubblica Genovese. î$î y ìfi Ricco, come al solito, è il fascicolo luglio-settembre 1930 dell’cc Archivio Storico di Corsica ». Segnaliamo la continuazione dello studio di Rosario Russo su « La ribellione di Sampiero Corso », il saggio di I. Rinieri su « I Vescovi di Corsica », il profilo di E. Southwel Colucci sullo Scienziato inglese amico della Corsica y Ch. Forsyth Major. ÿ ÿ ÿ Il fascicolo contiene inoltre le importanti rubriche consuete Documenti e Notizie di fonti, Varietà e Bibliografie. ❖ ❖ * Leonardo Lagorio in 5 di ottobre 1930. sfc ìJì Un ipittore ligure di qualche valore, recentemente scomparso, « Raffaele Gian-netti » ricorda Bruno di Roccabruna in « Rassegna d’Europa e dell’America Latina » di ottobre 1930. # :j: ì'fi D’un artista voltrese del secolo XVI, « Fra Simone da Carnoli » scrive illustrandone l’opera Mario Bonzi in « Genova », Rivista Municipale, dell’ottobre 1930. ❖ ❖ ❖ Alfredo Rota scrive in « Rassegna d'Europa e dell’America Latina » di ottobre 1930 su « Le belle Donne di Genova », rievocando le figure di Dame ricordate dalla storia e ritrattate dai più celebri pittori genovesi. ÿ ÿ ^ Tra i « Medaglioni genovesi » G. Mario Faggioli pubblica in « A Compagna » dell’ottobre 1930 un profilo di « Gian Luigi Fieschi ». ❖ ❖ ❖ In « A Compagna » dell’ottobre 1930 Giuseppe Scolari ricorda il soggiorno di « Federico Guglielmo in Liguria ». ❖ ❖ ❖ Antonio Cappellini continua in « A Compagna » dell’ottobre 1930 il euo studio su i « Tesori d’arte patria » trattando specialmente dell’opera pittorica di Nicolò Barabino. * ❖ * Nel fascicolo di « A Compagna » dell’ottobre 1930 F. E. Morando commemora Angelico Federico Gazzo poeta dialettale di recente scomparso, traduttore della « Divina Commedia » in genovese. ^ ÿ ÿ Il Generale Colonna de Giovellina rievoca in « Revue de la Corse » del set-tembre-ottobre 1930 « Le Général Giovanninelli, 1837-1903 », al quale fu unito per vincoli di sangue. ❖ ❖ ❖ « Visitatori illustri a Palazzo S. Giorgio » enumera uno scritto anonimo in « Nuovo Cittadino » del 1° novembre 1930, dal figlio di Carlo d’Angiò con la consorte Maria d’Ungheria, nel 1278, al Re Carlo Alberto nel 1831. ❖ ❖ ❖ Di « Un catalogo di Santi d’impiego e d’arti », pubblicazione edita in Genova dalla Stamperia Gesiniana nella prima metà del sec. 18°, scrive F. Ernesto Morando in « Corriere Mercantile » dell’1-2 novembre 1930 riferendone brani curiosi ed interessanti. 5^ îjî Emile Franceschini prosegue e termina il suo studio su « La Corse au premiers jours de la Révolution » nel fascicolo settembre-ottobre della « Revue de la Corse ». * ❖ ❖ Lazzaro De Simoni rifa in « Nuovo Cittadino » del 2 novembre 1930 la storia de « La Chiesa di S. Colombano », antico edifizio posto sull’altura di Piccapietra c già annesso all’ora cessato Ospedale dei Cronici. 370 Spigolature e Notizie * * * La gloria di aver dato i natali a C. Colombo è sempre ragione di -contesa. Recentemente l’abate Castaing credette opportuno di rivendicarla a Calvi in Corsica; rivendicazione che non fu accolta da vari studiosi e particolarmente da Sebastiano Deledda, il quale nella rivista Mediterranea mise in dubbio la nuova 6coperta. ❖ ❖ ❖ Ora il prof. Angeletti di Versailles .scrive al direttore della « Revue de la Corse », che ospita la lettera nel fase, di settembre-ottobre 1930, dichiarando che 1 affermazione del Castaing si basa sopra la scoperta di una pietra trovata circa trent anni or sono a Haïti, nella quale si trova scritto : « Maledetto sia il Corso che ci ha qui condotti ». ❖ ❖ ❖ In «Lavoro» del 4 novembre 1930 è pubblicato un originale rilievo sull’isola nativa di Napoleone, col titolo « Tombe di Corsica » a firma una stelletta. Vi si nota come solo la Corsica abbia conservata e ritenuta finora la libertà della tomba poiché non v esiste obbligo di farsi seppellire in un cimitero comunale, ma si può essere tumulati anche nel proprio podere. ❖ * $ G. A. Siila in « Nuovo Cittadino » dell’8 novembre 1930 tratta « Di un mezzo scudo dell antica Repubblica Genovese» aggiungendovi rilievi storici interessanti la consecrazione di Genova a Maria Santissima. •i· H* Su « La Chiesa di S. Bernardino » posta sulle alture di Genova scrive Lazzaro De Simoni in « Nuovo Cittadino » del 9 novembre 1930. ❖ ❖ ìK d. b. in « Giornale di Genova » del 9 novembre 1930 scrive intorno alla traduzione italiana degli Annali di Caffaro e suoi continuatori del Monleone con il titolo: « Da Caffaro a Jacopo Doria ». * ❖ * Giulio Miscosi in « Giornale di Genova » dell’ll novembre 1930 illustra « I nomi mitologici di Genova preromana ». ❖ * ❖ « Frate Angelo da Chivasso », una figura assai faccendiera del Rinascimento, che dimorò anche a Genova e predicò in S. Lorenzo attorno al 1480, è ricordato da Camillo Rondolotti in « Giornale di Genova » del 12 novembre 1930. ¥ ¥ «Panorama del folk-lore ligure» è il titolo d’uno scritto di Paolo Toschi in « Giornale di Genova » del 13 novembre 1930 dove si passano in rassegna le opere che ne trattano e si ricordano le iniziative spiegate per istudiarlo. ❖ ❖ ❖ F. Ernesto Morando in « Corriere Mercantile » del 15-16 novembre 1930, ricorda una curiosa figura di nottambulo, -di professione cenciaiolo ; macchietta tipica genovese di cinquant anni fa. Lo scritto ha per titolo « L’innamorato delle stelle ». * * * Arturo Salucci commemora in « Lavoro » del 16 novembre 1930 « Ceccardo Roccatagliata-Ceccardi ». * * * Su «La Chiesa di Sant’Agostino » in Genova scrive Lazzaro De Simoni in « Nuovo Cittadino » del 16 novembre 1930. Spigolature e Notizie 371 V ¥ H* « Un genovese del quattrocento », cioè Aimoniotto Usodimare, è studiato in « Lavoro » del 18 novembre 1930, prendendo lo spunto da un recente libro di Μ. M. Martini dal titolo « I grandi navigatori Liguri ». tfi ìji ifi « Il Dottok Massimo (S. Agostino) e la Liguria » è il titolo d’uno 6critto comparso in « Corriere Mercantile » del 20-21 novembre 1930 riprodotto da un Numero Unico pubblicato a Genova in occasione del XV centenario agostiniano. Elenca i cenobi agostiniani della Liguria. î|î îjî îjî Il poeta apuano « Ceccardo Roccatagliata Ceccardi » è ricordato in « Nuovo Cittadino » del 21 novembre 1930 in uno scritto a firma R. P. con aneddoti interessanti la vita del medesimo. ÿ ÿ ÿ Col titolo «Gloria e fasti di M. S. delle Vigne» G. Roggero Monti scrive in « Nuovo Cittadino » del 21 novembre 1930 sul culto mariano in Genova con rievocazioni storiche al riguardo. ·!· Gian Matteo Giberti genovese, che fu Vescovo di Verona nel cinquecento, è ricordato da Amedeo Pescio in « Secolo XIX » del 22 novembre 1930 in uno scritto dal titolo « In cerca d’un Vescovo ». $ ÿ ÿ In « Nuovo Cittadino » del 23 novembre 1930 Lazzaro De Simoni illustra « La Chiesa di San Marco », antico edifizio sacro posto alla radice del Molo Vecchio accanto al vetusto porticciuolo detto il mandraccio. ❖ ❖ ❖ « Un frate genovese e il Monte di Pietà reggiano sulla fine del XV secolo » è il titolo d’uno scritto di Uberto Zuccardi Merli in « Corriere Mercantile » del 24-25 novembre 1930. Il frate è Domenico da Ponzone, dell’ordine di S. Francesco. & # Un attivo genovese « Raffaele Scassi in Crimea » è ricordato da Vito Vitale in « Giornale di Genova » del 25 novembre 1930. Mercante, viaggiatore, industriale, è una figura notevole del principio dell’ottocento. ìji îjî îjî Nello scritto « Dalla vecchia via Giulia a via XX Settembre » comparso in « Corriere Mercantile » del 25-26 novembre 1930 a firma « Star », sono rievocati interessanti aspetti di Genova ora scomparsa. ❖ ❖ ❖ Ettore Bravetta scrive in « Secolo XIX » del 27 novembre 1930 su l’attività di navigatore di Colombo, col titolo « L’ammiraglio Cristoforo Colombo ». ❖ ❖ ❖ a. p. I. in « Corriere Mercantile » del 27-28 novembre 1930 celebra i fasti di « Villa Luxoro a Sant’Ilario Ligure ». * * ❖ Uno scritto anonimo del titolo « La quistione di S. Giovanni Vecchio e una lettera della Società Ligure di Storia Patria » è comparso in « Nuovo Cittadino » del 28 novembre 1930. Rifa la storia delle origini del cosidetto « Collegio di N. S. della Vittoria » istituito presso la piccola chiesetta di San Giovanni accanto al nostro Duomo. 372 Spigolature e Notizie ❖ ❖ H* « Il Museo etnografico della Spezia » è illustralo in uno scritto di Paolo Toschi in « Giornale di Genova » del 28 novembre 1930. $ $ ^ Mariti Balducci recensisce in « Lavoro » del 29 novembre 1930 nn recente volume di G. Cipollina (Cenni storico-critici su Rivarolo) col titolo: « Rivarolo nella storia ». ❖ ❖ ❖ Tugnolo espone in « Giornale di Genova » del 29 novembre 1930 un quadro vivo d’una delle principali risorse della vita ligure nella Riviera di Ponente, col titolo « Nella regione degli olivi ». Lo scritto ha una rapida rassegna della millenaria storia deH’olivicultura. ❖ ❖ ❖ In « A Compagna » del novembre 1930 è recensita l’opera del Levali « I Dogi Biennali » a firma « Stcva ». ❖ ❖ ❖ « Il Poeta carbonaio », cioè il genovese Gio. Batta Vigo, è ricordato da G. Mario Faggioni in « A Compagna » di novembre 1930. V V H· Antonio Cappellini continua a scrivere su i « Tesori d’Arte » in « A Compagna » di novembre 1930. ❖ ❖ ❖ Nora Cozzolino rievoca in « A Compagna » di Novembre 1930 « Un mecenate genovese nei primi anni del secolo XIX », il Marchese Gian Carlo Dinegro. v' ’iZ Ψ M. scrive in « A Campagna » del novembre 1930 sui « Velluti genovesi ». $ $ $ G. B. Fassetti, « Un pittore-decoratore emiliano-ligure del sec. XVII » è studiato da Uberto Zuccardi Merli in « A Compagna » del novembre 1930. * ❖ ❖ Il fascicolo di novembre 1930 del Bollettino Municipale « Genova » ha uno scritto sul centenario di « Jacopo da Varagine » dovuto a Mario G. Celle. La figura del mistico autore della « Legenda Aurea » rievocata assai felicemente è inquadrata nei tempi in cui il da Varagine è vissuto ed ha scritto. ❖ ❖ ❖ Nel Bollettino Municipale « Genova », fascicolo di novembre 1930, è recensita la pubblicazione de « Gli ultimi due volumi degli Annali di Caffaro » nella traduzione che n’ha data Giovanni Monleone. :Jì % >j: Duilio Biaggini in « Nuovo Cittadino » del 3 dicembre 1930 ricorda Dotn Francesco Bibolini di Lerici iper molt’anni missionario in Argentina verso la metà del eccolo scorso e dove fu molto noto per la sua filantropia e il suo coraggio. Lo ecritto ha per titolo « Come l’imperatore della Pampa s’arrese ad un sacerdote ligure ». V « Guido Gozzano a Genova e la conversione del Poeta » è il titolo d’uno scritto a firma « Sac. F. Graziani » in « Nuovo Cittadino » del 4 dicembre 1930. Spigolature e Notizie 373 ❖ ❖ ❖ Amedeo Pescio in una recensione dei recenti volumi della collezione « Caffaro e i suoi continuatori » tradotti da Giovanni Monleone, ricorda ed esalta « La preghiera di Jacopo Dori a » per la Patria, contenuta in uno dei detti volumi. ❖ ❖ ❖ « Le Cinque Giornate di Genova repubblicana » è il titolo d’uno scritto di Lazzaro De Simoni in « Nuovo Cittadino » del 5 dicembre 1930. Tratta delle vicende cui diede origine il moto popolare contro gli Austriaci a Genova il 5 dicembre 1746 e di quelle che le seguirono dappresso. ÿ ÿ ÿ Su « Angiolo Silvio Novaro » geniale poeta ligure ed ora Accademico d’Italia, il « Corriere Mercantile » del 5-6 dicembre 1930 riporta tradotto un articolo di Eugene Bestaux. ^ l\Z « Fra Ginepro » in « Nuovo Cittadino » del 6 dicembre 1930 scrive intorno a « Un cappuccino ed un cospiratore ». 11 primo è Padre Agostino Martini di Tag-gia ch’ebbe relazioni di amicizia col secondo, Agostino Ruffini. $ ^ ÿ Col titolo « Conclusioni su Balilla » Amedeo Pescio scrive in « Secolo XIX » del 7 dicembre 1930 sulle ricerche che sta compiendo il Prof. Franco Ridella dirette ad identificare « il ragazzo della sassata ». :J: ;t: In « Nuovo Cittadino » del 7 dicembre 1930 Lazzaro De Simoni illustra « La Chiesa di S. M. in Via Lata » gentilizia dei Fieschi. ❖ ❖ ❖ « L Immacolata nella storia genovese » è trattala da « Fra Ginepro » in « Nuovo Cittadino » del 7 dicembre 1930. V’è particolarmente illustrato un voto del Senato di Genova nel 22 maggio 1580 che fu poi compiuto con l’edificazione della Chiesa detta di S. Pietro della Porta, dedicata all’immacolata. ❖ ❖ ❖ In « Corriere della Sera » del 10 dicembre 1930 Mario Sertoli ricorda « Le fortezze genovesi sul Mar Nero » ove esistono ancora le traccie gloriose della civiltà ligure. ❖ H1 ÿ Intorno a « Balilla » Mario Maria Martini in « Giornale di Genova » del 10 dicembre 1930 scrive una pagina soffusa di poesia per il « ragazzo della sassata ». sassata ». ❖ ❖ ❖ P. Cenci in « Giornale di Genova » del 12 dicembre 1930 commemora « Un grande ligure: Giulio II » sulla scorta dell’opera del Pastor. ìj: :Jc :J: In « Giornale di Genova » del 12 dicembre 1930 uno scritto a firma G. P. rifà la storia di Castel Govone », imponente rocca dei Del Carretto presso Finalmarina. ❖ ❖ ❖ Uberto Zuccardi-Merli in «Corriere Mercantile» del 12-13 dicembre 1930 rileva « Antiche orme di Genova nel Pontremolese », e cioè resti della fortezza edificata dai Malaspina alla confluenza del Verde colla Magra. 374 Spigolature e Notizie ❖ ❖ * Sulla « Via di S. Luca », una tra le più vecchie e caratteristiche strade di Genova, scrive Ars « Lavoro » del 13 dicembre 1930 evocando memorie storiche e curiosità folkloristiche. ❖ ❖ * « Nel quindicennio dalla morte di Pietro Chiesa b. lo commemora in «Lavoro» del 14 dicembre 1930 specialmente come scrittore recando una serie di aneddoti che ne rivelano lo spirito buono ed arguto. ❖ ❖ ❖ « Jacopo Doria e i suoi Annali » è il titolo d’uno scritto di F. Ernesto Morando in « Corriere Mercantile » del 16-17 dicembre 1930. Recensendo l’ultimo volume degli « Annali » pubblicati da Giovanni Monleone, il Morando fa un felice excursus nei tempi di Jacopo ad illustrazione del di lui libro. ❖ ❖ ❖ In « Lavoro » del 18 dicembre 1930 Umberto V. Cavassa ricorda antichi e caratteristici Almanacchi, specialmente genovesi, e relative predizioni, col titolo « Il Gran Pescatore di Chiaravalle ». i-i ìjì :·: « Dì Jacopo Doria e dei tempi suoi » scrive Camillo Manfroni in « Giornale di Genova » del 19 dicembre 1930 recensendo la recente pubblicazione degli Annali del Doria curata da Giovanni Monleone. ì)-: %z In « Corriere Mercantile » del 20-21 dicembre 1930 F. Ernesto Morando ricorda « La prima commemorazione genovese di Guglielmo Oberdan » celebrata a cura della Confederazione Operaia Genovese nel 1882. ÿ ÿ ÿ «Paesaggi Liguri: Camogli» è il titolo d’uno scritto a firma D. Giusto M. Gualjredo in « Nuovo Cittadino » del 23 dicembre 1930. Contiene notizie storiche ed artistiche sulla città e dintorni di Camogli. APPUNTI PER UNA BIBLIOGRAFIA MAZZINIANA Studi e scritti su G* Mazzini pubblicati a IP estero Anton Mario De Luca, Un precursore, in « Il Mezzogiorno d’Italia », Buenos Ayres, 1 settembre 1930. Succinto commento al discorso Bottai più vo’te segnalato: «Fu appunto il Mazzini — scrive il De Luca — che confutando la teorica del Bentham, e quella di Saint Simon e di Owen, ed infine quella comunista, seppe spostare la questione politica da un campo prettamente economico ed utilitario ad un campo etico. Fu il primo, che, all’indomani d’una sanguinosa rivoluzione che le mosse avea prese da una dichiarazione dei diritti, sapesse preparare una rinascita dell’Italia sopra una dichiarazione pre'iminare di doveri ». --9 Roma Repubblica-Venite, in « Putria degli Italiani », Buenos Ayres, 20 settembre 1930. Vengono rievocate le glorie della Repubblica Romana del 1849 e se ne rivendica il carattere etico e religioso. S. S., Roma immortale, La venerazione di Mazzini, in « Patria degli Italiani », Buenos Ayres, 20 settembre 1930. Si rievoca il culto che 1 Apostolo dell’Unità ebbe per la città eterna. Dario Rossi, Alfonso Lamartine e VItalia, in « Unione », Tunisi, 30 settembre 1930. Nel centenario del romanticismo si rievocano le contumelie ’anciate dal Lamartine contro 1 Italia e si accenna ai rapporti intercorsi fra il grande francese ed il Mazzini. Beulam B. Amram, The Italian Tyrtaeus - Goffredo Mameli, in « Italia », San Francisco, 7 ottobre 1930. Viene esaltata la più pura e grande figura fra i seguaci del grande Apostolo: Goffredo Mameli. 5 ^ Pfl/rioi in His Letters, Mazzini s Letters, in « Christian Science Monitor», Boston, 18 ottobre 1930. Breve recensione della raccolta delle lettere di Mazzini curata da A’ice de Rosen Jervis, già segnalata. A. M., The politicai life and Letters of Cavour, 1848-1861, by A. J. Whyte, in « Manchester Guardian », Manchester, 21 ottobre 1930. Aspra critica al recente volume dedicato al Cavour dal Whyte: si mette fra l’altro in rilievo la leggerezza del giudizio che 1 a. da sulla figura del Mazzini, definito o frivolous conspirator ». 376 Bibliografia Mazziniana Ercole Rivalìa, Un romanzo del Risorgimento, in « Corriere Danubiano », Budapest, 26 ottobre 1930. Indulgente recensione del romanzo Aquile di Luigi Gasparotto cHe in forma romanzata tratta della storia italiana fra il 1853 ed il 1862 dedicando fra 1 altro alcune pagine al moto mazziniano del 6 febbraio 1853. ---, Perchè sorse il «Progresso », in « Progresso Italo-Aniericano », New Jork, 9 novembre 1930. 11 Progresso ltalo-Americano raccolse nel 1880 l’eredità del primo giornale italiano del Nord America, « un modesto settimanale, YEco d’Italia, che, fondato nel 1849 da una bella figura di patriota e di giornalista, G. F. Secchi de Casali, e, rappresentando le idee dell’ambiente italiano di allora, non troppo favorevoli al principio monarchico, anzi, inspirate aÜe dottrine repubblicane di Giuseppe Mazzini, visse di stenti, di espedienti, ed uscì soltanto quando ’a generosità altrui, cioè dei pochi amici facoltosi, lo permetteva ». S., Kdyz Italie bojovala za svou svobodu, in « Lidove Listy », Pralia, ottobre 1930. Lo scrittore boemo prendendo lo spunto dalla commemorazione fatta recentemente a Man tova, rievoca il sacrificio dei Martiri di Belfiore, schietta emanazione della prassi e delle idealità mazziniane. __9 Le menzogne settarie, in « Unione », S. Francisco di California, 27 novembre 1930. L’anonimo autore,, un po’ in ritardo, in verità, recensisce l’opera del Luzio su La Massoneria ed il Risorgimento italiano e per quanto ha riguardo all Apostolo del1 Unità, scrive: a Fu detto e ridetto, scritto e riscritto che Mazzini fu massone, e che la sua « Giovane Italia » era la massoneria cambiata di nome. Non è vero. Perfino i famosi massoni Adriano Lemmi e Ernesto Nathan dovettero dichiarare che il Mazzini non fu mai1 massone. Nel momento più critico delle lolte nazionali, il Mazzini non solo non trovò al suo fianco la massoneria, ma giustamente e chiaramente l’accusa di aver rinnegata la patria italiana ». Opere e studi su G* Mazzini pubblicati in Italia Giuseppe Mazzini, Scritti editi ed inediti, vol. LV1, Imola, Galeati, 1930. 11 nuovo volume degli Scritti comprende 188 lettere che vanno dal 23 ottobre 1855 al 7 agoste 1856, fra cui numerosissime inedite. Il testo e le note, come al solito ricche e prc_s^ portano un notévolissimo contributo alla conoscenza della storia del nostro ji&catto questi anni. Eugenio Passamonti, Nuova luce sui processi del 1833 in Piemonte, Firenze, Le Monnier, 1930. Gli studi mazziniani, che in quest’anno si sono notevolmente arricchiti, si completano degnamente con questo nuovo studio del P., poiché se è vero che le conclusioni cui egregio studioso giunge, son quelle stesse ben note che il Luzio fece conoscere anni or sono non è men vero che la ricostruzione esatta e precisa — e diremo pure abbondantemente ocu mentata — degli avvenimenti che condussero alla tragedia del 1833, sfata non poc e cg gende e corregge con l’eloquenza dei fatti non poche deformazioni storiche nteressale. La gloriosa pagina in tal modo conserva sì non poche ombre, ma queste, come sempre, con tribuiscono a chiarire maggiormente e quindi comprendere nella stéssa tragica soTte .ue ‘ delle figure più grandi del nostro riscatto, che oggi possiamo serenamente, senza passione di parte, considerare nella loro intima umanità e grandezza, quella cioè di Mazzini e di Carlo Alberto. Biblioorafià Mazziniana 377 Rodolfo Mondolfo, I primordi del movimento operaio in Italia fino al 1872 e il conflitto fra Mazzini e Bakunine, in « Nuova Rivista Storica », Napoli, luglio 1930. La storia del movimento operaio in Italia, alla quale un notevolissimo contributo portò il Rosselli con ii suo poderoso studio su Mazzini e Bakunine, viene ora sagacemente rielaborata con questo saggio del Mondolfo. L’influenza mazziniana è studiata senza pieconcetti: i pregi ed i difetti dell’oprra dell'Apostolo hanno particolare risalto, essendo considerata nel momento storico in cui essa «i svolse, come pure c precisa ed esauriente la critica portata sul Bakunine, del quale, fino ad oggi, si è stati portati ad esagerare l’influenza. Aldo Ferrari, La restaurazione in Italia (1815-1849), Roma, Cremonese, 1931. In questa monografia, che costituisce il 25° voi. della collezione Omnia, il F. tratta in forma divulgativa della storia del Risorgimento nel periodo in cui l’azione mazziniana fu più efficace, dedicando alla figura dell’Apostolo due capitoli dell’opera. Lo studio è stato recensito da Bruno Brunello ne « L’Opinione » di Spezia del 24 novembre 1930. Romualdo Rossi, Mazzini e il fascismo, Livorno, Casa Massima, 1930. Con prefazione di Adriano Tilgher. Sintesi critica e polemica pubblicata dalla Biblioteca di studi sociali e storici diretta da S. Calvani. Camillo Fresia, Gustavo Modena nei suoi rapporti con Cuneo e con i Cuneesi, in Il Dovere » cadde precisamente per esaurimento dell’ideale e per mancanza di seguaci. « 11 Senatore Croce e molti altri che ancor vivono — scrive ΓΑ. — dovrebbero ricordare che dopo i fatti d Oberdan che, partendo pel suo sacrificio lasciava il suo testamento a Felice Albani, questi come primo responsabile delle fiere agitazioni antiaustriache in tutta Italia e della glorificazione del martire Guglielmo Oberdan veniva imprigionato e poco dopo era arrestata 1 intera redazione del periodico « Il Dovere ». Di guisa che questo per forza maggiore dovette cessare le pubblicazioni: alcuni studenti facenti parte del partito mazziniano dichiaravano nelll ultimo numero de « Il Dovere » che essendo in prigione la direzione e 1 intera redazione il giornale era costretto a cessare le sue pubblicazioni ». Alessandro Luzio, Il duello tra Cavour e Mazzini, in « Corriere della Sera », Milano, 4 novèmbre 1930. Il L. prende occasione della pubblicazione del XXXII volume dell’Epistolario mazziniano per illustrare da par suo il duello serrato e drammatico tra Cavour e Mazzini dal 1856 al 1861 e si sofferma in particolar modo a portar nuova luce con la pubblicazione di brani di lettere del Cavour, soppressi dal Chiala, sulla accanita lotta, condotta dal gran Conte con mezzi molto sbrigativi, per la soppressione del giornale mazziniano Italia e Popolo. Si chiede quindi l’insigne storico: «Gioverà domandare se soccombente nell impari lotta fu poi davvero totalmente Mazzini; e per mia parte non lo credo affatto. Se Cavour aveva strappato di mano all’agitatore la direzione del moto italiano era però stato costretto, a sua volta, a contenersi nelle direttive segnate da quello. Aveva dovuto accelerare il processo unitario che pochi anni prima gH era parso un’ariostesca... fantasia; aveva dovuto secondare la spedizione dei Mille, tipica audacia di pura impronta mazziniana; e proclamare infine Roma capitale tra gli omei scandalizzati di Massimo d Azeglio ». Antonio Marenduzzo, Un giudizio di Mazzini su Leopardi, in « Popolo d’Italia », Milano, 25 novembre 1930. Il M., prendendo lo spunto da certi appunti scritti dal Mazzini nella sua gioventù sul Leopardi, destinati all’Eco d’Italia e che non videro la luce se non nell opera del Cagnacci sui Ruffini, indaga con sagace acume l’affinità spirituale che esistette fra i due grandi spiriti, nonostante l’acerbo giudizio dato in tale scritto dal genovese sul recanatese. Articoli vari in Riviste e Giornali Livio Pivano, Il tentato rapimento di Giuseppe Mazzini, in « Rassegna storica del Risorgimento », Roma, luglio 1930. Il P. col sussidio degli Scritti mazziniani e dei giornali del tempo ricostruisce il ben noto episodio del tentato rapimento del Mazzini per parte del Paschetta. L’articolo è stato ripubblicato da « L’Assalto » di Bologna dell 8 novembre e dal « Grido d'Italia » di Genova del 23 novembre 193Q. Biblioorafia Mazziniana E. Michel, Il Mazzini, il Tommaseo, il Manin e la difesa di Venezia, in « Rivieta Storica Italiana », Torino, settembre 1930. Succinta recensione dello studio del Gambarin, già segnalato. G., Il segreto del prestigio, in « Gente nostra », Roma, 5 ottobre 1930. «Ma l'uomo che force più di altri conobbe tutti i segreti dell'arte di avvincere a sè i cuori e le volontà dei propri simili, fu Giuseppe Mazzini. Egli ebbe il temperamento del profeta: una fede incrollabile nelle sue dottrine, una devozione disinteressata ai suoi ideali, una costanza di propositi che nulla potè fiaccare. E’ impossibile dubitare della sua sincerità e della nobiltà delle sue aspirazioni, e la fiamma della sua passione ardeva con tale intensità che era difficile avvicinarlo senza sentirsi presi dallo stesso fuoco. E’ per questo che nessun uomo della sua generazione ebbe tanti e così entusiasti discepoli e seguaci. Furono essi che tennero viva la face del patriottismo italiano durante venti anni di prove, di scoraggiamento e di disfatte ». Cosimo Bertacchi, Luci mazziniane nel Sindacalismo nazionale, in « Avvento fascista », Palermo, 6 ottobre 1930. Succinta recensione dello studio della Galimberti già segnalato. « Fra i numerosi scritti che in questi ultimi tempi sono apparsi intorno alle dottrine mazziniane — scrive il Bertacchi — nessuno forse è così completo e sentito nella sua intima natura veramente latina e nei suoi rapporti con gli avvenimenti odierni quanto lo studio ora pubblicato dalla signora Galimberti. Giuseppe Mazzini, attraverso queste pagine, si leva gigante fra il liberalismo parlamentare creato dalla Rivoluzione Francese e per tanto secolo alimentato da continui espedienti in una insanabile debolezza organica, e il nuovo assetto, cui sembrò preludere la « Costituzione tedesca di Weimar », ma che ebbe la sua visione profetica nella « Carta del Carnaro » dettata da Gabriele D'Annunzio nella concitazione eroica di Fiume, mentre ha ottenuto il suo definitivo sviluppo in Italia, dopo al legge sindacale del 3 luglio 1926, nella Carta del Lavoro ». Sante Lungherini, Nel cinquantenario della morte di Bettino Ricasoli, in « Il Lavoro fascista », Roma, 7 ottobre 1930. Ardito profilo sul « Barone di ferro », cui non risparmia un’ingiuria, scrivendo sull’opinione ch'egli aveva dell’Apostolo deU’Unità: «Non ebbe soverchia simpatia per Giuseppe Mazzini. Evidentemente non lo doveva conoscere bene e avrà pensato che egli fosse uno di quègl’impenitenti e proverbiali faziosi che turbano unicamente la pubblica utilità... ! ! ». A. Barb., Mazzini e Cavour si conobbero a Genova nel 1830?, in « Lavoro » Genova, 17 ottobre 1930. Viene ripresa in esame la ben nota breve permanenza del Cavour a Genova nel 1830 e s'indaga sulle conoscenze che il gran Conte ebbe in questa città, formulando l'ipotesi non improbabile, anche se non suffragata da documenti, che i due grandi fattori dell’Unità possano essersi conosciuti di persona, in quei mesi in cui eran ambedue frementi di libertà, alle notizie degli avvenimenti francesi provocati dalle giornate di luglio. L. T., Due anime, in «Regime fascista», Cremona, 17 ottobre 1930. A proposito del volume La Vie de Bakounine dell’Iswolsky, recentemente edito, nel quale viene pubblicata la ritrattazione dell'agitatore russo, intorno alla quale si avean finora notizie confuse, il Pantaleo, dopo aver messo in raffronto questo atto di viltà con l'atteggiamento del Mazzini di fronte all’accettazionç dell’amnistia nel 1842, osserva: «In questo diverso atteggiamento dei due uomini è la misura della insuperabile grandezza umana del nostro. — Mai egli avrebbe chiesto mercè al Sovrano. Avrebbe, piuttosto, affrontato il patibolo, che sfidò un’infinità di volte, penetrando — lui condannato a morte ! in Francia e in Piemonte, benché la polizia internazionale fosse con gli occhi aperti e vigili ! Questa superiore grandezza morale si riflette sul sistema politico e sulle divinazioni del futuro: Bokotmine, inseguendo l’utopia anarchica, cooperò alla intensificazione della reazione. 380 Biblioorafia Mazziniana Mazzini, postulando una civiltà superiore, in cui tutti gli elementi fondamentali del vivere civile si sarebbero accordati in una magnifica euritmia, etico-religioso-politica, annientò per sempre, idealmente e praticamente, la follìa della reazione in ogni suo aspetto e forma ! ». Panfilo, Mazzini a Londra in casa Carlyle, in « Corriere della Sera », Milano, 17 ottobre 1930. Sono rievocati i rapporti d’amicizia che unirono Jane Welsh Carlyle ed il Mazzini e vengono chiariti perchè, a differenza di non pochi biografi, l’a. indaga con acume ed illustra le relazioni che intercorsero fra l’autore degli Eroi, sua moglie, e l’Apostolo dell Unità. Giuseppe A. Andriulli, Lodovico Frapolli e le sue missioni diplomatiche a Parigi, A proposito di recenti interpretazioni del pensiero mazziniano il M. scrive : « Chi vuole Budda o San Francesco, Hegel o Calvino, Gioberti o Rosmini, Garibaldi o Manzoni, Carlyle o Schopenhauer, Nietzsche o D’Annunzio, si serva pure ; ma non dovrebbe essere lecito sfruttare il nome del Mazzini, foggiandosi un Mazzini a propria immagine e somiglianza, fuori della realtà e della storia. 11 genio è troppo grande per essere piegato alle opportunità dell’ora che passa sul quadrante del tempo. Non fa mica bisogno che tutti siano mazziniani. Ciascuno è quello che può. Si è giunti a far rientrare il Mazzini nella tradizione ortodossa anche in religione. Con molto miglior garbo e con buona fede angelica l’avea tentato una scrittrice inglese, Harriet Hamilton King, nell’operetta La religione di Mazzini in rapporto alla Chiesa cattolica, compendiata e tradotta dalla signora Alice Galimberti. Allucinazioni. Il Mazzini, seguendo il filo d’oro della tradizione che corre dal Vangelo eterno di Gioachino calabrese, ch’egli chiama precursore, all’Herder e al Lessing che chiama maestri e alla filosofia trascendente, aspetta il regno dello Spirito. E.’ la religione dello Spirito, annunziata nel quarto vangelo; è la rivelazione continua, l’educazione della specie umana ad opera di Dio padre professata dal Lessing. Legge della vita non è 1 espiazione che ci rialzi nella caduta e ci mondi d’un peccato d’origine, ma il progresso infinito ». Giuseppe A. Andriulli, Lodovico Frapolli e le sue missioni diplomatiche a Parigi, in « Italia che scrive », Roma, ottobre 1930. Breve recensione dell’opera del Menghini già segnalata. P. S., L'arresto di Mazzini, in « Lavoro », Genova, 13 novembre 1930. 11 Silva sulla scorta delle pubblicazioni più recenti rievoca con succinta e chiara esposizione le cause che provocarono l’arresto di Mazzini e come e dove esso avvenne. V. Vampa, La spiritualità di Giuseppe Mazzini nelVeducazione del popolo, in « Il mare », Rapallo, 15 novembre 1930. Esposizione incolore, e priva d’ogni spirito critico, del pensiero filosofo dell Apostolo. A. Barb., Precisazioni mazzinianey in « Lavoro », Genova, 15 novembre 1930. Alpino a proposito dell’articolo del Silva pubblicato ne il « Lavoro » del 13 novembre già segnalato, precisa che non in Salita S. Bartolomeo del Carmine venne arrestato il Mazzini, ma sibbene in Salita S. Nicolosio. Osservazione giustissima, ma tale non è quella che segue, e cioè che nella Casa Mazzini di via Lomellini esista una lapide che ricordi come in tale casa il Mazzini abbia ideato la Giovine Italia, perchè tale lapide marmorea è stata tolta già da vari anni. F. Ernesto Morando, ün nuovo volume suWEpistolario mazziniano, in « Mezzogiorno », Roma, 22 novembre 1930. Ampia recensione del voi. 56° degli Scritti mazziniani. Iessie Ferretti Fontanelli, Giuditta Sidoli, in « La Voce di Mantova », Mantova, 23 novembre 1930. La figura dell'amica del Mazzini è ancora una volta rievocata senza apportare su di essa alcuna nuova luce. Biblioorafia Mazziniana 381 A. Leonori-Cecina, Mazzini e l'Internazionale, in « Popolo Toscano », Lucca, 25 novembre 1930. Si riprende in esame i rapporti intercorsi fra Mazzini e Bakounine senza portarvi nessun contributo di rilievo. Eugenio Di Carlo, L'elezione di Giuseppe Mazzini a Messina nel 1866-67, in « Gazzetta », Messina, 27 novembre 1930. Il Di Carlo rievoca la tenace fede mazziniana dei Messinesi che nel 1867 vollero rieleggere per la terza volta a loro deputato ΓApostolo dell’Unità, elezione ch’ebbe la sorte delle due precedenti, e cioè quella d’essere annullata. F. Ernesto Morando, Il volume LVI degli Scritti di Giuseppe Mazzini, im « Corriere Mercantile », Genova, 3 dicembre 1930. Precisa e ben ponderata recensione dell’ultimo volume degli Scrìtti mazziniani. Scrive il M., e ci trova con lui consenzienti pienamente: « E’ noto come Giuseppe Mazzini scrivesse una specie di romanzo autobiografico da lui intitolato Storia di un’anima, che andò smarrito — se pure non gli fu rubato, come si sospettò — nel suo soggiorno a Roma, durante l’assedio. Questa perdita, che non preoccupò soverchiamente l’Auto:e, fu sempre rimpianta dagli studiosi della storia del Risorgimento, e a noi consta come ancora di recente ne venissero fatte ricerche infruttuose. Mi quale più meravigliosa storia di un’anima, più avvincente di qualunque romanzo, può darsi del suo impareggiabile Epistolario? Questa riflessione ci si affacciava allo spirito leggendo il volume LVI (XXXII0 dell’Epistolario) degli Scritti editi ed inediti di Giuseppe Mazzini, che vede la luce in questi giorni grazie alle cure incessanti, amorose, dedicate tutte ad uri gigantesco lavoro, di Mario Menghini ». Giovanni Gentile, Fede e vita, in « Resto del Carlino », Bologna, 6 dicembre 1930. E’ il discorso tenuto per l’inaugurazione del nuovo anno dell’Istituto Fascista di Cultura. « Più d’una volta, parlando di questa nota (e cioè della fede) del Fascismo — conclude il G. — m’è venuto fatto naturalmente di ricordare il Mazzini, e la sua dottrina scolpita nel motto: Pensiero ed azione; quella dottrina, che egli sentì profondamente il bisogno d’inculcare nel cuore degl’italiani perchè alla loro vecchia Italia delle accademie oziose e della rettorica senza umanità sottentrasse la Giovine Italia dell’insurrezione, dell’azione vendicatrice e creatrice energica della Patria già troppo a lungo vagheggiata da un’imbelle letteratura e ormai da volersi finalmente con risolutezza di uomini; quella dottrina onde si negò che il pensiero si possa disgiungere dall’azione e che altra possa, perciò, essere la regola del pensare, altra quella dell’agire. Fede, dunque, illiberale e intollerante per tutto ciò che sia e debba essere contenuto della fede stessa. Fede, perciò, sanamente morale, perchè dove non è una fede siffatta, è lo scetticismo deWaltro è il dire e altro il fare, è il ghigno della negazione di fronte a tutte le idee che ci comandano di vivere o di morire; che è la fede ipocrita senza le opere·». X., Un discorso inaugurale, in « Osservatore Romano », Roma, 9 dicembre 1930. Aspra critica al discorso di Giovanni Gentile segnalato. « Tutte le volte che il massimo esponente della filosofia burocratica — scrive il battagliero e polemico giornale della S. Sede —, cioè della filosofia che sembra sopratutto preoccuparsi di avere l’unica marca accreditata, si effonde dalla ribalta in dichiarazioni sul bello e cattivo tempo nel mondo della cultura ritornano le solite lacrime sull’incomprensione e sull’ingratitudine degli intellettuali, i vecchi sofismi sullo stato etico, sulla religiosità del Mazzini, cioè di chi, secondo un autorevole giudizio, « nulla ha risparmiato per far pensare che non aveva alcuna idea del Dio vero ». Ma questo discorso è stato specialmente caratterizzato da propositi fieri di dar libera circolazione nel campo dell’alta coltura a quei metodi che condussero certi uomini politici del secolo scorso a destituire decine di professori universitari, come appunto fece il citato De-Sanctis per i professori borbonici deH’Università di Napoli. 382 Bibliografia Mazziniana Per il filosofo dello <» spirito come libertà » non c’è male ! Tanto più se si pensa che l’accenno teologico della grazia divina infusa nell’uomo al suo nascere, porterebbe diritto alla destituzione dalla cattedra: anche per un professore non borbonico ». Alberto Lumbroso, Mazzini e il Sindacalismo, in « Giornale di Genova », Genova, 9 dicembre 1930. Breve e succinta recensione dello studio di Alice Galimberti più volte cit. L articolo fu ripubblicato nella «'Sentinella d’Italia», di Cuneo, del 10 dicembre e nel «Popolano» di Portoferraio del 13 dicembre 1930. Adolfo Colombo, / processi politici del 1833, in « Stampa », Torino, 15 dicembre 1930. Ampia recensione del volume del Passamonti, Nuoüa luce sui processi del 1833 in Piemonte, già segnalato. A. Abruzzese, Maria Graziarli Bandiera, in « Gazzetta di Venezia », Venezia, 17 dicembre 1930. L A. rievoca la figura della moglie di Attilio Bandiera e ne pubblica l’atto di morte, avvenuta il 14 maggio 1845. XXX, Storia del Risorgimento, in « Bilychnis », Roma, dicembre 1930. Breve recensione dei volumi del Morando Mazziniani e G aribai dini più volte cit., e del volumetto Doveri dell’uomo, curato dal Landogna. Ars., La « Casa dei Forni », in « Lavoro », Genova, 21 dicembre· 1930. Il Saiucci, prendendo occasione dalla notizia apparsa sui giornali della consegna testé avvenuta al Comune di Genova di tutto il fabbricato di via Lomellini, dove nacque il Mazzini, rievoca le sorti della casa dell’Apo3tolo, ora distrutta, dov'Egli passò la sua gioTinezza. Direttore responsabile ; UBALDO FORMENTINI. INDUSTRIE POLIGRAFICHE NAVA - s. A. —- BERGAMO — MILANO — GENOVA INDICE DELL’ANNO 1950 Dì Tucci Raffaele, Le imposte sul commercio genovese durante la gestione del Banco di S. Giorgio......pggg. 1 Gnecco Giannina, La fortuna del teatro francese in Genova nel 1700 .... pag. 13 Vicino Paganoni Maria, Statuta Saone (1404-1405) „ 27 Cozzolino Nora, Poeti lirici in Genova nei primi del 1800 43 Rinaldi Evelina, Una lettera di Giuseppe Mazzini a Elena Casati.....„70 Bassi Adolfo, Le relazioni tra il Ducato di Savoto e la Repubblica di Genova ai tempi di Emanuele Filiberto.....105 Celle Mario, Classicismo di oggi e di ieri : Genova e la Liguria nel quattrocento umanistico .......132 Vitale Vito, Come si procurava un ufficio nel secolo XIII......„170 Noberasco Filippo, I nomi di donna in Savona al fine del secolo XII.....u 171 —, Le onoranze a Luigi G. B. Pandiani „ 174 Sassi Ferruccio, I primordi del Principato Massese „ 201 Piattoli Renato, Genova e Firenze al tramonto della libertà di Pisa . . . -pagg. 214, Vitale Vito, Genova, Piemonte e Inghilterra nel 1814-1815......233 Monleone Giovanni, Il Colombo di Chiusanico . „ 263 Vitale Vito, L’insurrezione genovese del dicembre 1746 .......w „2 79 Salvi Guqlielmo, Il ratto di Bianchinetta d’Oria „ 327 Necrologie - Emilio Marengo, Umberto Giampaoli pagg. 82, Rassegna Bibliografica.....„72, Spigolature e Notizie......„83, Appunti per una bibliografia mazziniana . „ 93, , 147, 243, 341 311 ζβ 296 176, 266, 361 183, 266, 366 190, 286, 375 GIORNALE STORICO E LETTERARIO j DELI,A LIGURIA COMITATO DI REDAZIONE : GIUSEPPE PESSAGNO, PIETRO NURRA, VITO A. VITALE La pubblicazione esce sotto gli auspici del Municipio e deUa Regia Università di Genova e del Municipio della «Spezia DIREZIONE E AMMINISTRAZIONE: QcnoVa, Paiamo Rosso, V/a Qariialài, *8 CONDIZIONI D'ABBONAMENTO : II Gio/nale si pubblica a Genova, in fascicoli trimestrali Ogni fascicolo contiene scritti originali, recensioni spigo-lature, notizie ed appunti per una bibliografia mazziniana. ABBONAMENTO ANNUO per 1 Italia L. OO - per Γ Estero L. 60 Un fascicolo separato Lire 7.ÓO - Doppio Lire ló «